ateatro

numero 1 - 1 febbraio 2001
a cura di Oliviero Ponte di Pino (per ora)
 

INDICE

Piero Fassino vicepremier

Ronconi videogame. Lolita nel teatro delle meraviglie
(Se volete qualche link nabokoviano...)

Tredici domande a Lev Dodin

Rossotiziano da Majorana a Fermi
(pubblicato originariamente sul "manifesto")


Imperdibile: Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999.

Chi non legge questo libro è un imbecille



Piero Fassino vicepremier

Gianni Vattimo, in un pezzo di Aldo Cazzullo sulla "Stampa" del 27 gennaio 2001, ricorda Fassino come un "capo autorevole, amichevole, all'occorrenza duro. Mi mise del cda dello Stabile. Io volevo Ronconi direttore, lui era per Gregoretti. Venne a trovarmi in università con Livia Turco. Votai per Gregoretti anch'io". Una speranza: che Fassino non abbia perso la sua forza di persuasione, ma che abbia migliorato i suoi gusti teatrali.


Ronconi videogame. Lolita nel teatro delle meraviglie

Gli ultimi tre spettacoli di Luca Ronconi, le regie realizzate da quando è direttore artistico del Piccolo Teatro (La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca e Il sogno di August Strindberg nel 2000 e Lolita sceneggiatura di Vladimir Nabokov nel gennaio 2001), iniziano curiosamente con tre immagini molto simili: una rampa o una scala che salgono verso l'alto e si perdono nel nulla. Poi l'azione dello spettacolo si svolgerà tutta sul palcoscenico, al livello dell'orizzonte. Quella tensione verso un altrove è il segno di una promessa, di un'aspirazione.

Luca Ronconi è un regista importante, probabilmente il più importante sull'attuale scena italiana. Le sue poderose macchine teatrali conducono da decenni una riflessione sempre più lucida e rigorosa sulla forme della rappresentazione: sul rapporto tra rappresentazione e testo da un lato, e dall'altro tra rappresentazione e realtà.

Le sue prime messinscene potevano rientrare nel filone della "regia critica", fondata su una lettura "sospettosa" dei testi: con un metodo già adottato dalla critica letteraria, attraverso gli strumenti offerti da strutturalismo, marxismo, psicoanalisi, i testi (e il personaggi) venivano smontati fino a rivelare significati nascosti, contraddizioni interne, intenzioni inespresse o rimosse, filtri ideologici. A queste lenti interpretative, Ronconi ne ha aggiunto pragmaticamente un'altra: il lavoro del regista con gli attori sul testo, sulla battuta, sulla parola, come occasione per riportare alla luce ulteriori cariche di senso - non tanto in chiave psicologica e introspettiva, quanto in chiave analitica e semiologica. E' attraverso questa pratica che si è cristallizzata la scansione anticonvenzionale tipica degli attori "ronconiani" - le battute spezzate, gli slittamenti di accenti e cesure, l'impressionante lucidità che solo alla fine di un lungo percorso può trovare il sentimento, l'emozione.

E' il metodo di lettura tipicamente postmoderno, che - usando come trampolino la libertà dell'interprete - ha finito per mettere in dubbio la possibilità di un'interpretazione "forte", che rendesse conto del significato ultimo di un testo (che era il postulato umanistico su cui era fondata la regia "classica"), a favore di una deriva potenzialmente infinita del senso. I presupposti sono noti. L'autore non conosce tutti i significati e le implicazioni della propria opera. Tocca dunque al lettore (e alla sua infinita libertà) recuperarli. Sono note anche le conseguenze di questo metodo critico: la deriva infinita delle interpretazioni porta allo svuotamento del significato di un testo.

