ateatro

n. 25 - 8 dicembre 2001
a cura di Oliviero Ponte di Pino
in collaborazione con Anna Maria Monteverdi
 

"E' guerra! E' guerra! O angelo di Dio, poni rimedio,
intervieni con la tua parola!
Purtroppo è guerra, - e io desidero
non averne colpa."
Matthias Claudius, Kriegslied,
citato da Thomas Mann in una lettera a Hermann Hesse, 31 luglio 1933
(l'edizione italiana del Carteggio è stata pubblicata di recente da SE)
 

(e dovreste sentire in sottofondo il nuovo hit del Maestro del Midi, Andrea Antonini...)
 

INDICE

SPECIALE LUCA RONCONI

Luca Ronconi è certamente il più grande regista italiano, da decenni protagonista della scena europea. Quelli che seguono sono alcuni tasselli sparsi sul suo percorso, con punti di vista e taglio molto diversi, un piccolo e frammentario contributo alla ricostruzione di un percorso intellettuale e artistico di straordinario fascino. Altri materiali sono disponibili nei precedenti numeri di "ateatro" (per esempio, su "ateatro 1", il saggio sulla Lolita superpremiata agli Ubu) e in olivieropdp (insomma, usate il motorino di ricerca...)

Ibsen con gli occhi di Craig nel Borkman di Ronconi
di Fernando Mastropasqua

Prima cittadino poi attore
Incontro con Marisa Fabbri
Presentazione a cura di Anna Maria Monteverdi
(in collaborazione con Cinzia Bellucci)

Una tragedia della corruzione
Ruy Blas di Luca Ronconi nella recensione di Oliviero Ponte di Pino
 

E POI...

L'Alchimie du Verbe tra Arthur Rimbaud e Fanny & Alexander
di Luigi de Angelis
(con un mail di risposta di Oliviero Ponte di Pino)

Al placido Don
di Renata Molinari e Luigi Dadina
(Un frammento)

G8 x P24
di Oliviero Ponte di Pino

No-Body
di Anna Maria Monteverdi

London calling
di Francesca Lamioni

La Norma Traviata
un musical delirante con la straordinaria partecipazione di Franco Basaglia, Pierre de Fermat, Sigmund Freud ed Evariste Galois
di Denis Gaita
 

COMUNICAZIONI DI SERVIZIO

Per i miei fans (ce ne sono?) sabato 8 dicembre, alle 14, su Radiotre, conduco per l'uiltima volta (in questa tornata) il glorioso Grammelot (programma di Patrizia Todaro a cura di Elio Sabella, che guida in redazione Nicola Pedone e Stefania Fioravanti) dallo studio di corso Sempione (Milano) con Gaia Varon. La redazione non vede l'ora di essere seppellita da mail grammelot-spettacoli@rai.it, fax e telefonate (02-34531140).

Imperdibili i due CD pubblicati da Garzanti Libri: Marco Paolini interpreta Marco Calzavara e Sandro Lombardi interpreta Pier Paolo Pasolini. Intanto potete ascoltare due brani in anteprima: Marco Paolini interpreta l'irresistibile Can, Sandro Lombardi la struggente Supplica a mia madre.
Per altre info, leggete l'intervista sul progetto di "Alice" a Oliviero Ponte di Pino, oppure visitate la pagina del sito Garzanti dedicate ai due cofanetti. A questo punto sapete già cosa dovete regalare per Natale ad amici, parenti, innamorati... Anzi, potete richiedere i due cofanetti subito subito da internetbookshop: Paolini-Calzavara (prezzo di copertina 27.000 lire) & Lombardi-Pasolini (prezzo di copertina 25.000 lire). Insomma visto il rapporto prezzo-qualità, farete un figurone!!!

A partire dal 10 dicembre, alle ore 17, Radiotre, nell'ambito di Fahrenheit, manderà in onda 20 puntate di una striscia giornaliera di Marco Baliani, ispirata a Tracce di Ernst Bloch (pubblicato da Garzanti con una introduzione di Laura Boella), uno dei libri di filosofia più affascinanti di tutti i tempi. Proprio a partire da testo di Bloch Baliani aveva realizzato nel 1996 un monologo: qui sotto la recensione pubblicata a suo tempo sul "manifesto".
 

Racconto, oralità, fiaba, infanzia, stupore e incantamento... Sono questi i temi su cui da tempo riflette e lavora Marco Baliani, attore. Qualche anno fa, l'ipotesi di un “teatro di narrazione” estremo l'aveva condotto a realizzare un Kohlhaas in cui lo stupendo racconto di Kleist era affidato unicamente alla sua presenza d'interprete. Su una sedia, al centro di uno spazio assolutamente spoglio, Baliani era insieme l'interprete e lo spettacolo, il narratore e il racconto, l'autore e tutti i suoi personaggi, ma anche il paesaggio, le percezioni, i sentimenti, la musica di quella terribile fiaba.
Un proiettore, una sedia, un attore. Ma al di là dell'apparente essenzialità, per costruire e nel mantenere viva l'attenzione e l'emozione dello spettatore, il Kohlhaas utilizzava tutta una serie di tecniche narrative affinate con cura, e recuperate dall'oblio o dalla distrazione, come se facessero parte del sostrato “naturale” di qualsiasi essere umano. Quest'arte del narrare finiva dunque per rimandare a una sorta di antropologia dell'oralità, fondata anche sul peculiare rapporto che con il pubblico instaura la figura quasi archetipica del narratore - che non coincide esattamente con quella dell'attore-interprete, e tende piuttosto alla solitudine cieca del veggente. Baliani lavora dunque alla riscoperta di livelli spesso dimenticati e rimossi della comunicazione. Non è un caso che la prima verifica “sperimentale” gli sia venuta dal lavoro con bambini e portatori di handicap.
Quella del “teatro di narrazione” è una dimensione che privilegia l'artigianato rispetto alla tecnica, il processo rispetto alla forma, l'elaborazione collettiva rispetto all'ideologia dell'autore, l'immediatezza dell'incontro rispetto alla fissità della scrittura, con tutti i suoi risvolti teologici. Sul versante della riflessione teorica, dopo esser passato da capisaldi come il Leskov di Benjamin (in Angelus Novus) e i saggi di Ong, per Baliani era pressoché inevitabile l'incontro con Tracce di Ernst Bloch: libro indefinibile, incrocio di filosofia e narrazione - o meglio, un affascinante tentativo di “pensare anche affabulando”. Proprio da alcune suggestioni di Bloch (e non solo, perché si spazia da Rilke alla Cvetaeva, dall'Odissea a Rilke, da Max Frisch alle iscrizioni funerarie romane) è nato un work in progress, all'insegna appunto di Tracce, presentato per qualche giorno al Teatro Verdi di Milano: due ore di monologo, densissime di suggestioni e spesso emozionanti, a metà tra lo spettacolo e la conferenza.
Nelle Tracce di Bloch la filosofia cerca di farsi gesto, per recuperare nella dimensione del racconto l'inavvertito: quello che sfugge alla “costruzione logica del mondo” (e forse ciò di cui, secondo Wittgenstein, si dovrebbe tacere). Analogamente nel lavoro di Baliani la riflessione sul teatro cerca di farsi gesto ed emozione teatrale, nel “qui e ora” della voce, abbeverandosi alle stesse “crepe nell'organizzazione del mondo” che Bloch inseguiva nella sequenzialità vagabonda e nella fascinazione del racconto. Perché la narrazione (che può essere mito o fiaba, aneddoto accaduto ad altri o oppure resoconto di un'esperienza autobiografica) ci offre una possibilità di orientarci nella realtà: una possibilità diversa e irriducibile dalle altre, che a volte è in grado di rendere la realtà meno terribile.
Usando la forma spettacolare codificata nel suo Kohlhaas, facendo coincidere nel narrare il medium e il messaggio, le Tracce di Marco Baliani sono insieme una riflessione e un'azione scenica, fin nelle intenzioni. Fiabesca e ironicamente professorale, questa lezione-racconto procede accumulando frammenti e digressioni. E' una sorta di conversazione solitaria, che si nutre della passione delle origini, che torna all'infanzia e allo stupore del mondo, al pensiero mitico, alle culture conservative, al tempo che precede la storia e la scrittura. Ricordando però che a nutrirla, questa passione delle origini, può essere solo un'utopia. L'utopia di Baliani è quella di insegnarci ad ascoltare la voce della natura e dell'Altro, a riscattarci dal tempo. E' una pedagogia che vuole insieme sedurre ed educare: è proprio a causa di queste etimologie che in questo spettacolo-manifesto la divagazione assume un valore pedagogico fondamentale. Perché è solo attraverso l'errare che possiamo reimparare a coglierne i messaggi e le voci del mondo. Anche quelli più terribili e mortali, quelli che ai tempi delle sirene potevano incantare e pietrificare, e insieme misurare l'orizzonte e il suo infinito. O meglio, queste Tracce ci raccontano con grande efficacia che per noi tutto questo - e quello che Rilke ribattezza magicamente l'Aperto - è ormai irrimediabilmente perduto, e ci insegna a coltivarne e proteggerne la nostalgia.
Oliviero Ponte di Pino

Il forum sul teatro di guerra, visto anche quello che sta accadendo al Teatro di Roma, è abbastanza attivo. Segnalo tra tutti i contributi di Paolo Petroni (sulle responsabilità della sinistra) e quello di Mimma Gallina (sui conflitti d'interesse all'interno dei CDA degli stabili). Particolarmente impegnato nella campagna "bipartisan" a favore di Giorgio Albertazzi è il "Corriere della Sera", anche con una intervista programmatica al futuro direttore (di cui trovate ampia traccia nel forum di "ateatro", insieme a altri interventi significativi, a partire da quello di Paolo Mieli). Nel forum anche  la precisazione inviata da Mario Martone al quotidiano milanese.

Per i fan di Andrea Camilleri, Rizzoli manda in questi giorni in libreria Le parole raccontate. Piccolo dizionario dei termini teatrali, 154 pagine a 25.000 lire. (Del resto Camilleri, per chi l'avesse dimenticato, ha una lunga carriera, tra le altre, di regista teatrale e ha insegnato a lungo all'Accademia d'Arte Drammatica di Roma, prima di inventarsi il commissario Montalbano...). Un anedotto, tra i molti che racconta lo scrittore siciliano (che ha certamente un'idea di teatro abbastanza diversa dalla mia). Si prova La cena delle beffe di Sem Benelli, dove nel finale il protagonista impazzisce e "si avvia verso il Nulla". L'attore prova e riprova, Benelli in platea si bea nell'udire i propri versi ma non dà indicazioni agli interpreti. Finché, racconta Camilleri, "arrivato alla prova generale senza sapere da che parte uscire, l'attore che interpretava il protagonista, rivolto all'autore che sedeva in platea, domandò, senza neanche il sospetto di una pur minima ironia: 'Scusi, Maestro, ma il Nulla è a destra o a sinistra?'. Se vuoi ordinare il libro a Internetbookshop...

Sanja Neškovic Persin, danzatrice e coreografa slovena, sarà in residenza a Castiglioncello presso Castello Pasquini dall’11 al 25 gennaio, per lavorare al suo secondo progetto artistico dal titolo: Emptiness as the proof of fullness: Holes that mean life.
Durante la sua permanenza terrà un seminario rivolto a danzatori, attori, musicisti, visual artists e a tutte le persone interessate a seguire una ricerca individuale sul movimento, la sonorità e la drammaturgia del gesto.
Il seminario si svolgerà dal 14 al 18 gennaio tutti i pomeriggi dalle ore 15.00 alle ore 19.00. L’interesse di Armunia è quello di far conoscere alla “comunità artistica locale” il lavoro delle compagnie che risiedono a Castello Pasquini, per dare vita laboratori continui di analisi, dialogo, curiosità,formazione e informazione.
Le persone interessate possono mettersi in contatto con Angela Fumarola, c/o Armunia Castello Pasquini, 57012 Castiglioncello Livorno. tel 0586 75 42 02 – fax 0586 75 41 98 – e–mail angela@armunia.it
CHIEDIAMO CORTESEMENTE DI COMUNICARE L’ADESIONE AL SEMINARIO ENTRO E NON OLTRE VENERDI 21 DICEMBRE 2001
Sanja Neškovic Terminata la scuola di danza classica, Sanja Neškovic –Persin studia balletto classico a Cannes e più tardi segue vari seminari con (Merce Cunningham New York Studio, workshops presso l’Impuls Tanz Festival di Vienna...). Attualmente è ballerina solista all’Opera Nazionale di Ljubliana, ma lavora anche per i progetti del Museum Theatre Company, fondata da Barbara Novakovic (conceptual, visual theatre); nelle performance ideate da Emil Hrvatin e in quelle di Vito Taufer e Tomaž Pandur. Nel campo della danza contemporanea, lavora con Ksenija Hribar, nelle performanc di physical theatre dei Betontanic e nei lavori di Matjas Faric, inoltre è coautrice delle performance delle danzatrici Mateja Bu?ar, Sinja Ožbolt e Ann Papoulis. Ha preso parte ai video ideati da Dragan Živadinov, Ema Kugler e Jasna Hribernik. Nel novembre 2000 ha creato il suo primo solo dal titolo Woof, Woof Susan, presentato nei seguenti festival: Danmark-Kopengagen (Kanom hallen), Ljubljana-Exodos festival, Germany-Hamburg (Kampnagel), Belgrade-Yugoslavia (nel programma BITEF festival), festival Mladi levi (Junge Hande) a Ljubljana



 
Imperdibile: Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999.

Chi non legge questo libro č un imbecille


SPECIALE LUCA RONCONI
 

Ibsen con gli occhi di Craig nel Borkman di Ronconi
di Fernando Mastropasqua

In un commento alle tavole dedicate a Macbeth e Rosmersholm (1) Craig
pronunzia un giudizio molto severo nei confronti di Ibsen:

Quel che non riesco a spiegarmi è perché la bellezza, il mistero e la forza di Ibsen vengono eclissati dal mistero e dalla forza ben più grandi di Shakespeare. Vicino a lui Ibsen, che paragonato a un autore moderno sembra un gigante, sparisce. Dove? Nella sua particolare, piccola casa; mentre Shakespeare sale sempre più in alto. In che cosa consiste lo straordinario divario tra i due scrittori? Non basta qualche secolo di distanza per spiegarlo. Per me si tratta di questo: Shakespeare era un artista, Ibsen non lo è. Ibsen è un uomo straordinario, uno degli uomini più straordinari del XIX secolo; risolve problemi che gli altri non possono o non vogliono risolvere, pone domande che nessun altro ha mai posto, eppure, messo in confronto con Shakespeare, perde ogni importanza; sembra timoroso, in un certo senso, di essere banale, ordinario, quel che noi chiamiamo semplice; e questo perché non è un artista. Non bisogna fare paragoni, dicono, ma io non ne sono così sicuro, credo anzi che sia necessario e utile. Se non si fissa per la letteratura drammatica un punto di riferimento a cui riportare le varie opere, il mondo accoglierà lavori di decima invece che di prima qualità."

Nella sua ansia di definizione di un nuovo teatro Craig non esita a liquidare un autore amato e più volte messo in scena.(2) La ragione fondamentale di tanta severità sta nell'identica tensione di ricerca: la rinascita del tragico in epoca moderna. Craig pensa che si possa ottenere solo reinventando una "forma" di teatralità. Quando si volge alla ricerca di testi adeguati, scopre che la
scrittura non si è elevata al grado di poesia necessario. Pur nobile, rimane nell'ambito del dramma borghese: dialoghi e stanze chiuse (non è un caso che egli definisca la scena per Rosmersholm "room"), che impediscono ai temi, anche se costruiti secondo i canoni del tragico, di innalzarsi a tragedia. La drammaturgia di Ibsen viene sentita come ostacolo alla invenzione teatrale, le parole non risuonano con gli stessi accenti di Eschilo o di Shakespeare.(3) Ritengo che un superamento di tale dissonanza sia stato lo scopo della regia di Ronconi del Borkman, di cui qui, per brevità, mi limito a considerare soltanto la prima scena del primo atto.
La situazione introduce immediatamente nel dramma dei Borkman. È l'incontro tra le due sorelle Ella e Gunhild. La prima ha amato John Gabriel Borkman, ma questi le ha preferito la sorella che ha sposato e dalla quale ha avuto un figlio Erhardt. Dopo il fallimento della banca di Borkman, questi viene condannato e sconta in carcere una pena di cinque anni. La famiglia è ridotta sul lastrico. Viene aiutata proprio da Ella, che ha anche allevato Erhardt nei primi anni sostituendosi alla madre. Le due sorelle non hanno avuto più rapporti per otto anni. All'apertura di sipario Gunhild riceve una visita di Ella. Come da giovani si sono contese Borkman, adesso si contendono Erhardt, al quale la madre pensa soprattutto come a colui che riscatterà il disonore in cui Borkman ha precipitato la famiglia.
Da quando Borkman è tornato dal carcere, si è chiuso in una nuova prigione, una stanza della villa in cui abita con la moglie, al piano superiore. Mentre avviene l'intenso colloquio delle due donne, si sentono i passi di Borkman. Non esce, se non di notte, dalla stanza; non riceve nessuno, tranne un vecchio amministratore Foldal; non ha nessun rapporto con la moglie. La presenza spettrale di Borkman ricorre ossessivamente nel dramma e viene avvertita fin all'inizio della storia. Tutta l'atmosfera è dunque di grande tensione e cupezza. Il dialogo tra le due sorelle è uno scontro violento tra nemici irriducibili. Ibsen realizza qui uno dei suoi migliori incipit tragici, indicando il deflagrare di una lacerazione all'interno del mondo borghese, costruito sui valori famigliari intesi come potere. Fu il potere a guidare Borkman nella scelta di una donna che non amava, e a rinunziare all'amore; fu la sopravvalutazione del proprio dominio a portarlo alla rovina e a renderlo dipendente con la famiglia da chi aveva oltraggiato. Le didascalie fanno pensare che Ibsen abbia immaginato una scena, in cui il confronto delle due donne si gioca in piccoli movimenti attraverso la stanza, nell'intreccio degli sguardi (sono molte le notazioni riguardo la direzione degli sguardi e i sentimenti da cui sono dominati) e in gesti minuti. Non è data nessuna indicazione riguardo le posizioni, per cui si deve ritenere che egli pensasse alla scena interamente recitata in piedi. La lotta si esprime in tutta la sua pienezza. I contendenti si affrontano eretti, senza ripiegamenti.(4)
Nel mettere in scena questo testo Ronconi si è trovato di fronte al problema di mantenere il livello tragico della situazione, evitando di ridurlo alla dimensione di tragedia domestica nel salotto di Gunhild Borkman. Ronconi ha voluto sconfessare Craig, dimostrando che la scrittura ibseniana era idonea a trasformarsi in poesia della scena. Lo ha fatto affrontando Craig sul suo stesso terreno; ossia rivelando l'infondatezza del giudizio negativo di Craig attraverso scelte stilistiche che sono in armonia con la poetica dello stesso Craig.
È possibile avere un'idea della regia di Ronconi, ricorrendo all'edizione televisiva del 1982,(5) nella quale il mezzo tecnico concorre a potenziare le scelte dello spettacolo. Ronconi ha tagliato la premessa introduttiva, la scena con la cameriera che annuncia l'arrivo di una signora sconosciuta (Ella). Ha potuto così rendere l'incontro tra Ella e Gunhild più drammatico, eliminando l'attesa e la sospensione dell'ingresso.(6) Gunhild è abbandonata su una poltrona, quando Ella entra dalla porta e le si erge davanti. La scena è in penombra.
La stanza è avvolta in pesanti cortine che coprono anche la finestra. Solo una piccola luce, per le tende appena scostate, emana dalla finestra. L'atmosfera è cupa, grigia. Il colore, monocromo, investe tutto: le pareti della stanza, i mobili, le tende, gli abiti delle attrici. È un tetro verde, profondo e pieno d'ombre.
Nel commento a una tavola dedicata al Macbeth Craig scrive:

