ateatro

numero 2 - 18 febbraio 2001
a cura di Oliviero Ponte di Pino (per ora)
 

Il numero 2 raccoglie diversi contributi che mi sono stati inviati in queste settimane.
Riflettono ovviamente le convinzioni e posizioni degli autori, ma mi sono sembrati per diversi aspetti interessanti, soprattutto come stimolo alla discussione.

 

INDICE

Il teatro è ecologico? Scena ambiente antinatura
di Massimo Zanasi (Arka Teatro)

Come si salvano le balene?
Moby Dick in liquidazione volontaria
di Isabella Scaramuzzi

Metafore, metonimie e sineddochi
Un mail di Stefano Bartezzaghi sulla Lolita ronconiana
(cfr.
Lolita videogame di Oliviero Ponte di Pino su "ateatro 1").

Im Museum der Moderne
Peter Steins monumentaler „Faust" in Berlin, endlich mit Bruno Ganz
von Thomas Irmer (in tedesco)

Il teatrino della animazioni flash

Andrew Wyley agente della Royal Shakespeare Company


Imperdibile: Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999.

Chi non legge questo libro è un imbecille



Il teatro è ecologico?
Scena ambiente antinatura
di Massimo Zanasi (Arka Teatro)

Gli spazi naturali, sia quelli selvaggi che quelli degli ambienti <arredati> nei borghi e nelle città, svolgono una funzione essenziale nella comunicazione artistica, sia come linguaggio che come sistema di riferimenti topologici e simbolici. Nella natura ci muoviamo e agiamo quotidianamente ed artisticamente: sia in quella terra dove <perdersi> a la Thoreau, nelle campagne, nei mari e nei monti, che in quella tecnologica dove <ritrovarsi>, negli spazi urbani, nei giardini, nelle piazze, nei viali, lungo i fiumi che attraversano le città. Dallo spazio che ci circonda, o in cui ambientiamo le nostre ricerche, dipendono pure i messaggi che ci giungono dalle varie parti del mondo.
C'è infatti omologia tra i tipi di comportamenti, che possono essere considerati come testi della cultura scenica, e la continua progettazione e rimanipolazione della Terra, del mondo. Dal momento che i testi di una cultura sono riconducibili ad un modello astratto che assume spesso figure naturali, è possibile anche utilizzare i luoghi o le ambientazioni terrestri come metalinguaggio per la ricerca e la sperimentazione nella cultura.
Le interpretazioni semantiche, le chiavi di lettura più semplici sono quelle che procedono per opposizioni: interno/esterno, dentro/fuori, vicino/lontano, corpo/spazio, natura/cultura, etc. Ebbene, le culture teatrali contemporanee e di avanguardia tendono a far scorrere il punto di vista lungo i confini di questi opposti o addirittura a capovolgere il senso dei modelli più o meno tradizionali.
Queste ricerche, naturalmente, si complicano a seconda dei contesti storico-culturali e definiscono meglio i loro nuovi contorni nella azione  scenica, dai rituali mutuati dalla festa alle forme più raffinate del teatro colto, dal cosiddetto teatro di poesia sino alle attuali forme dello spettacolo multimediale e dell'installazione.
Il teatro, che si fondava pure su una precisa codificazione degli spazi <naturali>, dà oggi forte rilevanza alle frontiere di tali spazi, attraverso una permeabilità tra tutti gli elementi della scena, fino alla rinuncia alle stesse architetture teatrali per una ricodificazione dei linguaggi in altri ambienti, naturali e simbolici.
Ma lo spazio teatrale è sempre spazio significativo, cioè spazio che produce senso anche quando si scaglia contro di esso. Il teatro e' il regno delle forme simboliche anche quando va <contro natura>. In teatro la natura e' spazio da scoprire o spazio vissuto, invenzione e creatività. E' vero che anche la terra e' sempre in qualche modo connotata, ma lo spazio scenico e' come una seconda pelle, che viene sovrapposta al luogo naturale per caricarlo di valenze estetiche o per conquistare al cosmo della cultura parti crescenti di quel territorio non massificato, talvolta inesplorato, che costituisce la cosiddetta wilderness nelle dimensioni dell'<oltre>.
 Di fatto, quando l'attore o il performer entrano in contatto con la natura in un'area non tradizionalmente predisposta, il luogo fisico dove opera diventa spazio scenico codificato. Questo spazio scenico naturale trasforma a sua volta tutte le persone che hanno superato i confini del posto riservato al pubblico e in generale del mondo che si trova fuori di tale spazio e sono entrati nel suo regno. Forse per questo rimaniamo tanto affascinati dai templi, dai teatri e dai ruderi della storia sparsi per la Terra, dalla campagna mediterranea alle foreste dello Yucatan.
Certo, quando il teatro (la scena) entra nella natura tende a impossessarsi di questo spazio <magico>, può manipolarlo, plasmarlo, ma ne risulta a sua volta condizionato. Mentre gli spazi interni, attrezzati all'uopo, sono prevalentemente neutri, stagnanti, come in attesa d'una azione scenica, gli spazi terrestri naturali (e spesso magici) sono costituiti proprio dal loro ininterrotto divenire ed acquisiscono la stessa flessibilità della parola poetica, condividendone gli stessi rischi.
 In questo spazio contaminato (reso <luogo deputato>), l'attore/attante, il regista, il performer, l'artifex che dir si voglia, articola e in-scrive (o riscrive) il suo discorso scenico sullo ambiguo confine che separa i segni della natura e le tracce della storia. Qui il percorso si fa impervio e si affaccia sul baratro che ci separa pure gli uni dagli altri...
Ci troviamo ora ben oltre la dimensione del <paesaggio>, dello scenario naturale da utilizzare per rendere appetibile una <rappresentazione>.