L'ingigantirsi spettacolo dopo spettacolo degli strumenti analitici e delle macchine sceniche di Ronconi, la consapevolezza sempre più lancinante delle molteplici interpretazioni che un testo porta con sé (l'immane stratificazione storica di letture e riscritture della Vita è sogno che sottendono quella regia) e la loro sistematica esplorazione, rappresentano un eroico tentativo di opporsi a questa deriva infinita del senso. Al contempo, proprio nella loro grandiosa espansione sono il sintomo di un inevitabile fallimento, il tranquillante che non riesce a placare l'angoscia. Perché il senso, più si cerca d'intrappolarlo, più si cerca di contenerlo e più sfugge.

Sul versante della riflessione sulle forme della rappresentazione, Ronconi utilizza vari strumenti retorici. La consapevolezza della frattura tra la rappresentazione e la realtà porta a messinscene sempre acutamente consapevoli del loro aspetto convenzionale. Questa consapevolezza della cornice porta spesso all'uso di un esasperato "effetto verità" (vedi il raddoppiamento della platea sulla scena: il Carignano in Misura per misura, l'Argentina per Le due commedie in commedia). Analogamente, può portare all'esplicitazione della frattura tra la realtà e la natura convenzionale della rappresentazione: la sovrapposizione di tempo reale e tempo teatrale in Ignorabimnus, l'uso di veri treni, vagoni e carrozze negli Ultimi giorni dell'umanità. Perché il teatro non è un'arte realistica, anche se usa la realtà. Dunque la figura retorica più spesso usata dagli "effetti speciali" scenografici ronconiani è la metonimia - la parte per l'intero, il frammento per il tutto (il mobile per la stanza, la porta per la casa eccetera, come accade sistematicamente il Lolita).

Il teatro ronconiano si è nutrito in questi anni nella dialettica tra questi elementi, sperimentati nel loro rapporto con lo spettatore. E' stato un percorso di ricerca costante, in molti spettacoli estremo, radicale, fondato su una costante ridefinizione del linguaggio via via definito. In questo consistono le sfide ronconiane: rendere rappresentabili anche testi "impossibili", per vedere se la forma retorica del teatro li può sostenere, e contemporaneamente forzare oltre i suoi limiti quella forma per trasformarla.

Nella complessità della sua macchina scenica, Lolita sembra rappresentare, più che un superamento, una sorta di inversione - anche se implicita in certi aspetti del lavoro precedente. Il punto di partenza non è più un testo, quanto una galassia di testi: Lolita è ovviamente il celeberrimo romanzo di Nabokov, ma anche il racconto (in russo) che lo precede nella bibliografia nabokoviana, la sceneggiatura scritta per Kubrick (che è una traduzione "per immagini" del romanzo, infarcita di didascalie, e dunque in quanto ibrido tra i generi un irresistibile oggetto d'attrazione per Ronconi), poi ovviamente il film di Kubrick e magari quello successivo di Lynne.

La stessa favola di Nabokov è un intreccio di lingue e traduzioni. Si sa che il rapporto tra Humbert e Lolita riflette quello tra la natia lingua russa e l'americano adottato nell'esilio. Ancora più complesse sono le stratificazioni dei punti di vista: nel racconto s'intrecciano l'autobiografia dello stesso Humbert, i commenti dello psicologo Ray, la commedia di Quilty, i verbali della polizia, e nel finale la rievocazione che la stessa Lolita fa del proprio passato... A queste narrazioni si sovrappone, nella sceneggiatura, la voce dello stesso Nabokov, che attraverso le didascalie descrive, sottolinea e puntualizza. Come se non bastasse, lo stesso Nabokov si mette in scena mentre va a caccia di farfalle e si reinventa come addirittura personaggio, anagrammando il proprio nome in Vivian Darkbloom. Ancora: a un ncerto punto dello spettacolo è lo stesso Ronconi a farsi carico del ruolo del narratore, per riassumere le scene tagliate dalla sceneggiatura.