Nelle Conversazioni con Eckermann Goethe dice a un certo punto:
"La tinta dello scenario dovrebbe di norma accordarsi con i costumi degli attori. Lo scenario di Beuther, per esempio, tende sempre più o meno allo scuro e fa risaltare in tutta la loro vivacità le stoffe dei vestiti. Se invece lo scenografo è obbligato a rinunciare a questa tonalità indefinita che va bene con tutto, e a dipingere una sala rossa o gialla, una tenda bianca, un giardino verde, in questo caso sono gli attori che devono prendere la precauzione di non indossare costumi degli stessi colori. Se un attore con giacca rossa e pantaloni verdi cammina in una stanza rossa, la parte superiore del corpo sparisce e restano solo le gambe; se cammina in un giardino verde, scompaiono le gambe e resta solo il busto. Ho visto un attore con giacca bianca e pantaloni molto scuri, visibile metà per volta, a seconda che si trovasse di fronte a una tenda bianca o a uno sfondo scuro.
Comunque lo scenografo, anche quando rappresenta una stanza rossa o gialla, o dell'erba, dovrebbe sempre attenersi a tinte piuttosto deboli ed evanescenti, in modo che i costumi possano intonarsi e risaltare".
Faremmo bene a studiare a fondo questi suggerimenti, a provarli in palcoscenico e a osservare i risultati. Non occorre un grande sforzo per capire che contro uno sfondo nero sta bene un costume bianco, e contro uno sfondo chiaro, uno nero. Questo se si vuol far risaltare la figura; ma se vogliamo che si immerga, o addirittura si perda nella scena? Macbeth che vaga di notte intorno al suo castello sembra formare tutt'uno con esso; ricordo che, quando Irving lo interpretava, aveva indosso un costume quasi simile a quello delle pareti.(7)

Più tardi, in Scena, scrive:

La scena si regge da sola ed è monocroma. Il colore è dato esclusivamente dalla luce; a volte ho ottenuto tanti di quei colori che nessuna tavolozza potrà mai produrre.(8)

Ella e Gunhild si perdono nelle tonalità verdi della scena, i loro capelli grigi si immergono e riaffiorano creando particolari riverberi nella tonalità dominante. Solo i loro volti sembrano galleggiare, secondo ancora una intenzione craighiana:

Una delle prime esigenze del pubblico è di vedere e udire l'attore che recita, e di vederne specialmente il volto (o la maschera) , le mani e la persona. […] Potete vedere un volto, una mano, un vaso, una statua, meglio su uno sfondo piatto e incolore che su uno sfondo su cui sia dipinto o scolpito un modello colorato o qualche altro oggetto. […] Quando ascoltiamo uno che parla, sia esso in una stanza o in una sala o in un teatro, vediamo una cosa sola: il suo volto. A teatro i nostri occhi seguono colui che parla. perciò quando sono in due a parlare, di solito è bene che siano il più vicino possibile l'uno all'altro.(9)

Il mezzo televisivo ha la possibilità di realizzare questo effetto con maggior aderenza che in teatro con i primi e i primissimi piani dei volti delle due attrici: Franca Nuti (Gunhild) e Marisa Fabbri (Ella) .
Se la scelta della monocromia e del rapporto tra scena e attore, tra ambiente e volto, sembra dunque ispirato alle teorie di Craig, nella stessa direzione Ronconi si dà il compito di stabilire un rapporto tra il luogo e il movimento degli attori. Dalle battute e dalle didascalie Ibsen lascia supporre che le due sorelle si affrontino in piedi. Ronconi non segue tale indicazione. Gunhild, in alcuni casi, tenderà ad appoggiarsi ai mobili o a sedersi. Di fronte all'attacco di Ella perde sicurezza e si accascia.
La soluzione parrebbe in qualche modo riportare elementi realistici e ridare tridimensionalità ai mobili divenuti un'unica cosa con le tende, trasformare di nuovo il luogo in scenografia. In realtà la ragione di questa scelta produce l'effetto contrario. Anzi tende ancora di più a rendere astratto il luogo dello scontro. I sostegni di Gunhild diventano simboli dei suoi cedimenti, della sua fragilità. Fanno acquistare senso alla impostazione generale che è quella di evitare il dialogo da salotto. Le sorelle infatti non si parlano. Parlano a se stesse, parlano al vuoto. Le battute di Ibsen acquistano una dimensione irreale. Ognuna delle due donne sfugge all'altra. Non intende parlare ma affermare una volontà irriducibile. I movimenti sono pochi e lenti e non avvengono in un luogo reale, calpestabile. I corpi e i volti delle due sorelle sono ripresi in posizioni impossibili, in sequenze di movimento che denunciano l'irrealtà dello spostamento. I movimenti sono "assurdi"; non hanno cioè sequenza reale e le figure emergono da uno sfondo cupo e unitario. Il linguaggio televisivo permette di immaginare i personaggi in un luogo che nega ogni spazialità e la successione degli spostamenti. Quando una sorella segue l'altra, nella inquadratura successiva può precederla o starle davanti. Ogni relazione di spazio tra le posizioni degli attori viene eliminata. L'effetto è marcato dalla mancanza di stacchi fra inquadrature.
Quando i due volti sono uno di fronte all'altro l'affrontamento dà alla battuta un rilievo particolare. Non è il cedimento al dialogo, quanto piuttosto il valore di una ferita inferta. Le posizioni che più ritornano sono infatti l'inseguimento (una caccia l'altra), l'affiancamento (l'identica volontà delle due sorelle che si sono contese l'uomo, Gunhild ha rubato il marito a Ella e Ella il figlio a Gunhild), l'affrontamento (lo scontro dovuto alla contesa presente: conquistare Erhardt il figlio di Borkman). Le posizioni si succedono implacabili e quando si arriva a una congiunzione (abbraccio), le due teste sono riprese, ognuna al di sopra della spalla dell'altra, in modo da costituire una X: l'abbraccio non è che una altra forma di affrontamento, come quando due spadaccini sono costretti dalla lotta a un corpo a corpo che li lega in un abbraccio di minaccia e le spade si incrociano per respingersi.
Ronconi realizza pienamente l'idea di Craig che la scena non va intesa come scenografia, ma come "place", come luogo, ma luogo ideale dello scontro dei personaggi che si misurano con forze che li sovrastano. Così il luogo è il luogo dell'impossibile azione dell'eroe tragico, votata alla sconfitta, e non il doppio di un luogo reale (ambientazione scenografica). La scena sembra non avere confini, le tende si perdono oltre il cielo, come nelle tavole craighiane, al di là dell'arco scenico. Il palco inquadra una porzione limitata dello spazio dell'azione che non è misurabile, come non è misurabile il dolore degli attori. Il grande specchio che si apre all'interno, al posto della finestra, non rimanda riflessi di luce, ma immagini cupe, funeste. Il vuoto in cui agiscono i personaggi ha un solo confine: il destino a cui sono condannati. Ronconi restituisce a Ibsen quella grandezza tragica che Craig gli aveva negato e lo fa utilizzando indicazioni craighiane, quasi a voler dire che Craig aveva i mezzi per cogliere il tragico ibseniano, ma è stato cieco a se stesso.

1) Tavv.1 e 14 dell'ed. it. di Towards a new theatre (London 1913): Per un nuovo teatro, in Il mio teatro, a cura di F. Marotti, Milano, Feltrinelli, 1980², p.188.
2) Oltre a Rosmersholm (1906), Craig dedica tavole e in alcuni casi realizza messe in scena di Peer Gynt, I guerrieri a Helgeland (The Vikings) (1903), I pretendenti al trono (1926), La donna del mare.
3) F. Mastropasqua, In cammino verso Amleto. Craig e Shakespeare, Pisa, BFS, 2000, in part. pp. 45-71.
4) Mi baso sulla traduzione di A. Motzfeld Tidemand-Johannesen, condotta sull'edizione di Oslo (1930), pubblicata da Mursia: H. Ibsen, Opere teatrali, Milano 1962-1986, voll.I-IV. John Gabriel Borkman (Giangabriele Borkman) è nel IV vol.
5) Il video è conservato presso l'Archivio del Teatro Stabile di Torino. La produzione è TST Torino-RAI, 1982. L'adattamento e la regia sono di L. Ronconi; le scene di E. Guglielminetti; i costumi di V. Marzot; gli attori principali: Omero Antonutti, Marisa Fabbri, Franca Nuti, Claudia Giannotti, Gianni Bonagura.
6) v. R. Alonge, Luca Ronconi, John Gabriel Borkman, in R. Alonge-R. Tessari, Lo spettacolo teatrale. Dal testo alla messinscena, Milano, LED, 1996, p. 75.
7) La stessa tonalità era stata usata da Craig per Rosmersholm nel 1906, v. F. Marotti, L'itinerario di Gordon Craig, in E. G. Craig, Il mio teatro, cit. p. XXVIII-XXIX.
8) Tav. 16 dell'ed. it., E. G. Craig, Il mio teatro, cit., pp. 189-190.
9) Craig fu guidato da queste idee quando realizzò la tavola 16 del Macbeth (ed.it.), le tavole a fronte delle pp. 71 e 78 dell'ed. or. Towards a new theatre, London 1913.
10) E. G. Craig, Scena, in Il mio teatro, cit., p. 223.
11) Ivi, pp. 226-227.
 

Prima cittadino poi attore
Incontro con Marisa Fabbri
Presentazione a cura di Anna Maria Monteverdi
Livorno, Nuovo Teatro delle Commedie, sabato 3 novembre 2001 ore 18
Conversazione registrata e trascritta a cura di Cinzia Bellucci (manythanks!)

Nell'ambito degli incontri organizzati dalla Casa del Teatro di Livorno con sede al Nuovo Teatro delle Commedie dal titolo PROGETTO PER UN TEATRO STUDIO organizzati dal Comune di Livorno-Ufficio Politiche dello spettacolo e dal CEL-Teatro di Livorno, si sono succeduti tra ottobre e novembre una serie di incontri, conferenze e laboratori con i protagonisti della ricerca teatrale italiana e internazionale. Ha aperto il lungo calendario Il Living Theatre, "adottato" dal Teatro delle Commedie già dall'anno scorso con un laboratorio su Mysteries and smaller pieces; gli incontri sono proseguiti con Giulia Lazzarini sul teatro di Strehler con la proiezione della versione televisiva de La Tempesta e con Marisa Fabbri, grande interprete del teatro di Luca Ronconi e la proiezione della regia televisiva di John Gabriel Borkman da Ibsen.

SPAZIALIZZARE IL TESTO
Le Baccanti

Nel 1977 Marisa Fabbri è unica protagonista de Le Baccanti - progetto del Laboratorio di Prato di Luca Ronconi con l'architetto Gae Aulenti. Spettacolo per 24 spettatori dentro un'orfanotrofio spogliato di arredi: Marisa Fabbri interpreta Dioniso, Penteo, Tiresia, Cadmo, il coro dei Tebani e quello asiatico muovendosi tra le suggestioni di geometrie architettoniche, luci e ombre taglienti, specchi. La tragedia euripidea che mostra "il dio a venire" (Frank) diventa il labirinto dell'essere. Traduzione e adattamento da Euripide di Edoardo Sanguineti. Il poeta così ricorda lo spettacolo in un articolo su "Paese Sera":
Peregrina tra due dozzine di fruitori eletti Marisa Fabbri per i vani dell'Istituto Magnolfi: dove le Baccanti euripidee sono mono-sceneggiate psicoticamente nella più clinicamente dionisiaca tra le interpretazioni possibili. Dioniso, sorretto da Dodds, è l'Es in tutto e per tutto, finalmente è uno dei  iei ventitré compagni di questa antipsichiatrica via Crucis dopo la stazione dello specchio, in cui Penteo decifra Dioniso come il suo doppio e viceversa, mentre ci guardiamo la pluriattrice "contenitore" che si rovesca anima e corpo in un cunicolo zeppo di lettini da istituzione chiusissima mi mormora: "Ho capito adesso per la prima volta cos'è una tragedia greca".

Marisa Fabbri  Io studiai un anno il testo, sei mesi furono impiegati nella  realizzazione ed uno lo passammo dentro l'orfanotrofio. Ronconi decise così quanti dovevano essere gli spettatori: chiamò l'assistente, Luca Conti, e gli disse: "Quante seggiole ci stanno nella stanzina?" E lui: "Maestro, ventiquattro". La risposta fu:  "Allora bisogna farlo per ventiquattro spettatori". Ne avevano scritte di tutti i colori: cabale, simbologie... Tutto il mondo è venuto, erano ventiquattro operai o ventiquattro americani o giapponesi che si compravano la serata magari un anno prima (...) Luca Ronconi andava fuori dai teatri non perché gli piaceva tanto il Fabbricone o l'orfanotrofio di San Niccolò a Prato ma perché in quel luogo c'era già la costante del tema delle Baccanti: l'oppressione, quindi il luogo è il tema del testo. Non era una bizzarria: la sala presse del Lingotto di Torino, dove lì dentro per disgrazia sono rimaste schiacciate tante mani negli ingranaggi e molti sono morti sul lavoro, cosa meglio di quel luogo per far vedere la prima guerra mondiale. Karl Kraus dice ne Gli ultimi giorni dell'umanità che dopo quella guerra il senso della distruzione sarebbe entrato nella pace. Nel nostro secolo passato, il Novecento, se ne possono vedere le conseguenze. L'azione nella tragedia greca, come in Kraus, che è come una tragedia greca, afferma che là dove c'è stata un'azione ci saranno certamente delle conseguenze che entreranno nelle popolazioni, perché le azioni non si possono dimenticare. Allora quello che noi facevamo a Prato cosa voleva dire? Spettatore e autore sono contemporaneamente protagonisti, non esiste evento teatrale senza i due protagonisti. Ne Le Baccanti si lasciava la rappresentazione della tragedia greca: un'ara dove è sepolta Semele, la madre di Dioniso che partorisce dall'unione con Giove, il fulmine; si tolgono le tonache e gli spettatori non occupano più le posizioni di rimembranza classica, come ancora oggi si vede a Epidauro e Siracusa. Si va invece a vedere che cosa
ancora esiste di importante, di necessario, dentro la tragedia greca. L'attore deve attraversare la tragedia greca, non possiamo saltarla, proveniamo da lì. Il tema è l'oppressione, l'uomo agisce con il buon senso con la ragionevolezza e dichiara errata la nuova cultura che entra. Penteo dice: "E' arrivato questo nuovo cantore da una terra estrema. o Tiresia". Penteo rifiuta Dioniso e dice "Tagliamogli quei riccioli d'oro". Ma la risposta è: "Lo amano ancora". "Allora tagliamogli la testa". Questa è la lotta tra il buon senso e la ragione. Dioniso aveva conquistato terreno. Quando Penteo e Dioniso si incontrano, Penteo nega il proprio irrazionale. Un mio collega attore Vittorio Franceschi venne e mi disse: "Mi piaceva tanto seguirti, Marisa, ma ad un certo punto quando tu dici: 'L'ho visto e mi vedeva, mi ha trasmesso le sue orge', io non lo so perché mi sono messo a pensare a quando ero bambino e giocavo in soffitta". "Così deve essere", dissi io, "perché è il tuo dionisiaco che scatta, ognuno ha il suo". E mentre rispondevo, dentro di me pensavo: "Chissà cosa faceva in quella soffitta..."
Allora era il tempo, negli anni Settanta, di rovesciare quello che noi ci portavamo dietro da più di settanta anni nella comunicazione teatrale della società borghese dell'Ottocento. I testi per il palcoscenico dovevano compiacere la platea. Quando arrivò Ibsen successe la rivoluzione. Gramsci lo dice bene: fino al secondo atto le signore torinesi erano tutte d'accordo, perché pensavano che, in Casa di bambola, Nora se ne andasse di casa perché aveva un'amante e le signore tutte d'accordo. Quando cominciarono a scoprire che non era per un amante ma per la ricerca di una propria identità non lo accettarono e cominciarono a fischiare.
Io da attore-messaggero devo compenetrare dentro l'autore ma lo spettatore deve sapere anche il mio presente, il mio senso comune, mio inteso come individuo di una collettività, il senso comune e non il luogo comune. L'attore riflettente dello spettatore e dell'autore.

SAPER LEGGERE TEATRO
John Gabriel Borkman di Henrik Ibsen, regia televisiva di L. Ronconi, 1982

Marisa Fabbri  A Luca chiedono di fare un'edizione dello spettacolo per la televisione; lui che è un genio dello spazio e del tempo decide di partire dalla semplicità. Quale è la posizione che assumiamo quando guardiamo la televisione? Sprofodiamo nella poltrona. Allora lui mette un carrello, una macchina da presa sotto un praticabile a ferro di cavallo. Minimo movimento. Quello che ne Le Baccanti era un monologos qua è un dialogos. Ibsen è il re della scrittura dialogica. Lui è stato il più grande degli scrittori di dialoghi dopo Sofocle. Ronconi disse a me a Franca Nuti e Omero Antonutti: "Com'è una commedia?" La scena tra Ella e Gunhild dove parlano le due sorelle gemelle, Ibsen lo scrive alla 75a pagina. Lo spettatore sa prima però che quelle sono sorelle, perché lo scopre attraverso i movimenti di macchina da presa. La cosa principale era che lo spettatore "leggeva" la commedia, faceva il percorso minimale. LA MACCHINA DA PRESA SEGUE IL PERSONAGGIO. La grande passione era di invitare il pubblico a saper leggere una commedia a teatro, che non vuol dire: "Ah, come mi piace", dando un giudizio alla fine del primo atto, come erano abituati gli antichi spettatori. Ma  la commedia, o lo spettacolo, deve essere letto come si legge un libro. Questo è l'invito a noi attori a saper comunicare e allo spettatore a saper leggere il teatro nella sua rappresentazione. E' il nostro sogno. Lo spettatore il più delle volte si annoia perché non sa leggere il teatro: guarda soltanto quello che succede ma non come succede.
Orazio Costa, grande maestro dell'Accademia, diceva "Non c'è bisogno a teatro di stupire con grandi scenografie e luci perché c'è una grande rivelazione in una battuta dopo una virgola". Per cui quando iniziamo a leggere, leggiamo con la virgola, dentro di noi sentiamo il ritmo della virgola, il ritmo del testo. Noi non diamo il giusto valore alla scrittura.
Nella scrittura ci sono i segreti del testo, cioé il sottotesto. Il teatro è l'arte più difficile perché è tutta nel sottotesto. Dobbiamo capire perché quelle parole sono lì, perché - come diceva Ibsen - un personaggio entra alla terza scena e poi esce e rientra alla quinta. E' importante conoscerlo non per il plot. Noi sottovalutiamo il testo teatrale.
 

LA TORTURA DELLA SPERANZA
Il dolore da M. Duras, regia di M. Avogadro, drammaturgia di A. Balzola
(prod. teatro Stabile di Torino-Teatro Carignano 2-14 marzo 1999)

"Viene spontaneo l'accostamento di questo testo della Duras con scrittori che di torture, reali e immaginarie, hanno parlato - Villiers de L'Isle d'Adam, l'uruguaiano Mario Benedetti - o registi e interpreti come il Living Theatre che quel dolore lo hanno presentato con una crudeltà che è inscritta innanzitutto nell'evidenza della sua presenza nel mondo. Un dolore che si manifesta come ferita aperta non ancora rimarginata, attraverso una scrittura impossibilitata a raccontare di più e oltre quell'essenziale e terribile verità che la follia del mondo ha prodotto. La Duras ha la capacità di rendere contemporaneamente concreto e assoluto quel dolore: la parola, rigorosa e inequivocabile, insostenibile, dà voce alle urla dei deportati di tutte le guere, alle vittime di ogni intolleranza, pregiudizio razziale e inquisizione, proiettando il ricordo in una dimensione che scavalca il tempo e la memoria storica dell'Olocausto. (...)
Come la scrittura della Duras è parte stessa del corpo violato, così la voce della Fabbri si rivela come un tracciato elettrocardiografico in costante oscillazione: comunica il senso estremo di una lotta senza tregua alla terribilità dell'attesa di una morte o di una vita attraverso un convulso vomitare di parole, quelle dette, quelle pensate, quelle impresse sul foglio della macchina da scrivere".
(A. Monteverdi, La tortura della speranza in La maschera volubile, Corazzano (Pi), Titivillus, 2000)

Marisa Fabbri Andrea Balzola è un drammaturgo di prim'ordine, uomo intelligentissimo che stimo molto. Un giorno si parlò del pubblico che qualunque cosa vedesse anche in questi belli spettacoli applaudiva e usciva contento, e io dissi "Come si può fare perché loro prendano contatto con la tragedia o con la commedia con il senso dello spettacolo, cioé con il teatro che è prima dello spettacolo?" Lo spettacolo è infatto l'ultimo atto. Oggi se vai all'Argentina a vedere uno spettacolo di Ronconi senti dire "Che bello! Che bella regia. Che bravi attori" Ma del testo non parlano mai. Io gli dissi che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa che li avrebbe fatti saltare sulola sedia e lui mi disse: Il dolore della Duras.
E' un diario. La Duras, grande scrittrice francese, aveva il suo compagno in un campo di concentramento, Dachau, lei scrive questo meraviglioso libro in forma di diario, per sfogarsi. Tant'è vero che lei dice di non ricordarsi nemmeno di averlo scritto. E' la storia di una grande attesa, questa è la tragedia dell'attesa, perché quando finisce la guerra dai campi di concentramento cominciavano a ritornare i prigionieri di guerra, e dai campi incominciava ad arrivare qualcuno. Lei vede arrivare un mostro, pelle e ossa.
Nella prima parte era difficile quest'attesa, ma quando lui ritorna nella seconda parte, lui non è più un uomo, ritorna un mostro. Tutti hanno letto Primo Levi, l'Olocausto. Ma nessuno forse per discrezione, aveva mai raccontato come stavano fisicamente quei prigionieri e lei descrive anche il modo di evacuare che non era più quello un essere umani, gli organi interni tutti spostati, il fegato...
Quest'uomo pur essendo una larva umana riesce a vivere a sopravivere. Ma la loro non era più una vita. Come ne Le Baccanti ho capito cosa era la tragedia greca, lì ho capito cosa è stato quel luogo da come lei descrive il ritorno del marito e mi sono spiegata perché Primo Levi si è buttato dalla tromba delle scale, lui che era un grande maestro, contentissimo di esistere. Una volta al presidente dei sopravvissuti di Torino, uomo dignitoso, dissi: "Ma lei presidente, non ride mai?" Lui mi rispose:  "Io tutte le mattine mi sveglio e mi chiedo perché sono tornato" Ed in effetti loro sono rimasti tutti ancora là.
Questo dalla Duras si capisce molto bene. Sono stati psichicamente e fisicamente annullati, trasmutati in mostri umani, come se loro facessero parte di un'umanità "diversa". Sono rimasti là. Mi ci voleva uno stomaco non indifferente però sono stata contenta di averlo fatto. Andrea ha fatto un gran lavoro di drammaturgia. La separazione tra attesa e ritorno. Ho partecipato a moltissime commemorazioni ma questo è stato un lavoro che ho fatto con grande gioia nella sofferenza, ho visto la platea irrigidirsi, piangere perché è autentica, ma anche io sono arrivata evidentemente all'autenticità, perché la mia coscienza è così dal punto di vista umano, io ho una buona etica e questo conta nella vita. Le cose non mi passano, le assorbo, questo aiuta l'attore ad essere, come diceva Brecht: "prima cittadino, poi attore". Questa frase ha un significato profondo: noi viviamo nel presente, con tutti i dubbi che pone la realtà, conviviamo con le conseguenze del passato, anche senza fare previsioni del futuro dobbiamo essere sempre completamente presenti, non avulsi dalla realtà.
 