Per intenderci, facciamo un passo indietro. L'arte si sviluppa dal momento in cui gli esseri umani si separano dalla loro comunità. Nel corso della preistoria non ci e' arte. Cio' che si e' soliti isolare con questo termine e' la materializzazione di una facoltà conoscitiva, attraverso la quale l'uomo rappresenta il mondo da cui non vive ancora separato, autonomizzato. Si tratta dunque di un elemento della conoscenza non astratta, cioe' non basata unicamente su quella modalità della astrazione che si avrà in seguito; una conoscenza che, come dice Leroi-Gourhan
(1), deriva da un pensiero multidirezionale che si irradia ed instaura un dialogo con quanto lo circonda, giacche' non si e' ancora verificata la frattura. Cosi' questa arte, per definirla con termini attuali, e' simultaneamente linguaggio, scienza, magia, rito, teatro, etc., e al tempo stesso parte di un tutto da cui riceve e a cui conferisce significato.
Una volta prodottasi la frattura, la arte e il teatro diventeranno un mezzo attraverso il quale far rivivere la antica comunità, la <totalità perduta>; e, dal momento che il legame immediato non opera più, si porranno come mediazione che cerca di ristabilire la comunicazione, il <fenomeno radiante>
(2) .
Da qui nasce pure la figura dello sciamano, del mago esploratore e regista dello oltre, esperto di tecniche esoteriche che con i suoi <drammi esistenziali> ed esorcistici cerca di proteggere la sua etnia da tutte le forze dissolutrici e di riscattarle da una terribile confusione con gli elementi più incontrollabili della natura stessa
(3) .
Con il teatro greco, l'opera, il cinema, con tutti i tentativi di realizzare l'arte totale in epoca contemporanea (lo si può constatare anche in alcuni progetti di land-art ed in certe performances multimediali), questa nostalgia, questa ricerca della comunità perduta si afferma, anche se per gli operatori la cosa non può più manifestarsi in tali termini.
 E' interessante notare, a proposito di mancanza, di assenza (o di fine), che Mircea Eliade, nel 1963, affermava proprio che la arte contemporanea delle origini (tra 800 e 900) nella sua fase di distruzione-creazione del mondo precedente - e pur saccheggiando le giovani forze dei popoli cosiddetti primitivi, amerindi o africani - coltivava un forte interesse per le origini, rivalorizzando in fondo il mito della fine del mondo in epoca contemporanea
(4) .
In pratica si potrebbe constatare che gli attori-attanti-autori, gli scrittori-scompositori della scena, i demiurghi del nulla, lungi dallo essere i nevrotici di cui talora si parla, hanno invece capito che un vero ricominciamento può avere luogo solo dopo una vera fine; e i primissimi avanguardisti, come i cubofuturisti e i dadaisti, si sono adoperati veramente per distruggere il loro mondo nel tentativo di ri-creare un universo artistico nel quale l'uomo potesse nello stesso tempo esistere, contemplare e sognare...
In realtà, quello che si e' venuto a creare in occidente (e non solo) dopo gli anni 30 e' un mondo in cui l'uomo ha sempre meno importanza e significato - e non certo dal punto di vista umanistico - proprio perche' ha subito una profonda e forse definitiva spoliazione ad opera delle esteriorizzazioni e rappresentazioni dello io causate dalla psicanalisi volgare.
In questa fase il soggetto stesso diventa arte (di mercato) e la arte diventa il sistema di comunicazione internazionale per eccellenza, con i suoi crediti e le sue fughe in avanti (e indietro), e le sue fabbriche di arte: la moda, la pubblicità, la critica come promotion e censura, il nome.
Non a caso, lo stesso Leroi-Gourhan segnalava già negli anni 60
(5) la tendenza tutt'altro che innocente a far scomparire la separazione tra attori e spettatori perche' lo spettacolo deve essere allestito con la complicità di tutti gli esseri umani, messi in movimento da alcuni orchestratori della illusione che hanno proprio il compito di mediare, sono di fatto i mediatori tra i linguaggi della arte e le esigenze del mercato: quelli che oggi si chiamano, erroneamente, operatori culturali.
Percio' si pone una alternativa alla interpretazione che il primo Ernesto de Martino - coniugando il suo scetticismo storicistico con il linguaggio analitico-esistenziale di Heidegger -, diede delle tecniche sciamaniche atte a rafforzare <lo esserci nel mondo> di fronte al rischio di non-esserci
(6) : nelle società di oggi molti artisti (o almeno quelli che potrebbero essere considerati gli attuali sciamani della Terra), poeti e teatranti in particolare, scelgono le amodalità di un <non-esserci> di fronte al rischio di esserci come presenza alienata dalla spettacolarizzazione diffusa, dalle stesse forme della comunicazione massmediatica.


NOTE BIBLIOGRAFICHE

1. Cfr. Il gesto e la parola, di Leroi-Gourhan, Torino, Einaudi, 1977.
2. v. Il disvelamento, di Jacques Camatte, Milano, La Pietra, 1978.
3. v. Il signore del limite, di Placido Cherchi, Napoli, Liguori, 1994.
4. v. Mito e realtà, di Mircea Eliade, Milano, Rusconi, 1974.
5. Op. cit.: Il testo, nella prima edizione francese, e' del 1964.
6. v. Il mondo magico, di Ernesto De Martino, Torino, Boringhieri, 1973.


Come si salvano le balene?
Moby Dick in liquidazione volontaria
di Isabella Scaramuzzi


La cooperativa Moby Dick di Mira (VE) (Stagioni dei Teatri della Riviera, Festival delle Ville, produzioni come Il Milione  di Paolini,  laboratori teatrali, Ville Aperte)  è stata posta in liquidazione volontaria ("Gazzettino" e "Nuova Venezia", 10 febbraio 2001).