Il punto di partenza è che non esiste più un testo di cui inseguire - magari vanamente - il senso, ma solo una galassia di testi, un intreccio di slittamenti da un medium all'altro. In questo universo stratificato, il teatro non pare più il luogo privilegiato rispetto ad altri media per i tempi di lavoro (il laboratorio), per la qualità degli attori (una compagnia stabile) e del pubblico, e per la forza che nasce dalla loro compresenza. In questo orizzonte ad avvantaggiare il teatro può essere semmai la sua tendenza a farsi "opera d'arte totale" (in quanto somma di tutte le arti), e quindi a contenere potenzialmente tutte le possibili traduzioni, tutte le possibili rappresentazioni, tutti i possibili linguaggi, tutti i possibili media. Il privilegio del teatro, insomma, può essere la sua forma multimediale, la compresenza di diversi linguaggi, il costante slittamento dall'uno all'altro. E' una diversa declinazione della gran macchina barocca delle attrazioni e delle sue vertigini (che Ronconi ha già esplorato in numerose occasioni), ma al tempo stesso l'intreccio rimanda irresistibilmente alle nuove tecnologie multimediali.

Così il palcoscenico di Lolita diventa il come un gigantesco videogame con attori in carne e ossa. Due grandi schermi ospitano proiezioni in continuo movimento, nelle suggestive immagini curate dallo Studio 2EFFE. Sono oggetti e paesaggi, frammenti di realtà (icone) e reinvenzioni fantastiche, sfondi e primi piani, che duplicano e completano quelle che si trovano in scena. Anche il mondo esterno (per esempio il quartiere di villette dove abitano Lolita e la madre) viene reso con un modellino, il quale a sua volta viene filmato e riprodotto sullo schermo - la mappa e l'immagine. Perché un'altra delle figure retoriche usate nello spettacolo è l'ingrandimento e rimpicciolimento degli oggetti, lo slittamento di dimensione, il confronto su varie scale. E' un meccanismo che mette in moto immediatamente una serie di distanziamenti ironici, analogo a quello che nasce dal confronto di codici diversi - quando il linguaggio e il mondo hanno perso la loro innocenza.

In questo scenario, la pedofilia e la seduzione (Humbert Humbert che seduce Lolita, o forse il contrario) è scomparsa dall'orizzonte. I personaggi non hanno psicologia. Sono figure bidimensionali, pure funzioni della narrazione, giochi di parole (Vladimir Nabokov-Vivian Darkbloom, Dolores-Lola-Lolita-Lo), burattini che solo alla fine del percorso posso scoprire di avere un destino - e dunque rivelare la loro natura tragica. Ma per l'intero spettacolo, possono vivere solo attraverso un filtro ironico. Lo Humbert sempre sbigottito di Franco Branciaroli, il Clare Quilty untuosamente deformato da Massimo Popolizio, la Charlotte Haze della bravissima Laura Marinoni sono maschere grottesche, caricature, macchiette d'altissimo livello. Neppure l'adolescente protagonista - che potrebbe incarnare l'innocenza della "cosa in sé", del puro dato di realtà precedente a ogni codice - si sottrae a questo sguardo: la "Lolita giovane" di Elif Mangold (che parla in inglese) è fin dall'inizio doppiata da Galatea Ranzi (che ne duplica le battute in italiano).

E con l'innocenza di Lolita e la sua seduzione scompaiono anche molti dei temi canonici del romanzo e del film: il trionfo del pop è ridotto a citazione, i paesaggi americano trovano una struggente declinazione pittorica - l'opposto del realismo - in quella che è un'ennesima trasposizione-rappresentazione. Automobili e tassì sono citazioni polverose di pop art. La stanza del sordido motel dove si consuma lo stupro è un gigantesco letto-altare degno degli amplessi di Tristano e Isotta in una modernizzazione kitsch del grand opéra wagneriano. L'incontro con la "Lolita adulta" potrebbe essere una citazione da Tennessee Williams.