Una tragedia della corruzione
Ruy Blas di Luca Ronconi nella recensione di Oliviero Ponte di Pino

Nel 2002 cade il secondo centenario della nascita di Victor Hugo. Le celebrazioni sono iniziate in queste settimane, con il Ruy Blas messo in scena alla Comédie Française  da Brigitte Jaques, scene e costumi di Ezio Toffolutti, con Rachida Brakni (la regina), Eric Ruf (Ruy Blas) e Denis Podalydès (don César). Qualche anni fa, lo stesso testo era stato messo in scena da Luca Ronconi al Teatro Stabile di Torino. Questa la recensione pubblicata a suo tempo sul "manifesto".

"Vi auguro, signori, buon appetito", esclama Ruy Blas irrompendo in una riunione di ministri ladri e corrotti, prima di lanciarsi in un'appassionata orazione in difesa della Spagna e del suo popolo depredato da quelle ruberie. Così, all'inizio del terzo atto del drammone di Victor Hugo, l'ex lacché Ruy Blas, ora divenuto per una scombiccherata e macchinosa vendetta il favorito della malinconica e annoiata sovrana, sembra in grado per un istante di prendere il controllo del Palazzo. In quell'istante, l'innamorato Ruy Blas potrà anche illudersi dell'amore della sovrana, soddisfacendo il suo folle sogno. Ma la sua rivoluzione solitaria può durare solo finché il suo padrone di sempre, il malvagio don Sallustio, glielo concede. Ci sarà naturalmente, nel quint'atto, il necessario bagno di sangue (dei cinque protagonisti, tre muoiono e un quarto finirà verosimilmente sulla forca, mentre la regina si avvia a un destino di irrimediabile infelicità). Poi - dopo questa breve e segreta tempesta - il vecchio regime tornerà ad avere il sopravvento. Almeno in teatro: Hugo scrisse il Ruy Blas nel 1838, e prima e dopo quell'anno la Parigi dell'Ottocento è stata sede di una mezza dozzina di rivoluzioni. A noi, basta forse l'irruzione dell'ingenuo Ruy Blas tra i tangentisti della Madrid del XVII secolo a dare allo spettacolo diretto da Luca Ronconi (e coprodotto dagli stabili di Roma e Torino) il brivido dell'attualità.
Il testo è un classico esempio di teatro romantico, di spettacolo nazional-popolare. Come scrive nella sua prefazione, Hugo sperava che il Ruy Blas potesse piacere alle donne (c'è una bella e sfortunata storia d'amore), alla "gente" (cui piace l'azione), ma anche agli intellettuali (ai quali interessano i "valori" e i caratteri). Il "cattivo" don Sallustio (l'efficace Carlo Montagna) ha messo incinta una damigella della regina, ha rifiutato di sposarla e sta per essere esiliato. Potente e astuto, abile gestore di spie e tessitore di trame, vuole vendicarsi sulla regina. Prova con il cugino, don Cesare (Riccardo Ghini, agghindato come un Boy George dell'epoca), che dopo aver dissipato un patrimonio ora si gode la libertà del bandito. E quando don Cesare - criminale ma gentiluomo - si rifiuta di nuocere a una donna, don Sallustio lo fa vendere come schiavo e decide di usare per il suo nebuloso piano l'inconsapevole Ruy Blas: ha scoperto che il suo valletto s'è innamorato della regina (Michela Cescon, che si libererà lentamente dell'impaccio burattinesco e meccanico della corte per costruire la freschezza della passione amorosa). Il re, malinconico e demente, la lascia sempre sola per andare a caccia, e Ruy Blas potrà prendere il nome di suo cugino ed entrare in quella Corte cupa e colorata come un quadro di Velazquez, popolato di damigelle pettegole, un'arcigna "camerera mayor" e un vecchio spasimante che sogna la sua giovinezza (un Luciano Virgilio in vena di gag)... Insomma, tutti gli ingredienti giusti per un gran melodramma, in cui Hugo impasta generosamente comico e tragico, e inserisce monologhi che sembrano autentiche romanze.
Di fronte a questo impasto non troppo credibile per un pubblico moderno (malgrado la traduzione ritmata e scorrevole di Giovanni Raboni, edita da Garzanti) Ronconi non può che scegliere il filtro dell'ironia. Del resto, questo Ruy Blas compone una sorta di dittico con il Misura per misura allestito sempre al Teatro Carignano di Torino un paio d'anni fa: come allora la platea che si rispecchia sulla scena (firmata da Carmelo Giammello), esaltando il gioco del teatro nel teatro (questa volta tematizzato anche da una serie di sipari grandiosi e irrigiditi a fare da quinte mobili). E dopo quell'allestimento shakespeariano Ronconi continua la sua riflessione sul potere. O meglio, sull'assenza di un potere ormai sostituito dalle sue maschere, ridotto a spettacolo e quindi destinato a degenerare. Già nella trama di Hugo, Ruy Blas è un valletto che finge di essere duca, don Sallustio un potente costretto a mascherarsi da valletto, suo cugino don Cesare un nobile travestito da bandito.
Negli spettacoli di Ronconi gli attori calandosi nei personaggi indossano spesso delle maschere di morte: caricature affascinanti e terribili, in cui paiono sovrapporsi in questo caso la maschera di un potere ormai vuoto e quella di un teatro che sembra parlarci dal regno dei morti. E' un duplice e paradossale effetto di verità: il volto del potere dimostra la sua pericolosa e menzognera illegittimità (il sovrano è assente e malato), mentre la finzione teatrale trova faticosamente la sua verità attraverso quelle caricature funeree. Non è un caso che il personaggio più realisticamente tratteggiato sia il "servo" che s'innamora della regina, il Ruy Blas di Massimo Popolizio, anche se le sue pose si divertono a citare costantemente quelle dei grandi attori dell'Ottocento italiano, anche se il personaggio richiama i visionari romantici, con lo sguardo sempre perso alla ricerca di una visione. E non è un caso che proprio questo Ruy Blas, vittima un po' troppo inconsapevole e pasticciona, finisca per inceppare, con la verità del suo ridicolo sogno, le finzioni e le trame altrui. Almeno per un istante.


L'Alchimie du Verbe tra Arthur Rimbaud e Fanny & Alexander
di Luigi de Angelis

Il testo che segue è stato pubblicato originariamente sul numero di settembre-ottobre de "Lo Straniero", e viene ripreso su "ateatro" per gentile concessione della rivista (con la quale peraltro i motivi di sintonia sono numerosi: sul numero di novembre-dicembre de "Lo Straniero" si può leggere Il Noboalfabeto di Martinelli-Montanari di recente pubblicato da "ateatro").

Mi è capitato, dopo la lunga lavorazione di Requiem, che ha debuttato a Ravenna Festival ai primi di luglio, di rileggere un libricino assai prezioso, pubblicato da Quodlibet e scritto da Furio Jesi nel 1972, che si intitola "Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud". E' un testo che annuso, manduco e rileggo spesso da alcuni anni, dal 1997, quando me ne parlò in termini entusiastici Marco Belpoliti, saggista, editorialista e scrittore, sempre attento a rimpinzare la mia biblioteca con suggerimenti di acquisto. Inoltre, nel suo ultimo libro, Settanta, edito da Einaudi, scandaglio dei nodi e intrecci letterari degli autori chiave di quegli anni (Pasolini-Parise-Calvino-Sciascia-Manganelli-Arbasino, ecc.), libro che consiglio a tutti i lettori di "Lo Straniero" e anzi mi auspico che Goffredo voglia recensirlo o farlo recensire al più presto, Furio Jesi e il suo libretto sono nuovamente citati nel capitolo "Il sacrificio e la rivolta". Da qui il mio rinnovato desiderio di riprendere in mano questo libretto, così arduo e difficile per l'ampiezza e profondità di sguardi e linguaggi, che da sempre mi porta a raffronti e riflessioni parallele sul mio fare teatro. Inoltre in Requiem Chiara ha utilizzato il testo di Rimbaud Bateau Ivre con una funzione nodale interna alla partitura che teneva conto della "lettura" di Furio Jesi. Insomma, bisognava approfondire: ho così riletto il testo ponendomi continui interrogativi sul percorso di Fanny & Alexander, su Requiem, sulle parole ascoltate di molti spettatori e amici, sulle recensioni dello spettacolo.

Il testo di Jesi ha un'articolazione molto complessa, nonostante le poche pagine, per cui ho pensato di seguirne passo a passo la struttura, divisa in tredici paragrafetti.

I

F.Jesi introduce il tema del luogo comune all'interno di un'opera d'arte: "Vi sono opere d'arte che hanno il privilegio d'essere materiate di luoghi comuni e di divenire esse stesse un luogo comune alla superficie della creazione dell'artista". Il luogo comune viene visto nella complessa oscillazione di valori che ne riguarda il concetto: da una parte l'apertura dell'artista al giungere – durante l'atto creativo – di luoghi comuni che si impadroniscono dell'esperienza creativa stessa, dall'altra l'appartenenza del luogo comune a un territorio "non-nuovo", a una sfera di "non-novità", che fa dell'opera creata una novità di retroguardia. La novità che attinge al luogo comune ha il privilegio di entrare, in poesia, nel territorio immediato dei monumenti, nel cimitero della poesia, essendo oggettivata come novità per eccellenza.

Il tema è scottante e quanto mai ci riguarda: che cos'è un luogo comune teatrale? Quante volte ci lasciamo impadronire da luoghi comuni teatrali? Questi luoghi comuni, assunti consapevolmente o inconsapevolmente favoriscono l'affacciarsi di uno spettacolo nel campo del cimitero teatrale (cimitero inteso di monumenti celebrativi, che marchiano un'esistenza poetica oggettivata, accettata da una collettività)?

Ma andiamo avanti...

II

Esiste una simmetria, dice Jesi, tra il riconoscere lo statuto autonomo di un'infanzia, vista come luogo di diversità e il regno della poesia (e noi potremmo dire del teatro) come luogo abitato da diversi. Il professare una poetica infantile è tipica di molti gruppi teatrali: tramite uno sguardo infantile non esercito nessun potere, ma dispongo di un serbatoio inesauribile di forze autonome ed esclusive da contrapporre a un mondo di adulti.

Fanny & Alexander, dal film di Bergman, sono per noi da sempre un totem, un simbolo riposante in se stesso, un'immagine di due bambini che da tempo si è impadronita di noi, un'ipostasi infantile: da questo osservatorio regredito, di retroguardia, di balbuzie, ci si affaccia al mondo degli adulti... Ma chi sono questi adulti nel nostro ambito teatrale?

Jesi scrive che "lo stato dei citoyens è interessato allo sfruttamento del potere di cui l'infanzia è serbatoio inesauribile": chi esercita un potere ha bisogno dei diversi e edifica per loro monumenti. Questi monumenti fanno dell'artista un "classico", una retroguardia "dalla quale giungono voci profetiche, forze novissimae". Facciamo un esempio: la Socìetas Raffaello Sanzio può essere ormai collocata nel campo cimiteriale, tra i monumenti teatrali italiani? Qui si sta parlando di una punta del teatro di ricerca italiano, di un gruppo che fa dell'infanzia un manifesto, da tanti dichiarato veggente, e che ormai ha assunto una posizione "intoccabile" agli occhi degli adulti.

Perché, quando l'opera di un artista entra a far parte della cerchia privilegiata dei monumenti, chi non fa ancora parte di questa cerchia tende a considerarla meno vitale, meno nuova, meno "veggente"? Un'opera viene assunta al rango dei monumenti solo nel caso in cui sia materiata da luoghi comuni ormai leggibili da una collettività, quando essa stessa diventa luogo comune per la creazione altrui?

III

Rimbaud dice, al suo amico Ernest Delahaye, che ha scritto Bateau Ivre "perché lo vedano quelli di Parigi". Proviamo a dire: ho fatto Requiem perché lo vedano quelli di Santarcangelo, oppure quelli di Milano, di Roma... Oppure ancora l'ho fatto perché lo vedano i "Romagnoli" (Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Romeo Castellucci, Mariangela Gualtieri, ecc.). Quante volte formuliamo questo pensiero durante una nuova creazione artistica? Da un lato io sono il bambino che "teme i diversi adulti", temo l'esposizione e per questo cerco di espormi secondo i canoni di gradimento degli adulti. Chi sono questi adulti? Prima ho fatto una lista: in quanto bambino cerco di essere simile e di piacere ai diversi adulti per eccellenza, teatranti come me, quindi agli amici "Romagnoli" o altri in simile posizione. Ma in quanto teatrante, anziché bambino, diverso, il mio spettacolo "è una merce da offrire, una cosa che può fruttare; e una cosa che può fruttare ed è destinata a fruttare è necessariamente materiata di luoghi comuni". L'esistenza stessa della mia opera, esistenza-circolazione, è dovuta moltissimo allo sguardo di quelli di Santarcangelo, di Milano, di Roma... Il mercato non è che paga solo merce già nota ma, dice Jesi, bisogna che l'artista abbia un'attitudine, una propensione ad accogliere certi luoghi comuni perché l'opera possa essere cosa in sé, merce apprezzabile. Da quello sguardo dipende la mia stessa esistenza, sopravvivenza: quanto questa preoccupazione influisce sulla mia attitudine ad accettare nella mia opera i luoghi comuni? Ciò che rende l'opera monumento è certamente la sua oggettivazione, il suo farne cosa a sé stante, merce da vendere, anche, nel caso della poesia, a dei posteri. Nel caso del teatro si tratta di monumenti che si sbriciolano quotidianamente, ma che rimangono, anche se per breve tempo, nell'immaginario collettivo. I cippi sono allora i libri, i saggi, le riviste, le pubblicazioni, le cronache, i documenti filmati. Il teatro, così effimero, esprime quindi un vincolo con la morte ancora più forte e saldo di quello della poesia.

IV

"Il bambino non è soltanto più vicino alla morte di quanto lo sia l'adulto, poiché è più vicino alla nascita e dunqua al limitare della non-esistenza.".

Il bambino è fragile, la morte, come per il vecchio, può colpirlo più facilmente. I posteri, gli adulti, essendo lontani dalla morte possono esercitare il potere, possono avere in mano, gestire un'opera, esserne produttori. Dunque io mi faccio finanziare dagli adulti il mio percorso di bambino, di "fanciullino", di "in-fans". Ci sono momenti in cui sono io stesso il mio adulto e devo equilibrare le due spinte, i due vettori. Questo è tipico della complessa articolazione di un gruppo, in cui c'è bisogno di forze dinamiche, in equilibrio, a volte centripete, contrapposte; oggi sarai tu l'adulto, domani tocca a me. Il tutto sempre tramite lo sguardo, verso l'esterno, dell'"infante", che, innanzitutto, gioca, vive la sua creazione con l'ebbrezza e l'abbandono di una festa. "Giochiamo insieme?" diceva Dorotea a Cipresso, nel teatrino anatomico di Ponti in core, sotto lo sguardo di spettatori adulti. E' ovvio che ci si aspetta dallo spettatore uno sguardo bambino, ma la sua funzione è, per chi si sottopone al suo sguardo, sempre quella di un adulto. L'attore-bambino-diverso, così vicino alla morte, si sottopone a quella piccola morte vitale che è l'atto teatrale.

V

"Luogo comune, nel nostro contesto, è una categoria di materia poetica denunciata dalla funzione di merce che è conferita dal poeta a una sua determinata opera. Ciò che rientra in questa categoria è ciò che rende cosa l'esito dell'operazione creativa.".

Prendiamo lo spettacolo Requiem: vi si trovano i luoghi comuni che rendono cosa lo spettacolo esibito "perché lo vedano quelli di..."; i luoghi comuni propri della poetica di Fanny & Alexander (i cosidetti topoi), intrecciati a quelli di un "certo teatro di ricerca" degli ultimi anni. Topoi, nel significato tradizionale dell'espressione, caratteristici della poetica di Fanny & Alexander, che ritornano in Requiem sono: il mito della morte, come luogo da attraversare, vitalissima discesa iniziatica e metamorfosi; l'adolescenza-infanzia, come luogo soglia da cui ci si affaccia al mondo degli adulti; il mito della coppia visto dall'angolatura dell'abbandono e del tradimento, dell'ostacolo; l'immagine del monumento-teatro-sarcofago nuziale da cui ha origine la creazione stessa dell'opera. Topoi da "certo teatro di ricerca" italiano, sono tutti quelli che ruotano attorno alla scelta di un mito discenditivo e alla problematica del suo attraversamento: in Requiem si attinge a un luogo comune per eccellenza, il mito di Amore e Psiche, che viene assunto come elaborazione di un tradimento, di un lutto, di un abbandono e come percorso iniziatico interno alla creazione dell'opera. Siamo partiti con immaginare l'eroina Psiche, una fanciulletta qualsiasi, come una possibile Alice, che in seguito alla caduta nel sottosuolo, e al lago di lacrime in cui stava rischiando di annegare, a stento si rialza incuriosita da un bianconiglio che ne racconta la storia, il mito di Amore e Psiche. Il bianconiglio però si perde nei fili della storia, in preda a un disorientamento linguistico, alla balbuzie più totale (forse si tratta di Fanny & Alexander...) mentre Psiche-Alice usa la storia stessa per salvarsi, anzi la spegne, spegne "questo Requiem, questa vostra litania...", la creazione stessa. Ne rimane un marchio indelebile, come sempre dopo un percorso iniziatico, quando si accoglie su di sé l'esperienza del mito e la si fa paradigma della propria creazione.

