(112) 08/10/2007
Emergenza!
BP04 a Milano

Emergenza! Il 1° dicembre le Buone Pratiche a Milano
L'editoriale di ateatro 112
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and1
 
I master 2007/2008: teatro, eventi, multimedia, editoria...
Cento master per ateatro
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and7
 
Memoria, racconto e tecnologia al Festival Transamériques di Montréal
Rouge décanté di Guy Cassiers e Lipsynch di Robert Lepage
di Erica Magris

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and13
 
Le recensioni di ateatro La resistibile virilità del mascellone: Eros e Priapo con Massimo Verdastro
Il Premio Olimpico del teatro 2007. interpreta l’invettiva gaddiana sul Duce e sull’attrazione erotica del potere
di Andrea Balzola

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and14
 
Il Grotowski Center di Wroclaw
Appunti dalla Moleskine teatrale
di Claudia Provvedini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and31
 
Una Guida Monaci del teatro tecnologico?
Steve Dixon. Digital Performance
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and33
 
La violenza della ripetizione
Loop Diver della Troika Ranch Company
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and41
 
L’importanza di essere interattivi
Le nuove tecnologie e lo spettacolo dal vivo
di Mark Coniglio (traduzione di Anna Maria Monteverdi)

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and42
 



La moda teatrale di Viktor & Rolf

Dalla collezione autunno-inverno 2007-2008
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and75
 
Renato Quaglia è il direttore del Festival Teatro Italia
La nuova rassegna napoletana voluta dal ministro Rutelli
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and80
 
BP04: Teatro: emergenze e opportunità il 23 ottobre a Prato
In collaborazione con ateatro
di Officina Giovani/Cantieri Culturali, Prato

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and80
 
Shakespeare è una metropolitana?
Il nuovo merchandising della Royal Shakespeare Company
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and82
 


Evviva il Signor Bonaventura! Una mostra e uno spettacolo

Alla Festa del Cinema a Roma l'omaggio a Sergio Tofano
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and83
 
Drammaturgia dello spazio: "Teatro e Luogo" in convegno a Firenze
Il 17 e 18 ottobre
di San Salvi Città Aperta

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and84
 
I teatri delle diversità: VIII convegno di studi
A Cartoceto il 27 e 28 ottobre
di Teatro Aenigma

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and86
 
Il ritratto di John Cage firmato Roberto Masotti
A Milano dall'11 ottobre
di Fondazione Mudima

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and87
 
BP04: Teatro: emergenze e opportunità il 23 ottobre a Prato
In collaborazione con ateatro
di Officina Giovani/Cantieri Culturali, Prato

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro112.htm#112and94
 

 

Emergenza! Il 1° dicembre le Buone Pratiche a Milano
L'editoriale di ateatro 112
di Redazione ateatro

 

BP04 A MILANO IL 1° DICEMBRE
Per cominciare una notizia: la quarta edizione delle Buone Pratiche si terrà sabato 1° dicembre a Milano, alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi che già aveva ospitato la prima edizione.
Dopo Milano (BP01: le Buone Pratiche del teatro), Mira (BP02: la Cultura come Valore), Napoli (BP03: le Questioni Meridionali del teatro), quest’anno il tema, che è anche una parola d’ordine, sarà EMERGENZA, nel duplice significato del termine.
Sul dizionario leggiamo che “emergenza” è in primo luogo “l’emergere, ciò che emerge”: e dunque, concentrandoci sul teatro e sulla danza, discuteremo su come i giovani possono formarsi, quali sono le loro possibilità di entrare nel mercato del lavoro e come si possono affermare nella professione. Ma emergenza è anche, naturalmente, “una situazione particolarmente critica, difficile”: e, come sappiamo tutti, la situazione dei giovani teatranti oggi non è certo facile.

IL METODO
Per BP04 seguiremo il metodo già affinato nelle precedenti edizioni:
# in primo luogo l’analisi della situazione (con dati e informazioni inedite);
# in secondo luogo la denuncia delle inefficienze e delle storture del sistema;
# ma soprattutto una serie di proposte, ricavate per quanto possibile da esperienze già in atto e che possono diventare modelli di esperienza analoghe: sono quelle che appunto abbiamo definito Le Buone Pratiche del Teatro.
Il sito www.ateatro.it offrirà come al solito un’importante sponda all’iniziativa, sia dal punto di vista della diffusione di questi contenuti, sia dal punto di vista logistico: pubblicherà materiali e interventi in un’apposita sezione del forum, registrerà le iscrizioni, seguirà la discussione.

I TEMI
Per il momento sono soprattutto domande, con la collaborazione di tutti, qualche risposta.

La formazione. Oggi l’offerta formativa nel settore dello spettacolo è, almeno a un primo sguardo, assai ampia e articolata. L’università (con la moltiplicazione dei DAMS), le scuole e i corsi di teatro, i laboratori e i seminari, i master, gli stage sembrano offrire percorsi adatti a ogni esigenza e aspirazione (nei forum delle segnalazioni di ateatro abbiamo accolto e rilanciato info su centinaia di iniziative di questo genere). Ma forse è il caso di interrogarsi sulla qualità, sulla necessità e sull’efficienza di queste iniziative, e sulla loro reale capacità di formare professionisti n grado di inserirsi con successo nella professione.

L’accesso alla professione. E’ la puntata successiva. Data questa formazione, quali sono le opportunità per un giovane di entrare nel mercato del lavoro? Attraverso quali percorsi? Le realtà professionali attualmente attive assorbono giovani professionisti? A quali condizioni? Con quali prospettive? In alternativa, le forme auto-organizzate e auto-gestite (giovani gruppi e compagnie) possono formarsi, crescere, sopravvivere? Quali forme di sostegno possono trovare queste realtà?

Il mercato del lavoro. Negli ultimi anni il mercato del lavoro nel nostro paese è profondamente cambiato: una diversa e più flessibile organizzazione delle imprese, una mutata articolazione della produttività, un rinnovato quadro legislativo hanno determinato nuove condizioni per tutti i settori della vita produttiva. Quali riflessi ha avuto questo cambiamento nel settore dello spettacolo? La nuova normativa del lavoro tiene conto delle sue esigenze? (Partendo dalla prospettiva più banale: che impatto ha avuto la precarizzazione del lavoro in un settore da sempre segnato dalla precarietà dei rapporti di lavoro?)

La visibilità e la selezione. Lo sappiamo. Formarsi è impresa lunga, faticosa & costosa. Entrare nella professione è pressoché impossibile. Guadagnarsi da vivere in questo mercato del lavoro sarebbe un miracolo. Superati questi ostacoli, viene il difficile. Perché a questo punto è necessario farsi notare, trovare qualcuno che apprezzi il nostro talento e il nostro lavoro. In questo ambito, ci pare che il ruolo della critica sia passato in parte in secondo piano rispetto all’impatto di festival e bandi (e di bandi per festival...). Nel proliferare di bandi e festival, ci sembra utile pensare alla loro forma e alla loro efficacia, e al loro ruolo nell’ecosistema del nostro teatro.

Intanto c'è un primo appuntamento BP04, il 23 ottobre a Prato, di cui trovate i dettagli nelle news.

ateatro 112
In questo numero non si parla solo di Buone Pratiche: ci sono molte altre novità e curiosità, dalla discussa mappa shakespeariana-metropolitana (“Chi vuol scendere a Lady Macbeth?”) agli imperdibili abiti palcoscenico di Viktor & Rolf. E poi Gadda e Lepage, Mark Coniglio e Grotowski...
E nei forum di atearo, decine e decine di corsi e master di teatro, spettacolo e multimedia...
Ma perché state ancora perdendo tempo a leggere questo editoriale? Andate subito a curiosare nell’indice di ateatro 112!

PS Il nuovo forum funziona: molte visite, e tanti nuovi iscritti. Se non ci siete ancora stati, andate a fare un giretto. Se ci siete già stati, tornate e usatelo!!!

Ma ricordate la parola d'ordine: EMERGENZA!!


 


 

I master 2007/2008: teatro, eventi, multimedia, editoria...
Cento master per ateatro
di Redazione ateatro

 

Abbiamo raccolto le segnalazioni di un centinaio di master per l'anno 2007/2008 che pensiamo possano interessare i frequentatori più giovani di ateatro.
Li trovate nei forum di ateatro, cliccando qui.
Sono master legati in diverso modo al teatro e allo spettacolo dal vivo, alla creazione e gestione di eventi, al multimedia, all'economia della cultura, all'editoria e all'informazione sulla cultura e sullo spettacolo.

Naturalmente se avete ulteriori segnalazioni, postate un messaggio in risposta a questo o contattate la redazione (info@ateatro.it).

E se avete in mente di fare pubblicità al master che avete programmato, date un'occhiata alla home-page di ateatro, in alto:
Se su ateatro il banner non ce l'hai
il tuo bel master è inutile che lo fai

(perché tra i visitatori più assidui di questo sito, ci sono gli studenti universitari, grandi compulsatori della mitica ateatropedia.)
 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
 > scrivi a amm
 

Memoria, racconto e tecnologia al Festival Transamériques di Montréal
Rouge décanté di Guy Cassiers e Lipsynch di Robert Lepage
di Erica Magris

 

Nel programma decisamente contemporaneo e tecnologico dell'ultima edizione del Festival Transamériques, che si è tenuto a Montréal dal 23 maggio al 7 giugno, si dipana un filo rosso all'apparenza di segno opposto, ma in realtà profondamente legato alle problematiche instaurate dai nuovi media: il teatro come luogo di esplorazione della memoria e di reviviscenza del ricordo. Tre gli spettacoli che, con segni diversi, interrogano i meccanismi che sottendono il depositarsi delle esperienze nella coscienza e il loro ruolo nella formazione dell'identità individuale : Mnemopark della compagnia svizzera Rimini Protokoll, Rouge decanté del regista fiammingo Guy Cassiers, e infine, anche se in maniera differente, l'ultima creazione di Robert Lepage, Lipsynch.
Nel primo, a cui purtroppo non ho avuto la possibilità di assistere, dei pensionati con la passione del modellismo e un'attrice che interpreta se stessa guidano lo spettatore in un universo in miniatura attraversato con una videocamera, componendo con i loro racconti personali la storia di una Svizzera inedita, solitamente camuffata sotto gli stereotipi e le immagini da cartolina. Anche negli spettacoli di Cassiers e Lepage le vicende personali assumono una dimensione più vasta, in Rouge décanté, subendo la collisione con gli sconvolgimenti della Storia, in Lipsynch, entrando in relazione con le vite di altri individui, con cui formano reti invisibili, ma determinanti.
Cassiers, artista che ha iniziato la sua carriera fra i Paesi Bassi e il Belgio fiammingo negli anni Ottanta, compagno di viaggio di Jan Fabre e Jan Lauwers, ha dedicato numerosi dei suoi spettacoli multimediali, spessp tratti da opere letterarie, all'esplorazione dell'interiorità e dei meccanismi della memoria. Con Rouge décanté, realizzato in una doppia versione olandese e francese, si accosta ad uno dei maggiori scrittori viventi di lingua olandese, Jeroen Brouwers, in particolare al romanzo autobiografico che dà il titolo allo spettacolo (il testo è stato tradotto in italiano e pubblicato dall'editore Ila Palma di Palermo nel 1998, ma è quasi introvabile). Nelle pagine del romanzo, l'autore racconta la vicenda che lo ha colpito da bambino e che, nonostante il tentativo di una rimozione totale, ha segnato il corso della sua vita: la reclusione in un campo giapponese durante l'occupazione dell'Indonesia olandese avvenuta nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Un evento considerato "minore" nella storia del conflitto, raramente riportato nei manuali e coperto da un pesante velo di autocensura e di pudore dagli stessi olandesi, convinti di non avere patito atrocità paragonabili a quelle subite dagli ebrei in Europa e di non avere quindi il diritto di raccontare. La reticenza, lo sforzo di minimizzare e cancellare sono anche al centro dell'opera di Brouwers : dopo una vita trascorsa nel silenzio, la morte della madre con cui da anni non intratteneva nessuna relazione, sconvolge il suo artificiale equilibrio e lo spinge ad addentrarsi in un faticoso e doloroso percorso attraverso le esperienze vissute all'epoca, quando, a cinque anni si trovò a testimone di episodi di quotidiana crudeltà. L'incisione della piaga infetta dei ricordi produce un racconto frammentario, in cui la ricostruzione del passato si intreccia con l'analisi di vicende recenti, legate in particolare al rapporto con la madre con le donne, e con l'esplorazione degli anfratti più oscuri di se stesso.
L'opera di Brouwers è un colpo di fulmine per Cassiers, che, insieme alla sua equipe di collaboratori, decide di portare il romanzo sulla scena. L'adattamento, curato anche da Corion Baart, nasce dalla strettissima complicità con l'attore Dirk Roofthooft, che incarna la figura del narratore protagonista. Come i tre spiegano al pubblico alla fine della rappresentazione canadese, con una modestia ed una disponibilità sorprendenti, il copione non è stato fissato a tavolino, ma è scaturito dal coinvolgimento dell'attore in un processo di verifica continua della parola nel passaggio dalla scrittura all'oralità. Cassiers et Roofthooft si sono attenuti fedelmente alla lingua di Brouwers, e hanno deciso di presentare dei brani nella loro integralità, limitando le modifiche a dei tagli sulla macrostruttura del romanzo, ma senza intaccare, per quanto possibile, il suo sviluppo e la sua organizzazione lessicale e sintattica.
Roofthooft incarna sulla scena il percorso di conoscenza della scrittura, presentandoci un uomo tentennante, sfuggente, afflitto da una serie di piccole manie, cui riesce a dare spessore con una gestualità minima ma ripetitiva, e con l'esitazione e l'imperfezione nella dizione, accentuati nel caso della versione a cui ho assistito dall'uso della lingua francese. Questi elementi - la difficoltà nell'esprimersi e nel comunicare, il rapporto ossessivo e maniacale con la realtà – sono da subito concentrati nell'incipit dello spettacolo : nella semi oscurità della scena, si percepisce inizialmente solo uno rumore ritmico, come uno strofinamento, che sembra durare qualche minuto; progressivamente, si distingue il personaggio, seduto, completamente assorbito nell'eliminazione delle callosità dei piedi. Senza tralasciare la pedicure, i cui rumori diventano una sorta di accompagnamento armonico del pensiero, inizia a consegnare al pubblico frasi, frammenti di riflessioni e racconti che a lentamente andranno a comporre la sua storia. L'alter ego di Brouwers risulta inizialmente antipatico, molto antipatico. Ma quest'uomo egoista, cinico, sgradevole, che ha sepolto la madre in una casa di riposo, si trasforma mano a mano che avanza nel recupero e nella rivelazione del suo passato, e mostra il suo volto fragile, ferito, umano, instaurando con gli spettatori una relazione dinamica, che sottilmente passa dalla repulsione all'empatia e alla commozione. Con la sua sola presenza Roofthooft, senza mai cedere al patetismo e al sentimentalismo, serra l'attenzione degli spettatori in un silenzio teso e partecipe, che immobilizza la sala nel corso della rappresentazione, pur difficile e impegnativa.
In realtà, non è del tutto esatto affermare che l'attore sia solo sulla scena : Cassiers lo inserisce infatti in un dispositivo tecnologico, all'apparenza statico ed essenziale, assolutamente non spettacolare, ma che lavora insieme a Roofthooft, lo accompagna e ne forma la recitazione. Sei telecamere circondano il palcoscenico come se fosse un ring, simmetricamente e perpendicolarmente poste sui quattro lati del palco. Le loro traiettorie sono unite da strisce rosse che formano una rete regolare sulla superficie nera e liscia del palcoscenico, su cui sono collocate inoltre alcune basse vasche d'acqua rettangolari e delle mattonelle bianche parallele alla linea del proscenio. Il Giappone è così evocato attraverso i colori – nero, rosso e bianco –, la geometria essenziale degli elementi scenici, che ricordano i giardini dell'Oriente, ed infine dall'enorme veneziana a pannelli mobili che ricopre interamente la parete di fondo. Un tavolino, una sedia ed una veneziana più piccola, di vetro opacizzato, spezzano l'ordine quadrangolare del palco, e suggeriscono il luogo reale, quotidiano, della vita del personaggio, spiato anche qui da una telecamera.



