ateatro

n. 24 - 23 novembre 2001
a cura di Oliviero Ponte di Pino
in collaborazione con Anna Maria Monteverdi
 

INDICE

Intanto sono online i primi risultati della ricerca NOFRET (in anteprima per "ateatro", manythanks to Giovanna Fellegara) di cui avevamo parlato nel numero 16. Se vuoi, puoi andare direttamente alle slide riassuntive, ma ci vuole un pc non troppo vecchio e con qualche plug in.

"La guerra la narravano già, come se fosse già accaduta"
Una riflessione sul "teatro di guerra"
di Federica Fracassi e Renzo Martinelli

Un angelo azzurro con le ali tagliate
Alcuni recenti contributi di Giorgio Albertazzi alla cultura teatrale italiana
(dalle pagine del "Corriere della Sera")
a cura di Federica Fracassi e di Oliviero Ponte di Pino

Teatro, arte della (tele)visione
A margine di La scène et les images
di Anna Maria Monteverdi

London Calling
La corrispondenza da Londra di Francesca Lamioni

Che fare?
I tuoi (indispensabili) consigli per migliorare olivieropdp/ateatro
 

COMUNICAZIONI DI SERVIZIO

Per i miei fans (ce ne sono?) da sabato 17 novembre, alle 14, su Radiotre, conduco il glorioso Grammelot (programma di Patrizia Todaro a cura di Elio Sabella, che guida in redazione Nicola Pedone e Stefania Fioravanti) dallo studio di corso Sempione (Milano) con Gaia Varon. La redazione non vede l'ora di essere seppellita da mail grammelot-spettacoli@rai.it, fax e telefonate (02-34531140).

Imperdibili i due CD pubblicati da Garzanti Libri: Marco Paolini interpreta Marco Calzavara e Sandro Lombardi interpreta Pier Paolo Pasolini. Intanto potete ascoltare due brani in anteprima: Marco Paolini interpreta l'irresistibile Can, Sandro Lombardi la struggente Supplica a mia madre.
Per altre info, leggete l'intervista sul progetto di "Alice" a Oliviero Ponte di Pino, oppure visitate le pagina del sito Garzanti dedicate ai due cofanetti. A questo punto sapete già cosa dovete regalare per Natale ad amici, parenti, innamorati... Anzi, potete richiedere i due cofanetti subito subito da internetbookshop: Paolini-Calzavara (prezzo di copertina 27.000 lire) & Lombardi-Pasolini (prezzo di copertina 25.000 lire). Insomma visto il rapporto prezzo-qualità, farete un figurone!!!

Il forum sul teatro di guerra, visto anche quello che sta accadendo al Teatro di Roma, è abbastanza attivo. Segnalo tra tutti i contributi di Paolo Petroni (sulle responsabilità della sinistra) e quello di Mimma Gallina (sui conflitti d'interesse all'interno dei CDA degli stabili). E poi leggete qui sotto, alcune gesta albertazziane...

Teatro di guerra anche a Verona, con la minaccia di sgombero di interzona, una realtà importante e viva della scena italiana. Interzona sta raccogliendo le firme per una petizione. Insomma, date un'occhiata (e magari firmate).

Implacabili, lunedì 26 al Teatro Grassi di via Rovello, ore 18, i PREMI UBU. Trovi le nominations nel forum (e puoi anche commentarle...). Se proprio non ci potete essere, ne parlo a Radio3 intorno alle 20 (e do i nomi dei vincitori).

Tra le novità in libreria, Ripensare Shakespeare di Brian Vickers, ovvero "Questioni di critica contemporanea", una ampia rassegna delle letture contemporanee del Bardo, più o meno opinabili. Lo pubblica Sansoni, costa 74.000 lire, puoi ordinarlo al solito su internetbookshop ma lo puoi comprare solo se hai già Tutto il teatro di Shakespeare in CD-rom.



 
Imperdibile: Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999.

Chi non legge questo libro è un imbecille


"La guerra la narravano già, come se fosse già accaduta"
Una riflessione sul "teatro di guerra"
di Federica Fracassi e Renzo Martinelli

Abbiamo promesso a noi stessi e a Oliviero Ponte di Pino di prendere voce e parola dopo tutti questi mesi. In fondo il forum "Fare un teatro di guerra" è stato aperto anche in seguito a una iniziativa di Teatro Aperto, che il marzo scorso in collaborazione con il C.S.Leoncavallo aveva riunito critici, artisti e spettatori intorno a questo tema, rubandolo a Mario Martone, al suo film.
La discussione era stata accesa e profonda, gravida di questioni. Si rifletteva sul ruolo del teatro in guerra e soprattutto in pace. Il teatro a Milano, in Italia, all'estero. Il teatro come comunità, che crea comunità, che parte da una comunità. Il teatro diviso e che divide.
Poi Oliviero aveva lanciato una domanda: "Ma che ruolo ha il teatro in guerra? Continua ad avere un ruolo il teatro in un paese veramente devastato dalla guerra?" Allora avevamo in maggioranza risposto di sì. Il teatro è la nostra battaglia e se ci fossimo trovati in guerra avrebbe continuato ad avere senso ostinarsi a impugnare le armi della poesia. Questo è ciò che un artista sa e dovrebbe fare. È il nostro contributo.

È ancora valida oggi questa convinzione? Dopo l'11 settembre il teatro può continuare a essere una risposta?
Forse nulla è cambiato, ma di sicuro molto si è disvelato anche agli occhi meno attenti. Ora è chiaro a tutti che i giochi sulle nostre teste sono più grandi e intricati. Ora è chiaro a tutti che l'economia decide i destini. È chiaro che ognuno di noi, essere comunicante, può uccidere e destabilizzare. Ora tutto muta, anche il concetto di guerra, anche le armi da impugnare, anche la dissidenza dal gioco delle forze… Che fare?

UNA CIPOLLA DA SFOGLIARE

In marzo erano i tempi delle dimissioni forzate di Martone dal Teatro di Roma (oggi apprendiamo che Giorgio Albertazzi potrebbe essere il suo sostituto, "il nuovo che avanza", con buona pace della sinistra e della destra che si sono spartite le sedie di un teatro pubblico nel solito indegno modo). Erano i tempi della campagna elettorale che ha portato al Governo italiano Silvio Berlusconi. I tempi del Satyricon blindato di Luttazzi (querelato dallo stesso Berlusconi con richiesta di danni per miliardi, perché bisognava secondo "qualcuno" imbavagliare anche la satira).
L'onda di orrore si è gonfiata impercettibilmente sotto i nostri occhi. È stato il luglio di Genova, teatro di guerra di un giovane morto in pace. Il luglio dell'orrore dei pestaggi a Bolzaneto, una pagina di storia italiana che non avremmo mai voluto vedere scritta. Il Teatro di Porta Romana a Milano ha ospitato una serata autogestita con filmati e riflessioni e la sala e le strade accanto scoppiavano di persone che tornavano a partecipare, come diceva Elio De Capitani, ci si sentiva di nuovo un po' meno soli e attraversati dalla storia, una storia che riguardava tutti, senza possibilità di fuga.
E poi un'estate torrida per noi e cruda a lavorare intorno ai testi di Sarah Kane, suicidatasi a soli 28 anni dopo aver puntato il dito contro l'orrore… "questo non è un mondo in cui ho voglia di vivere".
Una catena di eventi estranei tra loro solo in superficie.
Ci risiamo.
L'attentato alle torri gemelle dell'11 settembre, i primi bombardamenti sull'Afganistan…
Siamo in guerra.
E dovrà pur significare qualcosa se il 90% del Parlamento si è schierato a favore dell'intervento italiano.
Si allontana sempre più l'utopia di un mondo diverso, un'utopia considerata dai più infantile e ridicola.
Si moltiplicano i significati e i simboli. Ogni bomba è un messaggio stratificato: religione, società, economia… una cipolla da sfogliare senza che si riesca, nella maggior parte dei casi, ad arrivare a un cuore, a un centro.
Che fare?
La realtà è che la guerra da sempre è la normalità e la pace un'eccezione.
E in più... in mezzo ad altre guerre "minori" e quindi non degne di nota, questa è una guerra all'altezza dei tempi, intelligente, che ha presenza televisiva, che spacca lo schermo. E lo schermo ospita tutti i leader, di tutti i partiti, tutti gli opinionisti di tutte le opinioni: una grande occasione per chi appare via etere, che si porta a casa, come i produttori di armi, le assicurazioni eccetera; un piccolo tornaconto. (Questa volta alle compagnie aeree e alle agenzie turistiche invece è andata male!!!)
Questa è una guerra particolare, contro un nemico mirato: il terrorismo.
I terroristi mi danno l'alibi: per uccidere, per mantenere dritti l'economia e il potere.
Se uccido per sbaglio, posso con l'altra mano versare su un conto corrente un contributo in denaro che al contempo aiuta i profughi, gli orfani e le vedove, che io ho reso tali e mi alleggerisce la coscienza. Se ferisco, posso lenire le ferite. Se tolgo il pane, posso sfamare.
 