Il nostro bianconiglio è sicuramente, dichiaratamente "parente evidentemente prossimo dell'analogo personaggio dell'Orestea secondo la Socìetas Raffaello Sanzio" come scrive un adulto, Gianni Manzella ("il manifesto", 19 luglio 2001), che di luoghi comuni teatrali è un esperto, ma è anche parente dell'asino psicopompo di All'Inferno! di Marco Martinelli: si potrebbe cominciare da qui una catena di parentele che, tramite Propp, Jesi, Carroll, Artaud, Apuleio e la bella addormentata nel bosco ci porterebbe direttamente al mito di Adamo ed Eva; ma è certamente più comodo fermarsi ai luoghi comuni-topoi più facili da riconoscere e che non richiedono studio, approfondimento. Sono topoi peculiari di un "certo teatro di ricerca" anche forme e immagini utilizzate nello spettacolo: in Requiem se ne potrebbero diagnosticare moltissimi, dall'uso del dialetto a quello dell'animale in scena, dalle luci in movimento al rapporto musica-azione, dall'impianto scenografico all'uso della voce, ecc. Ci si apre ai luoghi comuni del fare teatro tramite l'intreccio tra i topoi peculiari esibiti della propria poetica e quelli di un "certo teatro di ricerca" anche e soprattutto quando si nega ogni parentela con questi luoghi comuni, proprio perché negandoli si dichiara di non esserne immuni e si richiama indirettamente la loro esistenza.

"Conseguenza dell'esibizione è però l'accesso a ipostasi della realtà – i luoghi comuni – che arredano lo spazio pedagogico in cui gli adulti costringono il bambino a vivere". "L'adeguamento a codesta pedagogia è esibizione e mercificazione, la spinta a subire codesta pedagogia è necessità di sopravvivere e necessità di trarre frutto dall'opera. Gli adulti che impongono codesta pedagogia assumono le sembianze di coloro che elargiscono sopravvivenza e guadagno."

Quando il fanciullo esibisce la sua opera, anche se ancora zoppicante e incompiuta, perché – in quanto teatrante – deve mercificarla, arrivare all'appuntamento con la prima, "venderla", rischia moltissimo: rischia che l'adulto che "elargisce sopravvivenza e guadagno", che generalmente è in grado di leggere il livello più superficiale dei luoghi comuni interni all'opera e si ferma lì, non permetta all'opera di circolare come merce e restare in vita tramite la circolazione. Sono innumerevoli i casi di opere teatrali che muoiono per via del giudizio, spesso fin troppo frettoloso, degli adulti di...

La scommessa di tutti è quella di riuscire, da fanciulli, a oggettivare la propria opera al punto tale da farne un luogo comune alla superficie della propria creazione. A quel punto "quelli di..." si riferiscono solo ai luoghi comuni interni alla macchina poetica di quella creazione e la mercificazione si può dire così per sempre assicurata. E' il momento in cui l'opera è equivalente a un simbolo riposante in se stesso.

VI

E' ovvio che il fanciullo-poeta-teatrante non ama gli adulti in generale e soprattutto quelli da cui dipende esclusivamente la mercificazione della propria opera. Egli si deve scegliere, tra gli adulti, "adulti solo quanto alla loro potenza, bon poètes", dei sovrani cui dedicare l'opera, un luogo privilegiato, un "haut-lieu" in cui i luoghi comuni siano accettati, ma in quanto luoghi comuni inversi a quelli graditi agli adulti in generale: "di quelli che valevano come moneta corrente nel regno degli adulti (sebbene non nell'haut-lieu)".

"Nell'haut-lieu si praticava la veggenza, quindi l'inverso del guardare". Questi sovrani, personalissimi, potrebbero essere i "Romagnoli", per esempio, citati al paragrafo III.

Si tratta di una vera e propria insurrezione attuata sotto lo sguardo di "modelli", sovrani designati per riflessione di specchi che io individuo in Requiem. Insurrezione di chi dichiara l'opera, l'assunzione di un mito come territorio di rivolta interna, di sacrificio personalissimo, che vede nell'exemplum teatrale una via (polittttttticissima, direbbe Marco Martinelli) di sprofondamento in sé, di messa in gioco continua, di dinamica esibita, sì mercificata, sì rispecchiata, ma comunque sempre vissuta e attuata su di sé, sul proprio corpo marchiato a vita, mai consolatoria, sempre vitalissima, che non concede garanzie agli adulti in generale. E' il privilegio della condizione dell'infanzia e dell'haut-lieu, in cui gli adulti perdono vita per mano di diversi che scelgono la creazione artistica come un "bateau ivre" liberatorio da cui farsi trascinare, magari "bateau frèle comme un papillon de mai" (fragile come una farfalla di maggio)...

VII

Si può dire che questa esibizione-mercificazione da cui deriva l'insurrezione liberatoria è riscattata e resa necessaria "dall'esistenza di sovrani veggenti e soccorritori, valorizzatori". "L'apertura ai luoghi comuni è solo formalmente adesione alla falsa oggettività degli adulti, di coloro che esercitano il potere: di fatto essa si propone di essere accumulo di forze per la rivolta".

Ogni rivolta è una sospensione del tempo storico. "La maggior parte di coloro che partecipano a una rivolta scelgono di impegnare la propria individualità in un'azione di cui non sanno né possono prevedere le conseguenze". Il teatro è l'opportunità della rivolta intestina che uno ha davanti a sé e davanti al mondo degli adulti, "una battaglia cui si è scelto deliberatamente di partecipare".

VIII

Il paragrafetto di Jesi in cui descrive la qualità inconsueta del tempo sospeso della rivolta è bellissimo: "Si può amare una città, si possono riconoscere le case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell'ora della rivolta la città è sentita veramente come l'haut-lieu e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell'io e al tempo stesso degli altri;propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate...". Per il teatrante la rivolta avviene soprattutto durante il momento privilegiato di una nuova produzione-spettacolo, quando il proprio spazio circoscritto diventa quello della scena, del teatro o luogo scelto per la rappresentazione, luogo individuale, ma anche haut-lieu comunitario, in cui viene ipotecato il tempo storico, ma anche quello biologico, del cibo, degli affetti, del sesso, del sonno; quando la città in cui si vive, il mondo esterno si sfuocano, perdono i contorni, diventano secondari e solo lo spazio prescelto è a sua volta lo spazio vitale omnicomprensivo, immaginario e concreto, casa, letto, giaciglio, cucina, campo di battaglia; quando l'haut lieu è visto in una luccicanza che non possedeva prima e lo si percorre come per la prima volta, con passi da gigante, senza fatica, possedendolo, sentendolo veramente, nuovamente proprio; quando, prima dello scontro con gli altri, un istante prima della prima, dell'arrivo del pubblico, esso è avvolto in una "quiete paradossale". Dopo che la battaglia è avvenuta si torna a vivere, indipendentemente dal suo esito, con uno sguardo più solitario, la battaglia individuale di sempre. E' la città, nel nostro caso, che torna a vivere, a farsi nitida: la si riscopre, se ne osservano i cambiamenti, che erano sfuggiti; si riallacciano gli affetti con gli altri; si tirano le somme e si osservano le conseguenze dopo che "ciò che avveniva, con estrema rapidità, sembrava avvenire per sempre." Ed è nel momento della rivolta che, in una collettività come quella di un gruppo, ci si misura realmente con se stessi e rispecchiandosi negli altri, si osserva, una volta per tutte, di quale opacità o nitore si sia capaci durante tale assalto. "Ora o mai più! Si trattava di agire una volta per tutte, e il frutto dell'azione era contenuto nell'azione stessa. Ogni scelta decisiva, ogni azione irrevocabile, significava essere in accordo col tempo; ogni indugio, essere fuori del tempo. Quando tutto finì, alcuni dei veri protagonisti erano usciti dalla scena per sempre.".

IX, X

Il presupposto tattico della rivolta di Fanny & Alexander è, come per Rimbaud, la condizione dell'infanzia, di quel luogo di non responsabilità che è il gioco amoroso infantile, in cui gli adulti siano assenti e sotto lo sguardo di sovrani, anch'essi bambini, nell'orrizzonte di un regno in cui si è sudditi bambini, "in cui la responsabilità sia rimpicciolita alla misura di giochi infantili e la fragilità per eccesso sia un'oggettiva liberazione dalla responsabilità.". Dietro questa natura si nascondono i teatri, il ministero, lo Stato italiano, l'Europa, il super-mercato, il super-regno degli adulti. Questa "profezia di rivolta" si contrappone alla "falsa oggettività pedagogica degli adulti e alla falsa oggettività dello sfruttamento di chi produce merci". Essersi aperti ai luoghi comuni, che hanno materiato l'opera perché fosse merce, è il presupposto dell'artista che accumula forze in vista della rivolta, in cui può continuare a dichiararsi infante, cosa non-responsabile, straordinaria forza "veggente" per sé e per gli altri.

XI, XII, XIII (Conclusioni)

Se i luoghi comuni posseggono oggettività, dice Jesi, e se li consideriamo come vere e proprie "entità, cose, che giungono nell'esperienza creativa dell'artista e se ne impadroniscono", è lecito porsi la domanda: da dove giungono? Jesi tira le file della sua tesi a partire dal parallelismo luogo comune-mito e da quella che si potrebbe definire la summa del suo pensiero, evocando la macchina mitologica "che produce mitologie e induce a credere, pressante, che essa stessa celi il mito entro le proprie pareti non penetrabili". Abbiamo visto che la tesi era applicabile non solo a Rimbaud, ma anche all'opera di Fanny & Alexander, e non solo: questo implica che bisogna forse allargare l'ampiezza dell'orizzonte del discorso. Se i luoghi comuni, per "toccarci", provenendo da un "altro mondo", quello della macchina mitologica, devono "giungere", vuol dire credere all'esistenza autonoma del mito entro la macchina mitologica, e alle sue epifanie sotto le sembianze di luogo comune o mitologhema. Nel caso in cui si creda che "la macchina mitologica sia vuota (o piena solo di sé, che è lo stesso)", vuol dire essere persuasi che "l'essenza dei luoghi comuni usufruibili nell'Alchimie du verbe" di Fanny & Alexander "sia unicamente un vuoto cui la macchina mitologica rimanda". L'equivalenza è tutta tra macchina mitologica e macchina poetica (Alchimie du Verbe) di Fanny & Alexander: la funzione di questa macchina "consiste nel rinviare al vuoto di essere"?. L'alternativa è tutta nel credere o non credere all'essenza autonoma del mito all'interno della macchina mitologica o del luogo comune all'interno dell'Alchimie du Verbe: se ci credo posso confidare nelle forze profetiche e liberatorie della rivolta, essere trasportato da forze che provengono da "un altro mondo", sospendere il tempo, affermare come in un gioco l'infinita "ripetibilità delle sospensioni del tempo", appellarmi a "l'inesprimibile", affermare dall'interno della mia "scatola" poetica la problematicità della scatola stessa, metterla in crisi, guardarla esplodere, indicare nodi per me e per altri, oscillare continuamente tra i luoghi comuni della materia poetica e quelli comportamentali, gestuali, della vita di sempre, variarli, farli rispecchiare, contraddirli, abbandonarmi all'ebbrezza di questo vortice irruente. Se non credo all'essenza autonoma del mito o del luogo comune all'interno della mia Alchimie du Verbe, e penso che quel mondo parallelo non sia esistente (se lo dichiaro, ne affermo comunque involontariamente l'esistenza...), se non credo nella potenzialità di trascinamento insita nella materia poetica, e al fatto che essa possa impadronirsi di me, ma affermo che io ne possa essere il solo esclusivo artefice, il pianificatore, sarò uomo che ha davanti a me solo la rivoluzione o conservazione, il suo tempo unico e tecnicizzato, non ripetibile, la rinuncia a me stesso, il Progetto, una vita non più abitata da metafore, non più immaginaria, senza messa in gioco, decisamente solitaria, lontana dai confini irti del corpo, in un'isola dove io e altri sono la stessa cosa, commensurabili, geometrici. Jesi dice che in realtà le due alternative non sono altro che due modi differenti di vivere il tempo che vige all'interno della scatola mitologica, e che rimandano entrambe al vuoto di essere, alla radice del tempo, all'essenza del linguaggio, che solo il privilegio della materia poetica può forse mettere in crisi...

"Nel Bateau ivre il fallimento del'esperienza del regno della libertà in termini di materia poetica apre per Rimbaud la via di una critica al privilegio della materia poetica, che condurrà all'abbandono dell'attività creativa ed all'esperienza abissina: dal luogo comune in sede di poesia al luogo comune in sede gestuale, di comportamento. Se l'attività poetica di Rimbaud costituisce un momento di rivolta, la sua attività di commerciante e di viaggiatore in Africa costituisce un momento di rivoluzione. Si tratta però di una rivoluzione solitaria e pessimistica, che procede dalla convinzione dell'impossibilità di spezzare il tempo e soprattutto di spezzare la radice del tempo: il vuoto di essere che possiamo chiamare mito o essenza dei luoghi comuni. Spezzare codesta radice significherebbe disporre di un linguaggio o di un complesso di gesti tali da affrontare la macchina mitologica su un piano che consistesse di dichiarare al tempo stesso l'esistenza e la non-esistenza di ciò che la macchina dice di contenere: J'écrivais des silences...je notais l'inexprimable... Proprio nella qualità pessimistica e nel carattere individuale, solitario, di questa rivoluzione naufraga la componente infantile della seconda parte della vita di Rimbaud, dopo l'abbandono della poesia. L'abbandono dell'Europa è ,sì, un luogo comune conciliabile con l'infanzia: ma scegliere l'abbandono dell'Europa quando non si crede più nella sua efficacia liberatoria è rinunciare alla condizione infantile ed entrare a far parte del regno degli adulti che, soli, accettano di dedicarsi a rivoluzioni di cui danno già per scontato il fallimento. Se Bateau ivre era stato scritto perché lo vedessero, la seconda parte della vita di Rimbaud è stata anch'essa vissuta come una merce, perché il regno degli adulti vedesse Arthur Rimbaud divenuto un adulto."

Un mail di risposta
di Oliviero Ponte di Pino

caro luigi,
ho letto il testo e mi sembra buono e importante, e in qualche modo tangenziale (tra l'altro) al tema del "teatro di guerra" (o meglio, dal tuo punto di vista, la dicotomia tra "teatro di rivolta" e "teatro di rivoluzione") che da qualche tempo si prova a esplorare in "ateatro".
affronti infatti una serie di problemi che riguardano in primo luogo l'evoluzione dell'arte teatrale, e più precisamente il ruolo della critica (e più in generale dello spettatore): in altri termini, spingi a esplorare le possibilità "tattiche e strategiche" per condurre una battaglia culturale all'interno del teatro.
sono d'accordo su molte delle cose che hai scritto, anche se poi, dal mio personale punto di vista, gli intrecci tra "fanciullo" e "adulto" si rivelano spesso un po' più complessi e ricchi di ambiguità (a volte trappole, a volte feconde). e l'indulgere alla fanciullaggine alla lunga può portare a un estetismo narcisista e un po' inutile.
e poi - ecco, forse qui non sono del tutto d'accordo con te - sopravvaluti forse il potere dello "sguardo adulto" rispetto alla "solidarietà fraterna" (anche il signor manzella, un tempo, forse è stato fanciullo... e forse ha avuto, e ha ancora, fratelli e fratellastri, e cugini...)
le opere, certo, quelle si fanno in solitudine. c'è bisogno di uno scarto, di un distacco. anche le rivolte si possono fare da soli (come rimbaud) ma anche con qualcun altro, se capita, ed è pure bello.
le opere nuove costruiscono anche, contemporaneamente, nel loro offrirsi, un nuovo sguardo. non tutti i padri sono in grado di riaccordare-risintonizzare il loro occhio critico, ma i fratelli, quelli, hanno visto lo stesso mondo, e probabilmente stanno imparando a guardarlo pure loro in maniera diversa. così accade anche - pare - con i paradigmi scientifici: non è che i padri, gli inquisitori, quelli convinti che il Sole giri attorno alla Terra, cambino idea e si convertano (salvo rare eccezioni). semplicemente si estinguono e alla generazione successiva, semplicemente non esistono più, salvo casi particolarmente bizzari o straordinariamente geniali...
ecco, per chi crede che la critica non sia soltanto una barriera, una censura da superare, un padre da cui farsi finalmente apprezzare e forse amare: sono convinto (altrimenti farei un altro mestiere, l'arbitro di calcio oppure il giudice) che la critica svolga - nel momento in cui l'opera esce dall'isolamento in cui è nata e cresciuta - un ruolo indispensabile anche agli artisti: oltre "propaganda e diffusione"  nei confronti del pubblico, è anche specchio e verifica, porta alla costruzione di un linguaggio comune, aiuta a mettere a punto il rapporto tra il possibile (le intenzioni del creatore, ma anche gli sviluppi di una poetica) e il reale...
altre prospettive che a partire dalla tua riflessione si potrebbero esplorare, sono quelle del "diventare adulti" (in soggettiva, e non da fratello minore che guarda i maggiori) da un lato e dall'altro il rapporto con la storia. c'è una logica, un senso, in questa successione di fanciulli che vengono accettati dal mondo degli adulti, o è sempre lo stesso teatrino "paterno-genitoriale" che ci stritola, sempre uguale a se stesso, generazione dopo generazione, e allora l'unica possibilità è quella della rivolta a oltranza, vitalistico-giovanilista, contro tutti i poteri, quelli semplicemente conservatori ma anche quelli rivoluzionari? oppure è possibile trasmettere in qualche modo un sapere "non castrante" da una generazione all'altra? e come? soprattutto in un'arte carsica come quella teatrale, dove i vecchi maestri continuano a riemergere nelle maniere più impensate (vedi sopra il pezzo di Fernando Mastropasqua su Craig ibseniano suo malgrado, grazie a Ronconi)
insomma, solo per dire (ripetere) che mi sembra un testo che coglie dei nodi, che fa venire in mente dei pensieri, che varrebbe la pena, ancora, di discuterne, tutti insieme...
perché - lo ripeto - ritengo che una riflessione su questi temi debba avere anche qualche immediata conseguenza pratica. dal concetto di fratellanza, per continuare a usare questa metafora, possono venire anche indicazioni sul versante della politica culturale. in determinate circostanze l'eroismo solitario è indispensabile e doveroso. in altri casi rischia di restare velleitario, una specie di comodo ghetto, un pulpito - alla fine - per giocare a scandalizzare: una consolidata strategia di marketing, che porta a parlar male di tutto senza cambiare niente (se non incrementare il proprio personale successo, l'affermazione di sé).
ecco, se posso dare un consiglio non richiesto (non tanto a te, che in questi anni di fratelli ne hai trovati molti, sia tra gli artisti sia tra gli studiosi di teatro): l'importante è sapere di non essere soli, non parlarsi addosso, trovare qualcuno con cui scambiare le proprie esperienze (e magari fare rivolte non solitarie)
un abbraccio & a prest-o.


Al placido Don
di Renata Molinari e Luigi Dadina
(Un frammento)

A novembre, ha Ravenna, ha debuttato Al placido Don. Fantasmi del fiume, un testo forte e intenso di Renata Molinari e Luigi Dadina (che ne è anche il protagonista). Parla di fiumi, come dice anche il titolo. E di guerra, come leggerete qui sotto, a ricollegare le inquietudini del presente con la memoria della ultima guerra che ha insanguinato le nostre terre.

Oggi nessuno chiede più racconti di guerra, cos’è la guerra, a chi lo chiedi?
Ti sembra di saperlo, ti sembra che non ti riguardi, la vedi alla televisione, a chi lo chiedi, ai profughi?
Che poi, se qualcuno ti interessa, allora non glielo chiedi, e lui non te ne parla, al massimo qualche accenno; si ha paura a parlarne, paura di scoprirsi nemici, in guerra.

Se la domanda, poi, è “cos’è la guerra”, allora piomba il silenzio, come un segreto da non tentare.
Succedeva anche con mio padre, quando gli chiedevo di spiegarmi la guerra, lui allora diceva che non se ne può parlare.
Lui e le cose che non mi ha mai detto mia madre, andavano nello stesso senso.
Quando si arriva alla guerra, anche se dopo ci sono tanti libri, tanti film, la sensazione è che noi non possiamo capirla,
non possiamo sapere cos’è.

Una cosa è sicura, che quando cominci a domandare, all’inizio c’è sempre la morte, un morto, e quando smettono di parlare, anche.
 

E’ successo così, quando ero piccolo.
C’era sempre la morte di qualcuno che veniva evocata, nei racconti dei parenti, poi il silenzio.
Il cugino Ido, morto giovane…
La zia Adelaide, che suo marito l’avevano portato via…
Zelio che era morto in montagna.
E Valter che non si è più ripreso da quando gli hanno ammazzato il fratello.
Tutti morti giovani, tutti della nostra età, o dei nostri padri, degli amici.
Perché poi le domande nascono da quello che vivi.
Cosa succede attorno a te, cosa succede ai tuoi amici?