Roofthooft si muove in questo spazio sorvegliato. Con estrema precisione segue le traiettorie dello sguardo delle telecamere, come imprigionato dal suo passato e dalle sue stesse strategie di difesa. Per tutta la durata dello spettacolo, la sua immagine, ora in primo piano, ora in piano americano, ora in dettaglio, viene proiettata sulla parete di fondo o della veneziana intermedia, ingigantita, trattata a volte in diretta con effetti di colorizzazione o di ralenti. L'immagine elettronica declina differenti articolazioni della visione e del rapporto reale/virtuale: può duplicare e amplificare la visione della scena, offrirne un punto di vista eccentrico, mostrando il viso dell'attore quando dà le spalle al pubblico ad esempio, o infine incrostarsi sul suo corpo, straniando e complicando la percezione, come nella sequenza in cui la proiezione dell'occhio incrocia il petto dell'attore in piedi sulla linea del proscenio. Ogni frammento narrativo, ogni momento di rivelazione si concretizzano sulla scena in una posizione specifica che Roofthooft assume rispetto al dispositivo e in un gesto ripetuto con i pochi oggetti presenti sul palco quasi nudo. Come lo sguardo dello spettatore è moltiplicato e conteso da diversi punti di attrazione, così lo sguardo dell'attore è duplicato e diviso fra la platea e la telecamera. In questo modo, Cassiers problematizza la comunicazione fra attore e spettatore, e tende intorno al dispositivo scena-sala una rete che ora avvicina e ora distanzia i due poli fondanti dell'evento teatrale. Oltre alla visione, anche il suono gioca un ruolo determinante in questa dialettica. Non solo la voce di Roofthooft è amplificata da un microfono, ma anche i rumori del suo corpo e degli oggetti che si trova a manipolare. Il respiro, i battiti, i fruscii, gli scricchiolii sono diffusi tramite un sistema di spazializzazione, che avviluppa lo spettatore e ne complica i punti di ascolto. La "gabbia-maschera" multimediale di Cassiers conduce lo spettatore nello spazio dell'interiorità, dentro i processi mentali e delle reazioni emozionali del personaggio. Questo palcoscenico mediatizzato diventa il luogo in cui non solo viene restituita la parola a chi è stato escluso dalla storia, ma in cui ci si immerge all'origine di questa parola e se ne segue il difficoltoso affiorare da una memoria vanamente rimossa.



Anche in Lipsynch di Lepage, seconda tappa di cinque ore di un work in progress ancora in corso, troviamo la storia di una vittima dimenticata, inserita però in un montaggio caleidoscopico di altre storie ad essa inconsapevolmente o meno legate. Prima di affrontare lo spettacolo, devo però dire due parole sull'atmosfera che lo circonda: assistere a una creazione di Lepage in patria è già di per sé un'esperienza interessante, che induce a interrogarsi sulla posizione che il teatro può assumere nella società contemporanea. Come prevedibile, il teatro è colmo, ma, cosa più interessante, di persone di tutte le età, fra cui molti giovani e giovanissimi, e all'apparenza di diversa estrazione. Già nel foyer si respira una tensione particolare, una specie di frenesia che sprizza dal chiacchiericcio vivace e che non si trasforma nel silenzio concentrato dei grandi eventi teatrali una volta entrati in sala. Al contrario, il pubblico continua a rumoreggiare, e un attimo prima dell'inizio dello spettacolo, esplode in un applauso.
Nella particolarissima situazione del Québec, provincia francofona nel cuore della cultura anglosassone che domina il mondo, Lepage ha acquisito con i suoi spettacoli un posto di beniamino nel cuore del pubblico, diventando quasi una sorta di star popolare nei confronti della quale la considerazione critica ed estetica si mescola ai reagenti più irrazionali dell'affetto e dell'identificazione. Se il rapporto fra il regista e il suo pubblico si articola secondo queste coordinate, l'evento teatrale e lo spettacolo subiscono anch'essi una trasformazione? In effetti, il teatro sembra ritrovare la spontaneità e il carattere festivo, liberandosi dall'etichetta polverosa di prodotto culturale d'elite che, almeno per quanto riguarda la situazione europea, rischia di soffocarne la vitalità e di porne in discussione la stessa necessità. Nell'ottica québecois, forse più libera da pregiudizi culturali e da rigide partizioni di generi, il teatro, anche quello artisticamente valido e sperimentale, mi sembra non perda completamente un certo valore spettacolare di intrattenimento – anche se, ammetto, la parola non mi piace - il che non significa a priori superficialità di argomenti, rifiuto della riflessione e routine estetico-formale. Condividendo l'esperienza di Lipsynch con il pubblico québecois, ho avuto l'impressione di capire meglio il teatro multiculturale e multimediale di Robert Lepage, che, come un funambolo, è capace di coinvolgere completamente lo spettatore nelle storie che racconta, avanzando sospeso in equilibro fra semplicità e complessità, ironia e pathos, narrazione e lirismo.
L'incipit dello spettacolo appartiene a quest'ultimo registro. Sulla scena spoglia, illuminata da una fredda luce blu, entra la soprano Rebecca Blankenship, la cui imponente figura bionda crea un immediato collegamento con I sette rami del fiume Ota, e canta l'aria struggente della sinfonia n° 3 di Henryk Mikolaj Górecki, le cui parole introducono al tema fondamentale della maternità, dell'origine dell'essere umano e della sua identità. Lepage non ci colpisce con un'immagine scenica, ma con una voce intensa, le cui vibrazioni sono ulteriormente amplificate e potenziate da un microfono, e ci introduce allo spettacolo attraverso una soglia profonda, che ci lascia come sospesi prima del teatro. La voce umana è infatti il cuore di Lipsynch, l'elemento conduttore le vicende dei sette personaggi raccontate nello spettacolo, organizzate in sequenze autonome il cui senso complessivo viene svelato nell'ultima parte dello spettacolo: Ada, cantante lirica si trova in un aereo a tenere fra le braccia il neonato Jeremy alla morte della madre, e decide di adottarlo; Thomas, compagno di Ada, neurologo di chiara fama è tormentato da dubbi religiosi e esistenziali; Marie, doppiatrice canadese, viene operata al cervello da Thomas, e dopo un periodo di convalescenza in cui perde l'uso della parola, si consacra alla ricerca del ricordo della voce del padre defunto; Jeremy, cresciuto, diventa regista cinematografico, e durante la realizzazione del suo primo film, vive un amore sfortunato; Sebastiàn, fonico impegnato nel montaggio sonoro del film di Jeremy, alla morte del padre torna in Spagna e si trova a fare i conti con il suo passato; Elizabeth, anch'essa doppiatrice, ex-prostituta dal passato oscuro, è accusata della morte di Toni, attore inglese amico di Sebastiàn; infine Lupe, madre biologica di Jeremy, è la vittima silenziosa all'origine di questi destini incrociati, giovane del Nicaragua venduta dalla zio a trafficanti tedeschi, violentata e costretta a prostituirsi ad Amburgo, città da cui sta sfuggendo proprio su quell'aereo dove invece trova la morte all'inizio dello spettacolo.
Come si capisce anche da questi brevi cenni, che non rendono certamente la complessità della trama, Lepage torna con Lipsynch al tipo di composizione caratteristico in particolare della grande epopea I sette rami del fiume Ota, riprendendo l'organizzazione combinatoria della narrazione, in cui le vicende individuali di diversi personaggi in epoche e luoghi diversi, che sembrano scorrere parallele, sono in realtà intrecciate in nodi invisibili che ne determinano il corso. In questo caso, a differenza della creazione su Hiroshima, non è la Storia a costituire il filo conduttore di queste tranches de vie, ma l'esplorazione del linguaggio, e, per citare l'assonanza francese voix/voie evocata nel programma di sala, la ricerca della propria voce e della propria strada nel mondo. Poiché la Storia non è il fulcro della narrazione, la collocazione cronologica delle varie sequenze non è specificata, ma esse slittano senza indicatori dal passato ai giorni nostri. Tutto si svolge in una temporalità particolare, una sorta di presente sospeso che procede per sussulti, quasi traducendo anche nell'organizzazione dell'azione scenica il décalage fra parola detta e riprodotta, immagine e suono, suono e senso, pensiero e linguaggio che accomuna le differenti vicende.
L'effetto di sospensione che abbiamo sottolineato riguardo all'incipit costituisce infatti una cifra dello spettacolo, legata anche al dispositivo scenografico ideato da Lepage e Jean Hazel. A partire da tre strutture mobili e modulabili, dotati di pareti scomponibili e schermi trasformabili, Lepage costruisce sul palcoscenico gli ambienti più differenti - aeroplani, treni, appartamenti, strade, metropolitane – unendo però in questo meccano in metamorfosi continua la complessità tecnologica della progettazione alla semplicità ludica di alcune soluzioni : l'atterraggio dell'aereo è reso dall'inclinazione repentina dei passeggeri e dal lampeggiare di luci stroboscopiche, le fermate della metropolitana dallo scorrere sul fondo scena del logo proiettato delle varie stazioni e dal passaggio dietro i finestrini di figure poste su carrelli. La scenografia viene trasformata a vista alla fine di ogni microsequenza narrativa, grazie all'intervento di numerosi tecnici : in questi silenzi, riempiti solo nella vicenda di Jeremy, in cui i servi di scena diventano i macchinisti del set cinematografico, guidati da una petulante e assai poco femminile direttrice, la rappresentazione si ferma, il flusso si interrompe, e rimane solo il rumore del lavoro teatrale. Un effetto così marcato, che ha disturbato alcuni spettatori, forse è imputabile ad un difetto di rodaggio dello spettacolo, visto che si tratta solo di una seconda tappa, ma credo che, benché perfettibile, il ritmo sincopato dell'azione faccia parte del senso d'insieme dello spettacolo. A questo proposito, non possono non venire alla mente gli ultimi due spettacoli di Ariane Mnouchkine, Le dernier caravansérail e Les éphémères, che, come la creazione di Lepage sono nati da un lavoro collettivo intorno a vicende individuali inserite in una riflessione più ampia sul fenomeno contemporaneo dell'immigrazione e sul valore universale delle piccole esperienze umane. Anche in questi casi, gli intermezzi fra una scena e l'altra, in cui gli attori si avvicendano a pulire, sistemare e preparare il palcoscenico, sono una maniera per rendere palpabile il teatro nel suo farsi e nella sua concreta materialità.



