ateatro

numero 3 - 3 marzo 2001
a cura di Oliviero Ponte di Pino (per ora)
 

INDICE

Il Teatro di Roma ha (per qualche mese) un nuovo direttore

Organizzare teatro
di Mimma Gallina: in anteprima per "ateatro" l'introduzione del libro che verrà pubblicato da Franco Angeli ai primi di maggio.

Per una politica della creatività
Una conversazione con Pippo Delbono su Esodo

Glance=Sguardo
(Sull'Orfeo dei Motus)
di Anna Maria Monteverdi



Da Moby Dick al futuro
Che fare? La lettera del Comitato

Si può fare qualcosa per la nuova drammaturgia italiana?
La proposta del Teatro Nuova Edizione al ministro Melandri


Imperdibile: Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999.

Chi non legge questo libro è un imbecille


Il Teatro di Roma ha (per qualche mese) un nuovo direttore


La crisi del Teatro di Roma, culminata nelle dimissioni del direttore Mario Martone, ha trovato un provvisorio equilibrio. Fino al dicembre il nuovo direttore è Antonietta Rame, attualmente è Direttore del Dipartimento Programmazione, Produzione e Decentramento. Dunque una soluzione interna, e provvisoria: anche perché il CdA del Teatro scade a settembre, e sarà rinnovato in un diverso quadro politico-istituzionale.
Il comunicato stampa sottolinea la volontà di nominare "direttori-consulenti" per le diverse sale del Teatro di Roma (Argentina, Ostia, India): di fatto questo significa (oltre alle prebende per queste nuove figure) aumentare i poteri del CdA nei confronti delle direzioni artistiche.
Un'altra curiosità è che al comunicato stampa è allegata una lettera di Maurizio Scaparro (uno dei candidati alla successione di Martone), che presenta il suo "progetto Don Giovanni" (da realizzarsi in Italia, Francia e Spagna) e lo offre generosamente al Teatro di Roma. Il CdA apprezza e ringrazia.

Organizzare teatro
di Mimma Gallina


In anteprima per "ateatro", l'introduzione del libro di Mimma Gallina (che verrà pubblicato da Franco Angeli ai primi di maggio). In appendice a questo testo, l'indice del volume. Nel sito, una prima versione dell'intervento di Oliviero Ponte di Pino sulle forme del nuovo.