Edo è stato bocciato, Ivan è stato all’ospedale,  Marco ha una morosa segreta, la Giulia, che i suoi dicono che è troppo giovane per queste cose,  Corrado ha lasciato la squadra di calcio e Vanni ha già trovato un  lavoro. C’è un momento in cui la conta gira in un altro modo.
La mattina ti  svegli e Cleto è morto, la casa di Zvanì incendiata, Selmo scappato, l’Angiolina sfollata con le sue bambine.
Prova a immaginartelo, nel tuo condominio, fra i tuoi compagni di scuola, di lavoro, prova… Non ce ne è uno che torni a casa, bene, durante la guerra
Poi la guerra finisce e la gente torna, cambiata, ferita, ma torna. E si comincia a parlare, del passato, ma soprattutto del  futuro. E si guarda cosa è rimasto, cosa rimane, riconoscibile, da dove ripartire. La stalla, le aule della vecchia scuola, l’officina di Minardi, il ponte sul fiume….
 

Già, perché la guerra, poi, finisce. Anche questo è un mistero: come fa a finire questa cosa - che nessuno sa spiegarti cos’è. Non si capisce.
Finché non arriva la morte, quella cattiva, improvvisa, che ti fa sembrare strane tutte le cose “vive” attorno a te. Proprio la morte, cosa succede, come succede che ci ammazziamo, come succede.
E come succede che questo diventi normale.
Come succede che questo diventi la Storia con la S maiuscola.
Come succede.
E si cerca di capire, si separa, si giudica.

Diceva il compagno Bertolt Brecht, che poi forse, non era proprio proprio compagno, anarchico forse, certo credeva nella rivoluzione.

“Anche il minimo gesto, in apparenza semplice,
osservatelo con diffidenza.
Investigate se proprio l’usuale sia necessario”

“Trovatelo strano, anche se consueto,
inspiegabile, pur se quotidiano,
indecifrabile, pure se è regola.”

“E - vi preghiamo – quello che succede ogni
                 giorno
non trovatelo naturale.
Di nulla venga detto: è naturale
In questo tempo di anarchia e di sangue,
di ordinato disordine, di meditato arbitrio,
di umanità disumanata,
così che nulla valga come cosa immutabile.”

Intanto però i morti restano morti.



G8 x P24
di Oliviero Ponte di Pino

Il saggio che segue è stato preparato per "il Patalogo 24", l'annuario dello spettacolo edito da Ubulibri e in uscita in questi giorni. E' anche una specie di ipertesto, che attraversa diversi numeri di "ateatro" (e alcuni messaggi inseriti nei forum) per costruire un diverso percorso di lettura (tra i tanti possibili).

Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 25 agosto 2001 07.07
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: G8 x P24

Caro Franco,
lo faccio senz'altro volentieri il pezzo sul teatro e il G8 per il P24. A caldo, subito dopo i fatti di Genova, avevo iniziato a scrivere qualcosa sul G8 come opera d'arte totale: la prima parte l'ho messa online su "ateatro 16" pochi giorni dopo i fatti e fattaci genovesi. Qualcuno s'è divertito qualcuno s'è irritato… Dopo di che sono andato in vacanza, poi ho avuto di meglio da fare, e quella "prima parte" è rimasta lì, sospesa a metà. Se ti va però per il Patalogo potrei proseguire su quella linea (ma ho anche altro materiale più o meno attinente, che adesso cerco di raccogliere). Non so se l'hai visto, quel pezzo, in ogni caso ecco il link
verso "ateatro". Fammi sapere, cia-o.

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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 5 settembre 2001 23.25
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: R: R: G8 x P24

Sì, come andare avanti più o meno l'ho in mente, anche se ero arrivato al passaggio più delicato, quello relativo alla morte di Carlo Giuliani (dove – lo so – con questo piglio ironico rischio oltretutto il cattivo gusto…). Ma insomma, proseguirei più o meno così: "Sulla morte nel corso delle performance si è già detto e scritto fin troppo, fin dai tempi del caso Schwartzkogler…", poi avrei in serbo un paio di riferimenti iconografici, dal Cristo del Mantegna alle foto nella morgue di Serrano. Non potrei non citare il rap in cui Alberto Arbasino profetizzava Il morto di Genova (come peraltro molti di coloro che avevano vissuto i nostri anni Settanta) e che né il "Corriere" né "Repubblica" gli hanno pubblicato. Inizia così:

"Tutti i più impegnati e più 'correct'
del movimento
si aspettano e si augurano
almeno un morto a  Genova!
Anche i più civici, e i più cinici,
i più assatanati, i più cattolici,
i più etici:
l'aspettativa è grande
per il morto a Genova! (… ) il morto a Genova è necessario
è indispensabile! Conviene! Conviene! Conviene ai giovani smaniosi
e ai vecchi malvissuti,
ai frustrati e ai lanciati, ai debuttanti e ai 'revenants'!
di destra e di sinistra,
di sopra e di sotto,
con storie e provenienze
diversissime, ma accomunati
dall'avidità del presenzialismo
e del tafferuglio, dal rumore
delle botte, dall'odore
della morte 'live'! a caldo! sul campo!
in tempo reale! In presa diretta!"
(a proposito, l'avrai ricevuta anche tu la lettera con cui Arbasino accompagna le copie omaggio del suo Rap!, in uscita in questi giorni da Feltrinelli: anyway te ne metto un pezzo in allegato)

Naturalmente il pezzo forte di questa seconda parte riguarda il Gran Finale della megaperformance di Genova: il Gran Teatro della Crudeltà delle cariche e dei pestaggi alla Scuola Diaz. Senz'altro esteticamente più interessante del Biedermeier berlusconiano ("Togliete quelle orribili mutande appese nei vicoli!", "Ma come sono spoglie queste piante!" e così rimediano con i limoni appesi con il filo di nailon…) Ma il pestaggio, con quelle macchie di sangue trasmesse in Mondovisione schizzate sui muri e i pavimenti, è stato anche più istruttivo (esteticamente e politicamente) sulla realtà del conflitto delle miniperformance di strada realizzate per l'occasione dai no-global. Per certi aspetti, quelle immagini moltiplicate dalle tv del mondo intero sono state una vera peste: non a Marsiglia, come nelle allucinazioni storiche del caro Artaud, ma in un'altra città affacciata sul Mediterraneo…

A proposito di Artaud, ho già rubato una citazione da Il teatro e il suo doppio:

"Il Teatro della Crudeltà sceglierà temi e soggetti che corrispondano all'agitazione e all'inquietudine tipiche della nostra epoca (…) Questi temi saranno cosmici, universali (...) I grandi sconvolgimenti sociali, i conflitti tra i popoli e tra le razze, le forze naturali, l'intervento del caos (…) si manifesteranno nei movimenti e nei gesti dei personaggi saliti alla statura di dei, di eroi e di mostri di dimensioni mitiche." Non ci vedrei male, più o meno qui, una riflessione sull'arte "politica" che affolla questa Biennale "Platea dell'umanità", in confronto con quello che si è visto a Genova (ma forse è già implicito in tutta questa satiraccia, fin dal titolo, e dunque inutile insistere).
Dove invece affonderei la lama è sul narcisismo fiorito in un movimento fin troppo consapevole dell'effetto media: "La contestazione dell'incontro tra i leader delle otto superpotenze mondiali è stato l'evento più ripreso della storia dell'umanità: 30.000 macchine fotografiche e 10.000 telecamere erano in funzione a Genova durante il G8. La presenza di operatori professionali dell'immagine è stata la più massiccia di sempre" (è in un articolo di Leonardo Broggioni sul "manifesto" di oggi, dove si riflette anche su chi poi sceglie, usa e compra queste immagini all'interno dei mass media). (Il tutto poi per filmare quello che Arbasino già sapeva e aveva scritto…)
Insomma, a un certo punto la controinformazione e il Grande Fratello rischiano di coincidere! Così dopo i TG e gli speciali televisivi che hanno mostrato e rimostrato quelle immagini, ecco il fiorire di filmati (la stampa di destra, di fronte a Monicelli e Co., aveva parlato di "superG8", la battuta non è male). Si potrebbe fare un accenno ai numerosi documentari realizzati in quei giorni: quello coordinato da Gabriele Salvatores e Citto Maselli che Irene Bignardi ha fatto tagliare e poi proiettare a Locarno, che Sgarbi ha lodato ("L'impressione è che si tratti di qualcosa di più filogovernativo della RAI di Zaccaria. Al di là dell'inesistente valore estetico delle immagini, l'unica cosa da registrare è che, per caricare di senso un materiale così povero, i registi siano dovuti ricorrere a degli accorgimenti tecnici."), Scajola attaccato (senza averlo visto) e Raitre dovrebbe mandare in onda… A Le strade di Genova di Davide Ferrario, con la sua puntigliosa ricostruzione militare degli scontri (controinformazione della più classica). A Genova. Per noi, firmato con qualche retorica per il Genoa Social Forum da Paolo Pietrangeli, Roberto Giannarelli, Wilma Labate e Francesco Martinotti, A Solo limoni, video di Giacomo Verde per Indymedia (che dal suo sito offre altro materiale video scaricabile da internet), dove si prova raccontare con onestà e poesia quello che è successo (dov'è il confine tra l'estetico e il politico? "La mattina prima della manifestazione Diane aveva comprato un po' di limoni: servono a calmare l'effetto dei lacrimogeni e riuscire a tenere gli occhi aperti. È fondamentale e non solo per fare le riprese. Quando per caso ho visto quella foto mi sono stupito. Mi sono chiesto perché avevo deciso di scattarla. Non sembrava particolarmente interessante. Ma dopo un po' mi è venuto in mente un affresco del Masaccio, forse è un po' azzardato, ma io e Diane abbiamo quasi la stessa postura di quell'affresco: La cacciata dal Paradiso Terrestre", dice la voce narrante alla fine di Solo limoni)… A proposito di autodocumentazione, volendo posso aggiungere un cenno alla carta stampata (il numero speciale di "Diario" che raccoglie le testimonianze scritte e fotografiche dei partecipanti, anche la rivista "Carta" sta raccogliendo materiali per un libro bianco, a cura di Anna Pizzo).
In realtà sull'eccesso di info farei una citazione parapirandelliana y paraborgesiana sull'impossibilità di cogliere la realtà in tutte le sue sfaccettature. Forse si potrebbe, il 21 luglio dell'anno prossimo, invadere Genova con proiettori di diapositive e cinematografici e riproiettare in tempo reale tutto quello che è stato documentato, accompagnandolo con i racconti dei protagonisti, per cercare di rifare tutto davvero uguale… (tra l'altro sentito in questi giorni che il giudice che sta lavorando sul processo per tentato omicidio agli assalitori del famigerato gippone vuole vedere tutte le 290 ore di filmati su Genova…)
Alla fine però c'è una cosa importante che vorrei dire. In fondo, il G8 ci ha fatto riscoprire due cose. I corpi. E la paura. Hanno un corpo (in genere goffo, sgraziato, antieroico) i grandi della terra. E abbiamo un corpo anche noi: che oltre a essere un po' meno sgraziato (a volte) di quello dei G8, può sanguinare, può far male, può soffrire (anche in tv…). E questo corpo, e questa paura della sofferenza, è una cosa reale, e che ci accomuna tutti. Come la paura: quella di chi si crede invincibile, quella di chi dimentica che la polizia mena eccetera. Su questo, forse, proverei a dilungarmi.
A prest-o.
All. 1: La lettera con cui Alberto Arbasino accompagna le copie omaggio di Rap!
Amico lettore, gentilmente: questo libretto fu stampato in fretta (a causa delle ferie tipografiche d'agosto) nel luglio 2001. Poco prima dei fatti di Genova. Ne faceva già parte Un morto a Genova, composto in base alle facili previsioni dei giornali, rifiutato dalle direzione della "Repubblica" e del "Corriere della Sera" prima di quei fattacci, e quindi subito collocato sul sito Internet di Feltrinelli Editore.
Se Rap! non fosse già stato stampato, ovviamente, sarebbe stata indispensabile un'aggiunta, dopo gli eventi genovesi. E magari questa, che dovrebbe apparire in un prossimo probabile instant-volumetto sui "Segnali di regime". In certi momenti politici, infatti, si ha la sensazione che la storia incominci a correre, e che incomba sui contemporanei un certo dovere civico di testimonianza, contro ogni autocensura.

Chi è il 'vincitore' (più o meno 'morale')
dopo i brutti fatti
di Genova, e i botti
dopo i motti, e gli irrinunciabili lutti?
Che domanda immorale: siamo tutti
sconfitti e perdenti,
esponsabili, e irresponsabili, e innocenti,
quando c'è un morto per terra.
Come in guerra.

Un saluto da Alberto Arbasino

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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 6 settembre 2001 07:55
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: post G8

Certo, ovvio che c'è stato anche un dopo (e magari anche un prima, ma su questo preparo un altro mail domani).
In effetti, la cosa più buffa (se sei fuori di galera) del dopo G8 è che in galera ci sono finiti soprattutto dei teatranti. Quelli della PublixTheatreCaravan, quelli che chiamano la polizia "policestatetheatre" e che dunque sono perfettamente consapevoli dell'effetto rappresentazione degli scontri "no-global". (c'è una interessante intervista di Tatiana Bazzichelli ai teatranti austriaci, trovi  in "ateatro 21").
(qui forse potrei anche ricordare la celebre scena della Cinese di Godard, in cui una studentessa viene inquadrata in primo piano: ha convocato una conferenza stampa, ha il volto completamente bendato e inizia a raccontare delle violenze subite dalla polizia. Racconta mentre si toglie lentamente la benda, con tono sempre più drammatico e concitato, il giornalisti in conferenza stampa e il pubblico al cinema seguono con crescente partecipazione, finché non si accorgono che la ragazza è assolutamente sana, che non l'ha menata proprio nessuno, e ci restano male…)

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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 8 settembre 2001 06:55
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: pre G8

Avevo promesso un mail con qualche appunto pre G8. Ci ho pensato un po' sul, il rischio è di allargare troppo il campo. Andrebbe ovviamente citata L'agenda di Seattle dell'Impasto, che ha suscitato discussioni e dibattiti anche all'interno del movimento. Ma a me è sembrato (malgrado le intenzioni) uno spettacolo politicamente ingenuo e esteticamente bruttarello (o politicamente brutto ed esteticamente ingenuo?). In ogni caso ti allego la lettera aperta all'Impasto che avevo pubblicato su "ateatro 11".
Dopo di che – non so se nel prima o nel post – farei ovviamente un accenno al Living e al suo spettacolo, replicato anche a Genova per il G8. Probabilmente basterebbe mettere da qualche parte l'intervista a Hanon Reznikov pubblicata dal "manifesto" (c'è nel forum sul teatro di guerra) – e magari una vecchia frase dal Lavoro del Living:
"Quando il pubblico saprà conoscere la violenza alla chiara luce della parentela della nostra empatia fisica, uscirà da teatro e trasformerà tale male nel bene che ha trasformato le Furie in Eumenidi".
 

Poi non so se ha senso, e se c'entra, ma c'è tutto il lavoro sui "Teatri di guerra" fatto da Teatroaperto (per il video hanno intervistato anche te). Ci sono molti materiali, compreso un pamphlet pubblicato da "ateatro" (la casa editrice, con la quale peraltro non ho alcun rapporto) e disponibile online su vari numeri di "ateatro". Ma questi materiali li hai già.Ah, poi bisognerebbe trovare qualche citazione appropriata di Biljana Srblianovic, e sul suo "teatro di guerra", che ha accompagnato le recenti vicende serbe con grande intelligenza ed efficacia politica… Ma sto mettendo troppa carne al fuoco, nell'insieme mi sembra a questo punto di aver raccolto abbastanza materiale. Adesso basta mettersi a scrivere…
Dunque mi metto al lavor-o.

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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 23 settembre 2001 19:45
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: che fare?

Hai ragione, è un po' che non mi faccio vivo, ma dopo quello che è successo l'11 settembre alle Twin Towers il pezzo sul G8 proprio non riesco a proseguirlo. Almeno non con quel tono.
Cia-o.

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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 10 ottobre 2001 22:30
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: R: R: che fare?

Insomma, provo a andare avanti. Ma non credo che riuscirò a finirlo come avrei voluto, il pezzo su Genova.
Il significato del mio pezzo era (spero) abbastanza chiaro: quella di Genova è stata una grande auto-rappresentazione politica, amplificata dai mass media (e con tutti i protagonisti ben consapevoli di questa amplificazione e di molti dei suoi effetti). Con la mia satira era proprio questo l'aspetto che cercavo di mettere in luce.
Sottolineavo anche alcune ingenuità e punti deboli nel rapporto tra questa "spettacolarizzazione" dell'azione politica, l'evoluzione della democrazie negli ultimi anni, la pesante involuzione della situazione politica italiana di questi mesi (non a caso a Genova in quei giorni c'erano il vice-presidente del Consiglio Fini e altri esponenti di Alleanza Nazionale, e non il Ministro degli Interni, che se ne stava a Roma…), una scarsa riflessione sull'uso della violenza nei processi democratici eccetera eccetera. In una parola, giocavo sul rapporto tra la rappresentazione della forza e la forza "vera" (un'immagine emblematica: gli scudi e le spettacolari barriere di autodifesa preparate per mesi dai centri sociali che resistono pochi secondi a un reparto di forze dell'ordine neppure troppo cattivo…).
Peraltro il "teatro politico" che si è messo in atto a Genova ha una lunga tradizione. Mi è venuto in mente in questi giorni di rileggere Cacciari:

"La polis esiste soltanto nel processo del suo dividersi. Tra chi la trasforma, la innova e la vuole in itinere, e chi ne pretende inamovibile il Nomos; tra chi ne custodisce le tradizioni come autentiche parole vere (mýthoi), e chi le analizza criticamente-liberamente, finendo col conferire al termine mythosil significato di leggenda o favola; tra chi ne vede nell'oîkos la radice, e chi ne esalta la forza; tra chi teme in Nume dell'onda, e chi lo vuole dominare, riducendo il Mare a cammino, a via, interrandolo dunque (e così la stessa hýbris del Gran Re contagia le grandi talassocrazie, da Atene e Venezia). Necessariamente, la libertà della polis fallisce nel suo supremo agón: quella per sconfiggere hýbris. E questo naufragio ne determina la lacerazione, che sta al centro del dramma classico: dai Sette contro Tebe all'Antigone. Di volta in volta la città muta parere su che cosa sia giusto (I sette contro Tebe, 1070-1971); ma, opinando sul giusto, il suo Nomos sarà per forza cangiante e precario, affidato a Tyche come la più pericolosa della navigazioni." (Massimo Cacciari, Arcipelago, pp. 26-27) ***************************

Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 20 ottobre 2001 14:50
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: G8