Non so quanti e quali siano i creditori di Moby Dick. So che io sono tra i suoi debitori.
Si tratta di uno di quei debiti immateriali che 'non danno da mangiare' e forse fanno bene solo all'anima.
Come frequentatrice del teatro di Mira, come spettatrice degli eventi in villa, come studente dei laboratori so di essere stata 'esposta alla cultura', che Moby Dick ha fatto passare sulla Riviera, ha ospitato e prodotto.
Se, come dice una stimata Banca Italiana, investire in cultura arricchisce, l'investimento che oggi Moby Dick rischia di pagare insieme ai suoi creditori, cioè a persone che hanno, a loro volta, lavorato per la cultura, ha arricchito anche me. Sono sicura che nel produrre una tomaia di calzatura si impieghino creatività e professionalità: ma di queste imprese la Riviera è ricchissima, mentre nella 'manifattura culturale' rischiamo di perdere un patrimonio che non è solo una 'impresa in difficoltà'. Come cittadina del Brenta vorrei mantenermi la possibilità di consumare cultura 'di rango': so di non essere sola e propongo agli altri un ragionamento per il futuro.

1. Il capitale di Moby Dick (non suoni ironico) è rappresentato, come e più che in qualunque altra impresa, dalle persone che ci lavorano, dal loro saper fare e da una passione che raramente si trova in produzioni meno creative, comunicative, esperienziali. Ma è rappresentato anche dal loro pubblico, dall'educazione dello spettatore, dalla esposizione alle arti dal vivo: dalle scuole alla scena, dai laboratori alle prove aperte. Attività diffuse, irradiate, molecolari che coinvolgono diverse categorie di abitanti e che a questi ultimi verrebbero tolte, lasciandone insoddisfatto il 'bisogno'. Questo capitale, di umani che lavorano e umani che fruiscono, va considerato con grande attenzione: la stessa dei debiti e dei crediti in moneta.

2. La professionalità della filiera artistica (non solo gli attori, non solo quelli famosi) va valutata separatamente da quella imprenditoriale e manageriale, in senso stretto e tecnico. Quale integrazione, quale distinzione deve esserci è questione che va ben oltre il nostro specifico: basta seguire la polemica Messinis-Fenice. Nei libri di economia della cultura ci sono due casi noti di 'fallimento economico' e di enorme riconoscimento artistico, Salisburgo e Spoleto. Stiamo parlando di festival pubblici e internazionali i cui conti finanziari sono o sono stati disastrosi, sanati e salvati da iniezioni impressionanti di pubblico denaro, alla ricerca di formule gestionali mai completamente soddisfacenti e sempre ampiamente 'garantite'.

3. Il contesto di produzione e distribuzione culturale, nel ricco Nordest, presenta una rosa di soggetti, pubblici, privati o misti, tale da metterci in grado di compiere responsabili scelte di investimento in Cultura, di garantirci l'efficacia della spesa affrontata? Ovvero, morta una balena possiamo sceglierne un'altra, brava sana e virtuosa, basta mettersi a guardarle passare? Si sa che la balena è un'animale in via di estinzione, raro, preso di mira da cacciatori senza scrupoli, con le sue abitudini di vita e riproduzione, ingombrante e lento. Fuor di metafora, è semplicemente questione di sostituire una impresa sana ad una in difficoltà o c'è qualcosa di più complesso tra produzione e servizio culturale, in un determinato territorio, e capacità di gestire i bilanci? Tra esposizione alle arti dal vivo, rapporti con la comunità locale, capacità di 'stare sul mercato'?

4. Qual è la 'disponibilità a pagare' per avere una offerta culturale locale (disponibile in loco e/o prodotta in loco) da parte dei cittadini del Brenta o dell'area metropolitana veneziana? Diamo per scontato che questo 'pagamento' avvenga attraverso la mediazione dei pubblici soggetti e dei denari che questi investono per le stagioni teatrali, i laboratori, i seminari, i festival? Siamo sicuri che la domanda si incontri spontaneamente con l'offerta e venga indicata solo dagli abbonamenti o dai biglietti venduti cioè dalle 'entrate'? E i Comuni o la Provincia, o il Ministero, che gestiscono in parte la 'disponibilità a pagare' dei cittadini (entrate pubbliche trasferite e ritrasferite ma comunque originate dalla collettività), con quali criteri costruiscono o ricostruiscono la fiducia, propria e del pubblico, nei confronti di un 'imprenditore culturale' o di un altro? La fiducia è un bene rarissimo che richiede tempo, che fa a pugni col fast-food culturale.

Non ho risposte coerenti e esaustive a queste domande, però sono interessata a cercarle, come consumatrice di culura, come cittadina non distratta del Brenta. Cosa ne pensano gli altri?
Chi deve fare questa riflessione, che sembra obbligata per 'quelli di Moby Dick', ma che secondo me è un impegno civile del territorio brentano e provinciale?
Innanzitutto chi con Moby Dick ha lavorato nella cultura: i Comuni, la Provincia, il Ministero, gli artisti, le compagnie, le scuole, le associazioni, i critici e così via. Loro per primi hanno quello che io definisco come un debito e, insieme, un solido interesse ad arricchirsi di cultura.
Devono riflettere sul capitale da salvare, sulle professionalità, sulla ricchezza del territorio (lungamente esposto ai benefici della diffusione culturale), sui bisogni futuri (che si alimentano in modo cumulativo), sulle alternative gestionali, sull'assenza di risposte a tutto questo o, viceversa, sulle soluzioni 'pret-a-importer', sul loro effetto nel tempo, passata l'emergenza.