Introduzione

Questo libro nasce dall'esigenza, derivata tanto dalla pratica professionale che da quella di insegnamento, di riflettere, analizzare, comunicare le caratteristiche del sistema teatrale italiano ed i meccanismi concreti del fare teatro dal punto di vista dell'organizzazione. E dalla convinzione che sia più sia mai importante, per chi intende prendere questa strada o per chi già opera nel teatro italiano, sviluppare l'attitudine al pensiero organizzativo - nelle grandi e nelle piccole cose, nelle strategie generali come nelle singole scelte e azioni che le concretizzano - che non deriva dalla somma di conoscenze tecniche (anche se le richiede), ma dalla sintesi fra la consapevolezza della realtà generale in cui si opera, l'analisi e l'intuizione della sua evoluzione, l'interpretazione della propria, specifica realtà e della sua missione.
Contributi determinanti come l'introduzione di tecniche gestionali, ormai acquisite o almeno accettate come strumenti con cui confrontarsi, rischiano di essere astratti e non poter essere correttamente applicati, perché la cultura degli operatori (già attivi o da formare) risente spesso di una carenza di fondo: l'assenza di una conoscenza critica e fattiva dei meccanismi generali e delle specificità nazionali dell'organizzazione teatrale. Il teatro italiano è fatto di stratificazioni, consuetudini, atti mancati, eredità pesanti e presenti con cui è necessario misurarsi, per capirle, per accettarle o rifiutarle, per cambiarle. Molti studi hanno affrontato singoli aspetti di questa tradizione, e alcuni, soprattutto recenti, analizzano le specificità economiche e forniscono indicazioni gestionali, ma mi è sembrato che mancasse una riflessione complessiva e "dall'interno" su questi problemi, e che potesse essere utile.
Il tema è sviluppato in due direzioni. - Un'analisi del sistema teatrale italiano come risultato di un processo storico e come quadro dinamico: con particolare riferimento alle forme della produzione (dagli Stabili, alle compagnie, al teatro di ricerca e per i ragazzi), al rapporto con lo Stato, al tessuto distributivo.
Da questi ragionamenti emergono gli elementi per affrontare alcune caratteristiche e questioni di fondo: la dialettica fra il carattere itinerante, tuttora prevalente, e un controverso ma progressivo processo di stabilizzazione dell'attività teatrale, la centralità (la vitalità malgrado tutto) e la crisi della compagnia come forma produttiva primaria, i rapporti e la contaminazione di pubblico e privato, l'evoluzione dell'idea di teatro d'arte e delle funzioni di servizio, il ruolo degli enti locali in un sistema misto, la questione della ricerca, del nuovo, dell'area giovane del teatro. Sono problemi che si intrecciano e che, pur offrendo alcune chiavi di lettura, non mi è sembrato giusto e possibile schematizzare, lasciando che ciascuno sviluppi le proprie considerazioni e posizioni. La prima parte di questo libro offre quindi il quadro in cui si inseriscono le pratiche descritte più avanti, ma resta intenzionalmente problematica, e mi auguro stimoli la riflessione: nessuno dei nodi indicati porta con sé conclusioni e soluzioni acquisite (non sono dati una volta per tutte, ad esempio, il finanziamento pubblico, il significato della ricerca o il valore della stabilità) ed è elemento costitutivo di un fare teatro consapevole, la necessità di ripensarlo o rifondarlo, o anche di difenderlo (ciascuno in rapporto alle sue scelte).
- Una descrizione pratica e sistematica di come si organizza il teatro nel nostro paese oggi (ma anche in questo approccio il presente è il risultato di un percorso e di un processo storico). Si analizzano tecniche e metodi consolidati di una corretta pratica organizzativa, anche con indicazioni operative quindi, ancorate all'esperienza, così importante in un lavoro artigianale e antico come il nostro (perché sono queste le particolarità del teatro di prosa che più precisamente emergono nell'evoluzione dei settori della comunicazione e più in particolare dello spettacolo). Come in ogni buona pratica artigiana, tuttavia, non ci sono ricette: ogni realtà, ogni spettacolo, ogni progetto è unico, e sta alla fantasia e creatività del singolo gruppo e operatore applicare, adattare, inventare, forti della tradizione, dell'esperienza, della tecnica (questo vale per tutte le professioni del teatro, incluse quelle organizzative).
Questo secondo percorso si sviluppa in due parti relativamente autonome, secondo l'articolazione, classica anche per le attività di spettacolo, in produzione (cui è dedicata la seconda parte), distribuzione e esercizio (sviluppate nella terza).
Il ragionamento sulla produzione parte dall'analisi delle tipologie di impresa e dei meccanismi che stanno a monte delle scelte artistiche, per arrivare in concreto all'allestimento (inteso come percorso e come realizzazione materiale) di uno spettacolo: particolarità e organizzazione del lavoro, analisi e realizzazione delle diverse componenti, organizzazione delle prove, per finire con una modalità operativa sempre più frequente, la coproduzione. Con questa materia siamo nel cuore del fare teatro, dove è più forte la convenzione e si avverte con più urgenza la necessità dell'innovazione. Ritengo che ciascuno debba cercare i propri modi di produzione, tuttavia, a livello delle pratiche organizzative, mi sembra che molti valori, tecniche, metodi vadano conosciuti (non vadano dimenticati), e probabilmente possano essere valorizzati e usati anche da chi persegue linee innovative (penso all'organizzazione del lavoro ad esempio, o ad alcuni vecchi mestieri). Ho compreso meglio, nell'analizzare e descrivere queste pratiche, che pure conosco bene e non sempre condivido, la "solidità" di questa tradizione.
Nella seconda parte, l'esercizio teatrale, il luogo dell'incontro fra attore e spettatore, è analizzato da due punti di vista: la sala (l'edificio teatrale, la sua specificità tecnica, le problematiche connesse alla sicurezza) e la sua gestione. Anche qui, ho voluto sottolineare l'interazione dello specifico organizzativo con quello artistico, con le linee, i progetti, l'identità di un teatro: pensiamo alla doppia valenza, artistica e organizzativa, di un cartellone, ad esempio, o di una proposta di abbonamento. Una riflessione particolare riguarda i mezzi e i modi tradizionalmente utilizzati per la promozione e la distribuzione di uno spettacolo, così importanti nel sistema italiano, ancora prevalentemente itinerante (il mercato, quindi, e il lungo percorso per arrivare al pubblico) e la sua gestione in tournée. Analizzando la particolare modalità organizzativa e il sistema dei festival, punti di riferimento qualitativamente e quantitativamente sempre più rilevanti, ci muoviamo in una dimensione più aperta del teatro, che approfondiamo con l'analisi dei meccanismi delle relazioni internazionali. Per concludere si inquadra il problema nodale della comunicazione: anche in questo caso, conoscere quello che si fa a livello di ufficio stampa e promozione e valutare le prospettive aperte dalle nuove tecnologie, è un punto di partenza per applicare tecniche più innovative e pensare in termini di marketing.