Caro Franco,
continuo a pensarci. Dopo l'11 settembre credo sia necessaria una riflessione profonda, che non sono in grado di fare in tempi brevi.
Scusami se la prendo un po' alla larga (ma al teatro spero di tornarci, alla fine di questa riflessione), e affrontando argomenti che non dovrebbero trovar posto in un "Annuario dello Spettacolo" (ma il "Patalogo" è anche qualcosa di più).
Penso che in questi anni (diciamo dopo l'89), dopo "il trionfo della democrazia sul comunismo", sia in gioco proprio la democrazia. Se vogliamo cogliere un senso alla storia degli ultimi secoli, abbiamo assistito a un allargamento dei diritti umani fondamentali: che sono stati estesi spesso al "terzo stato", e poi al "quarto", alle donne… È stato un processo lungo e doloroso: un susseguirsi di lotte lunghe e dure, in conflitti anche violenti, che in molte occasioni sono andati oltre il limite della legalità.
Quello che stiamo rischiando, ora, è che in nomi di leggi astratte (quelle dell'economia e della finanza) gli spazi di democrazia e partecipazione finiscano di fatto per restringersi. E questa fase di isteria bellicista, di paura diffusa, di ansie, aggrava ancora di più la situazione. (Penso alle libertà e garanzie costituzionali sospese a Genova per i G8, penso alla riduzione della privacy determinata dalla "guerra al terrorismo", penso al parlamento degli Usa "chiuso per antrace"…).
Il movimento di Genova, con tutte le ingenuità che mi sono divertito a raccontare (ma per cercare di raggiungere una maggiore consapevolezza della situazione), è stato un tentativo di riallargare le possibilità di partecipazione democratica di fronte allo scippo dei G8 e altre entità astratte. La lezione di Genova – se ce n'è stata una – è che gli spazi di azione politica democratica oggi sono pochi e vanno usati con attenzione e determinazione, senza ingenuità. E ancora di più oggi, quando rischiamo uno scenario di guerra totale globale, senza esclusione di colpi…
Ma a questo punto, mi chiederai, che c'entra il teatro con tutto questo? Non lo so, ma però mi sembra che c'entri, o che dovrebbe entrarci. Insomma, vorrei provare a ripensare un nesso originario: non solo quello tra teatro e democrazia nell'antica Atene (sulla quale si fondano molte ipotesi di teatro politico), ma anche quello tra teatro, democrazia e guerra che è alla radice di quella che chiamiamo civiltà occidentale. In questa ottica, proverei a rileggere qualche storico della guerra e il Massimo Cacciari di Geofilosofia dell'Europa e di Arcipelago¸ quando parlando dei Persiani di Eschilo spiega che il teatro greco nasce dalla guerra. Intanto ho trovato qualche citazione, che mi copio qui sotto, come prima base del lavoro. Per cominciare, l'evoluzione della guerra dall'età classica a oggi. Nelle polis greche,

democrazia e battaglia campale erano, ovviamente, due facce della stessa medaglia. Da tempo è stata riconosciuta la connessione tra democrazia e principio della milizia; non occorre grande intuito per capire che coloro che votano a favore della guerra si impegnano a combatterla in prima persona. Ciò che non era stato capito, fino a quando Hanson non lo ha rivelato, è che i militi greci votavano anche per un nuovo genere di guerra che doveva avere lo stesso esito del processo democratico: un risultato inequivocabile e immediato. Democrazia e battaglia campale, come è naturale, si differenziano per la qualità: la prima non è violenta, mentre la seconda è inevitabilmente, e anzi di necessità, brutale e distruttiva. Ma la logica della seconda è insita nella prima. Un uomo la cui esistenza è radicata in quella della sua città, della sua fattoria e della sua famiglia non può impegnarsi in una campagna senza limiti, al contrario di chi non ha responsabilità né proprietà. Meglio correre il rischio di morire domani, con la possibilità però di ritornare vittoriosi a casa il giorno dopo, piuttosto che l'incertezza interminabile, rovinosa e dissanguante della guerriglia. Un uomo libero (…) ha ipotecato la propria vita per la sua libertà e dev'essere pronto a rischiarla sul campo di battaglia se vuole estinguere quell'ipoteca. Proprio la disponibilità a morire sul campo di battaglia conferì alla vita politica dei greci liberi il suo carattere eroico. La tesi conclusiva (e sconfortante) di Hanson è che il mondo moderno conserva tanto l'idea della democrazia quanto della battaglia decisiva ma, mentre non ha fatto grandi progressi sulla prima, ha snaturato in maniera enorme la seconda. (John Keegan, dalla Prefazione a Victor Davis Hanson, L'arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica, Garzanti, Milano, 2001) Oggi, invece, la forma della guerra non ha più a che fare con determinazioni di luogo e neppure con gli elementi originari. Conquistato l'ultimo elemento (ovvero "l'oceano del cielo", n.d.a.), tutti divengono indifferenti. La guerra si muove 'a priori' nello spazio come pura forma, tutta 'a disposizione' della téchne calcolante. Nessun luogo resiste, così come nessun tempo vissuto; luoghi e tempi vengono sradicati, tratti lassù nell'unità dello sguardo che dall'alto tutti-insieme domina. 'Lassù' non sta ad indicare un altro, nuovo luogo, ma, all'opposto, il superamento di ogni determinazione terranea e temporale-terranea. Perfetta Auf-hebung: il luogo è davvero ri-posto 'in alto', è superato, cioè posto-sopra, concepito nella superiore unità della sua idea, cioè perfettamente veduto, A questo non-luogo era necessario pervenisse il viaggio di coloro che credono fermamente di poter 'acquistare' solo abbandonando la propria terra, dei "nati per non avere la pace", come chiama Tucidide gli Ateniesi. (Massimo Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, Adelphi, Milano, 1994, p. 69) Spero mi scuserai l'ennesima citazione da Cacciari, più direttamente legata al teatro, e che forse giustifica le precedenti, su cui mi piacerebbe (con calma e tempo, nei prossimi mesi) continuare a riflettere. Si riferisce al sogno della Regina nei Persiani di Eschilo (vv. 176-214). La donna, che in vesti persiane segue mansueta il suo signore, è l'Asia, "ricca di genti … gregge divino"; la donna in vesti doriche è Eleuthera indomabile, la libertà greca, suddita a nessuno. Ma la tragedia è tale proprio in quanto non le contrappone affatto immediatamente. Una stásis è la loro, non un pólemos. Qui addirittura la guerra che per il greco ha finito con l'essere assunta a modello del pólemos, della guerra contro il barbaro, viene chiamata col nome della 'guerra interiore'. Asia ed Europa non soltanto appaiono entrambe belle e divine, ma realmente "sorelle di sangue, della stessa stirpe". Abitano terre diverse, ma una ne è l'origine. Questo enigma costituisce il cuore della tragedia. (Massimo Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, cit., pp. 18-19) Un'ultima citazione, da Théâtres de la guerre. Eschyle, Shakespeare, Genet, a cura di François Lecercle (Klicksieck, Parigi, 2001), un'analisi sulle modalità di rappresentazione della guerra nel teatro occidentale condotta in parallelo da diversi studiosi sui Persiani (appunto), Enrico IV. Parte prima e I paraventi. Nell'insieme i tre testi, per ragioni diverse, si pongono al di fuori delle forme che in apparenza possono rappresentare la guerra nella maniera migliore. Del resto opzioni di questo genere sono esistite: sotto l'Impero romano, gli spettatori si vedevano offrire battaglie navali, combattimenti di gladiatori e in alcuni casi autentici omicidi. Nel XIX secolo, i teatri concepiti da Ashley permettevano ricostruzioni di battaglie, soprattutto equestri. Nel XX secolo, il cinema si è specializzato nella rappresentazione dei conflitti più diversi, anche adattando testi dello stesso Shakespeare.
Nei tre testi presi in esame, la messinscena della guerra fa invece appello all'immaginazione dello spettatore. Si può supporre che questa scelta fosse automatica quando si conservavano un ricordo e una vaga conoscenza dei combattimenti, che nel caso di Salamina e della Guerra d'Algeria erano eventi contemporanei. In ogni caso, questo appello viene espresso chiaramente quando si tratta della battaglia di Azincourt, peraltro successiva a quella di Shrewsbury. (…) E non è certo un caso se Eschilo e Genet mettono in scena dei personaggi ai quali gli eventi vengono narrati, e che, a partire da questo racconto, devono immaginarseli. (...) Per sollecitare l'immaginazione degli spettatori, i tre testi non fanno affidamento ai dettagli realistici, anche se se ne trovano diversi. (…) L'immaginazione trova piuttosto un supporto in forze antagoniste che vengono amplificate, [secondo] un procedimento caro all'epica. (…) Come sottolinea Genet, l'importante è "dare agli spettatori l'idea di una Forza che s'oppone a un'altra forza".
Mettere in scena la guerra, significa dunque fare sempre, e ancora di più, teatro. Significa credere che il teatro possa, sviluppando il proprio principio e tutte le risorse che ne derivano, rimanendo se stesso e soltanto se stesso, suggerire le battaglie senza tuttavia ricostruirle in maniera realistica. Significa credere anche, alla fine, a quella che chiamiamo "magia del teatro". Una magia che non si limita a qualche gioco di prestigio, ma si crede talmente potente da dar vita, magari solo provvisoriamente, ai morti. (Daniel Mortier, Théâtres de la guerre, cit., pp. 59-65)
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Da: Oliviero Ponte di Pino [olivieropdp@libero.it]
Inviato: 23 ottobre 2001 19:45
A: Franco Quadri [ubulibri@libero.it]
Oggetto: una conclusione

Mi spiace, più di così non riesco a fare in tempi stretti. Non riesco a dare una forma diversa da questi mail alla mia riflessione sul G8 e sui suoi postumi. Sui giornali di questi giorni però ho trovato un paio di citazioni che mi potrebbero funzionare da conclusione (provvisoria) a questo mio soliloquio. La prima è tratta da un'intervista a Jan Frabre, quando è venuto a Roma a presentare il suo (bellissimo) lavoro, As long as the world needs a warrior soul, l'altra da un'intervista a un'attrice musulmana che lavora in Inghilterra.

Lei come si sente di fronte a questa guerra?
Mi viene da dire che è una vera follia teatrale, che è cattivo cinema come è tutta la macchina che i media inventano o gonfiano per diffondere il panico. Che poi è il terrore nel senso peggiore. Cioè non stiamo parlando di un terrorismo mentale, che significa porsi domande molto profonde sul senso del sé e delle cose che si fanno. L'ideologia credo che se estremizzata diviene pericolosa e stupida. Un po' come i media che fanno di noi delle bambole e riescono a farcelo piacere.
Diceva della storia che si ripete. Può spiegarci meglio?
Quanto è accaduto l'11 settembre non mi ha sconvolto, perché è uno tra i risultati di un processo che ha radici lontane. La società occidentale è molto presuntuosa, si sente fiera della sua civiltà che esclude però tutto quanto viene visto come disturbante. Geneticamente il terrorismo sta dentro di noi, la natura è guerra ma bisogna vedere che significato dare questo. Gli esseri umani sono bizzarri animali che non si rispettano l'uno con l'altro e non rispettano gli altri animali. Penso che dovremmo avere più attenzione per la natura, per gli animali, sono fantastici dottori e filosofi, forse avremmo anche più rispetto per noi stessi.Jan Fabre (da un'intervista di Cristina Piccino, "il manifesto", 21 ottobre 2001)
Shazia, perché ha deciso di includere nel suo spettacolo delle battute sull'11 settembre? Quando ho visto quelle terrificanti immagini in televisione ho disdetto tutti gli spettacoli per due settimane. Poi mi sono detta che bisognava andare avanti. Quando ho ripreso a esibirmi, in sala c'era un'atmosfera pesantissima. Vedevo dalle facce tese del pubblico che la gente si chiedeva se avrei parlato di quello che era successo. Ci sono riuscita solo 15 giorni dopo, a un mese dagli attacchi. E sono contenta. Perché ridere aiuta a sfogarsi e aiuta anche a capire. Il pubblico la contesta? Ora non più. All'inizio un po'. C'erano i bianchi che pensavano che fingessi di essere musulmana, i musulmani estremisti che mi dicevano di tornare a casa a preparare da mangiare per gli uomini, chiudere la bocca e stare zitta. A volte ho avuto paura. Perché quando minaccia questa gente fa sul serio, come abbiamo imparato sulla nostra pelle. Ma non ho mai pensato di smettere. Anzi, voglio fare sempre di più: com'è che nei film di Hollywood non ci sono quasi mai asiatici? La sua specialità è la parodia delle donne musulmane. Come ha reagito la sua famiglia? L'hanno presa piuttosto bene devo dire. I miei genitori pensano ancora che la commedia sia un hobby e che prima o poi tornerò a insegnare fisica a tempo pieno e a utilizzare la laurea in biochimica - sì proprio in biochimica -, dovrò trovare una battuta anche su questo ora che gira l'antrace. Ma sono relativamente aperti, quindi non mi hanno ostacolato. D'altronde erano preparati. Quando avevo 11 anni ho portato a casa una pagella dove la maestra aveva scritto: "A Shazia piace fare il clown". Era vero. Ce l' ho nel sangue. Devo sottolineare comunque che io non mi prendo gioco della religione islamica. Sono musulmana e orgogliosa di esserlo. Mi diverto solo a descrivere come viviamo noi donne. Essere sul palcoscenico è liberatorio e mi piace far ridere il tipico uomo bianco che dell'Islam non sa nulla. La domanda che mi sento rivolgere più spesso è: "E' vero che camminate due passi dietro i maschi? L'ho inserita anche nello spettacolo ("sì, da dietro siete più belli"). La realtà è che il Corano parla con molto rispetto delle donne e dà loro molto potere, ma il messaggio si è perso. Nella lotta contro l'ignoranza, il fanatismo e l'intolleranza una risata è un'arma potente.
Shazia Mirza (da un'intervista di Paola De Carolis, "Corriere della Sera", 21 ottobre 2001)

No-Body
di Anna Maria Monteverdi

La quantità di opere video realizzate intorno ai fatti di Genova è un fenomeno di notevole interesse politico, estetico e sociologico. O, se si preferisce, di costume: basti pensare alle 80.000 copie vendute dalla cassetta allegata all'"Espresso", alle decine di migliaia di copie vendute da quella allegata a "Liberazione", "manifesto", "Unità" (forse l'unico indizio di una possibile unità della sinistra in questi anni...). (e per par condicio, o per analizzare i comportantenti di una destra che oggi usa  strumenti d'azione politica tradizionalmente "di sinistra", bisognerebbe citare anche I Novembristi. L'America in piazza del Popolo, il video venduto dal "Foglio" sulla manifestazione pro-Usa) (e per completezza andrebbero citati anche i 5 cd-rom 5 Genova / luglio 2001. Cronache curato da Radio Popolare)
Il fenomeno meriterebbe una analisi articolata e complessa, e almeno una lettura in parallelo dei vari filmati. Per esempio, sarebbe interessante capire come si intrecciano - sia dalla parte dei videomaker e dei produttori sia dalla parte degli utenti-acquirenti - militanza politica, controinformazione, ricerca di identità individuale e collettiva, marketing...
Per cominciare, ecco il saggio scritto da Anna Maria Monteverdi per Agrumi e testi (per la precisione, ci sono testi di “Altri Luoghi”, Mariano Bàino, Nanni Balestrini, Elisa Biagini, Franco Berardi (Bifo), Giuseppe Caliceti, Luigi Cinque, Mauro Covacich, Pablo Echaurren, Gabriele Frasca, Florinda Fusco, Andrea Inglese, Francesco Leonetti, Giuliano Mesa, Raul Montanari, Anna Maria Monteverdi, Aldo Nove, Tommaso Ottonieri, Marco Paolini, Marco Philopat, Gian Paolo Renello, Massimo Rizzante, Tiziano Scarpa, Sara Ventroni, Giacomo Verde, Gian Mario Villalta, Lello Voce).
Il volume accompagna Solo limoni Videotestimonianza sui fatti di Genova di Giacomo Verde con commento poetico di Lello Voce. Lo pubblica la Shake. A sostegno del volume+cassetta sono previste diverse iniziative in tutta Italia, a cominciare da quella ospitata dal Centro Sociale Leoncavallo: tanto per cominciare la mostra fotografica "Mastica e sputa. Quadri e ballate da Genova", dal 14 al 21 dicembre; poi il 21 dicembre  un happening di poesia collegato alla pubblicazione di Solo Limoni. La mostra + happening gireranno per l'Italia e a marzo andranno alla Scuola Diaz di Genova, dove ci sara' una grande iniziativa. (olivieropdp)

Nel libretto allegato al video Solo limoni pubblicato e distribuito dalla Shake compare un mio testo "No-body" scritto come lettura "partecipata" alla video-opera, che cercava di individuare nellla voluta soluzione antitelevisiva il "marchio" politico-attivista del videomaker Giacomo Verde. Per motivi non dipendenti dalla mia volontà questo testo è stato modificato nella sostanza e da quel testo prendo le distanze mentre affido ad "ateatro" l'originale non "corrotto".
(Anna Maria Monteverdi)