Lolita è uno spettacolo apparentemente ironico, ma forse profondamente tragico - e non per il grottesco destino del protagonista. Certamente l'intelligenza e l'inventiva di molte soluzioni, il gusto di tante invenzioni, le vere e proprie trovate, in certi casi l'esplicità comicità di molte situazioni divertono e apassionano nelle quattro ore di durata dello spettacolo. Ma insieme, nel loro trionfale dispiegarsi, sembrano alludere a un fondo inafferrabile, a un'impossibilità di "rappresentare" davvero. Nella traduzione-trasposizione da un medium all'altro, da un lato il testo sembra arricchirsi di senso. L'ha insegnato Lévi-Strauss: a dare senso sono le opposizioni, gli scarti, le differenze tra una versione e l'altra). Ma dall'altro in questa prospettiva a restare inafferrabile è il senso ultimo, il fondamento del rapporto tra i segni e la realtà.

PS Lo spettacolo - uno dei pochi eventi della stagione teatrale e mondana, surriscaldato da numerose interviste e anticipazioni - ha debuttato lunedì 22 gennaio ed è finito dopo mezzanotte. La mattina dopo alcuni quotidiani già pubblicavano una recensione (scritta evidentemente in anticipo, dopo aver visto lo spettacolo in anteprima), suscitando l'irosa reazione dei giornali concorrenti e qualche strascico polemico. La vicenda è curiosa, anche perché la "prima per la stampa" di Lolita era stata rinviata di alcuni giorni proprio per permettere una definitiva messa a punto registica. Qualcuno si consolerà pensando che questa frenetica caccia allo scoop teatrale - che già si era verificata a Milano durante il Festival dei Teatri d'Europa - sia un sintomo di salute delle nostre scene. Qualcuno invece ricorderà l'epoca in cui i cronisti correvano fuori dal teatro (magari prima che calasse il sipario) e correvano in redazione per buttar giù a caldo, in fretta e furia, la loro recensione: lunga descrizione del testo (coscienziosamente letto in anticipo, un aggettivo per ogni attore, "caldi applausi dall'elegante pubblico". Fortunatamente le prime "mondane" hanno diritto a un apposito cronista, a lui il compito di elencare i vip e misurare fischi e applausi.


Tredici domande a Lev Dodin

Gaudeamus è tratto da un racconto di Serghej Kaledin. Che cosa le interessava in questo testo?

Ho letto questo racconto diversi anni fa. E’ la storia degli uomini di un battaglione di costruzione, il livello più basso nell’esercito sovietico, la parte dell’esercito in cui i soldati sono usati quasi come schiavi per costruire e a volte per distruggere. A volte a qualche soldato può capitare di fare dei lavoretti e di prendere un po’ di soldi. Gaudeamus parla della vita in questo battaglione. Quello che mi aveva attratto, più che la storia in sé, è che il racconto di Kaledin conteneva una verità su quello che è l’esercito nella sua totalità, che umilia la gente e spesso la distrugge prima ancora di entrare in azione e contemporaneamente ha una grande forza di attrazione.

Lei porta spesso in scena dei testi narrativi. Che tipo di procedimento usa?

Dipende dai casi. Per esempio Fratelli e sorelle è un’opera di carattere epico, dunque abbiamo cercato di creare un lavoro teatrale di tipo epico, tentando di stare più vicino possibile all’opera originaria. Invece il testo da cui e stato tratto Gaudeamus era uno scritto più lapidario e di carattere spiccatamente letterario: era dunque impossibile trasferirlo così com’era in una messinscena teatrale, e neanche ci interessava perché di fatto il racconto in sé, nonostante sia scritto con grande talento, ci interessava poco. Il testo letterario stato piuttosto un pretesto per risvegliare ricordi pensieri e sentimenti sull’esercito, in particolare sull’esercito sovietico, e su quello che è l’uomo immerso in un ambiente di questo tipo. Quindi abbiamo raccolto per sei mesi improvvisazioni, su quello che il racconto risvegliava in noi, sui nostri pensieri e sentimenti riguardo al tema. Dopo di che abbiamo lavorato per altri sei mesi per creare un tessuto scenico che poi è diventato l’opera teatrale.