Lepage svela la costruzione della rappresentazione, e mostra gli artifici tecnologici di cui egli stesso si serve come regista, ma di cui si servono anche i personaggi all'interno delle loro vicende. Lo spettacolo mette in scena la difficoltà di comunicare e di ricordare che affligge in maniera sempre diversa i differenti personaggi, in un universo contemporaneo globalizzato, dove il viaggio, la comunicazione a distanza e la riproducibilità determinano non solo lo svolgersi dei destini individuali, ma modificano le modalità del pensiero, dell'azione e del racconto. Fra i tanti momenti significativi, mi limito a ricordarne due, che mi hanno particolarmente toccato. La prima è un'intervista a una donna che Thomas guarda sullo schermo del televisore, mentre sul lato del palco la scena viene ripresa in diretta con una telecamera. La donna, anziana, su una sedia a rotelle, con un marcato accento inglese e con una chioma che ce la fanno immaginare nelle campagne di oltremanica intenta a vendere torte a una festa di beneficenza, imbastisce un racconto di vari episodi della sua giovinezza, che ottiene inizialmente un effetto piuttosto comico. Ma a poco a poco, le continue precisazioni, gli inciampi nella testimonianza e le inesattezze linguistiche sempre più frequenti, spengono il sorriso e lo trasformano in compassione e soprattutto in una sorta di senso di colpa per non avere compreso : la donna è affetta dal morbo di Alzheimer, che sta stracciando in brandelli la memoria della sua vita, sta distruggendo la sua coscienza e la sua capacità di pensare e di comunicare.



In un altro racconto affidato ad una telecamera nella finzione, ma in realtà realizzato sul palcoscenico, la parola riesce invece a ricostruire il passato e a preservarne il ricordo. Lupe racconta a una giornalista il rito di iniziazione alla prostituzione coatta : lo stupro collettivo. Seduta su una sedia, Lupe mette insieme con fatica le parole, mentre dall'altra parte della scena, un uomo incappucciato, seduto anch'egli, si leva la camicia e passa le mani sul petto davanti a una telecamera. L'immagine del petto viene proiettata sull'abito bianco di Lupe, e mentre il suo racconto avanza, guardiamo con un disgusto che diviene insopportabile queste mani toccarla, mentre lei rimane impotente e noi spettatori muti testimoni dell'orrore. Come in Rouge décanté, il racconto mediatizzato, affidato alla telecamera o completato dall'immagine elettronica, acquista potenza ed intensità.



Lipsynch è una creazione ancora in formazione, che potrà svilupparsi in futuro secondo variazioni, metamorfosi e ampliamenti imprevedibili, e che probabilmente non ha ancora raggiunto la perfezione di funzionamento di un ingranaggio ben oliato. In ogni caso, come del resto gli spettacoli maggiori di Lepage, affascina già per la capacità del regista canadese di muoversi fra i registri, di raccontare il mondo di oggi fra iperrealismo e stilizzazione, in un intreccio necessario fra i temi e le storie affrontate, e le forme e i linguaggi convocati per metterle in scena. I due spettacoli presentati al festival di Montréal, pur nell'evidente e radicale diversità delle loro atmosfere e delle loro soluzioni, danno la misura di quanto il teatro oggi possa essere potente, e di come le ibridazioni intermediali offrano strumenti e metodi per inventare nuove forme, raccontare e svelare a se stessa l'umanità contemporanea.


 


 

Le recensioni di ateatro La resistibile virilità del mascellone: Eros e Priapo con Massimo Verdastro
Il Premio Olimpico del teatro 2007. interpreta l’invettiva gaddiana sul Duce e sull’attrazione erotica del potere
di Andrea Balzola

 



Massimo Verdastro, romano, vincitore degli Olimpici del Teatro 2007 come migliore attore non protagonista per la straordinaria interpretazione dell’Upupa negli Uccelli da Aristofane, diretto da Federico Tiezzi, è un attore atipico, con una biografia professionale del più alto livello (diretto da Ronconi, Stein, Tiezzi, eccetera), vincitore di premi Ubu, fondatore con Francesca Della Monica dell’omonima compagnia, ama le sfide teatrali cercando nella solitudine dei monologhi, a cui lavora anche sul piano drammaturgico e registico, un affollamento di voci e registri interpretativi, dalla chiave grottesca all’intensità drammatica, sempre con una marcata attenzione all’invenzione linguistica e poetica, e al risvolto etico del fare teatro. Dalla messinscena di Una divina di Palermo su testi di Nino Gennaro (con adattamento drammaturgico di Nico Garrone) al SuperEliogabbaret, un collage arbasiniano dove l’attore di varietà Elio Gabbalo racconta Roma attraverso l’immaginario poetico, teatrale e cinematografico fino al recente Eros e Priapo, da Gadda, con la regia di Roberto Bacci (entrambi gli spettacoli con la collaborazione drammaturgica di Luca Scarlini e le musiche a cura di Della Monica).
Eros e Priapo, che si può vedere al Nuovo Teatro Colosseo di Roma, diretto da Ulisse Benedetti e Simone Carella, dal 15 al 23 settembre, è la riproposizione teatrale di un feroce libello scritto da Carlo Emilio Gadda nel 1944 sull’onda del furore e anche del senso di colpa seguiti alla disfatta del Fascismo di cui la maggioranza degli italiani, ivi compreso l’autore, avevano subito il fascino fatale. Simpatizzante fino al 1943, Gadda non riesce ad essere un vero fascista perché sposa soltanto alcuni aspetti di quell’ideologia, come l’orgoglio nazionalista e lo spirito (inizialmente) antiborghese; non riesce nemmeno a essere antifascista, perché la sua reazione al regime è troppo tardiva. Di qui la rabbia per esser stato (ed essersi) ingannato dalla propaganda del Duce (che egli chiama Ku-ce, colui che cuce menzogne e tesse trame mortali), diventando complice, insieme a milioni di italiani, dello sfacelo nazionale. Eros e Priapo, scritto attraverso l’ater-ego di un conferenziere, è quindi un’invettiva accorata e terribile, anche esilarante nelle sue caricature linguistiche, contro la seduzione del potere e del carisma del leader, che per quanto cialtrone (vedendo oggi i discorsi di Mussolini ci si domanda come le masse, ma soprattutto la maggioranza degli intellettuali, abbiano potuto dare credito a una teatralità così grottesca), criminale e avventurista, riesce tuttavia ad essere così ipnotico, persuasivo e pervasivo. Esempi più recenti di questa pericolosa fascinazione, anche se per fortuna meno tragici, si sono riproposti in casa nostra, dando ragione a Gadda che in questo fenomeno vedeva una particolare attitudine degli italiani alla suggestione del populismo e all’incapacità di sviluppare una vera coscienza critica verso il potere. Gadda dava una spiegazione, in parte provocatoria ma anche oggettivamente radicata nelle dinamiche psicologiche collettive, di carattere erotico e pensava addirittura alla possibilità di riscrivere la storia partendo dai suoi “moventi” erotici.
Massimo Verdastro, con l’ausilio della puntigliosità registica di Roberto Bacci, riesce ad animare questo lucidissimo delirio con semplici gesti (dall’umile condizione dell’uomo delle pulizie fino alla baldanza cattedratica del conferenziere) e con una sorprendente poliedricità di voci, creando un crescendo ritmico (simile appunto al crescendo e al climax erotico) che diventa incalzante e torrentizia proliferazione verbale, dove l’incessante invenzione gaddiana del linguaggio e la ferocia “bisturica” della sua analisi scuotono l’ascolto dello spettatore così come il corpo dell’attore, che partecipa con tutte le sue fibre, vibra, alla fine quasi sembra esplodere per la troppa rabbia e l’eccessiva carica deflagratrice di una miscela che unisce in modo indissolubile gli opposti: l’eccitazione con la delusione, la tragedia con la farsa, la verità con la menzogna. Ancora una volta una grande prova d’attore per Verdastro, che si distacca dall’ostentazione e dal narcisismo mattatoriale vizio ottocentesco dei nostrani “divi” teatrali, per animare con la finezza dell’intelligenza, la modulazione della sensibilità e la piena padronanza del corpo e della voce i fantasmi della scena.


 


 

Il Grotowski Center di Wroclaw
Appunti dalla Moleskine teatrale
di Claudia Provvedini

 

Ho letto con fatica su qualche ateatro fa il protocollo della nascita del Grotowski Institute con i progetti, dagli Ateliers all’Accademia di Antropologia teatrale: non perchè scritto in inglese ma per la rigidità e devota precisione con cui è redatto, come se attorno ci fosse stato un plotone di scribi a immettere appunti dalle carte o di funzionari statali a controllare. Il tutto avvolto da passione.
É la stessa sensazione che ho avuto nel 2005 quando, per la prima volta, ho visitato il centro a Wroclaw in occasione della 14ma sessione dell’Ista, focalizzata da Eugenio Barba sul tema della improvvisazione e primo stadio dell’Eastern Line Programme. Che bomba l’accostamento del tema al luogo! Un uovo covato in un mucchio di paglia che può prendere fuoco...
La paglia però non si è incendiata e l’uovo è nato. E se le due anime, i due genius loci – quello di Wroclaw, punto di partenza con il Laboratory Theatre del magistero di Grotowski, e quello di Pontedera, punto di approdo dall’86 con il Workcenter – ora hanno trovato una strada comune, un sentiero da percorrere insieme, e dunque un futuro (che ha un nome, Horizons, almeno fino al 2009, anniversario del decennale della morte di Jerzy e anno degli eventi in programma), è merito di Eugenio. Gran canalizzatore, manovratore di dighe e costruttore di ponti non solo per l’Odin.
Vorrei allora raccontare qualcosa di quelle giornate, sferzate da una pioggia continua.
Wroclaw è una cittadina graziosa, un girotondo di begli edifici dalle facciate colorate attorno ad una grande piazza. In uno dei vicoli, annunciato da un’arcata, al 27 di Rynek-Ratusz, si pigiano le stanze che hanno ospitato il lavoro di Grotowski dal ’65 all’82 e, fino all’84, il teatro, un certo teatro. C’è ancora la mitica sala di rappresentazione, erede di quella delle 13 file di Opole; l’altra dove si proiettano le registrazioni filmate di Apocalypsis cum figuris e del Principe Costante; gli uffici dove la segretaria ad honorem, simpatica vestale non più giovane ma entusiasta, ti offre un caffè. Bisogna compilare un modulo per vedere i film o consultare l’archivio, ma l’impressione è di essere ammessi a qualcosa di molto di più (uno, quando si trova lì, fa gesti lenti e consapevoli, rispettosi). Questo spazio verrà tutto occupato dall’archivio.
La sessione dell’Ista si teneva in un grande teatro da un’altra parte della città. Gli interventi degli invitati stranieri svolgevano il tema dell’improvvisazione, imprivisazi (sembra dicano così gli oriundi) che è questione di tempo, ritmo, velocità, non di invenzione; che è qualcosa di regolato, matematico, come si usa tra comici o tra jazzisti. Quelli dei docenti polacchi, studiosi, ex collaboratori, di Wroclaw e no, erano interventi accademici, ripercorrevano tappe della vita/fasi di lavoro del Maestro. I relatori del primo tipo indossavano abiti colorati, finto casual; i relatori del secondo tipo completo giacca e cravatta, e il pallore di tante ore distillate a tracciare scansioni cronologiche e approcci teorici. Tra i ricordatori, gli europei occidentali portavano episodi personali; gli orientali, momenti istituzionali. In un’escursione alla foresta Brzezinka, si sono visti gruppi che fanno teatro legato alla terra, alla loro: Bielorussia, Turkmenistan, Azerbajan... filamenti di teatro, tradizioni culturali che creano atti performativi, baratti di canzoni: l’ala dell’Odin è lunga.