Giacomo Verde e Lello Voce erano lì, vicino a Piazza Alimonda quando Carlo Giuliani viene ammazzato da un colpo di pistola in pieno viso, sparato a distanza ravvicinata dall’interno di una Land Rover "Defender" CC AE 217.
Giacomo era a Genova non per una film commission ma perché condivideva sinceramente le ragioni e l’ideologia del Movimento e voleva mettere a disposizione, in occasione dell’Anti G8, le proprie immagini: sin dal primo giorno, come molti altri videoattivisti, aveva riversato sul sito di Indymedia il proprio girato, dando testimonianza di quello che accadeva quasi in diretta, non censurato da televisioni governative–private per motivi di palinsesto, di fedeltà allo standard o alla linea, più o meno occulta, politica-economica dominante. La deliberata scelta di non fare "reportage d’assalto", "cronaca più vera del vero", lo ha portato a soffermarsi, piuttosto, su quello che accadeva ai margini, nobilitando – come sempre nei suoi video - la "parte in ombra" dello "spettacolo", dando volto, voce e corpo a situazioni poco "televisive" o addirittura in certi casi, anti-televisive, ma assolutamente efficaci per comprendere a fondo il clima e la forza reale di un movimento (di idee, di azioni) che non conosce confini (No border è lo slogan del gruppo teatrale austriaco Publix Theatre Caravan che ha realizzato azioni di strada durante le manifestazioni anti G8) 1   e fa "resistenza" (Resistence è l’emblematico titolo dello spettacolo che il Living Theatre ha presentato nelle strade di Genova). A prevalere, come vera scelta di stile (d’arte, di vita) è il rumore di fondo: nel video, dunque, c’è il "backstage" delle immagini del Tg, il controcampo, il fuori fuoco: protagonisti sono l’anziano genovese che guarda gli scontri a distanza ravvicinata e le commenta come fosse un cronista sportivo, il proprietario della casa che ospitava, suo malgrado, tre cecchini sul tetto. E ancora, il corteo coloratissimo dei migranti, la gente affacciata dalle finestre che butta acqua ai manifestanti accaldati (e poi dopo, limoni per aiutarli a sopportare i lacrimogeni), il punto di ristoro, l’accampamento, il momento della vestizione e delle protezioni con armature di plastica e gomma, il clima generale di festa, di solidarietà. Di speranza che "un mondo nuovo è possibile". Ma anche la città blindata, la violenza contro i manifestanti, la forza iconoclasta dei "black block", i loro cortei, il saccheggio di un supermercato, la risposta alle cariche della polizia.
Corpi colorati, corpi rivestiti, corpi imbottiti a prova di urto: Kefiah (l’Intifada!), passamontagna e armature di gommapiuma (visibili nell’episodio Corpi speciali) contro "corpi cibernetici" in tenuta antisommossa, protetti da scudi, caschi e maschere antigas.
Nel video, voci e musica sembrano commentare gli episodi o a volte addirittura generarli. Se la musica, un’abile mix di elettronica ed effetti sonori del compositore Mauro Lupone, aggiunge un elemento emozionale, i testi selezionati e declamati senza ostentazione dal poeta Lello Voce e i titoli degli episodi offrono un’ulteriore nota di riflessione (poetica, filosofica, ironica) che va oltre le immagini stesse: le parole reagiscono con le immagini e i suoni come in un’equazione chimica.
Nell’episodio Corpi speciali il brano letto dal Don Chischiotte di Cervantes crea un cortocircuito assolutamente spiazzante: la ricerca delle armi del Cavaliere errante più famoso della storia della letteratura accompagna la vestizione-mascheramento fai-da-te dei ragazzi, un po’ combattenti del Sacro Graal, un po’ uomini-imballaggio "Fragile-maneggiare con cura", imbottiti con materiale riciclato e ritagliato su misura per un gesto, un unico emblematico gesto: "entrare – come mostra orgogliosamente la ragazza nell’episodio in questione -  con il mio corpo nella Zona Rossa". Corpi che vorrebbero (s)cavalcare cancelli, un cavaliere che vuole attaccare mulini a vento. Di quante zone rosse è fatta la nostra vita? Fino a che punto possiamo arrivare con i nostri ragionamenti-corpo prima di trovare gli sbarramenti di chi ha già deciso, per noi, il destino della nostra vita? Qual è la linea bianca da rispettare?
La voce di Lello si mescola con le parole di altri, con quelle di una cultura-in-azione.2  Che aveva già visto, che aveva, in qualche modo, pre-visto: Bertold Brecht, Patrick Chamoiseaux, Elio Pagliarani, Piero Jahier, Roque Dalton, Elemire Zolla.
Tutto si mescola nel grande crogiuolo della Storia.
Perfettamente coerente con la sua idea di arte come pratica comunicativa e contro ogni specificità di linguaggio, lavorando, piuttosto al loro incrocio (teatro e video, web e performance, live e medializzato), frantumando generi e mescolando tecniche di narrazione, dunque, Giacomo Verde in Solo limoni usa con grande disinvoltura, più registri (quello ironico, quello autobiografico, quello poetico, quello documentaristico), non disdegnando neppure la citazione iconografica; la Cacciata dal Paradiso Terrestre, l’affresco del Masaccio con cui si apre e con cui si conclude il video, rimette a noi il Giudizio Finale: se riprenderci il Paradiso o rimanere in questo Inferno.
C’è soprattutto un Io narrante (mescolato a molte altre voci narranti) testimone oculare dei fatti che non rinuncia a mostrare se stesso ed il proprio punto di vista (che è una precisa presa di posizione politica sul mondo) anzi lo esplicita, lo palesa: in my opinion, per farla finalmente finita con la ricerca dell’impersonalità ed imparzialità del documento (di tutti i documenti) e con la pretesa neutralità delle tecniche comunicative; questa è una favola a cui dovremmo smettere di credere. "La scelta di un linguaggio è sempre una scelta politica": così Sandra Lischi aveva aperto il suo ragionamento sul video di Giacomo Verde al cinema Arsenale di Pisa. Solo limoni è un’opera "militante" (ma non di propaganda) nel senso più autentico (e onesto, e ottimista) del termine. Con la tecnica della "guerriglia controinformativa" dei collettivi radicali anti-establishment degli anni Sessanta (ma anche, e soprattutto, con quella degli attivisti della rete) Verde ha sempre condiviso l’idea di "opera in azione".3  Giacomo Verde attraverso le sue installazioni (che sono estese anche al mondo digitale e della rete) si è davvero "schierato" contro la tecnocrazia e il "tecnopolio" (Neil Postman) dominante che oggi assume le sembianze familiari del televisore di casa e del computer. Le sue oper’azioni sono da sempre variazioni in low tech sul tema della necessità di un uso politico e di una riappropriazione e gestione collettiva dei media, in un momento in cui la sfera tecnologica è diventata sempre più il cuore del sistema (politico, economico, sociale), tema che oltrepassa evidentemente ogni argomentazione di tipo estetico; coi Teleracconti Verde ci aveva mostrato come è facile attraverso una telecamera "far credere che le cose sono diverse da quelle che sono", in altre parole, che le immagini trasmesse dalla televisione non sono quelle della realtà ma quelle di chi vuole fissare per noi un punto di vista sul mondo. E’ la realtà "rassicurante" di un mondo che non esiste, è la realtà al tempo dei vanishing events, della "fine della storia" (Baudrillard). Abbiamo imparato da tempo (e i recenti fatti di guerra ce lo confermano) quanto potente sia la macchina spettacolare dell’informazione (parola che troppo spesso fa rima con consenso), la "gestione della catastrofe" e la simulazione-contraffazione degli eventi (ancora Baudrillard).
L’episodio della telecamera di Pasolini (le immagini sono di Uliano Paolozzi Balestrini) è incredibilmente simbolico nella sua paradossale apparenza di sketch: un fotoreporter è colpito, un poliziotto gli ha spaccato la macchina fotografica. Lui è lì per lavorare, non per condividere le ragioni del Movimento, per stare di qua o di là, avrebbe probabilmente venduto le immagini a qualche rotocalco guadagnandoci bene, ma si rende conto di essere diventato anche lui ingranaggio utile al sistema, e come tutti, burattino o maschera di una commedia all’improvviso il cui canovaccio era già stato da tempo scritto; un assurdo gioco delle parti (diventato, poi, un terribile jeu du massacre) in cui ciascuno recitava un ruolo, mentre altri ne manovravano i fili. Chiede chi è stato. C’è un gruppo di poliziotti ma nessuno esce dal gruppo, nessuno si mostra nella propria identità, fuori dall’"Arma" a cui appartiene, fuori dalla corazza spersonalizzante (ma anche protettiva) del proprio ruolo, appunto. Il responsabile, che è evidentemente lì in mezzo, ha la complicità di tutti, è, diciamo così, "coperto". Nessuno (no-body) è stato.
Il fotografo insiste e coinvolge la folla, vuole trovarlo, nella vita normale, in fondo, mica accade così, uno che fa deliberatamente un’azione violenta e per di più gratuita mica può rimanere impunito. Ma in questa no man’s land che è stata Genova, tutto era tragicamente lecito (e la fotocamera rotta è solo l’inizio), ogni diritto civile violato, l’uccisione stessa non un omicidio.
Poi ci sono gli scontri, Giacomo e Lello non inseguono lo scoop ma tra le vie incontrano mille storie. Ascoltano, guardano e registrano: un medico sanguinante colpito al volto, "rastrellamenti" tra chi cercava rifugio provvisorio dentro i portoni o sulla spiaggia. Giacomo sceglie di inserire poche ma significative testimonianze delle violenze indiscriminate sulla massa dei manifestanti. Altri lo hanno fatto con maggior dovizia di particolari, con interviste e ricostruzioni puntuali e senza chiedere il permesso.5  Lo shock di fronte a queste immagini rimane sempre lo stesso: non ci sono attenuanti ai pestaggi indiscriminati, alle cariche dei blindati contro la folla, alla brutalità di una violenza totalmente gratuita.
Nell’episodio di Carlo Giuliani il girato è tantissimo, c’è il corpo offeso, c’è il Corpo della Polizia, ci sono decine di corpi di ragazzi; qualcuno di loro intravede l’inguardabile, urla "Assassini". Solo corpi, solo rabbia. Fatto il loro dovere, eseguiti gli ordini, pistole e manganelli alla mano, la polizia si allontana; qualcuno spara fumogeni sulla folla che piange, indignata, il cadavere, tutto quello che rimane di slogan e cortei contro la globalizzazione liberista. Ecco il "marchio" del sistema dominante. Così dicono le immagini di Giacomo Verde e di molti videoattivisti, chiarissime e senza possibilità di interpretazioni tendenziose. L’occhio di Giacomo Verde, però, si ferma sul particolare isolato, sulla ragazza con la telecamera che vede e urla "Cosa avete fatto?", sul ragazzo che scopre il sangue sotto la segatura ne prende un pugno e gettandolo contro la polizia che arretra, grida: "Ecco, loro sono capaci di questo!" La telecamera ha fissato a lungo gli occhi e lo sguardo di quei poliziotti immobili, schierati in cerchio intorno al morto; ha cercato di catturarne un qualche respiro, un qualche spiraglio (di sentimento? di verità? di pentimento? di vita?). Maschere messe a nudo. Una galleria di volti: c’è quello imbarazzato, quello impassibile, quello che quasi sta soffocando dentro la maschera antigas perché non deve aver sentito l’ordine di levarsela. Ancora, una lunga e commuovente digressione sui fiori rossi che vengono strappati dall’aiuola e posti pietosamente sul luogo dove Carlo Giuliani è stato colpito a morte. Tutti corpi intorno. Il girato è tantissimo, bisogna comunque registrare, perché a dirlo semplicemente a parole, nessuno ci crederebbe; Giacomo non ha quasi staccato la telecamera, non può, è il mirino che gli permette di vedere, sarebbe stato come staccare un respiratore; decide di non tagliare e di non sacrificare quasi niente: lascia la maggior parte delle immagini e semplicemente le velocizza, mantenendo così, una continuità di azione; minimo il lavoro di montaggio, pochissimi gli stacchi: l’idea è quella di lasciare il tempo reale: si può contrarre il tempo, ma non eliminarlo quel tempo. C’è bisogno di ricordare tutto e l’intero piano sequenza (risultato di un coraggioso quanto abile, montaggio in macchina) permette di conservare l’immediatezza e di restituire dell’intera vicenda, il suo volto (i suoi volti), la sua successione temporale, il suo contesto.
"Non calpestate le aiuole" è senz’altro l’episodio più emblematico (e il più toccante) perché la morte intravista dalle gambe dei carabinieri, e attraverso i loro scudi trasparenti appoggiati a terra, quel corpo coperto da un lenzuolo, e la chiazza di sangue ricoperta di segatura quanto tutto è finito, è quello che non ci farà mai dimenticare quei tre giorni di Genova. Le immagini di quel no-body (l’ essere umano ridotto a corpo uccidibile, non più vita sacra e inviolabile), offeso dai padroni della nuda vita altrui, ci ricorda, soprattutto, che non siamo al cinema, che tutto è tragicamente vero.
Che può capitare nella vita reale di morire o di uccidere un proprio coetaneo durante una manifestazione di piazza.
Proprio in un’epoca di facilità di trasferibilità e trasmissibilità delle immagini, di massima diffusione delle tecniche di riproduzione (ma anche di trasformazione delle immagini stesse), dei mille occhi delle mille telecamere e macchine fotografiche presenti a quello che è stato definito un vero evento mediatico, che diventavano mille finestre spalancate sui fatti, queste inserite in contenitori diversi e "telecomunicate", diventavano magicamente di segno opposto: il Movimento (dichiaratamente pacifista, anzi attivista pacifista) marchiato dell’infamia della violenza e dell’illegalismo, una seria minaccia per il vivere civile, i teppisti la vera anima del movimento.
In mezzo, la "narrazione dei fatti", "trattati" dai media (non tutti, per fortuna) con la solita patina di irrealtà, o semplicemente di funzionale finzione, risultato della usuale spettacolarità sensazionalistica con cui gli eventi acquistano quell’appeal degno di una messa in onda.
Lo show, televisivamente parlando, è riuscito.
Ma se tutto è andato come previsto, secondo "copione", il sangue, gli scontri, la vittima, non sarà perché l’aveva profetizzato qualche poeta in un Rap, né perché lo imponeva l’Auditel. 7
Ma perché l’autoritarismo (la Struttura) - questo la Storia ci insegna - non conosce altre strade.
Al prevedibile oscuramento televisivo si sono, per fortuna, contrapposti gruppi di attivisti indipendenti, che hanno messo a disposizione quelle immagini che ora circolano liberamente in rete, attraverso mailing list, in siti dedicati, o nelle edicole e che sono proiettate pubblicamente in circoli, in centri sociali, nei cinema e nei social forum costituiti in tutt’Italia all’indomani dei fatti di Genova.
Come all’epoca delle street tv quando le ingombranti camcorder e portapack (e il relativo apparato di broadcasting autogestito) servivano a mostrare "l’altra faccia degli eventi", a Genova questi sguardi si sono centuplicati e sono diventati microscopiche e leggerissime telecamere digitali, web cam, istantanee fotografiche e sequenze video immediatamente disponibili e divulgabili in rete, mentre l’attivismo antagonista e il versante del dissenso tecnologico sta conoscendo altre e proficue strade attraverso il world wide web.8  Così le immagini di Giacomo e di altri autori, le parole di Lello, la musica di Mauro, sono diventate un video e un libro per mantenere ancora a lungo nella memoria collettiva quello che altri vorrebbero far dimenticare.
 

NOTE

1 Dopo aver preso parte alle manifestazioni e aver fatto alcune performance di strada, il 22 luglio i venticinque membri della Karawane furono fermati fuori della città e successivamente trasferiti in carcere a Voghera e Alessandria con l’accusa di fare parte dei black block. La loro permanenza in carcere termina il 16 agosto, giorno in cui sono estradati verso i paesi d'origine gli ultimi cinque membri rimasti in carcere (per gli altri venti la data di scarcerazione è il 14 agosto). Tatiana Bazzichelli, attivista e studiosa di cultura antagonista e di hacker art li ha intervistati in occasione del Festival di arti elettroniche di Linz, settembre 2001. Al momento della stesura del libro il processo è ancora in corso. Il testo dell’intervista è pubblicato su "ateatro".

2 Mi sembra che la migliore definizione di "cultura in azione" sia stata scritta da Antonin Artaud nel testo di prefazione al Teatro e il suo doppio: "Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è uno strano parallelismo fra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della demoralizzazione attuale, e i problemi di una cultura che non ha mai coinciso con la vita e che è fatta per dettare legge alla vita. Prima di riparlare di cultura, voglio rilevare che il mondo ha fame, e che non si preoccupa della cultura (…) La cosa più urgente non mi sembra dunque difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame (…)Bisogna insistere su questa idea di cultura in azione (corsivo aggiunto)che diventa in noi come un organo nuovo, una sorta di respiro secondo: e la civiltà, è cultura applicata, capace di guidare anche le nostre azioni più sottili, è spirito presente nelle cose; ed è puro artificio separare la civiltà dalla cultura, e usare due parole diverse per indicare una sola e identica azione". A. Artaud, Il teatro e la cultura, in Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1968, p.128 (1a pubblicazione in forma di opuscolo: Parigi, 1933; 1a ed. de Le théâtre et son double: Parigi, Gallimard, collezione "Métamorphoses", febbraio 1938).

3 Si potrebbe, a questo proposito, ricordare le argomentazioni della Arendt sulle caratteristiche attuali della vita activa (che riprende la classica distinzione tra bios politikos e bios theoretikos). Azione e discorso come vera realizzazione della condizione umana intesa nell’unica accezione possibile, ovvero nella pluralità, nell’agire insieme: "L’azione, diversamente dalla fabbricazione, non è mai possibile nell’isolamento; essere isolati significa essere privati della facoltà di agire (…) Agire, nel senso più generale significa prendere un’iniziativa, iniziare, mettere in movimento qualcosa (che è il significato originale del latino agere)… Discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici ma in quanto uomini. Questo apparire, in quanto è distinto dalla mera esistenza corporea, si fonda su un’iniziativa, un’iniziativa da cui nessun essere umano può astenersi senza perdere la sua umanità. Non è così per nessun’altra attività della vita activa. Gli uomini possono benissimo vivere senza lavorare, possono costringere gli altri a lavorare per sé, e possono benissimo decidere di fruire e godere semplicemente del mondo delle cose senza aggiungere da parte loro un solo oggetto d’uso; la vita di uno sfruttatore o di uno schiavista e la vita di un parassita possono essere inique, ma essi sono certamente esseri umani. Ma una vita senza discorso e senza azione – certamente il solo modo di vita che genuinamente ha rinunciato ad ogni apparenza e ad ogni vanità nel senso biblico del termine - è letteralmente morta per il mondo; ha cessato di essere una vita umana perché non è più vissuta tra gli uomini. Con la parola e l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale". H. Arendt, Vita activa. La condizione umana. Milano, Bompiani, 1991, p.128-129. (ed. or. The Human Condition, Chicago, 1958).

4 Il riferimento è alle opere di videomaker indipendenti come Antoni Muntadas, Paul Garrin e soprattutto ai movimenti di militanza controinformativa (l’altra faccia della videoarte): Global Village, Raindance Corporation, Videofreex, che avevano dato vita a Tv via cavo autogestite, riviste (Radical Software curata da Beryl Korot) e ad un vero e proprio stile documentativo improntato sull’immediatezza, sull’informazione veramente alternativa e decentralizzata. Sull’argomento vedi M. Sturken, Paradossi nell’evoluzione di un’arte: grandi speranze e come nasce una storia, (tit. or. Illuminating video) in Video imago, "Il nuovo spettatore" n. 15, maggio 1993, a cura di A. Amaducci, Milano, Franco Angeli, 1994; ed anche S. Fadda, Definizione zero. Origini della videoarte tra politica e comunicazione, Torino, Costa e Nolan, 2000. Azioni di protesta attraverso la rete sono state, invece, promosse attraverso, per esempio, la pratica del netstrike, altra faccia del movimento di "disobbedienza civile elettronica" promulgato dal collettivo americano Critical Art Ensemble che ha per slogan "Cyber rights now" (vedi C.A.E. Sabotaggio elettronico e Disobbedienza civile elettronica, Castelvecchi, e anche La macchina carne. Cyborg, biotecnologie e nuova coscienza eugenetica, Milano, Shake, di prossima uscita). In Italia il net strike ha i suoi padri fondatori nell’artista toscano Tommaso Tozzi (artista digitale, fondatore di reti telematiche antagoniste e BBS) e nel gruppo Stranonetwork, composto da artisti formatisi nell’area underground e cyberpunk del CSO "Ex Emerson" di Firenze (tra gli altri, Federico Bucalossi, Ferry Byte, Stefano Sansavini). La pratica di azione diretta, collettiva e organizzata attraverso la rete contro multinazionali colpevoli a vario titoli di abusi o Stati sovrani, gli obiettivi del netstrike e l’ideologia che lo sorregge, sono spiegati da Tommaso Tozzi nel libro Net strike, No copyright etc. Pratiche antagoniste nell’era telematica, ed. AAA. Il libro è soprattutto un manuale pratico con tanto di kit per imparare a "farsi da casa il proprio net strike" nella tradizione della militanza che ricorda agli storici della videoarte, il manuale per un utilizzo alternativo della televisione Guerrilla Television dell’americano Michael Shamberg datato 1971.

5 Attualmente è terminato il primo di una serie di video che verrano realizzati dal gruppo Indymedia con scopi deliberatamente documentaristici. Rimandiamo al loro sito per richieste e informazioni sugli aggiornamenti in corso: www.italy.indymedia.org. Ho voluto giocare con il titolo dello "storico" libro di Roberto Faenza Senza chiedere il permesso (1973), manuale ad uso dei rivoluzionari dell’informazione armati di videotape.

6 Viene in mente, a questo proposito, la figura dell’homo sacer, l’uomo escluso dalla vita politica e sociale che nella ius latina arcaica non godeva di alcun diritto civile e la cui uccisione non costituiva, di fatto, omicidio. L’uccidibilità incondizionata era prerogativa (e fondamento stesso) del potere sovrano: "Lo spazio politico della sovranità si sarebbe costituito attraverso una doppia eccezione, come un’escrescenza del profano nel religioso e del religioso nel profano. Sovrana è la sfera in cui si può uccidere senza commettere omicidio e senza celebrare un sacrificio; sacra, cioè uccidibile e insacrificabile, è la vita che è stata catturata in questa sfera (…) La sacertà della vita, che si vorrebbe oggi far valere contro il potere sovrano come un diritto umano in ogni senso fondamentale, esprime, invece, in origine proprio la soggezione della vita a un potere di morte, la sua irreparabile esposizione nella relazione di abbandono" (G.Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995, p.92-93). Nell’epoca moderna molti sono gli esempi di nuda vita uccidibile dal potere sovrano in nome di una sacertà dietro cui si nasconde, in realtà, una violenza autorizzata e legittimata dal potere stesso (ieri gli ebrei oggi i manifestanti di piazza). I segni vittimari degli uccidibili sono sempre meno evidenti, la diversità dei perseguitati sempre meno un requisito per un potere che assomma in sé (impadronendosene indiscriminatamente e senza essere giudicato per questo) la sacralità della vita stessa; dunque, l’homo sacer diventa emblema della condizione umana contemporanea: "La sacertà è una linea di fuga tuttora presente nella politica contemporanea, che, come tale, si sposta verso zone sempre più vaste e oscure, fino a coincidere con la stessa vita biologica dei cittadini. Se oggi non vi è più una figura predeterminabile dell’uomo sacro, è forse, perché siamo tutti virtualmente homines sacri" (Ibidem, p.127). Non a caso in copertina il libro mostra significativamente l’occupazione della Piazza Tien an’men dopo gli scontri e le violenze ingiustificate sulla massa inerme dei manifestanti pacifici da parte del potere costituito, violenza che si è puntualmente ripetuta nel corso della manifestazione anti G8 a Genova, luglio 2001.

7 Oliviero Ponte di Pino, ironizzando sull’apparato dispiegato, in occasione dell’AntiG8, da una parte e dall’altra, ha tentato di descrivere l’evento come un grande spettacolo di teatro e di arte, nel testo Il G8 come opera d’arte totale.

8 Sulle pratiche antagoniste del web vedi l’articolo di Tatiana Bazzichelli, Hacker art in "Cut up" n. 3 e consultabile al sito www.strano.net


London calling
di Francesca Lamioni
 

ARTISTS IN EXILE
Movimento di artisti professionisti rifugiati, provenienti da ogni parte del mondo per condividere un sogno collettivo e collaborare insieme, oltre i confini delle nazioni, per creare una nuova patria comune attraverso la creatività.

"Sono una persona di attese. Per tutta la vita ho aspettato qualcosa. Ho aspettato il prossimo colpo del mio torturatore; ho aspettato di evadere dal mio paese. Prima tappa – Mosca, un'altra prigione. Ho aspettato di andare via da Mosca; di arrivare a Londra. Un altro tipo ancora di carcere. Ho aspettato nel terrore di essere rimandato indietro. Ho aspettato di trovare la mia voce per parlare."
Ghias

CHI SONO?
Artists in exile è un gruppo "multilinguistico" che si sta evolvendo assai rapidamente, alimentato dal talento. Il gruppo comprende attori, registi, scrittori, artisti visivi, musicisti, danzatori che desiderano lavorare insieme per celebrare le loro differenze culturali.

"Che cosa c'è di male nel sentirsi chiedere da dove veniamo?
Il problema sta nel fatto che la domanda implica che non appartieni al luogo dove ti trovi".
"Venire da un luogo implica tornarci quindi non potersi fermare a lungo ma ci sarà sempre gente che viene da e ce la mette tutta per restare qua e appartenere al luogo dove si trova adesso".
Vida

Il gruppo è stato fondato il 6 settembre del 2000 e da allora vanta 60 workshop e un numero di membri che si avvicina a 80, di almeno 20 lingue diverse. Ha sede presso Riverside Studios a Hammersmith e si sta velocemente emancipando verso l'autogestione. Comprende artisti stranieri che vivono a Londra e artisti inglesi che desiderano collaborare con essi. Artists in exile offre l'opportunità di stabilire legami e connessioni nelle maniere più disparate per evitare gli effetti dell'alienazione.