Sappiamo che le riflessioni dei pubblici soggetti sono lentissime, difficoltose, contrastate: un 'pensiero troppo lungo' rischia di generare vuoto e perdita, conflitti incancreniti, sfinimento. Le colpe degli amministratori ricadono sugli amministrati.
Ad accelerare questo momento innovativo (non tutto il male viene per nuocere) possono essere 'quelli che restano' di Moby Dick, i quali si devono contare, come si dice, è valutare se le capacità di cui sono portatori (sani) sono un cuore bastante a rimettere in circolo virtuoso la produzione
e la distribuzione culturale brentana.
Un capitale di saperi molto concentrato può generare valore dentro una nuova squadra: o si attraggono forze o ci si fa attrarre. Non è detto che l'eredità di Moby Dick non possa, con un produttore culturale di Orione, garantire servizi di qualità sul Brenta. Dico Orione per escludere ogni e possibile riferimento al reale e anche per indicare qualcuno o qualcosa di futuribile, forse ancora da inventare.
Qui si intersecano il secondo e il terzo punto del mio ragionamento. Qual è la formula, nessuna delle quali magica, necessaria e/o adeguata per garantire il livello di servizi culturali cui la Riviera è 'assuefatta' per esposizione? E' privata, è pubblica, è mista? Deve fare profitto? Esiste già nel panorama nordestino, italiano, internazionale o dobbiamo progettarla 'intorno a noi''?
In quale 'incubatore' va messa la nuova creatura, chi deve accudire la sua fase larvale e il suo passaggio all'operatività piena, chi deve investire in questo, quanto e per quanto? Con quale garanzia e quali arricchimenti?
Ci sono sponsor nell'area o nel Nordest interessati? Finanziatori di tipo mecenatesco, enti pubblici disponibili, star generose, o business men and women che vedono possibili profitti nel mercato della cultura? C'è qualcuno per ognuno di questi tipi, interessato a produzioni diverse: le visite, gli eventi, gli spettacoli, i laboratori, i cantieri teatrali, l'educazione e la formazione, la ricerca, l'animazione e l'intrattenimento?
Qualche altra attività culturale che manca? Mostre, gallerie, musei, edizioni artistiche, musicali, multimediali, spazi di lavoro artistico?
Infine. Gli attuali utenti possono e vogliono partecipare, possono essere e in che misura azionisti culturali, diretti o mediati dalle proprie Amministrazioni? E di chi si fidano, sulla base della reputazione culturale e/o manageriale? E gli utenti sono solo quelli espliciti, potenziali, locali o possiamo immaginare dei consumatori 'differiti', per esempio i turisti, rappresentati da chi già li attira e li ospita? Forse i prossimi giorni, le prossime sere a teatro, le 'risposte' del pubblico si faranno sentire: dirette, spontanee e casuali come si addice a questo tipo di relazioni e reazioni.
Perché, dopo tutto, è anche questa una eredità importante di Moby Dick, quella di aver generato una prossimità con la filiera della cultura che è raro trovare in altre realtà provinciali, oltre l'amatoriale e l' associazionismo, o da casi diventati - appunto perchè eccezionali - famosi.
Questa confidenza e vicinanza, quasi quotidiana e domestica, va oltre l'esposizione alla cultura e all'arte che può venire da un'ottima distribuzione o dalla mobilità dei consumatori esperti. E' un plus che fa parte dell'arricchimento più propriamente culturale di un luogo e di una comunità.
Voglio chiudere, precisando che Marco Paolini, emblematico in quanto noto tra i meriti da riconoscere a Moby Dick, è un talento naturale che ha trovato in Riviera una congiunzione eccezionalmente felice del proprio transito: nessuno può dire se il suo apprezzamento sarebbe maturato anche altrove e comunque. E' legittimo ritenere che la contaminazione sia stata importante. Se pensiamo questo, abbiamo un ulteriore pulsione a salvare l'eredità di Moby Dick: la 'costruzione' di altri incontri, tra ricerca, produzione, lavoro teatrale, luoghi, pubblico fedele e neofiti, come un modo che permette ai talenti di rivelarsi e al cittadino di arricchirsi, con i tempi lunghi e gli incerti guadagni propri della cultura.
Propongo che invece di una raccolta di firme, per salvare la balena, si raccolgano idee.



Metafore, metonimie e sineddochi
Un mail di Stefano Bartezzaghi sulla Lolita ronconiana
(cfr.
Lolita videogame di Oliviero Ponte di Pino su "ateatro 1")

caro Oliviero,
"ateatro" è una bellissima idea, e ha anche una sua eleganza, sobria e comme il faut. Bravo!
per Lolita ho visto che sei partito da un punto molto elevato, teorico, si vede che non sentivi ditero le tue spalle l'occhio aggrottato del caporedattore pronto a dirti: la notizia! gli addetti ai lavori! i sempliciotti che ci leggono!
nello specifico, vedi che segui Jakobson e Lacan considerando metonimie le sineddochi: per carità, basta intendersi, ma come in tutti gli equivoci c'è sotto qualcosa. La metonimia in realtà nomina qualcosa attraverso qualcosa che gli sta accanto, che gli è contiguo, una sua pertinenza collaterale (esempio manuale: "Per la lezione di domani portate il vostro Cesare",  intendendo il De Bello Gallico: l'autore per il libro) mentre è la sineddoche che prende la parte per il tutto e il tutto per la parte: la porta per la casa, eccetera.
Non mi intendo molto di termini cinematografici, ma forse per fare una metonimia ci vuole un carrrello e per fare una sineddoche ci vuole uno zoom. Il curioso è che si possono usare gli stessi termini anche per l'operazione ronconiana su Lolita: la riduzione teatrale è una sineddoche del testo, ma - ammesso che Ronconi abbia ridotto qualcosa - la sua operazione fondamentale è uno spostamento (portare L. a teatro).
l'oggetto più delicato di questo spostamento - secondo me - era una certa merce da imballaggio che Nabokov fa sempre circolare nei rapporti fra i personaggi e delle varie istanze di enunciazione: qualcosa che possiamo chiamare ironia, scontando la solita penuria nominale e la maledizione del doversi pur intendere in qualche modo. Mi sono chiesto dove potesse comparire questa bolla di vuoto in una realizzazione teatrale, e ho visto che Ronconi ha scelto una via di amplificazione: il cursore che va dalla sfumatura al grottesco in Nabokov si assesta su valori di quattro decimi e in Ronconi sta verso l'otto.
Ricorderò l'Humbert Humbert che cade culo a terra alla vista di Lolita come una delle scelte più forti di Ronconi.