ESSERE e NON ESSERE TEATRO DI GUERRA

È difficile prendere la parola nel mezzo del chiacchiericcio generale. Abbiamo anche questo privilegio: siamo in guerra e possiamo comunque chiacchierare, discutere in salotto davanti a immagini che arrivano da lontano, da luoghi che non abbiamo mai visto.
Le nostre nonne le avevano qui le guerre, due e mondiali, e invece ora il teatro di guerra è da un'altra parte, in un altro mondo: l'Afganistan. Non qui, come non lo era quando si bombardava Belgrado. Teatro di guerra sono tutti i paesi di cui non si parla perché non fanno numero, immagine, notizia. I paesi "di meno" dove si continua a combattere.
Essere o non essere teatro di guerra ha sempre fatto la differenza. Infatti gli Stati Uniti, oltre allo strazio dei morti, sono stati colpiti simbolicamente l'11 settembre, perché per la prima volta dalle guerre d'indipendenza il loro suolo è stato teatro di guerra. Nella guerra vera, militare, si contano i morti, si vive il lutto composto e straziato. Ci sono volti precisi che ci lasciano per sempre. In quel caso la rabbia dà la forza di ricostruire le proprie case, si sa contro chi scagliare le proprie maledizioni o il proprio perdono. Forse in quel caso per sopravvivere, per reagire si fa teatro. Paradossalmente ci viene da pensare così, rilanciando la domanda di Oliviero. Forse in quel caso è più alta la necessità di testimoniare.
Ma noi qui siamo e non siamo teatro di guerra. Arruolati, senza che ce ne accorgessimo, combattiamo una guerra economico-sociale senza paragoni. Ma sulle nostre vite non cadano bombe.
E cosa può essere il teatro in tutto questo?
Di sicuro una casa, un monito, un'etica, non la spettacolarizzazione di cui tutti parlano: "la realtà ha superato qualsiasi film di Hollywood", come se l'arte fosse solo un insieme di brividi estetizzanti e la dimensione etica fosse perduta per sempre, come se la finzione fosse la norma e la realtà non potesse più stupirci.
Ma il teatro dovrebbe essere soprattutto presa di coscienza, meditazione, preveggenza. Il teatro, anche da lontano, ha a che fare con la realtà, con i morti.
 

LA MALATTIA DEI MONDI DIVERSI

Le voragini provocate nel terreno dai bombardamenti sulle popolazioni afgane non riescono a scuotere il nostro immaginario tanto quanto un aereo civile che si schianta contro un grattacielo in una centralissima New York.
E questa è la prima amara constatazione. Potete raccontarci che il secondo caso ci scuote di più, perché l'attentato terroristico alle torri gemelle è senza paragoni nella storia, ma la differente temperatura delle nostre emozioni ha un solo significato: anche dentro i nostri simboli si è insinuata la cattiva malattia dei mondi diversi.
I confini sono disegnati sulle carte con troppa disinvoltura.
Non c'è più un unico mondo, ma più mondi messi in classifica a seconda del loro potere, monetizzati. I confini vengono tracciati e ritracciati a seconda delle occasioni, delle comodità, del valore strategico.
Se la mente è soggiogata nello sguardo e a livello inconscio fa una graduatoria dell'orrore… la nostra mente pacifica, le nostre mani. Se a noi, abituati allo scambio e alle differenze succede questo, allora cosa può fare questa malattia a chi ne è afflitto seriamente?
Servono nomi? Bin Laden, i ragazzi palestinesi che gioivano davanti al crollo delle torri, Oriana Fallaci nel suo articolo, Sharon. Sono malati gravi tutti coloro che gioiscono della propria supremazia economica, culturale e religiosa e cancellano il diverso per il quale non riescono neppure a sentire pietà. Siamo nelle divisioni. Siamo nel pieno centro della devastazione.
Ma i nomi non sono il problema. Perché ci siamo ammalati? Questa è la questione più importante.
Ma come è potuto accadere, che nonostante le denunce di ciò che nel mondo non andava, nulla sia stato fatto?
Come è potuto accadere che le nostre menti e le nostre emozioni siano così assuefatte al peggio, incapaci di empatia?
Com'è potuto accadere che ci possiamo credere liberi e siamo invece così soggiogati a simboli e a poteri che ci sorridono con la nostra stessa faccia e predicono la nostra distruzione?
Perché siamo diventati nemici a noi stessi?
Come può accadere che solo qualcosa che supera Hollywood possa scuoterci, possa scuoterci proprio perché è così simile a Hollywood?
Perché il dramma del Sudan, dove noi siamo stati e possiamo testimoniare, il dramma dell'Algeria, del popolo curdo non ci fanno versare neppure una lacrima? Perché i Taliban, cresciuti a pane e CIA, appoggiati strategicamente e indirettamente da Washington, hanno agito indisturbati fino a oggi, davanti a tutti noi che dormivamo sonni tranquilli sui nostri scaldasonno telecomandati?
 

CI TOLGONO IL FUTURO

Carla Benedetti, un'amica, a New York, dopo una settimana dagli attentati in una lettera aperta che nessun quotidiano italiano ha voluto pubblicare, ci scriveva:

Insomma per parecchi giorni qui l'unico a pronunciare la parola "guerra" è stato Bush nel suo discorso ufficiale in televisione. Sui giornali italiani invece la parola era già uscita dalle virgolette del discorso di Bush, e trionfava nei titoli, negli articoli di cronaca, nei commenti di politologi, uomini di cultura e letterati. Il confronto per me è stato scioccante. I giornali italiani la guerra la narravano già, come se fosse già accaduta; la prevedevano come "guerra lunga", "senza frontiere"; la definivano, addirittura la storicizzavano come "terza guerra mondiale"...
La prelevavano da un futuro immaginato come già dato, anticipato apocalitticamente per l'emozione di tutti: sia di coloro che la guerra la vogliono sia di coloro che la paventano. I media americani e quelli italiani parlavano dello stesso evento. Eppure qui era ancora solo l'atto terroristico più terribile che si sia mai dato, era l'attacco, il disastro, l'orrore, il lutto. Per quelli italiani era "la guerra del XXI secolo cominciata martedì 11 settembre".
Come dicevo non è durato a lungo neanche qui. Ma qui è cominciato dopo. Ci sono stati quattro o cinque giorni di sospensione, in cui la realtà ha avuto il sopravvento sulla sua verbalizzazione: la realtà concreta dei soccorsi, delle ambulanze, del fumo, del lutto. In questo "intervallo" ho fatto in tempo a accorgermi di quanto la stampa viva di interpretazioni. So ovviamente che il confine tra informazione e interpretazione è labile. Ma in questo caso è fin troppo percepibile. C'è un abisso tra raccontare l'atto terroristico più terribile della storia, interrogarsi sulle cause e sulle possibili conseguenze, riportare il discorso di Bush, intervistare esperti di politica internazionale, capi di stato, esperti di terrorismo ecc., e invece titolare "È guerra!".
È ovvio che interpretare i fatti che accadono sia un'attività vitale. Ma una cosa è interpretare i fatti, altra cosa è interpretare il futuro. Scrivere "è iniziata la terza guerra mondiale" equivale a predire il futuro. E ognuno di noi sa come la parola che predice sia intessuta di potere. Descrivere ciò che sta per avvenire contribuisce alla sua realizzazione.
Quante cose invece sono ancora aperte e incerte! Quante cose potrebbero farsi oggi in politica internazionale come nella vita civile, a favore della distensione, della tolleranza, per diminuire l'oppressione economica sui paesi poveri, per diminuire i rischi ambientali, per un altro modello di sviluppo. Tutti questi argomenti che ancora ieri erano all'ordine del giorno, prima e dopo il G8, oggi ci possono venir tolti di forza. Questo è in gioco ora, prima della guerra. La certezza della guerra imminente alimentata dai media, anche quando non viene usata politicamente, anche quando è semplicemente paventata come apocalisse, o usata per spettacolarizzare l'evento, ci fa perdere tutto questo. I "futurologi" che scrivono sui giornali ci tolgono il futuro. Tolgono al futuro un po' della sua apertura.