Questo libro si rivolge soprattutto ai giovani che si avviano attraverso diversi percorsi alle professioni organizzative del teatro, o che individuino nella conoscenza pratica di questo settore un aspetto significativo della propria formazione (penso ai corsi universitari dell'area umanistica ed economica, o a master e corsi professionali orientati, ad esempio, ai beni culturali, al turismo, allo spettacolo in genere) e ai giovani attori, registi, tecnici che vogliono capire di più del sistema in cui andranno ad operare. Ma anche agli operatori già attivi, che potranno ricavarne, forse, lo stimolo ed il contributo ad una riflessione non contingente sul sistema teatrale e sui meccanismi del loro lavoro, per una volta non immediatamente legata a scadenze normative o urgenze operative. Ma mi auguro che il respiro della riflessione potrà interessare anche qualche spettatore curioso del back stage.
Con questo lavoro ho inteso anche dare sistematicità ai presupposti e ai metodi applicati dalla Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi (ex Scuola del Piccolo Teatro di Milano) che, dalla fine degli anni '60, a fianco degli attori e dei registi, ha formato organizzatori teatrali attivi a livelli dirigenziali ed intermedi in tutti i settori del teatro italiano, nonché nel campo radiotelevisivo e dell'informazione. Tento una sintesi della linea didattica (ma potrei dire anche etica) che ha caratterizzato fino ad oggi la "Paolo Grassi", e che mi sembra non sia invecchiata, anche se sono mutati i contesti: sulla conoscenza teorica e pratica del fare teatro in Italia, si innesta la consapevolezza della funzione pubblica e della dimensione economica del teatro, presupposto per la formazione di un operatore critico, aperto al confronto con altri sistemi
Ho cercato di fare il possibile perché il linguaggio ed il filo dei ragionamenti restasse sempre ancorato alla concretezza del fare teatro: altri, opportuni, approfondimenti potranno riguardare e addentrarsi più correttamente nel marketing o nelle diverse tecniche gestionali, che qui sono parte di un approccio più globale. L'esperienza di insegnamento è stata determinante in questa scelta: è molto frequente che chi sceglie di occuparsi di organizzazione teatrale lo faccia per passione, abbia una formazione prevalentemente umanistica e che l'incontro con la pratica non sia semplice; per contro è difficile a volte per chi ha una formazione tecnico-economica, cogliere il collegamento di queste discipline con lo specifico teatrale. Ho pensato a queste due tipologie di giovani - che conosco - e mi auguro che il metodo ed il linguaggio adottati, aiutino entrambi a consolidare, concretizzare e orientare il loro interesse per il teatro.