Im Museum der Moderne
Peter Steins monumentaler „Faust" in Berlin, endlich mit Bruno Ganz
von Thomas Irmer (in tedesco)

Dieser „Faust" ist, man mag es kaum glauben, eine Uraufführung. Genauer die erste Aufführung des vollständigen Textes beider Teile von Goethes Werk durch ein Berufstheater. „Faust II" wurde seit der ersten Gesamtaufführung 1876 in Weimar immer nur in mehr oder weniger gekürzten Bearbeitungen gespielt. Das ist paradox, gilt doch gerade dieses Doppelstück als eherner Bestand deutscher Bühnenliteratur und außerdem als Goethes Vermächtnis. Peter Steins „Faust" ist mit 22 Stunden Dauer, gespielt an einem Wochenende als Marathon oder verteilt, als „Sushi", auf die Abende einer ganzen Woche, vielleicht die aufwendigste und längste Theateraufführung, auf jeden Fall aber die teuerste Theaterproduktion, die es in Deutschland je gegeben hat. 30 Millionen DM hat sie gekostet, Stein hat eigens ein Theaterensemble dafür gegründet und der heute 64jährige Regisseur einige Jahre diesem Lebensplan geopfert. Mit Erfolg und Gewinn fürs Publikum? Diese Frage kann man nicht mit Ja oder Nein beantworten.

Viele Theaterinteressierte in Deutschland und erst recht im Ausland verstehen nicht, warum es nach der Premiere im Juli 2000 auf der EXPO in Hannover in den deutschen Tageszeitungen hämische Kritiken und Totalverrisse nur so hagelte. Das dürfte sich auch nach Polen herumgesprochen haben, und deswegen fange ich mit einigen Erklärungsversuchen dazu an, denn sie betreffen auch schon das, was ich dann über die Aufführung selbst zu sagen habe. Eine Produktion wie diese, auch wenn sie sich in ihrer Machart vor der Außenwelt nahezu verschließt, kann nämlich nicht ohne ihre Vorgeschichte und Entstehungsbedingungen bewertet werden.

Peter Stein hat seit Anfang der neunziger Jahre immer wieder für sein „Faust"-Projekt in der Öffentlichkeit geworben. Mit Vehemenz, und diese Szene wurde berühmt, haute er vor der Fernsehkamera mit der Faust auf den Tisch und rief: „Ich will den Faust inszenieren, verdammt noch mal!" Das wäre einfach nur lustig, steckte darin nicht auch die Wahrheit, dass man in Deutschland wenigstens einen Anlass oder Antrieb erklären sollte, warum man dieses oder jenes Stück und insbesondere den „Faust" inszenieren will. Da hielt sich Stein jedoch bedeckt. Der Hinweis auf die erste vollständige Aufführung sollte genügen, allenfalls die hohe Schule der Sprechkultur für die 12110 Verse wurde noch geltend gemacht. Die Berliner Schaubühne, mit deren Name die künstlerische Karriere Steins untrennbar verbunden ist und wo er zuletzt vor mehr als zehn Jahren „Roberto Zucco" von Koltés inszenierte, stand für dieses Projekt nicht zur Verfügung. Stein hätte es zur Bedingung gemacht, zwei ganze Spielzeiten für seine Arbeit zu vereinnahmen, ein Jahr für Proben und ein weiteres für die Aufführungen. Dies mochte die Leitung der Schaubühne nicht akzeptieren. Also musste sich der Regisseur seine eigene Theaterstruktur schaffen, und mit ihrer Durchsetzung hat sich das Faustische dieser Idee bereits zu Tode gesiegt. Zunächst war an eine große Halle in Berlin gedacht, und für 20 Millionen Mark, von denen ein beträchtlicher Teil aus der Berliner Kultursubvention fließen sollte, wollte der Meister zur Tat schreiten. Die Politiker der Hauptstadt wägten vorsichtig ab, denn ihre Entscheidung für Steins Mega-Faust wäre angesichts der desolaten Finanzlage vieler Berliner Theater kulturpolitisch genauso riskant gewesen wie die Schließung eines Theaters aus Kostengründen - und genau das hatte mit der Schließung des berühmten Schiller-Theaters 1993 einen Aufruhr hervorgerufen, von dem sich die Berliner Politik bis heute nicht erholt hat. Stein musste sich also nach anderen Helfern umsehen, echten Sponsoren, die er in den inzwischen aufstrebenden Kulturstiftungen der Großindustrie und bei der Deutschen Bank fand. Sie stellten das Geld in Aussicht, sobald ein Ort gefunden war, den ganzen „Faust" erst zu proben und schließlich zur Aufführung zu bringen.