Pur parlando di una situazione di degrado, Gaudeamus è uno spettacolo pieno di vita e quasi di felicità. Trasmette una grande energia.

La storia in sé è tremenda, è fondata in senso diretto e metaforico sulla merda e sulla costruzione di queste latrine. Dunque abbiamo pensato di non parlare solo del livello più basso, del fondo che può toccare l’uomo, ma anche di come l’uomo può essere, delle sue potenzialità, della sua essenza in positivo. Non basta far vedere lo sporco, bisogna creare un sentimento che faccia inorridire di fronte allo sporco, cercare di creare un sentimento di compassione verso chi vive in questo stato. Da qui nasce il linguaggio originale dello spettacolo, che spazia dalla danza alla musica al canto, per poter raggiungere questo obiettivo.

Da un certo punto di vista gli attori del Maly Teatr sono addestrati meglio dei soldati, visto quello che riescono a fare in scena...

Come attori sono stati meglio addestrati rispetto ai soldati dell’esercito, anche perché non credo alla professionalità dell’esercito.

Gaudeaumus ha ormai diversi anni. Come è cambiata la ricezione del pubblico in rapporto a quello che è successo nella storia dell’Unione Sovietica e della Russia in questi anni? I recenti conflitti in cui è stato coinvolto l’esercito hanno in qualche modo influito sul modo in cui la gente reagisce a Gaudeamus?

Da un punto di vista globale la risposta del pubblico non è cambiata: la gente ride negli stessi punti, piange negli stessi punti. Ma forse lo spettacolo è cambiato internamente, forse è diventato meno superficiale, anche perché certi problemi sono diventati più profondi. Quando Gaudeamus veniva visto durante la prima guerra cecena, tre anni fa, c’erano giovani che si mettevano la testa tra le mani e non volevano quasi uscire dal teatro perché si immaginavano quello che gli sarebbe successo se fossero finiti un una situazione del genere. E’ accaduto anche quando abbiamo fatto vedere lo spettacolo nel periodo delle guerre nella ex Jugoslavia. Ci siamo accorti che il pubblico non collegava la storia solamente al periodo sovietico. In questi mesi, con la nuova guerra in Cecenia la drammaticità dello spettacolo diventa ancora più forte. Purtroppo con Gaudeamus non riusciamo mai a smettere di essere attuali.

Prima ha accennato brevemente a Fratelli e sorelle, uno spettacolo fiume che durava sei ore e che racconta la storia di un villaggio sovietico dai tempi della seconda guerra mondiale in poi. Anche qui è partito da un testo narrativo in qualche modo controverso.

In questo caso si tratta di una cosa diversa. Fratelli e sorelle fa parte di una narrativa particolare: è un’opera epica piena di stratificazioni, che descrive in maniera dettagliata la situazione sovietica e la visione sovietica del mondo e dell’uomo. Ci siamo presi carico, sempre usando l’improvvisazione che è un nostro metodo di lavoro, di recitare i tre tomi così com’erano, con tutti i particolari, cercando di rispecchiare i toni della società sovietica dell’epoca con tutte le sue speranze, con le illusioni destinate a restare senza seguito, con le disillusioni e poi la disperazione che fa nascere nuove illusioni. A unire Gaudeamus e Fratelli e sorelle sono dunque due testi che non parlano solo dell’Unione Sovietica ma cercano di capire la natura umana. E’ stato questo a dar loro una lunga vita: per quanto riguarda Fratelli e sorelle, poco tempo fa l’abbiamo recitato in Francia festeggiando il quindicesimo anno di rappresentazioni. E qua in Italia fra poco ci festeggeremo i dieci anni di Gaudeamus.

E’ vero che Fratelli e sorelle racconta di speranze universali, tuttavia è anche una lettura estremamente puntuale di quello che è stata la storia dell’Unione Sovietica in quei decenni. E’ come se tutte le opere di propaganda fatte dal regime sovietico venissero ribaltate, facendo vedere quello che succedeva realmente. E’ uno spettacolo che permette di capire cosa succedeva veramente in quegli anni in URSS.