Esatto: ci tolgono il futuro e noi neanche ce ne accorgiamo, perché chi ci toglie il futuro ha la nostra faccia e il nostro stesso sorriso. La banalità del male: così è stato tradotto un testo di Hannah Arendt sul processo a Eichmann. Il male non ha un volto così mostruoso, ma i nostri stessi volti, un po' grigi e con le occhiaie.
Così nel teatro, così nella vita politica di questo paese, divisi anche all'interno dello stesso partito perché, in fondo, troppo uguali.
La maggior parte delle volte sarebbe già eroico non stare al gioco e puntare il dito.
Ma tutto è chiacchiericcio pastoso.
Nonostante le urla di una minoranza inascoltata che ci mostra il re nudo.
 

IL NOSTRO COMPITO È MOSTRARE LE SBARRE

Cosa può dire o fare il mondo del teatro dopo l'11 settembre?
Ha senso continuare a fare teatro in questa particolare guerra, questa guerra onnivora di cui abbiamo abbozzato il volto?
La tua domanda di marzo, caro Oliviero, assume in questi giorni di riflessione una profondità nuova, che forse l'anno scorso non era così palese, neanche per te che l'avevi posta.
Cosa può fare il teatro che non dovesse o potesse fare anche prima, se da anni viviamo un "ground zero" spirituale oggi sotto gli occhi di tutti, da cui l'arte dovrebbe partire a costruire?
Abbiamo sempre mal digerito le mediazioni, che siano politiche, economiche, culturali. Abbiamo sempre diffidato dei mille salamelecchi che sputtanano il nostro ambiente. Esistono sempre più persone che parlano d'arte, le vivono accanto, ma dall'arte non si fanno attraversare e ferire veramente.
E forse tra le mille domande una risposta può essere questa.
Il teatro può rilanciare e insistere
Deve continuare a farsi ferire e a ferire con più forza.
Forse è proprio il teatro l'unico ad avere il diritto/dovere di essere in guerra permanentemente.
Il teatro può mettere le mani in pasta ed essere più reale e cattivo della realtà più vera.
Il teatro può fare a pugni per difendere quel "minore" che va perduto, per difendere la particolarità e la bellezza dei saperi, la diversità e per coltivare coscienze che sappiano dialogare anche se non appartengono allo stesso condominio.
Il teatro può distruggerlo il condominio, e le chiese, e le sette, e i finti intellettuali tra le tartine dei vernissage.
È giunto il momento di fare il punto sulla salute del mondo.
Di una cosa siamo certi: questo clima di guerra sarà utilizzato soprattutto per far tacere le opposizioni e il teatro come luogo di scambio e di incontro tra esseri umani, come luogo di creazione ha il dovere di tenere vive le voci più flebili.
Noi che facciamo teatro dobbiamo mostrare le sbarre, e assumersi questo compito sarebbe già molto, mostrare le sbarre di cui ogni mondo inevitabilmente si circonda se si prende troppo sul serio e che porta a questo deserto dello spirito in cui può scuoterci solo ciò che è vicino a Hollywood, ciò che Hollywood decide di farci vedere.

Sempre Carla Benedetti da New York:

Un amico mi ha scritto dall'Italia con amarezza: "Voi lì siete una minoranza. Voi avete visto la cosa, mentre il resto del mondo ha visto la cosa in immagine, cioè LA COSA VERA". Sul momento mi era parsa una frase assurda. Poi ho capito cosa volesse dire.


Un angelo azzurro con le ali tagliate
Alcuni recenti contributi di Giorgio Albertazzi alla cultura teatrale italiana
(dalle pagine del "Corriere della Sera")
a cura di Federica Fracassi e di Oliviero Ponte di Pino

Nella sua rubrica quotidiana, rispondendo alla lettera di un lettore del "Corriere" sulla polemica Albertazzi-Teatro di Roma, Paolo Mieli (ex-direttore del giornale e ora autorevole editorialista) premette di non essere un esperto di teatro, e dunque evita di affrontare questo argomento. In questo modo, riduce la questione a bega politica, attaccando i giornali e giornalisti di sinistra che disprezzerebbero Albertazzi per motivi ideologici. Potrà anche essere, ma proprio per questo motivo la questione andrebbe affrontata nel merito: Giorgio Albertazzi è una persona adatta per dirigere il Teatro di Roma?
Il "Corriere della Sera" ha sempre seguito con attenzione la carriera del grande attore toscano. Federica Fracassi ha raccolto con pazienza dal sito internet del giornale qualche traccia del suo contributo alla cultura teatrale italiana.
Insomma, per farsi un'idea più precisa delle qualità del candidato Albertazzi, a Mieli sarebbe stato sufficiente documentarsi leggendo il giornale su cui scrive quotidianamente. E forse avrebbe capito meglio le ragioni dell'opposizione alla sua resistibile ascesa. (olivieropdp)

La classe di Albertazzi e Proclemer sprecata in un debole testo di Ludwig
Mamma, il regista ha perso l'aereo
di Giovanni Raboni
"Ogni tanto (non spesso) si riesce persino a ridere; è tuttavia impossibile non chiedersi con stupore per quale ragione due attori che si sono presi e ci hanno dato tante soddisfazioni di tutt'altro genere, abbiano deciso di mettere il proprio talento al servizio di un testo così palesemente e irrimediabilmente di terz'ordine, uniformandosi perdipiù ai toni e ai ritmi di una regia da situation comedy televisiva. Si esce dallo spettacolo - parlo per me, sia ben chiaro - con il senso di una sconfitta gratuita, di una resa umiliante che non sarebbe stato difficile evitare."
(Giovanni Raboni, "Corriere della Sera", 27 gennaio 1997, a proposito di La luna degli artisti di Ken Ludwig regia di Tonino Pulci)

L'attore 71enne ritrova un personaggio caro a Mastroianni. E per il festival di Taormina chiama Harold Pinter e fa debuttare Francesca Neri
Albertazzi in scena sarà il libertino vecchio e stanco
di Emilia Costantini
"Dice l'attore: "Sì, ma io non mi identifico con questo personaggio. Io sono un ragazzo, sono troppo vitale e ottimista e soprattutto, anche volendo, non riesco ad invecchiare. Sembrerà strano, ma piaccio ancora molto alle donne. Ho sempre avuto e continuo ad avere tutte le caratteristiche tipiche del libertino - prosegue Albertazzi ­ La mia partner dev'essere bugiarda, deve tradirmi, deve saper simulare situazioni, lavorare di fantasia e inventare. Questo è il rapporto erotico, è teatro".
Ma spesso le donne lo deludono: "All'inizio mi soddisfano, ma poi cominciano ad essere possessive, a volersi accasare. Ancora oggi, cominciano a chiedermi: "Perché non facciamo un figlio? Perché non dormiamo insieme?". Ma io non voglio figli e soprattutto voglio dormire da solo, perché solo così mi rilasso. L'eros è fatto per gli amanti, non per marito e moglie".
(...)
Harold Pinter sarà ospite della prossima edizione (del Festival di Taormina), che si svolgerà tra luglio e agosto. Il grande drammaturgo inglese curerà personalmente la regia di un suo testo, Ceneri su ceneri, interpretato da Lindsay Duncan e Stephen Rea (l'attore che nel film La moglie del soldato era nel ruolo del terrorista). Dice Albertazzi: "Non è stato facile, ma sono riuscito a convincerlo. Il lavoro sarà rappresentato nel piccolo teatro del Palazzo dei Congressi: era necessario uno spazio raccolto"."
("Corriere della Sera", 29 marzo 1997)