 


 

Una Guida Monaci del teatro tecnologico?
Steve Dixon. Digital Performance
di Anna Maria Monteverdi

 

Digital Performance vuole essere una sorta di Guida Monaci al territorio multiforme del teatro tecnologico oggi espanso anche ai territori del web; Dixon non ama i veloci manualetti “plug and play” (tra cui annoveriamo l’infelice Virtual Theatres della Giannachi) dato che l’argomento in oggetto comincia ad avere una storia piuttosto lunga e si presta a essere scandagliato sotto vari profili. E forse questo rimane il problema di fondo del libro per cui non riusciamo a essere convinti completamente che trattasi davvero della nuova bibbia del tecnoteatro. Il volume, di quasi ottocento pagine, cerca di mappare tutto il mappabile, cioè di trattare tutte le minime sfumature del rapporto media-teatro, tutte le nuove forme dello spettacolo multimediale (comprendendo persino i cd didattici e i progetti educativi di ricostruzioni in 3D dei teatri dell’antichità…), le convergenze con le installazioni interattive e con gli ambienti virtuali, verrebbe da dire tutto lo scibile se non fosse che a questo lungo elenco della vastissima produzione tecnoteatrale sembra mancare un solido impianto teorico che permetta di distinguere effettivamente estetiche teatrali differenti. Che l’argomento sfugga a ogni tentativo di catalogazione ce ne siamo accorti da tempo: fare ordine nel mare delle proposte videoteatrali non è semplice considerato che oggi pressoché ogni compagnia usa le tecnologie in scena: dal grado zero del video pre-registrato ai sistemi più sofisticati che sollecitano un’azione interattiva del’attore con un’interfaccia corporale. Del resto teatro e media, per usare una terminologia cara a McLuhan, si sono ibridati, anzi forse oggi siamo già alla seconda generazione dell’ibridazione che sta dando vita a quello che si può definire, per prendere a prestito un termine dalle biotecnologie, un teatro-chimera. L’ibridazione ovvero “l’interpentrazione di un medium nell’altro”, in questa generalizzata “computerizzazione della cultura” secondo Manovich consta non solo nell’acquisizione del livello informatico all’interno del teatro ma nel trasferimento concettuale dal mondo informatico alla cultura nel suo complesso. Questo significa che il processo inclusivo dei media nell’arte ha riguardato anche il linguaggio, come hanno ampiamente dimostrato De Kerchove, Maldonado e Lévy. Nel teatro questo ha significato il passaggio epocale, come ricorda Dixon all’inizio del volume, dall’idea delle tecnologie come “tools” al loro uso in quanto “agents”, sottintendendo un uso non più strumentale (“immediato”, direbbe Maldonado) dei media, ma concettuale, metaforico, espressivo, interpretativo addirittura. Agenti di trasformazione, veicoli di significazione, metafore: è stata per prima Brenda Laurel nel volume Computer as Theatre a parlare di agents per definire le interfacce che mettono in comunicazione computer e essere umano, recuperando la nozione di agente, come è noto, proprio dalla Poetica aristotelica (l’imitazione di un’azione è realizzata da persone che agiscono().
L’argomento poteva essere trattato dal punto di vista storico, a partire dalle utopie delle avanguardie e relativi temi che anticipano il multimediale, oppure dalle tematiche oggetto degli spettacoli, dalle caratteristiche delle tecnologie usate, oppure usando le categorie di Manovich sulle caratteristiche dei nuovi media (ipermedialità, interattività ecc). Ancora, si poteva scegliere un criterio cronologico oppure puramente enciclopedico (autore-gruppo). Ebbene Dixon usa proprio tutti questi criteri insieme, mescolando un approccio storico con un’analisi descrittivo-analitica. A onor del vero Dixon fa veramente un lavoro monumentale, encomiabile e dettagliatissimo: entra nel merito delle caratteristiche dei sistemi tecnologici, sintetizza alcune delle più autorevoli posizioni teoriche in merito al rapporto tra teatro e digitale e alle questioni del tempo reale innescate dai nuovi media (da Brenda Laurel a John Birringen a Auslander), racconta della vexata quaestio tecnologia vs contenuto o Teatro vs Media e non esita a criticare proprio la tecnodiva Laurel e le categorie del tecnoguru Lev Manovich. Insomma c’è dentro tutto o quasi, dalla spiegazione di come funziona il sistema di realtà virtuale immersiva Cave al networked theatre, dagli attori virtuali al Postmoderno in epoca digitale.
Pur premettendo però nell’introduzione che nello scandagliare tutti i fenomeni multimediali teatrali e parateatrali, performativi e paraperformativi ha considerato una griglia di massima che li avrebbe suddivisi in base alla pertinenza intorno a tre macro-temi: corpo-spazio e tempo, con l’aggiunta di altre tre sezioni: una storica (le avanguardie) e una teorica (il Liveness, il Postmodern), con un appendice sostanziale che riguarda espressamente l’interattività, l’impressione è che in realtà questa distinzione regga poco di fronte all’evidenza di produzioni (e sono la maggioranza) che appunto in genere mettono l’accento sull’insieme di tutte queste categorie. In buona sostanza, l’appartenenza a una sezione o a un’altra del libro sembra in qualche modo aleatoria, soggettiva, quanto meno opinabile. Talvolta infatti questa distinzione viene fatta sulla base dell’evidenza tecnologica delle produzioni, altre volte sulla dominanza tematica, altre volte ancora sulla somiglianza a progetti d’avanguardia. Per esempio: lo spettacolo Ph dei Dumb Type dove i ballerini danzavano a terra e venivano scannerizzati da un’enome laser che li “fotocopiava”, viene inserito nel capitolo “storico” quale esempio attuale di attenzione e attrazione per la “macchina” che rimanderebbe ai vari manifesti del Futurismo. Più in là lo stesso gruppo si ritrova nell’ambito della sezione “Body” insieme con Orlan. Mettendo da parte la considerazione piuttosto ovvia che Dixon non prende in considerazione l’elemento testuale, anche solo per sottolineare l’evoluzione della narrazione e della drammaturgia (e questo mette bene in luce come da elemento fondativo e prioritario, oggi il testo sia diventato un dato puramente accessorio per l’analisi dello spettacolo), le categorie proposte confondono un po’ le idee, ci risultano da un lato delle maglie un po’costrittive, dall’altro lato eccessivamente aperte. Nella sezione Corpo si analizzano progetti che mettono l’accento su Avatar, doppi, robot, interfacce corporali; nella sezione Spazio si condensano le produzioni in cui il lavoro maggiormente di rilievo è quello legato alla progettazione scenografica visuale, all’ambito proprio delle realtà virtuali (ma è il corpo dello spettatore ad avere una esperienza di immersività…), ai progetti che contemplano spazi diversificati, pubblici, telematici, a distanza, mobili, mentre nella sezione TEMPO si inseriscono progetti che lavorano sulla frammentazione o decostruzione temporale, sulla memoria. L’interattività poi apre a un universo infinito e inclassificabile che ovviamente rimette in campo questioni in parte già sondate nelle precedenti categorie: partecipazione, condivisione, immersività, connessione remota, realtà virtuali, videogames, cd rom interattivi e molto altro. Insomma, viene difficile per esempio considerare Alladeen di Marianne Weems del gruppo The builders Association unicamente come “esempio di teatro sintetico” laddove la tematica, rafforzata dalla particolare tecnologia usata, è quella dello sfruttamento del lavoro a distanza (i call center di Bangalor). Forse una sezione legata alle tematiche, per esempio all’attivismo (artivism o activism) o al teatro politico in epoca tecnologica, avrebbe posto questioni vitali tali, per esempio da unire Peter Sellars e il Critical Art Ensemble, il Big Art Group o William Kentridge, al di là e oltre la pura evidenza tecnologica. Ebbene, si tratta proprio di artisti che non vengono neanche accennati nel libro (il CAE raccoglie giusto un pugno di righe nel libro). In effetti Dixon non sembra essere molto consapevole dei volumi scritti da studiosi e ricercatori a lui precedenti che fuori dagli States hanno già delineato con grande precisione una possibile storia delle produzioni e delle estetiche tecnoteatrali. I volumi della Picon-Vallin e di Christopher Balme rimangono per esempio, clamorosamente fuori dal quadro bibliografico e con essi anche la loro precisa metodologia di analisi delle produzioni internazionali.
Insomma l’impressione è che nell’ansia di mettere su un edificio, si tralascino le fondamenta. Dispiace poi non vedere neanche un nome di italiano (manca persino Studio Azzurro!): del resto nella pesca americanofona del volume molti “monumenta” europei rimangono fuori dalla rete.
Ci piace, dunque, leggere il libro come un coraggioso tentativo di offrire una prima possibile mappatura di un territorio che non sta dentro alcuna cartina geografica, tentativo che soddisferà alcuni e deluderà molti. E’ senz’altro la natura stessa della performance tecnologica, ad aver determinato questa difficile collocazione dei lavori in uno specifico contesto/genere/categoria: per chi fa e studia questo teatro “ri-mediato”o “ri-mediatizzato” con il digitale spesso il limite tra installazione, concerto e performance è molto labile. Lo sanno molto bene anche coloro che distribuiscono queste produzioni, dal momento che trovano maggiore ospitalità dentro festival di arti elettroniche che non dentro festival teatrali veri e propri. Forse però basterebbe semplicemente evitare di definire il teatro tecnologico un genere a sé e impegnarsi piuttosto a considerarlo – come suggeriscono i lavori di Lepage, di Wilson, del Wooster Group - teatro e basta.

Steve Dixon, docente di Performing Arts all’Università di Brunel, è un’autorità nel campo della performance tecnologica. Teorico, studioso dell’arte scenica in relazione con i nuovi media digitali ha diffuso le proprie idee in riviste specializzate autorevolissime come “The Drama Review”, “International Journal of Performance Arts and Digital Media”, “Performance Arts International”, Ctheory.net. Aveva concesso un’intervista anche ad ateatro a firma di Pericle Salvini. Suo è il progetto del Digital Performance Archive, un data base internazionale on line iniziato nel 1999 (e dal 2001 mai più implementato). Dixon è anche un artista di teatro e con il suo gruppo Chamelions non solo ha cercato di svolgere un’attività videoteatrale in scena ma anche di progettare documentazioni digitali sperimentali (incluse in cd nel numero 43 del 1999 di "The Drama Review").


 


 

La violenza della ripetizione
Loop Diver della Troika Ranch Company
di Oliviero Ponte di Pino

 

Troika Ranch Company di Mark Coniglio e Dawn Stoppiello, Loop Diver, è un work in progress che terrà impegnato il gruppo di lavoro ancora per un paio d’anni. Una prima Preview Performance è stata presentata a settembre al 3LD Art & Technology Center di New York, a pochi metri da Wall Street (e dal luogo dove si trovavano le Due Torri).
Il punto di partenza è il concetto di loop, di anello: da un lato la ripetizione del movimento di sequenze di immagini, dall’altro le forme cicliche della vita quotidiana.
Per certi aspetti, si segue un’ipotesi di lavoro che i teatranti conoscono e praticano da tempo: portare le nuove tecnologie dell’immagine (o meglio, i loro codici espressivi) all’interno dello spettacolo dal vivo. E’ già accaduto con il cinema e il video, possono bastare alcuni esempi: le tecniche del montaggio cinematografico utilizzate da Dario Fo nella sua pratica d’attore e da Robert Lepage nella costruzione drammaturgica dei suoi lavori; l’alternanza di panoramiche e primi piani, le carrellate e gli zoom che Luca Ronconi reinventa attraverso l’uso dello spazio, delle scenografie, dei pannelli e dei carrelli mobili; il ralenti, fondamentale nella riscoperta dello spaziotempo da parte di Bob Wilson (che inoltre usa sistematicamente anche il blue screen).
Il recupero di questi elementi base della grammatica di altri media rappresenta una novità, perché arricchisce il linguaggio teatrale e gli dà una nuova consapevolezza; ma non si può dimenticare che riprende e amplifica possibilità che lo spettacolo dal vivo già possedeva e utilizzava, anche se non in maniera così sistematica e – appunto – consapevole: a parte la costruzione “cinematografica”, per scene staccate e contrappuntate, del teatro shakespeariano, forse anche il sats, ovvero lo stop presente nelle grandi tradizioni orientali e caro a Eugenio Barba, assume un diverso significato da quando sui videoregistratori è possibile schiacciare il tasto “pause”. Del resto questi usi si intersecano con le mutate abitudini percettive di un pubblico teatrale che vede senz’altro anche molto cinema, tv e video (e ora traffica su internet).


Foto di Oscar Sol.

Nella prima fase di lavoro Loop Diver, cui collabora il Dramaturg Peter C. van Salis, non è ancora interattivo (si sta sperimenando un programma di motion tracking open source, EyeWeb): per ora lo spettacolo è una sequenza di brevi assoli (con qualche duetto) dove i danzatori riprendono “live”, con grande virtuosismo ed energia, alcuni loop (appunto) con sequenze di gesti e movimenti, mentre su tre pannelli vengono proiettate le immagini di una stanza deserta e abbandonata.

Abbiamo videoregistrato i danzatori che improvvisavano con la supervisione di Dawn, poi abbiamo sovrapposto a queste registrazioni alcune complicate strutture di loop utilizzando un modulo di Isadora, il software di Mark, e abbiamo chiesto ai danzatori di imparare queste frasi manipolate.

Ovviamente ogni loop, ripreso dal vivo, ha almeno un momento critico: quello della giunta tra il momento finale e quello iniziale, che inserisce una inevitabile discontinuità, uno scarto impossibile da sanare per un performer. “E’ stato in questa impossibilità che abbiamo scoperto la parola ‘violenza’”, si annota nel programma di sala.
Perché la ripetizione non rappresenta un intervento neutrale. Nel corso delle prove, in una serie di “lunghe improvvisazioni verbali” (di cui resta traccia nella performance) i danzatori

parlano della sensazione di imprigionamento che provano a essere costretti a imparare il materiale dei loop. (...) Avvertivano la natura inorganica dei loop del computer come un atto violento contro i modo naturale in cui si muovevano. La parola “violenza” va intesa nel senso più ampio possibile. Le imposizioni stressanti, quotidiane, che proviamo tutti nella città di New York o le strategie di manipolazione che cogliamo nelle relazioni interpersonali sono due iniezioni un po’ meno banali di violenza all’interno del nostro sistema. (...) I ritmi circolari della nostra vita quotidiana rappresentano un antidoto agli echi della violenza; ma questi stessi cicli possono rappresentare un violento atto di repressione che impedisce il nostro costante sviluppo di esseri umani.