Per cercare di dire qualcosa di universale bisogna parlare di qualcosa di concreto. Solo la verità concreta può diventare in qualche modo universale. A non essere universale è solo la menzogna, che ha molti visi e molte facce ed è intangibile. Tuttavia nel momento in cui scopriamo una piccola menzogna, scopriamo anche tutte le altre menzogne. Per questo Fratelli e sorelle è così amato in tutto il mondo: perché gli spettatori capiscono in qualche modo che si parla di loro. Dubito che uno spettatore possa stare sei ore in teatro a guardare qualcun altro che non che non ha nessuna relazione con lui.

Prima ha parlato dello stile epico con cui viene messo in scena Fratelli e sorelle. Ma nello spettacolo ci sono molte scene che hanno un taglio quasi cinematografico, nella loro potenza.

Sì, ma penso che anche il buon cinema usi strumenti teatrali per creare la propria potenza. Oggi il teatro viene spesso confrontato con il cinema, come se il cinema l’espressione primaria. Invece l’espressione primaria è il teatro, questo mezzo antico, eterno, senza il quale è quasi impossibile parlare della natura umana. Il teatro può essere cinematografico, anticinematografico, può essere fatto su un tappetino oppure può avere una scenografia complicata, ma questo ha poca importanza, l’importante è che il teatro parli della natura umana, e che questa natura nel teatro venga raccontata e scoperta.

Volevo concludere il discorso su li spettacoli tratti da opere narrative parlando di Chevengur, tratto da un romanzo di Andrej Platonov. Che cosa vi ha attratto in questo testo?

E’ un libro geniale. Quello che ti spinge a entrare nell’orbita di questi libri geniali è che pongono molti enigmi, ed è interessante lavorare con questi quesiti. L’enigma principale è perché, dopo aver subito la morte e la distruzione di intere nazioni, dopo aver visto il sangue e i massacri generati da una illusione, perché l’uomo nel momento storico successivo sente di nuovo questo bisogno di illusione. Perché l’uomo dopo essere stato distrutto dalle proprie illusioni sente la necessità di averne ancora?

Come ha lavorato con gli attori per passare dal testo narrativo allo spettacolo? Ha seguito le tracce degli altri lavori o ha trovato altri metodi?

Per tre anni abbiamo letto il libro, recitato il libro, cercato di capirlo perché è scritto in un russo molto difficile, quindi abbiamo cercato di capire cosa c’era dietro alle frasi, e che cosa tutto questo possa significare oggi. Per tre anni cercato risposte alle domande che ci torturano fino adesso. La cosa più interessante nel teatro è cercare le risposte alle domande che ti tormentano senza trovarle.

Gli spettacoli del Maly Teatr hanno un evidente contenuto politico. Che reazioni hanno suscitato i suoi spettacoli all’epoca dell’Unione Sovietica?

Ho avuto problemi sia per Fratelli e sorelle sia per la Casa di Abramov, ma anche per lavori che non hanno niente a che fare con la politica come una pièce di Hoffmann che non aveva niente a che fare con la politica. Ovviamente il potere aveva paura quando si cercava di dire la verità sul potere, ma quello cercavano di fare non era tanto proibire, quanto mettersi nelle condizioni di rifiutare una cosa, non dicevano di non fare ma cercavano di convincerti a non fare senza proibire. Nella fase finale avevano tutti paura di essere personalmente il carnefice, per loro la cosa importante era di rimanere in qualche modo fedeli a sé stessi. Adesso è molto più facile parlarne, perché sono passati molti anni. Ma allora è costato molto. Certe volte non gli piaceva lo spettacolo perché non parlava in nessun modo del potere sovietico, e questo in qualche modo li offendeva perché era come dire: "Ma come, noi non esistiamo? Non c’è nessun interesse per noi?"