Ma la Tangentopoli di Fo non è un mistero buffo
di Giovanni Raboni
"A non essere rispettate sono invece, almeno a questo punto del famoso rodaggio, le aspettative di uno spettacolo incisivo o almeno divertente, di un racconto che decolli al di là e al di sopra delle proprie scontate e conclamate intenzioni, di un linguaggio che non si limiti a riproporre meccanicamente, faticosamente, stancamente, a distanza di trent'anni, le folgoranti invenzioni pluridialettali e arcaicizzanti di Mistero buffo. Riconosciuta a Franca Rame la consueta, imperterrita energia (compresa, nella fattispecie, quella di far fronte alla divaricazione espressiva richiesta dal fatto che il suo personaggio, a un certo punto, si trasforma radicalmente per intrusione diabolica), resta da dire qualcosa del suo inopinato partner. Già; ma che cosa? Albertazzi è comunque e sempre Albertazzi, si capisce; ma qui è anche e soprattutto, temo, un pesce fuor d'acqua: un po', per dare l'idea, come un campione di fioretto catapultato nel bel mezzo di una rissa a colpi di clava. C'è qualcosa di eroico nella nonchalance con la quale tenta di nascondere o minimizzare la propria assoluta estraneità estetica; ed è l'unica cosa che, se fossi uno spettatore con licenza di applauso, avrei avuto voglia di applaudire."
("Corriere della Sera", 4 ottobre 1997, a proposito di Il diavolo con le zinne, testo, scene e regia di Dario Fo)

Le parole di Albertazzi
"Giorgio Albertazzi asserisce ("Corriere della Sera" del 16 ottobre) che ho accettato di portare la produzione inglese della mia pièce Ashes to Ashes al Festival di Taormina la scorsa estate. Questo non è vero. Non essendo possibile dal punto di vista pratico accettare il suo invito, il Royal Court Theatre e io lo declinammo immediatamente e inequivocabilmente. Non ho mai accennato al fatto - e men che meno promesso - che avrei portato Ashes to Ashes a Taormina. Il signor Albertazzi e io non ci siamo mai parlati né incontrati."
Harold Pinter ("Corriere della Sera", 5 novembre 1997)

Adesso Albertazzi si ribella al no di Raidue
"Dopo aver perso Gassman e la Marini, Raidue perde anche Giorgio Albertazzi. L'attore avrebbe dovuto condurre dal 26 novembre il programma Crociera di Gianni Boncompagni, ma la trasmissione è stata cancellata. "È da vent'anni che voglio fare un programma con Albertazzi - ha detto Boncompagni -. Ma le cose, in tv, cambiano". No comment da un furioso Albertazzi: "C'è di mezzo una causa". "Ho diritto di decidere io - ha commentato Freccero - chi conduce un programma e chi no". La Rai ha smentito che la decisione sia legata a un deficit della rete."
("Corriere della Sera", 17 ottobre 1998)

L'attore che avrebbe dovuto guidare lo show di Boncompagni: schiavi della mediocrità
Albertazzi: la tele-spazzatura colpa della democrazia
"1999, fuga dalla tv. Lo vede e lo prevede Giorgio Albertazzi. "La tv ormai è sempre più brutta, sempre più spazzatura. La gente lo sa e non la guarda più. E' in atto una vera fuga dal video. Chi ci guadagnerà saranno teatro e cinema. Malgrado i problemi che li affliggono (il teatro non è ancora riuscito a darsi una legge), si avrà un forte sviluppo di queste due forme di spettacolo, già in crescita da un paio di stagioni". Scampato al naufragio di Crociera: "Su quella "nave" dovevo esserci anch'io, ma ho fiutato l'aria, ho fatto in tempo a tirarmi indietro", filosofeggia sull'ormai dominante trash televisivo. "Ormai sono troppi i "flop", la gente ha perso fiducia nel piccolo schermo. Complice la stampa quotidiana che spesso trascura i programmi più interessanti". Molti i responsabili di tale degrado, uno più di tutti: "Maurizio Costanzo. Nel suo "salotto" ha laureato una schiera di personaggi di infimo grado, poi assurti a divi di tremende trasmissioni". Il marcio non è quindi nel mezzo in sé ma in chi lo fa. "Ogni Paese ha la tv che si merita. In Italia, dove democrazia vuol dire mediocrità, chi è ai vertici del video immagina di avere a che fare con un pubblico ancora più medio-basso di lui. Così nascono le squallide trasmissioni finto popolari che tutti conosciamo".
("Corriere della Sera", 3 gennaio 1999)

Un popolare attore apre dopodomani il Festival di Taormina con la tragedia di Sofocle
Albertazzi: Edipo resta un'ossessione di Emilia Costantini
"Sono passati trent'anni dalla prima volta in cui Giorgio Albertazzi interpretò l'Edipo re di Sofocle, al Teatro alla Scala di Milano. Ora l'attore, settantatreenne, riveste gli stessi panni al Festival di Taormina (di cui è direttore del settore prosa), giovedì sul palcoscenico del Teatro Antico. Avverte Albertazzi: "Non ho più l'età per Edipo, ma lo rifaccio perché i "conti" con lui non sono chiusi. Trent'anni fa mi sembrò un'avventura come altre. Oggi vorrei andare in cerca di Edipo, nei veri panni di un Albertazzi ultrasettantenne, per vedere se ripetendo la sua storia riesco a guarire dalla malattia di Edipo"
I "conti" non sono chiusi dall'Albertazzi attore o uomo?
"Anch'io sono stato innamorato di mia madre: quando mio padre era via, la notte mi infilavo sempre nel letto matrimoniale per dormire con lei. Certamente, come tutti gli uomini, non ho mai risolto coscientemente questo nodo."
Albertazzi era impegnato anche in Pilato sempre, il 7 agosto a Caltavuturo (Palermo), ma lo spettacolo è saltato."
("Corriere della Sera", 6 luglio 1999)

Albertazzi alla Marini: basta ritardi a teatro, lo spettacolo non può saltare per i tuoi capricci da diva
di Valerio Cappelli
"Perché, Albertazzi? "Valeria ha troppi impegni, vive tra automobili e aerei privati. Un giorno recita, il giorno dopo va a Madrid per il film di Saura. Quello che è successo dipende dai sui troppi impegni. Ma chi glielo ha fatto fare, il teatro? Ci sono stati altri momenti difficili, ci hanno abbandonato sia il regista Florestano Vancini (e sono subentrato io), sia Antonia Brancati con la sua riscrittura del romanzo di Heinrich Mann. Valeria l'ho sempre difesa. Ho rifiutato tante proposte proprio perché la Marini è la persona giusta per il suo ruolo. Non dev'essere né una cantante né una ballerina ma un grande corpo, "un pezzo di carne bianca" che non c'entra nulla col film con Marlene Dietrich. Quando si presenta sull'altalena, quasi nuda, è una presenza forte. L'avevo già notata a teatro in Nata ieri, spettacolo mancato e sbagliato". Anche Marilyn Monroe era una ritardataria cronica."
("Corriere della Sera", 3 gennaio 2001)

Dimentica la parte e piange Valeria Marini lascia la scena
"L' angelo azzurro si è messo a piangere in scena. Ed erano lacrime vere, quelle versate da Valeria Marini sul palco del teatro Augusteo, dove l' attrice interpreta Rosa Frohlich diretta da Giorgio Albertazzi. Durante la replica di mercoledì, una crisi di pianto ha bloccato l' attrice durante il primo atto, dopo diverse interruzioni dovute al cattivo funzionamento dell' impianto audio. La voce era un po' rauca dall' inizio, poi i microfoni hanno cominciato a fare cilecca e il pubblico si è messo a rumoreggiare. L' equilibrio si è rotto e sono stati evidenti i gesti e parole di disappunto dell' attrice che aveva dimenticato anche la parte e si è messa a piangere.
Prima del secondo atto Albertazzi e Marini sono tornati sul palco per chiedere scusa e sono stati applauditi. Poi, la Marini è stata lasciata sola a giustificarsi alla mercé di un pubblico vivace. La recita è ripresa in ritardo ma la platea si è intenerita ed ha sottolineato ogni uscita di Valeria Marini con applausi. Non si sa quanto convinti."
("Corriere della Sera", 9 febbraio 2001)