Al di là degli effettivi risultati di quello che è dichiaratamente un work in progress, questo è il campo su cui inizia a muoversi il progetto: un problema in apparenza puramente tecnico (come inserire l’interattività nello spettacolo dal vivo partendo dal loop) innesta una serie di connotazioni emotive e politiche, che a loro volta mettono in moto un processo in qualche modo narrativo.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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L’importanza di essere interattivi
Le nuove tecnologie e lo spettacolo dal vivo
di Mark Coniglio (traduzione di Anna Maria Monteverdi)

 

Io e la mia collaboratrice Dawn Stoppiello abbiamo fondato il gruppo di danza Troika Ranch Company nel 1994; il nostro scopo era quello di creare opere d’arte dinamiche, mutevoli e che fondessero elementi tradizionali della danza, della musica e del teatro con i media digitali interattivi. Eravamo convinti che collegando direttamente le azioni del performer al suono e alle immagini, saremmo approdati a nuove modalità di creazione artistica e performativa, ed infine anche a una nuova forma d’arte dal vivo. Mentre non possiamo ancora affermare di aver raggiunto questo ultimo obiettivo, piuttosto ambizioso, abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulla performance interattiva e sulla sua importanza sia per il performer sia per il pubblico. L'obiettivo del nostro testo è presentare questo punto di vista, ma prima di proseguire penso che valga la pena di rispondere a una semplice domanda: pria di tutto, perché un artista dovrebbe desiderare di creare opere d’arte come queste?

Live media/Dead media
La risposta pate da un dispositivo che ho creato nel 1989 denominato MidiDancer, un sistema sensoristico che utilizza sensori di flessione senza fili per segnalare la posizione delle giunture del ballerino a un computer. Il software interpreta così le informazioni del movimento, che possono a loro volta manipolare i media digitali in numerosi modi:
1.facendo partire il nastro registrato delle note o delle frasi musicali;
2. manipolando le immagini video live o preregistrate;
3. controllando le luci di scena.
Queste sono appena tre delle possibilità del Midi Dancer.
Ma MidiDancer non era tanto una risposta alla domanda posta all’inizio. La tecnologia dei pc di quel tempo ci aveva permesso di utilizzare il movimento del danzatore per generare un accompagnamento musicale. In altre parole, lo abbiamo fatto perché era diventato possibile farlo. Non avevamo però ancora un’idea chiara sul perché fosse essenziale per l’espressione estetica.
Una chiara risposta alla domanda del “perché” mi si presnetò solo nel 1996.
A quell’epoca Dawn e io avevamo ottenuto una residenza a STEIM (STudio for Electronic Instrumental Music) ad Amsterdam. Durante i primi tre giorni di quella residenza quattro persone a turno, passandomi vicino mi chiesero: “Jorgen non ti ha ancora portato nella sua stanza ?”
Jorgen, la cui la specialità era la creazione elettronica, era uno dei tanti ingegneri di talento che a STEIM aiutava gli artisti in residenza a realizzare i loro progetti. Incuriosito, lo cercai e gli chiesi piuttosto intimidito: “Jorgen, posso vedere la tua stanza?”
Dopo un cenno affemativo del capo mi condusse su per quattro rampe di scale molto ripide e strette fino alla soffitta dell’edificio. Di fronte a noi una sola porta bianca, che Jorgen aprì con un certo fare cerimonioso. All'interno, la più elaborata e completa collezione di sintetizzatori analogici degli anni Sessanta e Settanta che io avessi mai visto, raccolta in uno stesso luogo!
Dopo avermi mostrato tutto lo spazio, iniziò a farmi sentire parecchi esempi della sua musica usando un solo sequencer analogico per controllare ogni strumento nella stanza. Eravamo nel 1996, e poiché mi ero personalmente saldamente radicato nell’idea di utilizzare la tecnologia digitale, mi venne da chiedergli: “n questa stanza c’è qualche cosa di digitale?”
Mi fulminò con uno sguardo e rispose “Oh, nooo.”
Quando gli chiesi: “Perché no?” mi rispose piuttosto seriamente: “Perché è sempre lo stesso”.
In quel momento mi sono reso conto che ciò che amavo dei mezzi digitali era esattamente ciò che lo rendeva inappropriato per un uso della performance live: cioè era davvero sempre lo stesso.
I media digitali sono straordinari perché possono essere duplicati all’infinito e/o essere presentati senza timore del più piccolo cambiamento o degrado. Ma è proprio questa specifica qualità (l’”immortalità” dei media) a essere antitetica con la natura fluida, sempre mutevole della performance dal vivo. Ogni volta che si rappresenta una performance, ogni ordine di fattori può cambiare significativamente come è realizzata in quel momento - forse la cosa più significativa che cambia è la relazione (“interplay”) tra la capacità e il temperamento dei performer e l’attitudine e impegno del pubblico. Il fallimento dei media digitali registrati è che riduce questa fondamentale fluidità, impedendo agli esecutori di cambiare le caratteristiche del materiale volta per volta.

Organico>elettronico
Sono stato spesso testimone della tensione tra mezzi registrati e live performance quando frequentavo una piccola realtà di danza moderna alternativa a New York City. E’ quasi un dato acquisito che in queste situazioni i danzatori lavorino con musica pre-registrata su cd. Ogni sera questi esecutori hanno la potenzialità di conferire alle performance di una vita, data la giusta combinazione di abilità, una comprensione del loro strumento (cioè il loro corpo) rispetto al materiale che devono rappresentare, e una consapevolezza del nebuloso (ma reale, come sa ogni esecutore) ciclo di retroazione (loop) tra performer e pubblico. Ma quando i performer tentano di sottolinare un gesto o una frase in risposta ai rapporti sopra accennati, un compagno inesorabile e inconsapevole – la musica registrata digitalmente - li contrasta. In questa maniera non possono davvero ottenere un equilibrio spettacolare perché nel cercarlo la musica correrebbe davanti a loro e se loro tentassero di raggiungerla, la frase di danza successiva ne subirebbe le conseguenze.
Così, la risposta alla mia propria domanda è: io fornisco il controllo interattivo all’esecutore in modo da imporre il caos dell’organico sulla natura fissa dell’elettronica, assicurando però che i materiali digitali rimangano sempre fluidi e vivi come gli stessi performer.
Ci sono due implicazioni che derivano da questo approccio:
1. Dobbiamo fornire ai performer la giusta “latitudine” (le coordinate, ndt) per improvvisare se vogliono avvantaggiarsi da tale interattività;
2. Il pubblico deve avere una certa comprensione dell’interazione per completare fino in fondo il ciclo di retroazione tra loro e il performer

Desidero esaminare questi punti in dettaglio, usando i modelli musicali di performance che sono resi più espressivi dall’interazione in tempo reale. Per quanto riguarda il controllo interattivo e l’importanza dell’improvvisazione, consideriamo l’esempio dell’orchestra classica. La musica suonata dall’orchestra (i “media”) è stata scritta molto tempo prima della performance. Eppure facendo affidamento sulla stessa abilità, consapevolezza e risposta dal pubblico citati sopra, è il direttore d’orchestra che determinerà i tempi della musica e le dinamiche da momento a momento, e la sua realizzazione finale. (Questo modello sembra particolarmente adatto alle prestazioni interattive di danza, poiché entrambi contano sul gesto come mezzo di controllo interattivo.) Il direttore di un’orchestra classica non riformula la musica in modo così radicale da alterare la natura dell’opera, anche se ciò sarebbe certamente possibile. E poiché il direttore a un qualche livello improvvisa, è possibile che tale riformulazione possa anche accadere qualche volta.
Si potrebbe affermare che potendo cambiare soltanto due parametri (ripetiamo: tempo e dinamica) il direttore non può cambiare in maniera sostanziale un’opera musicale.
Ebbene, mi è stato dimostrato proprio il contrario nel corso di un’esercitazione di cui sono stato testimone come allievo. Il mio insegnante Morton Subotnick aveva dato a una dozzina circa di compositori nel mio corso le prime due pagine della Sonata n. 1 per piano di Pierre Boulez con le seguenti istruzioni: dovevamo cambiare a piacimento le dinamiche e le trasposizioni in ottave delle note, ma non potevano alterare nessun altro parametro. La settimana successiva ciascuna delle nostre versioni rimaneggiate veniva eseguita, ma senza identificare chi aveva svolto il compito. Con mio grande stupore trovai che potevo riconoscere gli autori delle diverse versioni della composizione perché ero intimamente vicino allo stile dei miei colleghi. Anche lasciando aperti alla possibilità di cambiamento solo due parametri, i risultati erano assolutamente personali. Allora ne consegue che un esecutore interattivo esperto potrebbe ugualmente imporre la propra personale interpretazione su materiali digitali composti in precedenza sotto il suo controllo – anche se il numero di parametri che possono essere cambiati è limitato. Questa consapevolezza si è trasformata in una strategia interna nel mio approccio a creare arte interattiva live.
Vale la pena di notare che, se nell’esercizio potevamo maneggiare soltanto due parametri, potevamo comunque farlo senza alcuna limitazione. Per applicarlo all’interazione live, questo ci dice che mentre il numero di parametri che un performer può manipolare può essere limitato, la gamma di quelle manipolazioni deve però essere abbastanza ampia da permettere al performer di “piazzare” il suo personale marchio interpretativo sul materiale.

Improvvisazione essenziale
Un altro modello musicale da considerare è il jazz, per le sue implicazioni sull’improvvisazione e sulla comprensione del pubblico rispetto al processo improvvisativo. Prendiamo lo specifico esempio di un pianista di jazz. Può sembrare ovvio ma grazie all’esperienza storica o a quella personale sappiamo che quando si appoggia un dito sul tasto, il tasto si abbassa e viene prodotta una nota musicale. Questo presupposto ci permette di sapere che il pianista sta suonando il suo strumento e noi lo osserviamo suonare (in effetti scoppiò un certo scandalo quando il pubblico scoprì che questo rapporto era finto: vedi l’esempio di Milli Vanilli negli anni Novanta). Se conosciamo la forma del jazz, giungiamo alla comprensione e all’aspettativa che la musica verrà creata al momento della performance. Così proviamo una certa emozione quando osserviamo un performer organizzare istantaneamente e suonare con abilità i propri materiali sotto i nostri occhi. La natura real time della creazione musicale è così integra che è parte integrante del suo significato. Non comprendere questo significa non essere in grado di apprezzare completamente la forma artistica.
Una simile considerazione potrebbe essere valida anche per le performance interattive ma di fatto subentrano vari ostacoli.
Quando presentiamo questi lavori non possiamo a priori confidare nella stessa aspettativa e nella comprensione per la performance che ha un pubblico jazz. Infatti:
1. il pubblico può non essere consapevole del fatto che sta accadendo un qualche livello di improvvisazione;
2. perché il pubblico non ha una comprensione a priori degli strumenti con cui il performer controlla quella manipolazione.

Ho preso in considerazione questi due punti in riferimento ai lavori di teatrodanza della mia compagnia Troika. I lavori vengono spesso presentati su un palcoscenico che storicamente ospita lavori che sono composti in precedenza. Così mentre diamo ampio spazio alla latitudine improvvisativa dei perfomer, il pubblico generalmente pensa che quello che sta vedendo non è affatto improvvisato, a causa del luogo in cui avviene la performance.
Questo problema di percezione aumenta con la scarsa conoscenza degli strumenti usati per manipolare i media. I nostri danzatori usano sensori wireless posizionati sui loro corpi, e questo permette loro di manipolare in tempo reale i media digitali Questi strumenti interattivi sono piuttosto simili alla loro controparte musicale: infatti traducono i gesti in altre forme. Dunque si potrebbe dedurre che il pubblico può comprendere facilmente la loro funzione. Ma questi strumenti interattivi sono nuovi, unici e non familiari, il pubblico non ne ha un’esperienza storica o personale. Così in pratica è piuttosto difficile per il pubblico percepire che una performance dei Troika Ranch è molto simile a una di quelle performance jazz descritta sopra.
Ache se con questo non voglio affermare che un lavoro interattivo non possa essere apprezzato per il suo valore esteriore.

Nel nostro esempio del pianista jazz, persino quelli che non comprendono il funzionamento interno di un pianoforte, o che non si rendono conto che il performer stia improvvisando, possono pur sempre apprezzare il risultato - la musica. Così dovrebbe essere per la performance interattiva. Ma una comprensione da parte del pubblico del fatto che il performer ha una padronanza virtuosistica del proprio strumento e che sta creando qualcosa nel momento stesso della performance aggiunge ancora un altro livello di liveness all’esperienza del pubblico: questo, secondo me, è un motivo chiave per aggiungere l’interattività al mix degli altri elementi.