Perché affrontando Cechov ha scelto un testo meno risolto di altri come Ivanov?

Abbiamo già portato a Milano Il giardino dei ciliegi, un testo di Cechov assolutamente risolto. Ma tornando a Ivanov, per noi era interessante lavorare sulla prima opera di Cechov perché mantiene intatta la forza diabolica di Cechov, una diabolicità che diventa meno forte quando diventa più armonico e più professionale nella scrittura. In Ivanov si vedono tutta la forza, l’odio, l’amore... Il sentimenti di un giovane che si rende conto di avere un grande futuro ma contemporaneamente si rende conto che questo futuro non gli basterà vengono espressi con grande forza. La pièce è stata scritta appena prima dell’inizio del XX secolo ed è interessante metterla in scena adesso, nel XXI secolo, perché è uno dei lavori più moderni tra quelli che conosco. Il fatto che sia un’opera in qualche modo incompiuta offre più spazio all’improvvisazione e in qualche modo ti libera. Non c’è questa classicità falsa di fronte alla quale sei in qualche modo responsabile.

Ho visto diversi suoi spettacoli, e mi sono tutti piaciuti molto. Tuttavia sono spettacoli che dal punto di vista dello stile, visuale, dal punto di vista del nucleo emotivo che li sottende sembrano andare in direzioni diverse. Che cosa tiene insieme tutti questi lavori così diversi?

E’ difficile dirlo perché dovrei guardarmi dall’esterno, e guardandosi troppo dall’esterno diventa difficile tornare se stessi. Però penso che a unire questi spettacoli cose sono i miei dubbi, le mie illusioni, le cose che non conosco, la mia solitudine, la ricerca di evitare questa solitudine. Poi la nostra compassione verso l’uomo verso noi stessi, verso l’uomo come fenomeno. Al mondo non esiste niente di più contraddittorio e più tragico dell’uomo. E per quanto siano diversi i nostri spettacoli, nello stile eccetera – cosa di cui sono felice – sono tutti lavori che cercano di difendere l’uomo sia da quanto l’opprime dall’esterno sia da quello che lo distrugge dall’interno. Quello che amo meno di tutti è il teatro razionale, privo di sentimenti. Io cerco di fare in modo che nei nostri spettacoli scorra il sangue, nel senso che siano vivi, con sentimenti. Quando da uno dei nostri spettacoli questa vita comincia a sparire, di solito rinunciamo a replicarlo.

(intervista realizzata a Milano nel dicembre 1999; si ringrazia per la trascrizione Anita Morasso)


Rossotiziano da Majorana a Fermi

Rossotiziano, giovane gruppo teatrale napoletano, da qualche tempo è alle prese con la storia della scienza del nostro secolo. Il punto di partenza, forse sull’onda della Morte di un matematico napoletano di Mario Martone, è stato la figura di Ettore Majorana, il giovane fisico catanese allievo e collaboratore di Enrico Fermi nell’ormai mitica via Panisperna. Senza dimenticare che la misteriosa scomparsa di Majorana, nel marzo del 1938, aveva appassionato anche Leonardo Sciascia – scrittore programmaticamente antiideologico, il quale dunque più che trasmettere certezze amava esplorare l’inconoscibile e l’inverificabile, compresi i misteri insolubili che appassionano anche i settimanali popolari.