"Dopo la Marini, ecco Rembrandt"
di Emilia Costantini
"Giuseppe Manfridi: 45 anni, romano, autore italiano. Praticamente un fenomeno. E' il drammaturgo contemporaneo piu' rappresentato. Solo in questa stagione, almeno cinque sue opere sono c ontemporaneamente in scena, tra cui L'angelo azzurro con Giorgio Albertazzi e Valeria Marini. E la sesta debutta lunedi' prossimo al Teatro Due: La famiglia Rembrandt sconfitta dai tulipani. (...) Dice Manfridi: "Comincio da una nota dolente: proprio dall'Angelo azzurro, un testo da me amatissimo, ma dalla rappresentazione del quale prendo ora le distanze. Lo spettacolo non l' ho visto e non voglio vederlo, non ho assistito neanche alle prove".
Perche' ha accettato di scriverlo, se sapeva che sarebbe stato recitato da una soubrette televisiva? Si è piegato anche lei alle leggi del mercato?
"Mi fu proposto questo progetto, ispirato al romanzo di Thomas Mann, che mi intrigava molto: c' era di mezzo un archetipo femminile e un attore come Albertazzi. Il fatto, poi, che a interpretarlo fosse la Marini, era una sfida in piu' . Purtroppo la messinscena e' diventata altra cosa da cio' che avevo scritto. Quanto al piegarsi alle leggi del mercato... scrivo per vivere".
("Corriere della Sera", 3 marzo 2001)

Un angelo azzurro con le ali tagliate
Il professore innamorato diventa un tiranno che va alla ricerca di una sua vendetta personale
di Magda Poli
"Albertazzi sceglie la strada dell' ovvietà e Valeria Marini è mandata allo sbaraglio. Un angelo azzurro con le ali tagliate. Scriveva George Bernard Shaw che un brutto spettacolo teatrale lascia nello spettatore un senso di vuoto e di spossatezza pari a quello di una risata meccanica suscitata da un insistito, estenuante solletico. E uscendo dall'Angelo Azzurro di Giuseppe Manfridi liberamente tratto dal romanzo di Heinrich Mann Il professor Unrat, o la fine di un tiranno, portato in scena da Giorgio Albertazzi, non si può che constatare la veridicità dell'affermazione del caustico irlandese. Il testo di Manfridi, fragile e farraginoso, si confonde anche per la regia più che modesta di Albertazzi che non cerca una possibile lettura critica del testo e guida gli attori sulla strada dell'ovvietà, riservando a se stesso la parte di un Raat straniato che fa scorrere tra noia e scontento le sue battute. Valeria Marini, Rose, è lasciata a se stessa, non balla, non canta, non recita e si muove sul palcoscenico senza grazia. È un'interprete senza rete, allo sbaraglio e con pochi mezzi a esclusione di un corpo generoso e bello da esibire che però non basta per fare di Rose un personaggio affascinante e magnetico. Giuditta Saltarini, Stefano Gragnani, Renato Cortesi, fanno il loro mestiere con onestà in uno spettacolo triste per quanto vuoto."
("Corriere della Sera", 14 marzo 2001)

Tajani: se vinco l'Ara Pacis torna come prima
"I nostri avversari hanno ormai perso il contatto con il cittadino. Gli ulivi appassiscono e spunta il cactus"
di Claudio Lazzaro
"Presentazione ufficiale dei candidati di centrodestra, ma Albertazzi (annunciato) non s'è visto. (...) Dopo lo sfottò archeologico, Tajani si è spostato al cinema Adriano, per la presentazione ufficiale dei candidati del centrodestra. Giorgio Albertazzi, il grande istrione, annunciato sui manifesti, all' Adriano non si è fatto vedere. Tajani ha fatto del suo meglio perché non si sentisse la mancanza."
("Corriere della Sera", 22 aprile 2001)

Passeggiate esoteriche
Per strade e piazze, inseguendo un antico filone filosofico. Dalla porta magica di piazza Vittorio fin dentro la Roma Umbertina
di Silvia Testa
"So leggere la psiche guardando la schiena" Era solo un ragazzo, quando si è accorto di avere il dono della chiaroveggenza. Così Giorgio Albertazzi ha iniziato a studiare quella parte del cervello normalmente inattiva che consente solo a pochi, percezioni extrasensoriali. Ricerche estoriche, ma non spiritismo: "Sono un nemico acerrimo di chi sostiene di comunicare con i morti - spiega - Se pure dovesse esistere un aldilà, è per noi inintelligibile. Non c'è ragione per cui un cavallo morto divenuto una stella, possa comunicare con altri cavalli". Quali capacità si è reso conto di avere? "Se posavo la mano su una foto, senza guardarla, potevo vedere cosa stesse facendo la persona ritratta". E poi? "Un uomo in Messico mi ha insegnato a leggere il destino psichico delle persone guardandogli la schiena, senza che gli occhi interferiscano con la percezione". Avrà conosciuto altri sensitivi.. "Sì, abbiamo costituito un gruppo di studiosi provenienti da vari paesi del mondo. Poi qualcosa si e' rotto, pr oprio alla vigilia di un viaggio esoterico. Purtroppo".
("Corriere della Sera", 12 giugno 2001)

Consegnati i riconoscimenti della Fondazione Almirante
"Assegnato ieri ad Alberto Bassetti, al Teatro Valle, il premio "Drammaturgia nazionale contemporanea" della Fondazione Giorgio Almirante: 100 milioni per la messa in scena di un testo, scelto da una giuria presieduta da Giorgio Albertazzi. La figura di Almirante è stata ricordata dal vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini, presente la vedova, Donna Assunta Almirante. Madrina della manifestazione Claudia Cardinale. In sala Pasquale Squitieri, Ignazio La Russa, Gabriella Carlucci, Pierfrancesco Pingitore, Carmelo Rocca per il ministero dei Beni culturali. Riconoscimento "per la cultura italiana nel mondo", consegnato a Maurizio Scaparro, al Théatre des italiens di Parigi.
("Corriere della Sera", 28 giugno 2001)

E' Albertazzi il grande favorito per la direzione del Teatro Stabile. Ma sorgono contrasti per l'India
Gli esponenti della destra: "E' esclusa la possibilità di sdoppiare la direzione"
di Emilia Costantini
"All'indomani della prima tormentata fumata bianca sulle sorti del Teatro di Roma, con la nomina del presidente e dei membri del Consiglio di Amministrazione, l'attenzione ora si sposta su chi ne assumerà la direzione. La Regione e la Provincia, guidate dalla destra, che sono soci dello Stabile insieme al Comune, puntano decisamente sul nome, la fama, la statura artistica di Giorgio Albertazzi. Il protagonista di Memorie di Adriano si trincera, saggiamente, dietro un diplomatico "no comment", anche se in passato non ha mai nascosto una sua disponibilità all' incarico. L'attore fiorentino aveva infatti ammesso, in sue recenti affermazioni: "Mi sono state piu' volte offerte delle cariche pubbliche, allo Stabile di Catania, a quello di Palermo e perfino a Trieste, ma non ho mai accettato. Roma, però, è sempre Roma" Pare improbabile, però, che Albertazzi, se mai si concretizzasse il suo arrivo allo Stabile, possa accettare una direzione in tandem con chicchessia. "
("Corriere della Sera", 2 novembre 2001)


Teatro, arte della (tele)visione
A margine di La scène et les images
di Anna Maria Monteverdi

Nel desolante panorama storico-critico sui rapporti sempre più frequenti e sempre più stretti tra i nuovi media e il teatro, spicca (anche per dimensioni) il volume La scène et les images, appena licenziato alle stampe dal CNRS di Parigi, con l'approfondimento che contraddistingue la collana (Le Voies de la Création Thèatrale) inaugurata nel 1978 con un volume sul Living Theatre e Grotowski e diventata fondamentale strumento di approfondimento e di ricerca per gli studiosi di teatro contemporaneo.
Béatrice Picon-Vallin ne è la curatrice (come lo era stata per il volume monografico su Mejerchol'd) nonché autrice di un importante saggio introduttivo in cui riprende alcune delle argomentazioni da lei già esposte in un'altra antologia critica (Les écrans sur la scène, Lausanne, L'age d'homme, 1998) con maggiore attenzione, questa volta, a definire le "origini della specie". Il libro riunisce contributi critici su autori diversi per genere, estetica, modalità di composizione, contesto di appartenenza ma legati da una comune ricerca nell'ambito della visualità e da una loro collocazione in una scena-immagine.
La ricerca delle radici del "Visual theatre" (che include lo storico teatro-immagine dell'avanguardia italiana e americana e a scena francese proliferante di schermi degli anni Ottanta e Novanta) conduce ai fondatori/riformatori della regia moderna, in pieno clima di rivendicazioni di autonomia dell'arte teatrale dalla letteratura e di proclami di ri-teatralizzazione (il Teatro teatrale, per ricordare un celebre libro di Bragaglia). Dal teatro, quindi, delle prime avanguardie all'indomani del Naturalismo, del Realismo storico-ricostruttivo dei Meininger, passando per le "cineficazioni" e al teatro "tecnocratico" di Piscator e Mejerchol'd.
Gordon Craig non poteva che essere il primo dei protagonisti della scena moderna abitata più da immagini e dalla luce che non dalla letteratura. Craig ha dato esempio di questo nuovo teatro (Towards a new theatre, 1913 è il titolo di uno dei suoi più importanti libri) nelle sue "visioni sceniche": lo aveva immaginato, inciso, disegnato, pitturato, descritto e infine teorizzato più che realizzato concretamente. Aveva rivendicato il ruolo del metteur-en-scène come unico autore dello spettacolo ("Il teatro non ha nulla a che fare con la letteratura") mentre con la progettazione dei famosi "screens" (pannelli semoventi che sostituivano la scenografia tradizionale) per l'Amleto di Mosca aveva affermato il valore evocativo ed espressivo della "scena sintetica". L' effetto finale di questa "quinta scena" fatta unicamente di forme geometriche e luce in movimento continuo, vero "ambiente espressivo", doveva essere, secondo le stesse parole di Craig, quello di una "musica visiva" mentre il regista diventava un "pittore di luce":