In incremento fondamentale

Voglio anche introdurre un’affermazione di una qualche utilità fatta da un mio collega. Vale a dire, l’uso da parte mia dei modelli musicali sopra descritti sarebbe reazionario perché impone un tipo di visione a tunnel, inibendo lo sviluppo di nuove grammatiche/strategie per la creazione e la realizzazione di nuove performance. Dal mio punto di vista, questo discorso non funziona perché presuppone che l’uso delle tecnologie sensoristiche e dei media digitali costituisca una svolta radicale nella natura della performance in sé. La questione va oltre gli obiettivi di questo saggio, ma voglio prendere in considerazione quella ce possiamo considerare un’innovazione tecnologica rivoluzionaria: la fotografia. La capacità di catturare all’istante e riprodurre un’immagine ha cambiato l’esperienza pubblica del mondo quasi dal giorno alla notte.

Prendiamo come esempio le prime orribili immagini dei soldati sparsi sopra il campo di battaglia durante la guerra civile degli Stati Uniti. Queste fotografie ampiamente difuse e pubblicate hanno portato a chi le guardava un’esperienza della guerra immediata e fino a quel momento inconcepibile, e ha formato un’opinione pubblica su quella guerra. Se l’integrazione della tecnologia più innovativa nel teatro fosse altrettanto radicale, il suo impatto non sarebbe altrettanto immediato e incontenibile come quello della fotografia?
Nella nostra epoca, abbiamo la vaga senzazione che qualunque tecnologia nuova e non sufficientemente familiare porterà alterazioni radicali del tessuto della società. Questo luogo comune si basa in gran parte sulle innovazioni tecnologiche trasformative della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo. E’ anche frutto delle tesi assai discutibili di un marketing che ha raggiunto il suo apice al culmine del boom di Internet.
E nel campo delle tecnologie della performace live, gli artisti hanno spesso rivendicato il potenziale delle nuove forme rivoluzionarie (devo dichiararmi colpevole, ma l’ho fatto solo durante i primi tempi del MidiDancer - non che all’epoca non lo credessi possibile). E tuttavia ritengo che le innovazioni portate dai nuovi media e dalla tecnologia sensoriale nelle performance siano più incrementali che fondamentali.
Un programma come Photoshop fornisce un esempio utile. La sua metafora centrale, quella della pittura su tela, è radicata in una tradizione che tutti comprendono. La capacità di conservare le versioni multiple, la nozione di “undo” e l’introduzione dei processi algoritmici che possono essere applicati all’immagine (cioè i filtri) cambia il processo di lavoro in modo significativo. Ma, mentre possiamo essere d’accordo sul fatto che artisti esperti hanno utilizzato questo attrezzo per fare immagini interessanti, sorprendenti o belle, la natura dell’immagine in sé non è cambiata. E’ moto diverso da uello che è accaduto con la fotografia, che ha rappresentato il mondo con un senso della realtà (che implica sia verità che obiettività) che non era mai stato sperimentato prima: la fotografiaha ridefinito l’immagine.
Ora, il mio collega potrebbe ragionevolmente sostenere che la ragione per cui Photoshop non ha ridefinito l’immagine era perché la sua metafora era basata sui modelli pre-esistenti di creazione dele immagini. Risponderei affermando che non era possibile andare oltre i modelli esistenti perché Photoshop semplicemente non ha alterato l’essenza della nozione di immagine.
L’impatto della nuova tecnologia e dell’interattività sulle performance live è molto più simile a quello di Photoshop che alla fotografia. Dunque mi sembra che applicare modelli esistenti alle performance aumentate tecnologicamente sia valido e utile;e analogamente penso che l’uso dell’interattività nelle performance live sia essenziale.
Le performance live sono forse la più inefficiente forma di arte contemporanea, perché con loro non puoi fare quello che puoi fare con altre opere d’arte digitali: duplicarle e distribuirle senza grosse spese a un ampio pubblico. Ma è proprio questa qualità ineffabile del “liveness” che mi spinge a creare e frequentare le performance. Usando nuova tecnologia per far sì che che i nostri esecutori diventino creatori in tempo reale e chiedendo al pubblico di essere presente alla loro arte volatile, noi ci assicuramo che ciascuna performance sia assolutamente irripetibile. E quesa potrebbe essere la più coraggiosa mossa in assoluto.


 


 




La moda teatrale di Viktor & Rolf

Dalla collezione autunno-inverno 2007-2008
di Redazione ateatro

 

Oltre la moda, oltre il teatro.
Nella loro nuova collezione, gli stilisti olandesi Viktor Horstling e Rolf Snoerren hanno creato una linea di “abiti-palcoscenico” di forte impatto: fari e altoparlanti per vestiti-sipario curiosi e appariscenti.






 


 

Renato Quaglia è il direttore del Festival Teatro Italia
La nuova rassegna napoletana voluta dal ministro Rutelli
di Redazione ateatro

 

E' Renato Quaglia il direttore del nuovo Festival Teatro Italia, il festival nazionale promosso dal vice presidente del consiglio Francesco Rutelli e che avrà sede a Napoli. Lo ha stabilito il cda della Fondazione Campania creata dalla Regione Campania. La decisione è stata preso all’unanimità dal cda, presieduto da Rachele Furfaro e composto da Nunzio Areni, Luigi Grispello, Goffredo Fofi, Mario Fortunato, Maria Grazia Pagano e Giancarlo Santalmassi, in accordo con la Provincia e il Comune di Napoli.
Quaglia, udinese, classe 1960, vent’anni di lavoro nel teatro di ricerca, proviene dalla Biennale di Venezia, dove era giunto nel 1999 per costituire il nuovo settore Danza Musica e Teatro e dove aveva successivamente assunto anche gli incarichi di direttore organizzativo per i settori Architettura e Arti visive. Proprio in seguito ad una serie di divergenze sulla gestione di quest'ultimo settore da parte di Robert Storr, curatore dell'Esposizione internazionale d'Arte, Quaglia si era dimesso prima da Arti Visive, nell'aprile scorso, e poi, a giugno, anche da tutti gli altri incarichi.
Il presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino, ha salutato così la decisione: “La nomina di una indubbia personalità culturale del livello di Renato Quaglia a direttore del Teatro Festival Italia è una scelta giusta. Il grande e qualificato bagaglio di esperienze e di competenze raccolte nel corso della sua carriera, nell'ambito dello spettacolo e dell'arte è una garanzia per una positiva organizzazione e per l'affermazione di un nuovo evento come il Festival Nazionale qui a Napoli. Nella sua attività Renato Quaglia si è sempre contraddistinto per la particolare capacità organizzativa e gestionale. Insomma si tratta di un vero e capace manager culturale. Ora, dopo la sua nomina, dobbiamo tutti, fondazione, enti locali, compagnie, associazioni culturali, continuare a lavorare d'intesa con il ministero per i Beni e le Attività Culturali affinché il Teatro Festival Italia diventi un punto di riferimento nel panorama degli eventi culturali di rilievo nazionale e internazionale. In Campania possiamo contare su un patrimonio davvero unico, ricco di talenti, strutture e competenze che possono far diventare Napoli sede permanente del Festival e punto di riferimento nel Mediterraneo".
Quaglia affrona così il suo nuovo incarico. Il luogo: una città "così particolare come Napoli, da considerarsi non come sede di criticità tipiche ma come metafora del nuovo urbanesimo". La prospettiva temporale: "non progetti annuali ma un arco di impegno triennale, per un programma non solo di spettacoli ma di progetti e attività". Il festival non teme il confronto con i problemi del capoluogo partenopeo, dalla sicurezza ai rifiuti: "Li considero come criticità non tipiche di Napoli, ma proprie delle grandi metropoli di oggi, come metafora e annuncio del nuovo urbanesimo. Del resto sono affascinato dall'intelligenza e dall'intraprendenza napoletana. E mi stimola l'idea di operare in città così dense di vita e di storia, e mi piacerebbe vedere come artisti di altre culture possano intervenire e partecipare in questo tessuto”.
Per quanto riguarda il progetto del Festival, “penso che inizierò con un confronto con i principali festival europei, ma con l'intento di sperimentare quei modi nuovi di cui c'é bisogno. Un festival deve anche riuscire a modificare il contesto in cui svolge, creare una relazione molto forte con il contesto napoletano e nazionale, ma anche internazionale. E in questo le esperienze degli ultimi anni saranno preziose, per aprire collaborazioni con i festival più innovativi".
A Renato Quaglia un grande inboccallupo da tutta la redazione di ateatro.


 


 

BP04: Teatro: emergenze e opportunità il 23 ottobre a Prato
In collaborazione con ateatro
di Officina Giovani/Cantieri Culturali, Prato

 

Martedì 23 Ottobre 2007
Prato, Officina Giovani/ Cantieri Culturali
In collaborazione con www.ateatro.it

TEATRO
EMERGENZE E OPPORTUNITA’

Dal 2004 www.ateatro.it organizza "le buone pratiche del teatro", un incontro aperto, dove si discutono i principali problemi del settore secondo associando all'analisi e alla denuncia un atteggiamento costruttivo: la scoperta, valorizzazione e diffusione di esperienze positive, la condivisione di idee innovative, la messa a fuoco di proposte.
La prossima edizione di "Buone pratiche" avrà luogo a Milano il 1/12 p.v. sul tema
EMERGENZE : i giovani, l'accesso alle professioni dello spettacolo, il ricambio generazionale, il mercato del lavoro
Officina Giovani e www.ateatro.it propongono un incontro che affronti i problemi con particolare riferimento alla situazione toscana e possa contribuire all'incontro nazionale con ricerche, discussioni e analisi preliminari.

Ore 16.00
• Saluti delle autorità. •

Ore 16.30
• Introduzione di un referente di www.ateatro.it. •

• La politica della Regione Toscana per i giovani. •
Intervento di un dirigente della Regione Toscana.

• La politica del Teatro Metastasio, Stabile Pubblico Regionale. •
Intervento della Direzione.

• La condizione giovanile nel campo dello spettacolo: ccnl, precarietà, previdenza e disoccupazione. •
Relazione di un sindacalista.

Ore 17.30
• Opportunità: bandi e concorsi, formazione e buone pratiche •
Interventi di referenti di progetti.

• Esperienze e testimonianze •
Interventi di giovani organizzatori teatrali e compagnie.

Ore 19,00
• Conclusioni, dibattito •

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21.30 On stage Teatro
Bio Logico, spettacolo della Compagnia Jean Marie Volontè.


 


 

Shakespeare è una metropolitana?
Il nuovo merchandising della Royal Shakespeare Company
di Redazione ateatro

 

La Royal Shakespeare Company aveva chiesto alla designer Kim Glover di realizzare una nuova linea di merchandising per la compagnia. Una sera Kit Glover era a cena con alcuni amici, che sostenevano che molti personaggi shakespeariani condividono diversi tratti comuni. Così lei ha deciso di dare una forma grafica a questa intuizione, utilizzando come matrice la celeberrima mappa della metropolitana di Londra disegnata nel 1933 da Harry Beck.
Nella “Greater Shakespeare” ci sono dunque otto linee, contrassegnate da altrettanti colori; ciascuna linea corrisponde a una famiglia di personaggi:

turchese: donne forti (e difficili)
rossa: amanti
rosa: madri
verde: padri e figlie
azzurra: cattivi
blu: eroi
nera: guerrieri
arancione: fools




Ci sono anche personaggi che si trovano all’incrocio tra due linee, come Enrico V, all’incrocio tra nera e blu, Lady Macbeth, tra nera e turchese.
Non sono mancate critiche: l’idea di usare la mappa della metropolitana per ordinare altri territori non è certo originale; inoltre mancano alcune figure chiave, e alcune stazioni sono curiosamente intestate a due personaggi. Ma non è il caso di preoccuparsi troppo: è un gioco, e forse è anche un business.


 


 



Evviva il Signor Bonaventura! Una mostra e uno spettacolo

Alla Festa del Cinema a Roma l'omaggio a Sergio Tofano
di Redazione ateatro

 

Per i 90 anni del signor Bonaventura, il celeberrimo personaggio creato da Sergio Tofano, in arte Sto, Alice nella città, in collaborazione con il Civico Museo Biblioteca dell'Attore di Genova, promuove un Omaggio a Sergio Tofano, dedicato all’attore, regista, disegnatore e fumettista, eclettico e versatile umorista del teatro e cinema italiano, nonché memorabile inventore di Bonaventura.

Il 18 ottobre, in concomitanza con l'apertura della Festa del Cinema, nello spazio Auditorium Arte al Parco della Musica, si inaugura la mostra Bonaventura. I casi e le fortune di un eroe gentile a cura di Hamelin Associazione Culturale di Bologna (fino all’11 novembre), completata dal libro pubblicato da Orecchio Acerbo.
L’esposizione è interamente dedicata a Bonaventura e ai suoi 90 anni: risale infatti al 28 ottobre 1917, subito dopo il disastro di Caporetto, l’uscita sul “Corriere dei Piccoli” della prima tavola del signor Bonaventura; da questo momento il personaggio emblema di Tofano diventa, con la palandrana rossa, il bassotto e l’immancabile milione, un’icona dell’immaginario collettivo degli italiani destinata ad una inossidabile fortuna.
In mostra preziosissimi materiali originali provenienti dall’archivio di Gilberto Tofano, figlio di Sto, dal fondo Tofano del Civico Museo Biblioteca dell'Attore di Genova, da altri musei e collezionisti privati. Il progetto grafico ed espositivo della mostra è a cura di Orecchio Acerbo.