Hannover, das ist ein anderer wichtiger Punkt, wenn man die Haltung der Kritik zu Stein psychologisch zu ergründen sucht. Die EXPO, die 2000 zum ersten Mal in Deutschland stattfand, bot sich an, Steins Projekt in ihr Kulturprogramm aufzunehmen. Der Meister machte den Pakt mit dem, nun ja, nicht Teufel, aber immerhin mit einer Institution, die in Deutschland wegen der in vielen anderen Punkten beargwöhnten EXPO nicht im besten Ruf stand und die er zuvor selbst verhöhnt hatte. Das Kulturprogramm der EXPO sei nämlich nichts weiter als „Sackhüpfen und Wurstschnappen", also billigster Jahrmarkt. Tatsächlich wurde die EXPO eine gigantische Pleite und blieb weit unter den Erwartungen des Publikums wie auch der Veranstalter. „Faust" fand hier zwar das nötige Geld und auch eine vorläufige Bleibe, aber dieser Kontext war doch insgesamt ungeeignet für eine Präsentation, die auf ihre künstlerische Autonomie pocht und dort doch nur als ein Teil des Ausstellungsparks wirken konnte. Als der „Faust" Ende Juli 2000 seine Premiere in Hannover hatte, war bereits abzusehen, dass die EXPO kein Erfolg mehr werden würde. Überdies hatte Bruno Ganz, der Darsteller des Faust, sich bei einem Unfall auf der Probe schwer verletzt, und es ging nur darum, das EXPO-Projekt „Faust" um jeden Preis zu retten. Der junge Christian Nickel, Darsteller des jungen Faust, sprang für die ganze Rolle ein - und war sichtlich überfordert. In einem Theater hätte man die Premiere wahrscheinlich verschoben, auf der Weltausstellung war sie nicht mehr abzusagen. Eine Produktion, deren finanzieller Aufwand dem eines mittleren Filmbudgets entspricht, ist so beweglich wie ein Dinosaurier. Aufrecht stehen bleiben, wenn der Boden schwankt, ist alles, was dann noch zu erreichen ist.

Um den Faust II habe ich das ganze Leben gerungen. Als 16jähriger habe ich ihn gelesen und nicht verstanden, als Germanistikstudent auch nicht. Ich wusste natürlich, dass Faust II ein großartiges Werk ist. Das wissen ja alle. Nur, was da drin steht, ist einem nicht helle geworden. Dann habe ich es als junger Theaterdirektor wieder versucht und wieder nichts verstanden. Und plötzlich, mit einem gewissen Alter, konnte ich es lesen", so Peter Stein in einer Stellungnahme für die Presse.

Ein dritter Punkt in diesem Vorspiel, neben den von vielen als obszön teuer empfundenen Produktionskosten und der Mesalliance mit der EXPO, ist ästhetischer Natur. Genauer gesagt, es ist die Regieauffassung, die Stein heute „mit einem gewissen Alter" vertritt. Stein, der das Regietheater deutscher Spielart praktisch mit erfand, der viele Klassiker in überaus modernen Interpretationen für das Theater neu erschlossen hat, hält heute vom Regietheater nichts mehr. Es ist die werktreue, sprach- und spielgenaue Einstudierung eines Stücks, die ihm heute heilig ist - und nicht die bewegte Lesart, die auf Kopf und Herz des Publikums zielt. Nun gibt es im deutschen Theater nichts Schöneres als die Pluralität der Stile, und jemand, der mit Frank Castorf und Heiner Müller aufgewachsen ist, sollte trotzdem auch Fühler für das Theater des späten Peter Stein haben, das in seiner Verwandtschaft mit Regisseuren wie Peter Zadek und Luc Bondy auch das „Menschentheater" genannt worden ist, in dem vor allem die Klassiker der vorletzten Jahrhundertwende so gut zur Geltung kommen. Eine unangenehme Seite Peter Steins ist jedoch, dass er seine Auffassung mit missionarischem Eifer kundtut und keinen Zweifel daran lassen will, dass alles andere bloß Scharlatanerie ist. Zwischen den Zeilen hört man, dass er damit das junge deutsche Theater, seine Regisseure, Autoren und Schauspieler meint, die im übrigen viel mit Steins Anfängen in den sechziger Jahren gemein haben. Damals war auch der junge Bruno Ganz schon einer seiner Protagonisten, und erst als Ganz, wieder genesen, nach dem Umzug des Faust-Ensembles von Hannover nach Berlin im November die Hauptrolle übernahm, kam das Projekt „Faust" zumindest beim Publikum richtig an. Da hatte ein Großteil der tagesaktuellen Meinungskritik allerdings schon abgeschaltet, und zu einer Revision der harschen Aburteilung von Hannover ist kaum jemand bereit. Nach drei Monaten Berlin steht Stein als souveräner Theaterleiter da, der mitteilt, sein Ensemble aus insgesamt 35, überwiegend jüngeren Schauspielern sei nun so warm gespielt, dass man noch einige interessante Nebenproduktionen erwarten könne. Insofern hat Stein sein Ziel erreicht, sein Projekt sogar über das Ziel hinaus getrieben. Aber was war das Ziel?

Schon beim Eintritt in die Riesenhalle der „Arena", früher ein Industriebetrieb direkt an der Spree, kann man das Prinzip erkennen, nach dem die Aufführung räumlich organisiert ist. Eine große Tribüne vor einer Hauptbühne, die wie eine reguläre Portalbühne wirkt, und etwas weiter weg eine variable, während der Aufführung mehr als ein Dutzend Mal völlig neu arrangierte Spielfläche. Die beiden Ausstatter Ferdinand Wögerbauer (für „Faust I") und Stefan Mayer („Faust II") hatten für das Gesamtkonzept vor allem Raumwechsel zu ermöglichen, die über die Dauer der Zeit einen abwechslungsreichen Gang durch das Stück bieten. In der Grobstruktur ist der „Faust" reine Bewegungsdramaturgie: vom Prolog im Himmel bis zu Fausts Aufstieg in himmlische Sphären am Ende bewegt sich das Stück mehr oder weniger rasant durch Orte und Zeiten, die auf einer einzelnen Bühne hintereinander kaum darstellbar sind. So bewegt sich also der Zuschauer selbst zwischen zwei Bühnen, von denen die eine als Raumbühne immer wieder so wandelbar ist, dass man den Eindruck hat, einen völlig neuen Raum zu betreten - zwischen Mittelalter und Antike, vom gotischen Zimmer in deutschen Landen bis zu fernen griechischen Gestaden sind es immer nur ein paar Schritte, während da, wo gerade nicht gespielt wird, die Bühnenwelt sich schon wieder im Umbau befindet. Die beiden Bühnen- und Raumbildner sind stets von Goethes Regieanweisungen ausgegangen, so wie sich Steins Inszenierung überhaupt als eine buchstabengetreue Aufführung im Ganzen zeigt und das auch offen bekundet.