"I can colour my screen or the actor's form to a great extent in the same strenght and quality as a painter uses on his canvas. I employ only light" ("Scene", 1923).

In una serie di tavole usate per illustrare "Scene", Craig evidentemente influenzato dalla contemporanea corrente simbolista, rinunciando alla scenografia dipinta, affidava unicamente alla luce che si distribuiva nello spazio, generandolo e al movimento (non solo quello dell'attore sulla scena ma quello della scena stessa), il compito di tradurre il senso profondo del dramma (il "movimento interiore"): una luce dirompente, mai ferma, proveniente dall'alto creava ombre potenti e spigoli taglienti sopra massicci monoliti, minacciose presenze della sua visionaria scena architettonica.
Per questo tema del "teatro come luogo del movimento" Ragghianti (per il quale teatro rientrava a pieno diritto nell'ambito delle "arti della visione", non diversamente dal cinema) salutava Craig come il lungimirante profeta della cinetica-scenica, colui che "ha saputo meglio definire la forma teatrale".
Il panorama storico continua con Appia, per il quale lo "spazio-luce" della scena plastica tridimensionale che sottolinea e potenzia (secondo il principio della contrainte, dell'opposizione) gli atteggiamenti, il profilo e i movimenti del corpo umano e le geometrie degli ambienti: "la luce che conviene a valorizzare una tela dipinta non è mai quella che esigono dei corpi in movimento".
Mejerchol'd e Piscator introducono immagini fisse e infine il cinema (non solo attraverso proiezioni ma integrandone lo stesso procedimento linguistico e tecnico) in una "macchina scenica" praticabile e che esibiva la struttura, erede - nel caso di Mejerchol'd - del Suprematismo di Malevich e del Costruttivismo di Tatlin; Cruciani affermava che Piscator "ha realizzato una scena multispaziale e multimediale" mentre Ragghianti (Arti della visione, vol. 2: Spettacolo) lo definisce "il primo regista che abbia compreso almeno in via pragmatica che il teatro come spettacolo figurativo non era sostanzialmente diverso nella sua natura e nei suoi mezzi dal cinematografo".
Nel progetto mai realizzato del famoso Teatro Totale datato 1927, Walter Gropius, ispirandosi al funzionalismo architettonico e ai principi della Bauhaus ("Le forme - uno dei termini chiave della Bauhaus - sono l'immagine del movimento, il movimento è l'essenza della forma"), aveva pensato a una vera "macchina-teatro" con piattaforme girevoli, tre palcoscenici e in cui un gigantesco schermo mobile per le proiezioni di film e diapositive potesse integrarsi nell'intera struttura architettonica, ampliando così la stessa cornice scenica, avvolgendo letteralmente il pubblico in una scena sempre più marcatamente visiva e mobile:

"Invece del solito piano di proiezione abbiamo uno spazio di proiezione. La sala reale, neutralizzata dall'assenza di luce, diviene, grazie alle proiezioni luminose, lo spazio dell'illusione, il teatro degli avvenimenti scenici. Lo scopo di questo teatro non è dunque quello di ammassare materialmente gli impianti tecnici e i trucchi più raffinati; questi semplicemente mirano ad ottenere che lo spettatore sia trascinato nel centro degli avvenimenti scenici, faccia parte spazialmente del luogo dell'azione e non vi possa più sfuggire rimanendo al di qua del sipario".

Se negli anni Venti in Germania il cinema viene impiegato a teatro con funzione "didattica" e propagandistica ("Mi occorrevano mezzi che rivelassero l'influenza reciproca fra i grandi sovrumani avvenimenti dell'umanità e un individuo o una classe", ricordava Piscator. "Uno di questi mezzi era il film. Ma non era altro che un mezzo, che domani avrebbe potuto essere sostituito da uno migliore"), negli anni Ottanta e Novanta il video in scena introduce il cosiddetto "effetto specchio". Il corpo dell'attore viene replicato in scena e il suo doppio elettronico rimette allo sguardo dello spettatore l'immagine di un'interiorità invisibile e indicibile: è il passato o l'altrove, il nascosto e il perturbante. E' (come nel caso di Robert Lepage) metafora di un io letteralmente spaccato in due che reclama una sua propria esistenza. Il video in scena introduce la simultaneità di spazi (il lontano e il vicino insieme), una temporalità aperta (rifiuto del continuum temporale, assenza di una linearità diegetica narrativa), una molteplicità di visioni e compresenza di punti di vista (George Banu paragona questa abolizione della frontalità - "sorta di marchio di fabbrica del teatro tradizionale", come ricordava Schechner - alle prospettive prismatiche cubiste), e infine, come spiega Picot-Vallin, la prossimità:

"Les images vidéo de plus ou moins grand format selon leur support de diffusion, élargissement à un contexte totalisant l'action jouée sur le plateau. Mais liées à une logique de fragmentation, d'atomisation, elles ont surtout des fonctions spéculaires, narcissiques, mnémoniques, introspectives, intimistes, ludiques, elles donnet à voir le 'non-montrable' à la scène ou troublent la vue du spectateur. Creusant l'image scénique par la façon dont elles s'y incrustent, telles des corps étrangers, elles manipulent, déroutent, déstabilisent le public, mettant en abime le réel e le théatre, introduisant de multiples possibilitéss de variations sur la distance et le rapprochement entre scène et salle".

Dunque la Vallin legge la scena tecnologica odierna in continuità con le teorie e con le innovazioni delle avanguardie novecentiste e un ulteriore contributo al vero, unico tema del teatro moderno: la conquista di uno spazio scenico architettonico, generato a partire non dalla pittura o dalla letteratura ma dalla luce.

"La scène architectonique de Craig, la scène constructiviste ou celle du Bauhaus, genèrent des machine à jouer capables de dècouper l'espace tridimensionnel en une série de cadres précis dans lesquels le comédien devra maitriser le mouvement scénique, le jeu se voyant défini come maitrise des formes plastiques dans l'espace. La lumière tend également à éliminer la peinture pour distribuer elle-meme dans l'espace qu'elle fluidifie coulers et mouvement. Aujourd'hui, la machine à jouer se fera machine à projeter des images et le jeu des comédiens devra tenir compte de celle-ci, fixes ou animées qui peuvent habiter l'espace dans son ensemble. Images qui peuvent meme capter l'acteur en direct et etre retraitées, toujours en direct, images surgies, fantomatiques, toujours au bord de l'évanouissement, de la disparition, par lesquelles l'acteur de chair est redoublé, agrandi, magnifié, effacé, ou sous surveillance".