I pezzi esposti ripercorrono le avventure del personaggio di Sto e le diverse interpretazioni che lo stesso autore ne ha dato nel corso del tempo: dalle pagine del “Corriere dei Piccoli” ai disegni per le varie pubblicazioni, dal materiale per le commedie, alle illustrazioni per la stampa. Bonaventura viene presentato anche nelle manifestazioni della sua fortuna popolare, dal successo come testimonial pubblicitario ai giocattoli che ne riproducono le fattezze.
La mostra si sviluppa poi seguendo un filo rosso che parte dal segno di Sto e l’icona Bonaventura e arriva fino al fumetto dei giorni nostri. Infatti una sezione della mostra si concentra sul lavoro degli autori del gruppo Valvoline (Lorenzo Mattotti, Igort, Daniele Brolli, Giorgio Carpinteri) che nella prima metà degli anni Ottanta rivoluzionarono l’estetica e il modo stesso di concepire il fumetto, per cui Sto è stato un maestro di stile dichiarato. A confronto le opere di questi fumettisti e quelle del loro modello, non solo attraverso le citazioni di Bonaventura e le analogie di stile, ma mostrando in parallelo la produzione per la moda, le riviste e la stampa ("Vanity Fair", "Lidel", "Vanity"…), la pubblicità che hanno visti impegnati tanto Tofano quanto i Valvoline.
Un’altra sezione vede invece cinque giovani e promettenti fumettisti (Manuele Fior, Roberto La Forgia, Giacomo Nanni, Nicoz, Tuono Pettinato) alle prese con la difficile sfida di dar vita oggi a nuove avventure dell’eroe gentile di Tofano. Assieme a loro tre grandi scrittori, Stefano Bartezzaghi, Jerry Kramsky e Edoardo Sanguineti si confrontano con la lingua di Tofano, offrendo il proprio omaggio al signor Bonaventura.


La mostra sarà completata dalla pubblicazione Bonaventura. I casi e le fortune di un eroe gentile edita da Orecchio Acerbo, a cura di Hamelin, che vedrà la collaborazione di studiosi quali Antonio Faeti, Paola Pallottino, Goffredo Fofi, Andrea Maiello, Fabio Gadducci e Daniele Barbieri.

Tra le personalità che hanno contribuito all'omaggio a Tofano, diversi esponenti della cultura, del cinema e del teatro italiani come Pino Strabioli, Paolo Poli, Lina Wertmuller, Franca Valeri, Caterina D'Amico, Alessandro Tinterri, Marco Giusti e la preziosa collaborazione di Gilberto Tofano.

Sarà lo spettacolo Qui comincia la sventura del Signor Bonaventura con la regia di Marco Baliani, presentato in anteprima al Teatro Argentina di Roma il 28 ottobre in collaborazione con il Laboratorio Integrato Piero Gabrielli e coprodotto dalla Fondazione Cinema per Roma, a riportare sulla scena i disegni e le storie pubblicate per la prima volta sul Corriere dei Piccoli proprio il 28 ottobre 1917. Lo spettacolo sarà nella stagione del Teatro India dall’8 al 18 novembre 2007.


Orari Mostra
durante la festa:
lu-ve dalle ore 9.00 alle 20.00

dal 28 ottobre all' 11 novembre
lu-ve dalle 17.00 alle 21.00
sa-do dalle 11.00 alle 21.00

ingresso gratuito


 


 

Drammaturgia dello spazio: "Teatro e Luogo" in convegno a Firenze
Il 17 e 18 ottobre
di San Salvi Città Aperta

 

SAN SALVI CITTA’ APERTA
Via di San Salvi, 12 50135 Firenze

Convegno "Teatro e Luogo"
17 e 18 ottobre 2007 ore 10,30 - 13; 15,30 - 19,00

Temi:
- L'attualità di un'idea di "residenza nel luogo" piuttosto che nel teatro perché è più facile aprire un luogo alla "confusione di linguaggi", tipica dello spettacolo contemporaneo (è invece molto difficile e costoso progettare un teatro realmente multilinguaggio o ristrutturarlo in modo che lo divenga); nè vanno trascurati gli ulteriori benefici in termini di leggerezza organizzativa e di immediato e più diretto legame con il territorio, anche grazie a possibili, molteplici attività collaterali;
- la distinzione tra luogo in quanto soggetto drammaturgico (cioè portatore in sé di una drammaturgia grazie alle sue caratteristiche architettoniche, culturali ecc.) e luogo in quanto oggetto drammaturgico (cioè adattato, modificato per gli spettacoli che lo vivono);
- la distinzione tra luogo episodico (utilizzato per un unico evento) e luogo continuativo (ascoltato e quindi utilizzato per più eventi, sovente evidenziandone ogni volta aspetti nuovi e caratteristiche di non immediata percezione);
- sottolineare la possibilità di un teatro nel luogo di natura "professionale", al fine di superare la vecchia, obsoleta definizione che vuole i luoghi quali casa di produzione solo amatoriale o al più giovanile.in attesa di futura professionalizzazione;
- evidenziare la forte valenza aptica di un teatro nel luogo e in esso l'interrelazione quasi naturale tra produzione teatrale e formazione di un nuovo pubblico;
- la forte appartenenza degli spettatori a progetti nel luogo.

CALENDARIO

Mercoledì 17 ottobre ore 10.30


Saluto Autorità
Giovanni Antonucci: Il luogo e lo spettatore;
Enzo Scandurra: I luoghi come utopia di educazione;
Costanza Lanzara: Impenetrabilità e rappresentazioni dell’altro;


Francesco Ritondale: San Salvi: da luogo a teatro: la Trilogia della Vita e Ogni guerra - MATERIALI VIDEO;
eventuale breve dibattito
ore 15,30
Marco De Marinis: Drammaturgia dello spazio: Novecento e oltre;
Valeria Ottolenghi: Il piacere della contemporaneità e degli spazi condivisi;


Massimo Paganelli: L'esperienza di Armunia;
Fabrizio Crisafulli: Il luogo come testo;


eventuale breve dibattito



Giovedì 18 ottobre ore 10.30
Mimma Gallina: Sopralluoghi/luoghi e non luoghi del teatro;
Allievi Corso Organizzatori dello Spettacolo e delle Attività Culturali della Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano Non luoghi e spazi recuperati al teatro: appunti per una ricerca;


Andrea Rebaglio - Fondazione Cariplo Progetto ETRE - Esperienze teatrali di residenza;
Piero degli Innocenti Il luogo costruito: modelli spaziali dell’architettura teatrale;


Stefano Mazzoni Oltre le pietre: la scena dei Cesari;


eventuale breve dibattito
ore 15,30
Fabio Pierangeli: La scrittura scenica nel "luogo" teatrale: intorno a Pavese;


Maddalena Borasio: Codice Aperto video-danza nel luogo di Enzo Procopio e Maddalena Borasio;
Renzo Guardenti: Teatri e spazi urbani: l’esempio di Parigi tra sette e ottocento


Raimondo Guarino: Azioni nella città. Esperienze del luogo e tradizioni performative;

presentazione del libro "Un paese ci vuole - Ripartire dai luoghi" di Enzo Scandurra

 


 

I teatri delle diversità: VIII convegno di studi
A Cartoceto il 27 e 28 ottobre
di Teatro Aenigma

 

I TEATRI DELLE DIVERSITÀ
Ottavo Convegno Internazionale di Studi


CARTOCETO (Pesaro e Urbino) 27-28 Ottobre 2007





Organizzato dall’Associazione Culturale NUOVE CATARSI


Editrice della rivista “TEATRI DELLE DIVERSITÀ”
in collaborazione con il TEATRO AENIGMA

Programma

SABATO 27 OTTOBRE

Convento di Santa Maria del Soccorso (Cartoceto)
ore 10.00 - Saluti istituzionali e apertura ufficiale dei lavori

ore 10.30 IL LABORATORIO DELLE IDEE


per il Comitato Scientifico della Rivista Europea“TEATRI DELLE DIVERSITÀ”
interviene Gianfranco De Bosio (Presidente della Commissione sull’Opera e la Poesia dell’UNESCO)

ore 12.00 Teatro, Disagio psichico, Antropologia trasformazionale


incontro con Sergio Piro


(direttore della Fondazione Centro Ricerche sulla Psichiatria e le Scienze umane di Napoli)

ore 13.00 pausa pranzo


Villa del Balì – Museo delle Scienze (Saltara)
ore 15.15 Gli sviluppi del rapporto tra Teatro e Scuola in Italia


incontro con Loredana Perissinotto (Presidente di AGITA)

ore 16.15 – 18.15 GERMOGLI


di Teatro ed Handicap
Marina Mazzolani e Corrado Gambi – Compagnia “Luna crescente” di Imola
di Teatro e Disagio Psichico
Massimo Ranieri – Compagnia “Teatro Arte in Movimento” di Roma *
Tania Kitsu – direttrice del Centro Culturale “Camera Lucida” di Thessaloniki
Giuseppe Errico (Gruppo Arcipelago di Napoli)
di Teatro e Carcere
Proiezione del documentario “Il riscatto di Pulcinella” di Maria Celeste Taliani dall’esperienza condotta dal Teatro Aenigma con la Casa Circondariale di Villa Fastiggi e l’Istituto Comprensivo “Galilei” di Pesaro


Convento di Santa Maria del Soccorso (Cartoceto)
ore 18.30 - Visioni Contemporanee della Marionetta **
studio scenico a cura della Compagnia Stutifera Navis di Alessandra Amicarelli e Julie Linquette

ore 19.00 pausa cena



Teatro del Trionfo (Cartoceto)
ore 21.30 LE VISIONI DEL CAMBIAMENTO (in collaborazione con il Teatro Aenigma)
L’isola sconosciuta ** – dimostrazione di lavoro a conclusione del seminario-laboratorio condotto da Piero Ristagno, Monica Felloni, Giuseppe Calcagno del “Teatro Scalo Dittaino” con la partecipazione di operatori e allievi dei Centri di Sollievo nel settore della Salute Mentale ( * è possibile iscriversi al laboratorio – informazioni sul sito www.teatroaenigma.it)

ore 22.15 pausa

ore 22.30 Dialogo con gli autori della performance estendendo la riflessione allo spettacolo Antigone presentato al Teatro Sanzio di Urbino nella serata di mercoledì 24 ottobre 2007 (Compagnia “Bagnati di Luna - Associazione Italiana Persone Down”, regia di Piero Ristagno)










DOMENICA 28 OTTOBRE

Convento di Santa Maria del Soccorso (Cartoceto)

ore 10.00 BUONE PRATICHE DI TEATRO SOCIALE : LA TOSCANA

Intervengono:

Gianfranco Pedullà – direttore del “Teatro Popolare d’Arte” di Firenze, autore del volume ”Alla Periferia del cielo” – percorsi teatrali e umani nel carcere di Arezzo (1996-2004)
Annet Henneman – fondatrice di “Teatro di Nascosto” e promotrice de “la Charta di Volterra” per nuove direttive europee a favore dei diritti per i rifugiati
Rossana Sebastiani – dirigente del servizio politiche sociali della Provincia di Lucca, istituzione promotrice del progetto “Impossibile…arte possibile”
Alessandro Pecini – regista, autore di esperienze significative nel campo del Disagio Psichico a Livorno e a Pistoia dove ha recentemente allestito “L’eccezione e la regola” di Bertolt Brecht
Franco Scarpa – direttore dell’ Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino sede di recenti sperimentazioni teatrali anche in collaborazione con Giuliano Scabia

I lavori del Convegno sono coordinati da
Emilio Pozzi, docente di teatro e spettacolo -Facoltà di Sociologia
Vito Minoia, docente di Teatro di Animazione, Facoltà di Scienze della Formazione
Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”

Per informazioni e iscrizioni al Convegno


Associazione Culturale “Nuove Catarsi” – Via San Nicola, 7 - 61030 Cartoceto (PU)


Tel./Fax 0721 893035 – email: nuove.catarsi@libero.it

* Nell’ambito del programma del Festival “Le Visioni del Cambiamento”, a cura del Teatro Aenigma, è possibile iscriversi ai laboratori:
- “L’isola sconosciuta” diretto da Piero Ristagno (insieme a Monica Felloni e Giuseppe Calcagno) nelle giornate del 25-26-27 ottobre 2007 -
- “L’attore, il suo corpo, la sua voce nel farsi del teatro” diretto da Massimo Ranieri nelle giornate dell’ 1-2-3-4 novembre 2007 -
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- Per informazioni dettagliate e iscrizione ai laboratori -
tel./fax 0721 893035, aenigma@uniurb.it, www.teatroaenigma.it

** Per gli spettacoli “Visioni contemporanee della Marionetta” e “L’isola sconosciuta” l’ingresso è limitato (obbligo di prenotazione)



L’evento
Sabato 27 e domenica 28 ottobre prossimi, presso il Comune di Cartoceto (Pesaro e Urbino), si terrà l’ Ottavo Convegno Internazionale di Studi “I TEATRI DELLE DIVERSITÀ” promosso dall’Associazione “Nuove Catarsi”- Editrice della rivista “Catarsi-Teatri delle diversità’” diretta da Emilo Pozzi e Vito Minoia, che dal 1996 ha inaugurato, a livello europeo, una ricerca scientifica sulle esperienze di espressione creativa con finalità artistiche e/o socio-terapeutiche nei territori dell’handicap, disagio mentale, carcere, tossicodipendenze ed in altri settori del sociale.
L’edizione 2007 costituisce una tappa di avvicinamento a quella del 2008, quando saranno ricordati i trent’anni dalla istituzione della Legge Basaglia per l’abolizione dei manicomi in Italia.
Dopo il tradizionale incontro d’aperura del sabato mattina con alcuni dei componenti del Comitato Scientifico della pubblicazione (Andrea Canevaro, Sisto Dalla Palma, Piergiorgio Giacché, Claudio Meldolesi, Piero Ricci, Vezio Ruggieri, Guido Sala, John Schranz, Daniele Seragnoli, Luigi Squarzina, Gianni Tibaldi) il “Laboratorio delle idee” prevede gli interventi di Gianfranco De Bosio (Presidente della Commissione Opera e Poesia dell’UNESCO) e Sergio Piro (direttore della Fondazione Centro Ricerche sulla Psichiatria e le Scienze umane di Napoli) sul rapporto tra Teatro e Follia nella cultura teatrale ed in quella psichiatrica.