Mustergültig ist die mehrfache Hinführung inszeniert: Die Zueignung „Ihr naht euch wieder, schwankende Gestalten" wird vor schwarzem Vorhang von einem jeweils eingeladenen Ehrengast gesprochen: Will Quadflieg, Walter Schmidinger und andere Schauspielheroen stehen emblematisch dafür ein, dass hier der Text in erster Linie zu Gehör gebracht werden soll. Der zweite Rahmen, das „Vorspiel auf dem Theater", in rollentypischen Kostümen auf einer schlichten Bretterbühne, weist schon darauf hin, dass sich das Spiel vor allem an das gesprochene Wort halten wird. Und der dritte Rahmen schließlich, der als „Prolog im Himmel" schon Teil der Handlung ist, schließt die ästhetische Setzung Steins ab: das Spiel nimmt Goethe beim Wort und wird seinen Text weder szenisch interpretieren oder gar aktualisieren noch in großartige Illusionen hüllen, sondern einfach aufführen. Oben „im Himmel" gibt es also Theaterwolken an Stangen, darin der Herr mit seinen Erzengeln und Mephisto spricht.

Es folgt Bruno Ganz, auf der großen Bühne in seinem nächtlichen Studierzimmer die magischen Kräfte versuchend. Der Sprechduktus ist klassisch, Ausstattung und Kostüm (Moidele Bickel) den gängigsten Vorstellungen entsprechend, also insgesamt theaterhistoristisch. Für den Erdgeist aber, wie auch mitunter für andere nicht reale Erscheinungen, mag freilich auch Peter Stein auf Mittel zurückgreifen, die Goethe sich noch nicht einmal vorstellen konnte. So sieht man den Erdgeist als großformatiges Videobild mit dem Gesicht Hans Michael Rehbergs. Das ist gut gemacht, aber wahrer Theaterzauber ist es nicht. Geht es darum? Genügt es, den Faust so zur Aufführung zu bringen, wie er geschrieben wurde?

Aufs Ganze gesehen lässt sich die Frage entschieden zwiespältig beantworten. Für den ersten Teil der Tragödie ist es annehmbar, ja die völlige Abwesenheit von Interpretation sogar spannend. Seit den sechziger Jahren ist die in der deutschen Kultur zuvor stets überhöhte und mythisierte Faust-Figur radikalen Umdeutungen unterworfen worden. Diese Umdeutungen waren zumeist mit dem Zeitgeist einhergehende kritische Reaktionen auf den ideologischen Gebrauch des Faust-Themas und daher selbst ideologischer Natur. Ob irrender Intellektueller oder Schwundstufe eines deutschen Mythos, oft genug ging es um die Verwerfung der Figur, ob nun das Streben oder das Irren hervorgehoben wurde. Peter Steins Bruno Ganz legt den Faust an, als hätte es diese neuere Theatergeschichte nicht gegeben und als sollte dieser Teil der kritischen Rezeption endlich einmal außer Acht bleiben. Das ist gelungen und führt zu einer Art Naivität zurück, die zumindest dem ersten Teil gut bekommt, wenn er dann mit den beiden abwechselnd auftretenden Mephistos sich auch witzig entspinnt und mit der Gretchen-Geschichte seine erzählerische Kontur erhält. Für den zweiten Teil, der keinen solchen kulturellen Resonanzboden hat und über dessen Sinnzusammenhang allein die Philologen sich in Einzelfragen zerstritten haben, empfiehlt sich das Anti-Regietheater weniger. Hier braucht es nicht nur Angebote, sondern mehr denn je auch szenisch deutende Hilfe für den Zuschauer. Selbst ein Goethe-Experte dürfte sich in den vielfach verschlüsselten Szenen des zweiten Teils kaum zurechtfinden, geschweige denn den großen Zusammenhang nachbilden können. Wenn der ideale Leser für Joyce einer war, der Tag und Nacht so lange und langsam liest, wie der Autor „Finnegan’s Wake" geschrieben hat, dann wäre Steins Publikum nur dann auf der Höhe dieser Inszenierung, wenn es mit ihm all die Jahre seiner „Faust"-Arbeit zugebracht hätte. Und vielleicht wäre auch das für den zweiten Teil noch zu wenig - und zugleich zuviel, denn dieser „Faust II" bleibt auch in seiner ersten vollständigen Aufführung abseits des gesprochenen Worts unerschlossen. Man möge sich Steins Zitat nochmal vor Augen halten: „Und plötzlich, mit einem gewissen Alter, konnte ich es LESEN."