L'analisi della Vallin continua con un accenno a Deafman's Glance di Bob Wilson (1971), spettacolo che consacra il regista texano all'attenzione del pubblico. Il dominio dell'immagine si coniuga con l'esasperato rallentamento del movimento; contro l'accelerazione mediatica Wilson propone la suggestione di una luce intensa e magnetica, di "une action en èvolution lente, hiératique, mysterieuse, silencieuse, support pour la méditation du regadeur".
Il lungo saggio termina, infine, con un'indagine sull'opera di Matthias Langhoff, regista che dà vita a vere "stratificazione di immagini sulla scena". Nel suo teatro marcato dal segno della "distruzione", passano in rassegna le pitture di Bosch, le allucinazioni deformanti di Bacon, il Picasso di Guernica, e ancora foto e film d'archivio sulla guerra, video, diapositive; il suo teatro è il cantiere di un mondo in disfacimento. Agli "strati della Storia" corrisponde una scena straripante e proliferante di immagini di ogni genere, fisse e in movimento, in bianco e nero e a colori, ad alta e bassa definizione, veri reperti della storia della fotografia trattati e trasformati per la scena, mentre al raccontare attraverso le parole si sostituisce un parlare (e far pensare) per immagini.

Fréderic Maurin (che aveva curato per "Théatre/Public" il numero speciale su Théatre et technologie, 1996) racconta l'evoluzione del teatro di Robert Wilson e l'inizio, lo sviluppo e la fortuna del termine Theater of images (dall'antologia di Bonnie Marranca che raccoglieva testi degli spettacoli di Wilson, Foreman e Lee Breuer) di cui Philip Glass individua come una delle fonti il Frankenstein del Living Theatre (creazione collettiva del 1965; Wilson e Glass si ispireranno a questo spettacolo per la scenografia di Einstein on the beach). Eliminazione del dialogo, dello statuto del personaggio e di una storia, marginalità della parola per una sintassi di tipo visivo.
Tra i contributi che approfondiscono spettacoli o progetti specifici di teatro tecnologico: l'analisi dettagliata delle diverse azioni, delle images-tableaux e images-action, e la sequenza degli inserti video, di Danse de mort di Langhoff (1996), la lettura dei disegni preparatori per uno spettacolo multimediale di Dominik Barbier insieme con Muller su Hamlet-machine (1995) e mai andato in scena. Barbier aveva già realizzato un importante videodocumentario di creazione ispirato proprio alla figura del drammaturgo tedesco Heiner Muller (J'etais Hamlet, 1994). Su questo documentario, ritratto di Muller nella sua Berlino, che racconta dell' eredità di Brecht, del teatro ed il suo ruolo nella storia, della Germania tra memoria di guerra e attualità, realizzato come materiale base per lo spettacolo, Barbier dice: "Venerato, detestato, mediatizzato, politicizzato, animalizzato, corteggiato, onorato, respinto, accusato, invitato, filmato ma soprattutto letto e recitato H. Muller è un mostro, un poeta un attore un testimone un vivo nel paese dei morti. Mi ha fatto sorridere: ha trovato questo video un po' cupo. Ma non sono stato io a inventare Muller né è stato lui a inventare la storia tedesca".
Ancora, il teatro di Jacques Lassalle, Georges Lavaudant, André Ligeon-Ligeonnet, Armand Gatti, e Théatre du Radeau.
Sul versante italiano Brunella Eruli traccia una storia che dal 1973 (anno del convegno Nuove tendenze-teatro immagine a cura di Filiberto Menna e Giuseppe Bartolucci) conduce con un filo rosso alle esperienze teatrali di Studio Azzurro e ai protagonisti della terza e quarta "ondata": Societas Raffaello Sanzio (a cui viene dedicato, come del resto a Tiezzi e ai Magazzini, un intero paragrafo), Ravenna Teatro, Gaia Scienza e Barberio Corsetti, Falso Movimento, fino ad arrivare ai creatori più originali della neo-neo-avanguardia: Motus (soprattutto) e Teatrino Clandestino. Viene, quindi, recuperato il "patrimonio" culturale della Nuova spettacolarità e della postavanguardia. Pionieri riconosciuti, oltre ovviamente a Carmelo Bene: Mario Ricci, Giancarlo Nanni, Giuliano Vasilicò e Memé Perlini, quest'ultimo con la sua scena ricca di citazioni dalle avanguardie storiche e dal cinema che ha dato vita a quei "frammenti immagine" risultato di una sapiente alternanza di luce e ombre in un teatro in cui la letteratura non ha più il suo palco d'onore. Non si possono non notare in questo percorso, assenze "eccellenti": tra tutti il Tam teatro-musica (quest'ultimi sperimentatori del video in scena e autori - in collaborazione con Giacomo Verde - di storiche videocreazioni autonome dagli spettacoli ma ad essi ispirate: Macchine sensibili, Tutto quello che rimane).


London Calling
La corrispondenza di Francesca Lamioni

Sarebbe utile per "ateatro" avere più info & notizie dalle capitali dello spettacolo. In questo numero inizia la sua collaborazione da Londra Francesca Lamioni (muchissimas gracias). Sono gradite candidature da altre città...

The Volcano Theatre Company
DESTINATION di Thomas Bernhard
Regia: Kathryn Hunter
Traduzione e aiuto regia: Jan Willem van den Bosch
Coreografia: Marcello Magni
Musica: Patrick Fitzgerald
Luci: Andrew Jones
 

Dove:  Riversidestudios
Crisp Road, London W6 9RL
Dal 13 al 17 Novembre
Prezzo 14 £ ( 8 ridotti)
Box office: 020 82371111

Fermata metropolitana: Hammersmith
(District , Piccadilly, Hammersmith & City Line)

“ Non è sufficiente che un gruppo di giovani percuota la testa a un gruppo di vecchi… tutto deve essere spazzato via entro domani”

La Compagnia Volcano è nota per aver prodotto un teatro di rottura ed è considerata una delle realtà più imprevedibili e provocatorie nella scena inglese contemporanea.
La compagnia ha partecipato a tour mondiali, con produzioni di successo come Macbeth: Director’s Cut, Private Lives, L.O.V.E., After the Orgy.

“Volcano è preziosa per la sua abilità di rendere fisici non solo  sentimenti ma anche pensieri ed usa il testo con sapiente intelligenza. I suoi lavori non sono mai un’esposizione di corpi lungo la parete.” The Guardian

Destination è la prima inglese della traduzione di Thomas Bernhard Am Ziel (Alla meta), una delle sue pièce più audaci e satiriche. Benché quasi sconosciuto in Gran Bretagna, Bernhard è uno degli scrittori contemporanei di teatro più originali e tradotti. Il suo lavoro amalgama e mescola i mondi di Kafka, Beckett e Pinter, dando vita ad un bizzarro ritratto dell’umanità e del mondo moderno.
La regia è di Kathryn Hunter, nota per la sua collaborazione con compagnie come quella del Théâtre de Complicité e dello Shakespeare Globe.

Destination è una pièce di umorismo nero.
Una madre possessiva, accentratrice, frustrata e colma di rabbia per la vita che ha (o meglio NON ha) condotto si propone debole e malata mentre, in realtà, manipola e schiavizza chi le sta intorno. Istrionica, acuta e perversa: un perfetto tiranno.
Una figlia, a tratti lucida e ribelle  ma demolita dai giochi di potere della madre e quindi, non solo incapace di liberarsi, ma anche morbosamente legata a lei in quanto unico legame affettivo resole possibile dalla sua condizione esistenziale. Tentativi di fuga rappresentati in acrobatiche arrampicate che finiscono sempre in tonfi sordi. Rapporto vittima/ carnefice coi  suoi equilibri folli ma ben delineati, coi suoi ruoli e le sue dinamiche prestabilite.
Si inserisce un elemento di rottura: un giovane scrittore, invitato dalla figlia a trascorrere le vacanze nella casa sul mare.
Avviene uno scontro  fra due personalità forti: la madre è contro la scrittura, la poesia, l’arte. è contro la possibilità di cambiamento, di ottimismo e di leggerezza: perché – semplicemente - lei conosce già tutto, ha già visto tutto e sa bene che l’entusiasmo del giovane non potrà cambiare il mondo. Però non sorride teneramente di fronte all’ingenuità di lui: le sue risate sarcastiche sembrano una disperata richiesta di aiuto. Non lascia trapelare nessuna stima verso i progetti del ragazzo, però lo ascolta. Non vuole che si avvicini alla figlia, però balla con lui con fare seducente.
Il ragazzo alla fine rimane irretito nella prigione:  non  come schiavo e neanche come redentore - semplicemente per espletare il ruolo che gli appartiene: come scrittore.
Infatti probabilmente è lui l’io narrante di questa storia che seziona una fetta di realtà e ce la  descrive.