Ecco dunque in Variazioni Majorana (regia di Alfonso Postiglione e Francesco Saponaro), tracciato per frammenti e con qualche guizzo comico, il ritratto del giovane genio della fisica catanese (era nato nel 1906). Si parte dai due agenti – quello diligente e quello cinicamente disincantato (Fabio Cocifoglia e Peppino Mazotta) – che il regime fascista ha inviato per indagare su una vicenda che allarma persino il Duce: s’imbarcano sullo stesso traghetto su cui era salito Majorana (in scena Alfonso Postiglione) nel fatidico viaggio Napoli-Palermo, ricostruiscono la sua biografia e la sua geniale ma inquieta personalità, rivivono la cronaca delle sue ultime giornate, s’interrogano sul significato del suo lavoro scientifico e sui suoi possibili sviluppi (pochi mesi dopo Enrico Fermi, vinto il Nobel, partirà da Stoccolma diretto verso gli Stati Uniti). Ma quel traghetto è una specie di macchina del tempo e delle possibilità, dove il presente s’avvita sul passato e fa ripartire all’infinito gioco il delle possibilità. Così come una macchina del tempo è anche il treno su cui viaggia – o sogna di viaggiare – lo stesso Majorana, come se fosse stato risucchiato all’interno della logica quantistica che era al centro dei suoi studi. Il racconto della sua scomparsa non può dunque seguire uno sviluppo lineare, ma esplora le diverse probabilità statistiche in cui si è disseminato il reale.

Dalla curiosità e dalle ricerche su Majorana è nato Gli apprendisti stregoni, che dopo aver debuttato al Crt di Milano è ora in scena al Teatro Due di Roma. Secondo i canoni ormai classici del teatro di narrazione, con una forte vocazione didattica temperata da una vena sarcastica, in poco più di due ore di monologo Antonio Marfella ricostruisce (utilizzando come traccia il saggio di R. Jungk) la terribile storia della bomba atomica, dalla fine dell’Ottocento, con scoperta della radioattività da parte di Becquerel e le ricerche dei coniugi Curie, fino al fatidico agosto 1945 che distrusse Hiroshima e Nagasaki.

Nel raccontare la tragedia che – insieme con l’Olocausto – ha segnato il Novecento, non ci si misura con ideologie regressive come nazionalismo, razzismo e antisemitismo, che oggi appaiono ributtanti agli occhi dei più e dove la tecnica assume un ruolo di servile ancella. Si affronta invece un grumo ideologico ancora vivo e attivo, filosoficamente inestricabile: il significato e il ruolo della scienza e del progresso, il senso (e i limiti) dell’accumulazione del sapere sul mondo che ci circonda, e in definitiva la perdita di un’innocenza – sulla pelle delle centinaia di migliaia di civili inermi inceneriti nel lampo apocalittico di "Little Boy".

L’intreccio tra l’aberrazione nazista (e il terrore che anche Hitler potesse disporre dell’arma finale) e il Progetto Manhattan che portò alla realizzazione dell’atomica è ovviamente uno dei nodi degli Apprendisti stregoni. Ma oltre alle gesta degli "eroi dell’atomo" – Oppenheimer, Fermi, Szilard, Bohr, Heisenberg eccetera – Marfella intesse un altro filo narrativo: ed è quello fondamentale del rapporto tra la scienza e l’immaginario, e l’evoluzione dell’una in rapporto all’altro: nel 1950, qualche decennio prima di Cernobyl, era tutto atomico, dalle lavanderie a Rita Hayworth. Di conseguenza Gli apprendisti stregoni è anche la storia di una morale (intesa come capacità di valutare le azioni di un essere umano). È qui, in queste illusioni e delusioni, in questi sogni che si rivelano incubi, che affonda le sue radici l’ironia del narratore, e dall’altro prende forza questa parabola su uno degli eventi chiave della storia contemporanea.

Infine, il fatto che i meccanismi decisionali che hanno portato gli americani a lanciare quelle armi micidiali su un Giappone ormai sconfitto e pronto alla resa abbiano diversi punti in comune con quelli che ci portano oggi a bombardare la Bosnia, è un’ulteriore riprova dell’attualità di una riflessione sui recenti sviluppi della scienza e sullo stato del nostro immaginario. Oggi non abbiamo più gli snack bar e le barrette al cioccolato "atomiche". In compenso siamo circondati da "lavatrici intelligenti", "intelligenza artificiale", "intelligenza collettiva" di Internet e naturalmente "missili intelligenti". Mentre aspettiamo il bug del 2000.

 

Appuntamento al prossimo numero.

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