Theatral geht man durch ebenso viele Qualitäten wie Räume. Die Mephistos - Robert Hunger-Bühler etwas anregend zynischer als der weichere Johann Adam Oest - bringen den Gang durch das Stück geistreich auf Tempo und sind schon bald die eigentlichen Akteure. Vor allem Hunger-Bühler weiß, wie aus dem für heutige Ohren strengen, aber für ihn nie anstrengenden Textbau der Verse die deftige Figur, der große Witz und ein bisschen Volkstheater herauszuholen ist. Er ist der eigentliche Begleiter des Publikums auf dieser weiten Reise. Der junge Faust des ersten Teils, Christian Nickel im weißen Anzug und ebenso makelloser Problemfreiheit, ist zwar der konzipierte Gegensatz zum gebrochen wirkenden Ganz-Faust vom Anfang und vom Ende, an ihm kann man aber gerade das aussetzen, was Stein am Theater der Jungen heute bemängelt: Tiefe der Figur und Höhe der Sprechkultur. Gerade in seinen Szenen sind es eher das visuell Atmosphärische der Szene oder die Gegenspieler, auf die man sich als Zuschauer einläßt. Das Gretchen Dorothee Hartingers ist unter den überwiegend jüngeren Spielern des Faust-Ensembles die Entdeckung. Mit ihr erlaubt sich Stein eine der wenigen Abweichungen von der szenischen Konvention, wenn sie in der Kerkerszene aus einem winzigen Käfig kriecht. Das ist einer der wirklich beklemmenden Momente, wo durch eine kleine Überschreitung große Energie frei wird. Für die Helena der kühlen Corinna Kirchhoff, heute heimatloser Star der alten Schaubühne, sind eher opernhaft kalkulierte Auftritte geplant, die der ja auch erotischen Suche des Faust im zweiten Teil zu wenig geben. Erst am Schluss, wenn sich der Himmel des Anfangs zu einer Spirale heruntersenkt und tatsächlich mit der Riesenmaschinerie dieser Produktion noch einmal ein bisschen gezaubert wird, erreicht die Inszenierung wieder eine Geschlossenheit, die ihr zuvor mit dem Beharren auf Goethes Text über lange Strecken abhanden gekommen war. Zwar steht man als Zuschauer in der kaiserlichen Pfalz oder bildet Spalier für einen endlosen Karneval der Ursprünge des Theaters und der Zivilisation an sich, man hat im Rittersaal bei Wein und Käse mit zu Tisch gesessen, und auch der Homunkulus war als Kind in einer Glasglocke ebenso überzeugend eingängig wie noch einmal eine eindrucksvolle, mit etwa 25 Bildschirmen hergestellte Darstellung kosmischer Schöpfung aus Feuer und Wasser in den Felsbuchten des Ägäischen Meeres. Doch hier, in diesem zweiten Teil, der einen ganzen Sonntag von morgens bis beinahe mitternachts ausmacht, wird der Zuschauer nur noch als „spectator" eines Spektakels gebraucht. Den gleichen Weg geht auch die Musik von Arturo Annecchino. Ist sie im ersten Teil noch ein synästhetischer Zusammenhang, vom sphärischen Flimmern bis zur klar ausgearbeiteten Komposition, wird sie da, wo sie wirklich gebraucht wird, akustisches Hollywood zum Verkleben des ganz wesentlich Unzusammenhängenden. So hart es klingt, die intellektuelle Substanz, die Goethe seiner Nachwelt wohlweislich in einem Paket versiegelt hinterlassen hat, kann sich auch in einer textgetreuen Aufführung nicht erschließen. Zwar wird der Text überwiegend von dem in Ergebenheit trainierten Ensemble richtig gut gesprochen und also zu Gehör gebracht, aber das ist fast nur Leistung ohne echte Kunst und hat die Größe eines Museumsbesuchs, der einem Vergangenes noch einmal bestens präsentiert, die Gegenwart allerdings nicht heran lässt. Vergeblich ist es dennoch nicht, was Peter Stein hier unternommen hat. In dieser wohl einmaligen Konstellation von großem Geld und unbedingten Bemühen wird es das nicht wieder geben. „Faust II" bleibt, und dafür war uns die Theaterwelt wenigstens einen Beweis schuldig, als inkommensurable Weltalltragödie ein Lesestück, für dessen entlegenste Passagen jetzt ein paar Bilder vorhanden sind. Gott und Peter Stein sei’s gedankt, wir gehen wieder auf andere Reisen.


Il teatrino della animazioni flash

I nessi tra la scena da un lato e il pc e internet dall'altro sono spesso sorprendenti. Qualche settimana fa, mi è arrivata una newsletter di ctheory (sito di fanatici dei nuovi media) dove Nate Burgos parla delle animazioni flash (quelle che si trovano sui siti più "moderni"):

"Un sito Flash viene sviluppato come un microcosmo che sboccia in un macrocosmo. Il medium internet è la "scena" /stage/ -- la piattaforma dove l'animatore Flash /flashanimator/ importa, incolla e scolpisce "simboli" (personaggi /charachters/) cui vengono assegnate "azioni" (ruoli /roles/) in una trama /plot/ grafica multidimensionale. L'animatore Flash è l'autore di un dramma /play/ sulle verità visuali della vita. La gamma espressiva della grafica in movimento è incredibile, dalla serenità all'ansia".
Insomma, l'ho trovato curioso (ancor di più se messo in relazione a un altro testo che cito spesso, quello di Brenda Laurel, Computers as Theatre.
Se volete leggerlo tutto, si intitola Flash Fetish.


Andrew Wyley agente della Royal Shakespeare Company

La Royal Shakespeare Company sarà rappresentatata da Andrew Wyley, uno dei più noti agenti letterari (tra i suoi clienti oltre 400 autori, tra cui Martin Amis, Salman Rushdie, Susan Sontag, Hugh Thomas, Philip Roth, Saul Bellow, Arthur Schlesinger Jr, e gli eredi di Jorge Luis Borges e Italo Calvino, oltre a essere consulente di "New York Times" e "National Geographic"). Wyley ha l'incarico di sviluppare e promuovere presso gli editori di tutto il mondo progetti editoriali legati all'attività della compagnia.
Per ulteriori info, sul sito della RSC si trova il press release del 12 febbraio 2001.

Appuntamento al prossimo numero.

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