"Dal momento che questa visone si è concretizzata è diventata così potente da non essere più una questione di scelta: è stata lei a scegliere noi. Durante il nostro primo incontro ci siamo tutti meravigliati di come i nostri viaggi personali e le nostre lotte individuali avessero cospirato per farci alla fine incontrare in un momento ben preciso. Quella notte nacque Artists in exile".
Caryne

THE DREAM WORKSHOP è stato il primo di una serie di laboratori a tema. Ha usato il sogno come motivo conduttore. Gli artisti si incontrano settimanalmente ai Riverside Studios per sperimentare un nuovo vocabolario creativo, rompere tabù, esplorare il processo creativo in fieri, condividere tecniche, ispirazioni, lingue ed esperienze.

Nella mia cultura avevo paura di essere me stesso. Dovevo recitare diversi ruoli. Spesso non si può esprimere cosa veramente pensiamo e proviamo. Siamo magari onesti con noi stessi ma esternamente bisogna diventare bravi attori per sopravvivere. Anche qui dove sono libero non mi sento a mio agio nella mia comunità: solo quando salgo sul palco posso essere chiunque io voglia".
Parvanech

DON'T WORRY ABOUT YOUR ENGLISH. IT IS NOT IMPORTANT. COME ANYWAY.

Per ulteriori informazioni:
Caryne Chapman Clark
ARTIST IN EXILE
The Riverside Studios, Crisp Road, Hammersmith
London W6 9RL
Tel : 020 8237 1115
Fax: 020 8237 1001
Email: artistsinexile@hotmail.com

ARCOLA THEATRE (The Fringe)
New In Town: stagione teatrale Sett. 2001/ Febb. 2002

Si apre un periodo molto stimolante per l'Arcola. In un momento in cui il teatro inglese sta attraversando una crisi, Arcola sta vantando un esito positivo, nonostante sia locato in una delle aree più depresse di Londra.
Questa stagione sono state proposte solo novità teatrali (la stagione precedente aveva invece presentato rappresentazioni della Vintage Shakespeare Company).
New In Town si è aperta con Hannah & Hanna (4-29 sett.), cooproduzione della nuova troupe di John Retallack's con The Company of the Angels e the Channel Theatre Company.
Robert Gillespie ha diretto l'ultima opera di Adam Rapp: Ghosts in the Cottonwood (16 ott.-10 nov.)
La regista Bonnie Greer sta presentando Jittemburg(13 nov./9 dic.).
Infine David Fan (ex direttore artistico del Gate Theatre) metterà in scena la sua riscrittura di un vecchio romanzo Crime and Punishment in Dalston (3 gen.-2 feb.)
Prevista anche la collaborazione con The Half Moon Young Company che visiterà il teatro per la prima volta, portando uno spettacolo per bambini, When the Snow falls (3-4 dic. 11.00 a.m.)
Inoltre saranno stabili ad Arcola per la stagione autunnale Out of Southwark (Black Opera Company) e The Turkish & Jewish Drama Project, che dal 1° ottobre ogni domenica sta mettendo in scena spettacoli in lingua turca.

Arcola comprende uno spazio espositivo aperto dalle 10.00 alle 22.00 da lunedì a venerdì ( 25 Nov./ 6 gen.): Inerme Painting di Cengiz Ugur, dipinti ispirati ai film di J.L.Godard in cui Ugur coglie aspetti assai originali dell'opera del regista francese).

Interessante l'intervento della Compagnia itinerante del Jewish Festival of Arts & Culture che ha presentatoJittemburgeReconciled in The Book of Secrets or How to find Romania, scritta da Laura Simms e diretta da Naomi Newman (18 nov.)

Sponsor dell'Arcola è Istanbul Iskembecisi, aperto prima e in seguito agli spettacoli: musica dal vivo (jazz, folk, cabaret e musica tradizionale turca) ogni venerdì e sabato sera.
Aperto inoltre dalle 12.00 alle 17.00 ogni giorno della settimana.
9 Stroke Newington Road
London N16 8HB Tel. 020 7254 7291
 

JITTEMBURG (Parte del Jewish Festival of Arts & Culture)
Arcola Theatre in collaborazione con Pascal Theatre Company

Jittemburg propone una serie di sketch sull'"altra Europa".
Una coppia anglo/araba e le loro discussioni conflittuali; due anziani sopravvissuti di Auschwitz che ritornano sul posto e vi incontrano una giornalista nera, il cui nonno – si scopre in seguito – era un soldato dell'esercito tedesco che insegnava a danzare ai prigionieri: la coppia lo ricorda e ne conserva un ricordo molto bello .
Una ragazzina nera inglese si trova ad affrontare il dilemma di dover schierarsi a favore del suo insegnante vittima sia dell'antisemitismo che dell'omofobia.
La regista ha inserito alcuni sketch in seguito all'11 settembre: due amiche in una sauna, una confessa la sua passione segreta per Bin Laden; il padre di un ragazzo algerino ricorda con commozione la tenacia e la forza di volontà del figlio che si era trasferito a lavorare a N.Y. e aveva finalmente trovato un posto al World Trade Center.
A mio avviso queste aggiunte di attualità risultano un po' retoriche.
Mediamente bravi gli attori, molto interessante lo spazio teatrale ampio e con possibilità di scenografie articolate.
Questa nuova piece della regista Bonnie Greer ha ricevuto un premio dalla critica.

Arcola Theatre
27 Arcola Street
London E8 2DJ
Tel. 202 7503 1646 (box office)
020 7503 1645 (amministrazione)
email: info@arcolatheatre.com
Metropolitana: Highbury & Islington e bus 30, 38
Oppure bus 67, 76, 149, 243.



 

La Norma Traviata
un musical delirante con la straordinaria partecipazione di Franco Basaglia, Pierre de Fermat, Sigmund Freud ed Evariste Galois
di Denis Gaita

Va in scena dal 13 al 16 dicembre al Teatro dell'Arte il nuovo musical dei pazienti della Stravaganza: da alcuni anni lo spettacolo curato da Denis Gaita, psichiata e musicologo, è un appuntamento fisso per i traviati della psiche e della musica. Quella che segue è la presentazione di questa nuova tappa di un percorso certamente "non normale". Per info Paola Busnelli pbusne@tin.it

Il grande logico Pierre de Fermat, appuntando il suo famoso ultimo teorema sui margini di un antico trattato, scrisse: “Non ho spazio” (per dimostrarlo). Evariste Galois, altro genio matematico, scrivendo appunti febbrili la notte prima del duello in cui sarebbe morto, vergò: “Non ho tempo” (per portare a compimento l’intuizione a cui lavorava). Sigmund Freud, partendo per l’America per un ciclo di conferenze, dichiarò: “Vado a portare la peste” (in singolare sintonia con un altro famoso conferenziere che si imbarcava in quegli anni per la stessa meta, Oscar Wilde). Franco Basaglia, visitando un manicomio, disse: “Questa non è più malattia mentale, è orrore sociale e politico.”
Questi quattro cari personaggi ci fanno compagnia in un musical delirante, interamente alllestito, recitato, cantato e ballato da portatori di disagio psichico, psicofisico e sociale: in un futuro post-atomico, un pubblico ‘perbene’ tenta invano di assistere a una replica di Norma in un Teatro alla Scala bombardato, mormorando “Che volgarità” ai contestatori che gliela sabotano; un pubblico ‘permale’ emerge dai rifugi e dalle fogne per intrecciare all’opera di Bellini una Traviata punk, rappando “Norme tremate, le Traviate son tornate”.
“Non ho spazio”. “Non ho tempo”. “Porto la peste”. “Questa non è più malattia mentale.” “Che volgarità” “Norme tremate, le Traviate son tornate”. Il repertorio di riferimenti è apparentemente insensato. Eppure, a ben vedere, un musical dal titolo così impertinente e ideologico (La Norma Traviata, in un dichiarato omaggio alla memoria di Mario Mieli), in cui i ‘normali’ e i ‘mostri’ si affrontano e si confondono su melodie di Bellini e Verdi cercando un’impossibile conciliazione musicale e sociale, pone proprio questioni simili.

“Non ho spazio”. E’ la frase di chi sente di vivere in un territorio angusto: di chi abita un appartamento in città, chi deve dipingere con un fogliaccio sulle ginocchia e di chi, per cantare, non può gestire come vorrebbe per non fracassare i ninnoli della zia. Ma è anche la frase di chi ha un mondo interno così esplosivo, o così immenso, che, semplicemente, negli spazi borghesi non ci sta dentro, e finirà per sfasciare qualcosa.I “matti” provocano ogni giorno questo spazio, parlando ad alta voce sui tram (in spazi chiusi si parla piano), disegnando forme che vanno al di là dei confini del foglietto di carta fornito dall’atélier (gli ordinati stanno nello spazio del foglio, artisti e pazzi vanno fuori) e gesticolando ampiamente in spazi sociali ristretti e intolleranti, i cui abitanti provano scandalo e paura (si fa ginnastica in palestra, si danza sulla riva del mare, non si girandolano le braccia in salotto, la vita privata non consente spazi così ampi).
Ecco: il teatro (la teatroterapia, come si chiama goffamente e pomposamente in questi anni) offre uno spazio per un movimento psicosomatico che normalmente porterebbe in Pronto Soccorso. Fermat non aveva lo spazio, ma nemmeno i mezzi tecnologici, per la lunghissima dimostrazione del suo teorema, che infatti ha richiesto anni e computer potentissimi. Molti, infatti, l’hanno preso per matto a sostenere che un quadrato più un quadrato poteva dare un quadrato, ma che un cubo più un cubo non sempre dava un cubo. Allo stesso modo, certe esplosività (ma anche certi talenti...) e alcune aggressività non sono sempre ‘digeribili’, o ‘assimilabili’ a comportamenti sociali convenienti, e chiedono uno spazio speciale. Se è difficile star male in un letto d’ospedale, un teatro non annulla il male, ma gli consente uno spazio dove dilagare senza far male ad altri, e forse sopportando meglio lo star male stesso. Molti bambini cosiddetti ‘ipercinetici’, invece di imparare a star fermi, dovrebbero avere spazi simil-teatrali dove collaudare i movimenti. E tanti goffi, tanti disprassici (quelli, per intenderci, che non sanno fare la facciata B di una fotocopia, che in una manovra di parcheggio girano il volante dalla parte opposta, o che rovesciano il bicchiere quando sono imbarazzati...) in teatro imparerebbero a modulare la propria stonatura con lo spazio. Infine, chi, per disastri psichici e affettivi, porta in giro un corpo che somiglia a un sacco, che si affloscia dove capita o piomba chi sa dove, imparerà in un luogo teatrale a riconoscerlo come vivo e malleabile, a non dimenticarlo come zavorra e a non usarlo come proiettile impazzito.

“Non ho tempo”. E’ la frase di un matematico giovane e bizzarro, che impiega la sua ultima notte di vita, prima di un duello mortale e sconsiderato, in febbrili appunti, oggi preziosi. Galois non distillava formule da una cattedra, ma scarabocchiava segni algebrici prima di morire per caso. Mescolava dunque passioni di qualità differente: quella per l’aritmetica, e quella per una vita spericolata, con lo stesso fuoco. Non aveva tempo per finire e ordinare quegli appunti oggi considerati geniali, doveva correre a morire, come a un ballo o a un arruolamento. Ma quale tempo non aveva? E’ ovvio, per noi, oggi: non aveva il tempo di bruciare tutte le sue passioni, quella per la matematica come quella di scommettere la vita. O meglio: alcuni precipitosi tempi interni interferivano rovinosamente in tempi che avrebbero potuto essere più... ‘a tempo’, cioè più in ritmo con una vita possibile, con una crescita intellettuale, con una convivenza sociale più felice. E invece no: un ritmo interno vorticoso interrompe ricerche preziose e una vita che ci intenerisce
Succede lo stesso al sopranino ansioso che, talmente preoccupata dell’attacco al terzo tempo di ‘O terra addio’, lo attacca al secondo, producendo un pandemonio; ma anche a chi non sa andare ‘a tempo’ in una conversazione normale, e finisce per parlare sulle parole di qualcun altro, o per attraversare imbarazzanti silenzi; e succede infine a chi, dissestato nel proprio orologio interno da mille voci e cento deliri, prende la notte per il giorno (‘roba da matti’, appunto) e si presenta al colloquio di lavoro a mezzanotte.
“Non ho tempo”, dunque, denuncia la distorsione che alcuni tempi interni producono sui tempi condivisi. Ecco, allora, che la musica (la ‘musicoterapia’, come si dice oggi, con una parola sgraziata e pseudoscientifica) dà un tempo al ritmo interno e sintonizza il metro personale a quello degli altri. Cantando con altri, imparerò che Verdi ha pensato al mio fiato, che la prova del coro comincia alle dieci del mattino e non alle dieci di sera, e che se attacco prima del coro mi troverò solo.

“Porto la peste”. Per uno strano caso, sia Wilde sia Freud, prima di partire per gli Stati Uniti per un ciclo di conferenze, avevano la percezione di una missione contagiosa: quella di portare pensieri pericolosi in una cultura sostanzialista, salutista e protestante. Avevano ragione. Wilde pensava di scandalizzare con garofani verdi, redingote a violoncello e un estetismo floreale: scandalizzò ben di più, ma non si disse mai, la sua dissacrazione etica e snob del birignao borghese, e la conseguente sovversione del senso comune che produceva tranquillamente poesie neo-gotiche, architetture neo-ellenistiche, banchieri sensibili e obese wagneriane. Ma anche persecuzioni sessuali, razzismi buonisti e ideologismi salubri.  Anche Freud pensava di scandalizzare con un metodo così poco laboratoriale, e soprattutto scandagliando nei territori scabrosi  dei retrocucina familiari: scandalizzò molto peggio, ma non si seppe mai, il vero orrore della peste intellettuale che portava. Diceva, nientemeno, a un pubblico di perbenisti praticanti, che l’uomo non è totalmente padrone di sé, ma che in lui si muovono forze, fantasmi e determinazioni che non sempre può governare. Non solo: ma che la follia, a gettarla dalla finestra, rientra dalla porta. Come la peste, già.
Ma quale peste? Quella di imparare che non siamo fatti solo di funzionamenti e di comunicazioni, ma anche e soprattutto di bizzarrie decisive per noi, desideri non sempre omologabili a quelli altrui e soprattutto che la salute non consiste nello stare sempre bene, ma nel poter attraversare lo star male. Se questo è vero, in tempi solo superficialmente più tolleranti di quelli di Wilde e di Freud, allora, diventa un’impresa meritoria mostrare gli appestati, per far vedere che la peste non è rimuovibile, e non è sempre così nera come la dipinge il nostro immaginario.

“Questa non è malattia mentale”, disse Basaglia in un manicomio. Non certo per negare l’esistenza del disagio psichico, come gli hanno fatto dire: non era né un ignorante né un fanatico. Voleva dire qualcosa di più scandaloso: che, cioè, le disabilità sociali e relazionali che il disagio comporta diventano deriva sociale. In parole povere: lo psicotico che non si lava per conservare il suo scafandro protettivo di sporco nei confronti del mondo non è detto che sia un barbone; il down che sfascia la casa prima che la sfasci un cane che ha visto abbaiare in televisione non è un vandalo; e il portatore di handicap che gesticola come Tarzan vuol far vedere che è fortissimo, e non è detto che sia una scimmia.
Se è vero, allora, che il sintomo più vistoso del disagio psichico sta in una deriva sociale, oltre a curare il disagio, dobbiamo occuparci dello stigma che lo circonda. Non solo: dobbiamo soprattutto riguadagnare competenze relazionali e sociali perdute o mai  acquisite. La pratica dell’arte (arteterapia, come si dice oggi, con un termine cacofonico e paradossale: che cosa cura chi?) consente, in un territorio di piacere, ciò che sarebbe impossibile in un territorio di dovere: dar voce a qualcosa di irripetibile di sè, provare a dargli una forma, tollerare le voci e le forme degli altri, lavorare al loro farsi, recuperando discipline che portinaie, maestre e zie hanno cercato di insegnarci invano.

Ridare spazio a chi l’ha perso, ribattere un tempo a chi non sembra averne, mostrare la peste di cui siamo tutti contagiati e aprire i nostri manicomi interni: ecco la scommessa de ‘La Stravaganza’, questa volta con un musical, ovviamente delirante. Nessuna apologia da strapazzo della follia, si intenda: di quella sono già pieni i non detti delle insegnanti nelle sciagurate scuole odierne, e i programmi televisivi delle piccole pietà notturne. Qui ‘delirio’ è questione filosofica non frivola, dove è importante sapere porre senso anche dove la maggioranza non lo annette.

Con il solito metodo di lavoro (improvvisazioni libere su temi musicali e teatrali da parte di una popolazione eterogenea di portatori di disagio, volontari e operatori), abbiamo costruito un esperimento musicale di conciliazione, fra popoli che fingono di non avere niente in comune (i ‘perbene’ e i ‘permale’) e fra musiche che si presuppongono incompatibili (‘Casta Diva’, ‘Amami Alfredo’ e ‘Va e va’). Ne è nato, crediamo, un incantevole mostro, che dovrebbe far pensare all’appartenenza di ciascuno ai ‘normali’ o ai ‘mostri’, e  all’inconsistenza della divisione fra i generi della musica. Tutto questo, non con discorsi o ideologie, ma con un fare teatrale, e cioè attraverso un lavoro estenuante che, facendo ridere e piangere, faccia pensare.

Alla luce di tutto questo, diventa chiaro perché, in una Milano post-atomica, improbabili ‘perbene’ indossino fra le macerie le perle, i ‘tubini’ e i tic d’antan, mentre probabilissimi ‘permale’ portino ostentatamente i segni della peste, le bende, le divise sognanti e addirittura ali angeliche. E anche perché cimentare ‘Libiamo nei lieti calici’ con ‘Deh non volerli vittime’, in una scommessa stralunata di nuova musica che li trasforma in ‘Chiamami Alfredo’ e ‘Basta Piva’.
Soprani di un tempo che fu non possono più cantare impunemente Norme come se il mondo non fosse crollato (molti celebratissimi continuano a crederlo, ma anche Salieri pensava di essere immortale per la sua musica): così, un esercito di folletti le straluna, e le coinvolge in walzerini da rotonda sul mare, o in fragori da centro sociale. Angeli dal sesso incerto cantano canzoni struggenti, come in un rocky musical da cantina, parlando però con assoluta precisione del fatto che nessuna tolleranza e nessun pietismo troveranno il posto dell’amore. E’ ovvio che qui si parla dell’amore di san Paolo, e non quello di alcuni cioccolatini. Poliziotti pasoliniani (e cioè piccolo-borghesi, con tinelli, figli, stipendi e cuori) tentano invano di arginare lo scontro sociale e musicale. Popoli sotterranei, dando voce orgiasticamente alle proprie associazioni, si rappano ‘poco carini, piuttosto clandestini’, gridano ‘polizia, polizia, serva della zia’ e, come dovrebbe chiunque nelle guerre che spargono sangue infantile, ‘Non si uccidono così anche i bambini’.
A cimentare tanti attraversamenti di campo, escono sorprese: il coro di ‘Casta Diva’ può incrociarsi con il brindisi di Traviata su un terzinato rock; ‘Amami Alfredo’ può diventare una canzone commovente; e la tarantella del Finale I di Norma può convivere con il walzerino di ‘Sempre libera’ in un’inedita parentela. Non solo: ‘Libiamo’ diventa un rif per chitarra elettrica, Parigi si scopre amara e le Norme devono tremare per il ritorno delle Traviate.

Tutto ciò per dimostrare sul campo che si può dare spazio ai nostri mondi privati più bizzarri; si può ritrovare un tempo in sintonia con i nostri ritmi interni e con quelli sociali, si può far vedere la peste, senza shock programmati né intenerimenti televisivi; e soprattutto non si può chiamare malattia tutto ciò che non vorremmo sapere. Con buona pace dei nostri compagni di strada (Basaglia, Fermat, Freud, Galois, Mieli e Wilde, ma anche e soprattutto i mille portatori di disagio, operatori, genitori, cittadini che hanno reso possibile la nostra scommessa) e di chi canterà con noi che l’amore (nulla di melenso, o di sentimentale, se mai qualcosa di etico, o, per chi vuole, di cristiano) non sta in luoghi deputati, ma va per il mondo in modi non sempre prevedibili. Una norma che non sappia traviarsi non è una buona legge.
 

Milano, 24.VI.2001
 


Appuntamento al prossimo numero.
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