La sessione pomeridiana sarà invece aperta dall’intervento di Loredana Perissinotto (Presidente dell’ AGITA - Associazione nazionale per la promozione e la ricerca della cultura teatrale nella Scuola e nel Sociale) su “Gli sviluppi del rapporto tra Teatro e Scuola in Italia”. A seguire alcuni interventi su significative esperienze negli ambiti del Teatro ed Handicap, Teatro e Disagio Psichico, Teatro e Carcere, dall’Italia e dall’estero. In programma la partecipazione di Marina Mazzolani e Corrado Gambi (Compagnia “Luna crescente” di Imola), Giuseppe Errico (Gruppo Arcipelago di Napoli), Massimo Ranieri (Compagnia “Teatro Arte in Movimento” di Roma), Tania Kitsu (direttrice del Centro Culturale “Camera Lucida” di Thessaloniki-Grecia), Vito Minoia insieme a Maria Celeste Taliani (autrice del video “Il riscatto di Pulcinella” sull’esperienza a cura del Teatro Aenigma che ha messo in relazione a Pesaro i detenuti della Casa Circondariale di Villa Fastiggi con i ragazzi della Scuola Media “Galilei”).


Nella mattinata di domenica 28 ottobre si proseguirà con l’analisi di buone pratiche di teatro sociale, analizzando una Regione particolarmente ricca di esperienze significative, La Toscana. Interverranno: Gianfranco Pedullà (direttore del “Teatro Popolare d’Arte” di Firenze, autore del volume ”Alla Periferia del cielo” – percorsi teatrali e umani nel carcere di Arezzo dal 1996 al 2004), Annet Henneman (fondatrice di “Teatro di Nascosto” e promotrice de “la Charta di Volterra” per nuove direttive europee a favore dei diritti per i rifugiati) Rossana Sebastiani (dirigente del servizio politiche sociali della Provincia di Lucca, istituzione promotrice del progetto “Impossibile…arte possibile”), Alessandro Pecini (regista, autore di esperienze significative nel campo del Disagio Psichico a Livorno e a Pistoia dove ha recentemente allestito “L’eccezione e la regola” di Bertolt Brecht), Franco Scarpa – direttore dell’ Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino sede di recenti sperimentazioni teatrali anche in collaborazione con Giuliano Scabia).
Si conferma, inoltre, la collaborazione con la seconda edizione del progetto “Le visioni del cambiamento” organizzato dall’Associazione Culturale Aenigma. Il programma del Festival, che coinvolge la il territorio della Provincia di Pesaro e Urbino, dal 24 ottobre e fino al 4 novembre 2007, è consultabile sul sito www.teatroaenigma.it


I due eventi performativi proposti ai partecipanti al Convegno sono “Visioni Contemporanee della Marionetta” della Compagnia Stultifera Navis (Alessandra Amicarelli, Julie Linquette), “L’isola sconosciuta”, dimostrazione di lavoro del laboratorio condotto dalla Compagnia Teatro Scalo Dittaino (Piero Ristagno, Monica Felloni, Giuseppe Calcagno).

Per chi non lo sapesse…
Cartoceto dista: 15 km da Fano, 28 km da Pesaro, 40 km da Urbino. La via più breve per raggiungere la sede del Convegno è l’autostrada A14, uscita Fano (12 km). Immettendosi sulla superstrada per Roma uscire a “Lucrezia-Cartoceto”. Per chi arriva da Roma, invece, l’uscita è a “Calcinelli” e poi proseguire per “Saltara-Cartoceto.”


Cartoceto non è ben collegata con i mezzi pubblici. Occorre arrivare a Fano in treno (Ferrovie dello Stato - linea adriatica Ancona-Bologna) e poi proseguire in bus (linee AMI o BUCCI).


Informazioni dettagliate da e per tutte le sedi ferroviarie possono essere cercate sul sito delle ferrovie dello stato: www.trenitalia.com

BUS da Fano a Cartoceto [non in servizio domenica 28] – Linee AMI
FANO (stazione autocorriere) 7.30 11.30 12.40 16.30 18.30 19.00*


CARTOCETO 8.05 12.05 13.15 17.05 19.10 19.45


* Non linea diretta ma Fano-Calcinelli ore 19.00 cambio ore 19.30 con Calcinelli-Cartoceto.
CARTOCETO 6.50 8.10 12.05 14.50


FANO 7.25 8.50 12.40 15.25


Da Pesaro a Fano la linea Ami effettua il servizio ogni 30 minuti. il sabato e ogni ora la domenica.

Per informazioni e iscrizioni:


Associazione Culturale “Nuove Catarsi” – Via San Nicola, 7 - 61030 Cartoceto (PU)


Tel./fax 0721 893035 – e.mail: nuove.catarsi@libero.it
E’ possibile scaricare il modulo per l’iscrizione al Convegno all’indirizzo www.teatridellediversita.it

Ospitalità


A prezzi convenzionati è possibile pernottare o scegliere opzioni di B&B, in convento, agriturismo e alberghi della zona. Rivolgersi a: Cooperativa Conte Camillo, Via dell’Artigianato 2 – 61030 Lucrezia (PU)


Tel. 0721.877272 – fax 0721.876671 – e.mail: info@contecamillo.it


Per aderire……
(fateci pervenire, via fax o posta elettronica, il sottostante modulo compilato in ogni sua parte)

Con il presente modulo, il sottoscritto _________________________ nato a ______________ __________ il ___________ residente a __________________________ cap __________ via ________________________________________________________________________ tel:___________________________________ e-mail:_______________________________ comunica la propria adesione al Settimo Convegno Internazionale di Studi “I teatri delle diversità”, organizzato dall’associazione Nuove Catarsi, che si terrà a Cartoceto (PU) nei giorni 27 e 28 ottobre 2007.
Iscrizione al Convegno (27 – 28 ottobre 2007)
Detta iscrizione, costa € 70,00 (Settanta Euro) e dà diritto all’attestato di partecipazione, al volume “Teatro e disagio”-primo censimento nazionale di gruppi e compagnie che svolgono attività con soggetti svantaggiati-disagiati, (in alternativa al volume “Per uscire dall’invisibile”- esperienze di teatro e carcere), oppure all’abbonamento annuale alla rivista “Teatri delle diversità”, al materiale relativo ai lavori, all’ingresso omaggio per gli spettacoli Visioni contemporanee della Marionetta e L’isola sconosciuta.

La somma sopra indicata, potrà essere inviata tramite vaglia postale, indirizzato ad Associazione culturale “NUOVE CATARSI”, via S. Nicola, 7, 61030 – Cartoceto (PU)”, con indicazione della causale e dei propri dati.

Data ___________
Sottoscrizione

_____________________

I propri dati saranno utilizzati esclusivamente all’interno dell’associazione Nuove Catarsi. Non saranno divulgati all’infuori dell’ambito sopra accennato; Il sottoscritto potrà in qualsiasi momento chiederne, ai sensi della legge 675/96, la modificazione o la cancellazione. Conformemente a detta legge, esprime il proprio consenso.

Esprimo il mio consenso

______________________

Per ulteriori informazioni,
telefono e fax 0721/893035
posta elettronica nuove.catarsi@libero.it

 


 

Il ritratto di John Cage firmato Roberto Masotti
A Milano dall'11 ottobre
di Fondazione Mudima

 

Giovedì 11 ottobre 2007 alle ore 18.00

JOHN CAGE, UN RITRATTO
Fotografie, opere e videoinstallazioni di Roberto Masotti

La mostra “John Cage, un ritratto” di Roberto Masotti riformula e ripercorre un percorso di centinaia di immagini che, partito dal concerto-conferenza di Cage al Teatro Lirico nel 1977, giunge agli ultimi scatti del 1992, di poco precedenti la scomparsa dell’artista. Un libro concepito per l’occasione e pubblicato dalla Fondazione Mudima, raccoglie le fotografie di Masotti e i testi degli amici e degli studiosi che lo hanno conosciuto.
Roberto Masotti, grazie alla collaborazione di Panasonic che ha fornito la strumentazione tecnica, rende inoltre omaggio alla figura dell’amico John Cage con la videoinstallazione “wallsCAGEwalls” che si avvale anche del sonoro di Alvin Curran “Erat verbum John”, di due opere fotografiche e del multiplo “Rejoice” concepito con John Cage stesso. Completano la mostra il video di Roberto Masotti “Looking for Cage” e l’installazione di Alvin Curran “Gardening with John”.

Giovedi 25 ottobre 2007 alle ore 18.00

INCONTRO SU JOHN CAGE
con la partecipazione di Laura Kuhn, Daniel Charles, Walter Marchetti, Michele Porzio, Frederic Rzewski
coordina Gino Di Maggio

Alle ore 21.00 Ciro Longobardi esegue al pianoforte la Sonata n. 2 Concord di Charles Ives (1874-1954)
Nell’ambito del “16 Festival di Milano Musica”, la figura di John Cage, il più innovativo e dissacrante musicista della storia della musica del XX Secolo, è oggetto di un incontro che vede riuniti gli esperti, i musicologi, i musicisti e gli amici che hanno seguito la sua attivitá e lo hanno conosciuto di persona: Laura Kuhn, direttrice dello statunitense Cage Trust, Daniel Charles, uno dei massimi studiosi di John Cage, Michele Porzio, autore del saggio su Cage intitolato “La metafisica del silenzio”, Walter Marchetti, uno dei piu brillanti compositori italiani e amico di John Cage fin dal 1958 e Frederic Rzewski, pianista ed esecutore della musica di Cage.

FONDAZIONE MUDIMA
www.mudima.net
info@mudima.net
via Tadino 26, 20124 Milano
tel. +39 02.29.40.96.33 fax +39 02.29.40.14.55

 


 

BP04: Teatro: emergenze e opportunità il 23 ottobre a Prato
In collaborazione con ateatro
di Officina Giovani/Cantieri Culturali, Prato

 

Martedì 23 Ottobre 2007
Prato, Officina Giovani/ Cantieri Culturali
In collaborazione con www.ateatro.it

TEATRO
EMERGENZE E OPPORTUNITA’

Dal 2004 www.ateatro.it organizza "le buone pratiche del teatro", un incontro aperto, dove si discutono i principali problemi del settore secondo associando all'analisi e alla denuncia un atteggiamento costruttivo: la scoperta, valorizzazione e diffusione di esperienze positive, la condivisione di idee innovative, la messa a fuoco di proposte.
La prossima edizione di "Buone pratiche" avrà luogo a Milano il 1/12 p.v. sul tema
EMERGENZE : i giovani, l'accesso alle professioni dello spettacolo, il ricambio generazionale, il mercato del lavoro
Officina Giovani e www.ateatro.it propongono un incontro che affronti i problemi con particolare riferimento alla situazione toscana e possa contribuire all'incontro nazionale con ricerche, discussioni e analisi preliminari.

Ore 16.00
• Saluti delle autorità. •

Ore 16.30
• Introduzione di un referente di www.ateatro.it. •

• La politica della Regione Toscana per i giovani. •
Intervento di un dirigente della Regione Toscana.

• La politica del Teatro Metastasio, Stabile Pubblico Regionale. •
Intervento della Direzione.

• La condizione giovanile nel campo dello spettacolo: ccnl, precarietà, previdenza e disoccupazione. •
Relazione di un sindacalista.

Ore 17.30
• Opportunità: bandi e concorsi, formazione e buone pratiche •
Interventi di referenti di progetti.

• Esperienze e testimonianze •
Interventi di giovani organizzatori teatrali e compagnie.

Ore 19,00
• Conclusioni, dibattito •

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21.30 On stage Teatro
Bio Logico, spettacolo della Compagnia Jean Marie Volontè.


 



Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
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