Mi piacerebbe interpretare questi tre personaggi alla “maniera antica”, un po’ alla greca. Vorrei vederli come aspetti psicologici presenti contemporaneamente nella psiche di ognuno, in continua lotta fra loro ma anche con una finale possibilità di assestamento ed equilibrio. Se queste tre figure  le penso distinte e separate mi sopraffà una notevole angoscia perché ho come l’impressione che individualmente  sarebbero destinate ad un’esistenza tremendamente squallida.
Se invece vediamo la madre come il predatore psichico (quella voce che urla NON CE LA FARAI MAI), la figlia come il bambino ferito (che riconosce il mostro ma non sa liberarsene perché mutilato) e il giovane scrittore come la capacità creativa
(quindi fuga e risoluzione della nevrosi attraverso l’arte) ecco che cosi’ il tutto acquisisce un senso.
Preferisco intendere il teatro come un processo alchemico della psiche, dove attraverso l’analisi della materia grezza si da inizio a un processo di trasformazione che conduce a forgiare materiale elevato e prezioso; oppure come una guarigione che avviene attraverso l’identificazione/fusione con “un altro”; o, per tornare ai Greci, un processo di presa di coscienza di cui condizione necessaria è il coraggio di guardare dritto negli occhi ciò che crediamo insopportabile da conoscere, accettare la sfida eroica di rompere il tabù che ci rende paurosi e impotenti per diventare padroni della nostra vita, guerrieri coraggiosi che non temono nessun mostro.

E POI...

All’interno del London Jazz Festival, 9 al 18 novembre, una serata gioiosa: in un’antica chiesa in stile gotico – Union Chapel – fra panche di legno e offerte per le missioni, si sono esibiti in tutta la loro potenza scenica Tricok Gurtu e Anjelique Kidjo.
I due artisti hanno già suonato e cantato insieme in passato ma questa è stata la prima mondiale di uno show “a quattro mani”.
In prima serata il percussionista indiano ha proposto una band di alta  qualità:
la bravissima cantante solista Sabine Kabongo (afro/belga) del gruppo Zap Mania; un impeccabile Ravi Chary al sitar; Amit Heri alla chitarra elettrica e Hilaire Penda al basso. Gurtu è un percussionista sorprendente: fa jazz picchiettando con dita abilissime e veloci i piu’ disparati tipi di percussioni, creando ritmi incalzanti e suoni originali su melodie afro/indiane, con un pizzico di occidente “elettrico”. Grande padronanza della  tecnica, languida magia d’oriente e personalità carismatica creano un prodotto gradevole e fruibile anche per un pubblico alle prime armi col jazz.
La regina dell’afro pop, originaria di un villaggio del Benin, Anjelique Kidjo ha elergito generosamente i pezzi piu’ caldi del suo repertorio (v. Batonga) , ha concesso a furor di popolo una sublime interpretazione di Malaika, ha proposto ritmi di Bahia e ha trascinato il pubblico a ballare con lei sul palco. Un corpo robusto ed energico che volteggiando in drappi multicolore ha contagiato la sala, costringendoci a lasciare le austere sistemazioni da messa per danzare nelle navate!
Anjelique ha fatto alcuni interventi interessanti sulla guerra, sulla necessità di non creare discriminazioni razziali e tantomeno religiose, sulla difficoltà che ha avuto- in quanto donna nata in Africa – a seguire la sua strada che l’ha portata al successo.

Dove: Union Chapel
Fermata metropilitana: Islington ( Victoria line)
Prezzo: biglietto unico 16 $

 KODO DRUMMERS

Dove: Barbican Centre
Fermata metropolitana: Barbican ( Hammersmith & City, Circle Line)
Prezzo: da 15 a 30 £
Dal 16 al 18 Novembre

Da tempo avevo sentito parlare dei kodo drummers, avevo visto un documentario sulla loro vita nell’isola di Sado, in Giappone, dove – con disciplina e devozione monacali – coltivano quotidianamente, pazientemente la loro arte, tutt’uno con la loro vita. Non li avevo mai visti dal vivo ed è vero: un’esperienza da non perdere.
Il palco ospitava circa una decina di tamburi di dimensioni da macroscosmo a microcosmo: tamburi grandi, che rimbombano suonati con bastoni che sembrano mazze e tamburi sempre piu’ piccoli, appena sfiorati da bacchettine di legno sottile.
Dal forte, doppio battito primordiale che risuona nel cuore ( e che rappresenta il cuore che batte nel grembo materno) fino al ticchettio di una fitta pioggerella sul tetto di una capanna. E poi il mare, il vento, la danza: una rappresentazione della natura fisica, materica cosi’ come fisico è il rapporto viscerale fra suonatore e strumento, fusi in un abbraccio, in una lotta, in un continuo sfiorarsi, percuotersi e separarsi.
Preparazione atletica, precisione, coordinazione nel gruppo: perfezione.
La comunità dei Kodo vive in 25 acri di terra nella foresta della penisola di Ogi, a sud di Sado. La cerimonia inaugurale del villaggio è avvenuta nel 1988 e dalla prima struttura originaria oggi il complesso si è esteso e vanta cucine, dormitori, una libreria musicale, uno studio di registrazione, una sala per gli spettacoli. I membri del gruppo sposati fra loro hanno costruito casa nella terra circostante.
I  Kodo effettuano una sapiente rilettura della tradizione musicale antica, inserendola nel contesto contemporaneo. Il loro atteggiamento sul palco è scevro da ogni divismo, egocentrismo, compiacimento virtuosistico: con un inglese elementare, sorrisi timidi e grande semplicità si sono accattivati la simpatia ed il calore del pubblico. Si percepiva la sacralità della scelta esistenziale compiuta e la totale dedizione ad essa.

C.D. di Kodo: Tsutsumi, Sai-so, Ibuki, Warabe, Blessing of the earth, Live at the Acropolis, Best of Kodo (1 e 2)
Pezzi interpretati: Zoku, Miyake, Idaten, Shamisen, Bird Island, Monochrome, Hiina-no-ko, Kariuta II, O-Daiko, Yatai-Bayashi
Musicisti: Kazunari Abe, Sachito Abe, Takeshi Arai, Yoshikazu Fujimoto, Tsubasa Hori, Kazuki Imagai, Ryutaro Kaneko, Mitsunaga Matsura, Tomohiro Mitome, Tetsuro Naito, Akira Nanjo, Ayako Onizawa, Eiichi Saito, Hideyuki Saito, Yoshie Sunahata, Kaoru Watanabe.

KODO
148-1 Kanetashinden, Ogi, Sado Island, 952-0611 Japan
tel. +81 0259-86-3630
fax. +81 0259-86-3631
European enquiries: kodo@diorama-arts.org.uk


Che fare?
I tuoi (indispensabili) consigli per migliorare olivieropdp/ateatro

olivieropdp/"ateatro"è nato circa tre anni fa come spazio libero, autogestito e gratuito, per chi lo usa e per chi lo fa. Il suo obiettivo: diffondere la cultura del teatro. (Se ti interessa, trovi una breve storia del sito in "ateatro 22").
Il sito si è progressivamente arricchito di nuovi archivi/sezioni/servizi, grazie anche ai consigli e alla collaborazione dei visitatori.

Attualmente olivieropdp/"ateatro" comprende queste sezioni principali (se non l'hai fatto, provale!!!):

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2. la webzine "ateatro" (con scadenza vagamente quindicinale)

3. i forum  (sono attualmente attivi quello sulla nuova drammaturgia, quello sul teatro di guerra, uno spazio segnalazioni  e uno per le richieste di aiuto, più un forum dedicato alla stupidità)

4. motore di ricerca

5. links

6. tesi online

7. enciclopedia personale

8. stupidity 101

A questo punto il sito può ancora crescere e migliorare, ma solo grazie ai consigli e all'aiuto di chi lo frequenta, affrontando nuovi temi, aprendosi a ulteriori collaborazioni e allargando e dando stabilità a una rete di contatti finora informale.
Per fare questo, sono necessari prima di tutto i consigli e la collaborazione di coloro che fino a questo momento hanno trovato in queste pagine qualcosa di interessante, piacevole, utile.
La prima tappa: capire come viene usato il sito e come può essere migliorato.
Abbiamo dunque preparato un piccolo questionario. Per rispondere, è attivo il Forum «il QUIZ di "ateatro"».

IL QUIZ

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