L'argomento trattato è molto ampio e articolato, certo non è stato possibile analizzare tutti gli aspetti dell'organizzazione teatrale, e alcuni sono solo accennati, ma era importante, a mio avviso, dare un'idea dell'insieme, dell'intreccio di elementi e della complessità del fare teatro: sono infatti convinta -forse ancora una volta in collegamento con la dimensione artigianale - che in teatro tutti debbano essere il più possibile consapevoli di tutto e che solo su questa consapevolezza si possono innestare le specializzazioni. Ma questa ampiezza è stata possibile grazie ad alcune collaborazioni particolarmente qualificate e appassionate, che ho sollecitato in particolare per gli aspetti più specialistici e per gli argomenti per cui ritenevo fondamentale la testimonianza di professionisti coinvolti in prima persona: si tratta di schede, di interi capitoli, o del confronto (e del conforto) rispetto a specifiche materie.

In particolare sugli argomenti più controversi, non mi è sembrato che si dovesse rincorrere una impossibile obiettività, ma che fosse utile ascoltare motivazioni e problemi dall'interno: così è stato per le più recenti linee di riforma del teatro, la funzione delle compagnie private, il Sud (in questo caso sulla linea di "cosa si pu\'f2 fare", con l'analisi di un intervento concreto, più che del lamentare ritardi), anche l'analisi di quelle che abbiamo chiamato "le forme del nuovo" (senza ritenere con questo che il nuovo sia solo lì) è criticamente coinvolta. In ogni caso il coinvolgimento e la passione (una condizione che forse è inevitabile in teatro) accomuna anche i contributi più tecnici, e spero sia un po' contagiosa. Spero che questo fattore comune e l'impostazione unitaria del lavoro, rendano accettabile (e forse apprezzabile in termini di professionalità), qualche scarto linguistico-stilistico.
Hanno collaborato i colleghi del Corso Operatori della Scuola "Paolo Grassi", coinvolti fin dall'inizio nel progetto, a loro volta attivi in diversi ambiti professionali e accomunati dall'intendere l'insegnamento come un'occasione per riflettere sul proprio lavoro e comunicarne i contenuti: Patrizia Cuoco, Lorella Dall'Ombra, Anna Guri, Giovanni Soresi, l'addetta stampa Alessandra Arcidiaco, il direttore Mario Raimondo e Giorgio Guazzotti (maestro indiscusso del nostro corso e dell'organizzazione teatrale in Italia, cui devo, anche in questo caso, il confronto su alcuni punti nodali). E (in ordine alfabetico): Enrico Bellezza, Fioravante Cozzaglio, Onofrio Cutaia, Francesco Florian, Pierpaolo Forte, Adriano Gallina, Giuseppe Pizzo, Oliviero Ponte di Pino, Enrico Porreca.

Indice

INTRODUZIONE GENERALE
I PARTE. IL SISTEMA TEATRALE ITALIANO

Introduzione

1) Teatro "all'italiana" e teatri "all'italiana"
2) Teatro e Stato. Principi e quadro normativo di Mimma Gallina, Lorenzo Scarpellini e Pierpaolo Forte
3) Stabili e Stabilità
4) Le Compagnie: l'interpretazione contemporanea di una grande tradizione di Fioravante Cozzaglio
5) Le forme del nuovo di Oliviero Ponte di Pino, Adriano Gallina e Mario Raimondo
6) Il sistema distributivo di Mimma Gallina con un contributo di Onofrio Cutaia

II PARTE. PRODURRE TEATRO
con la collaborazione di Patrizia Cuoco (3,4,5) e Giuseppe Pizzo (4,5)

1) Quale impresa per quale teatro di Enrico Bellezza e Francesco Florian 2) Prima e oltre lo spettacolo: la scelta artistica come percorso e come sintesi
3) In principio era il testo (autori e diritto d'autore)
4) Il Teatro come lavoro collettivo
5) L'"allestimento"
6) La coproduzione

III PARTE. GESTIRE, DISTRIBUIRE, PROMUOVERE

1) L'edificio teatrale: spazi e sicurezza di Giuseppe Pizzo e Enrico Porreca
2) L'esercizio teatrale: programmazione e gestione con la collaborazione di Patrizia Cuoco
3) Arrivare a pubblico: promuovere e distribuire uno spettacolo
4) I Festival
5) Teatro aperto: confronti e mercati internazionali
6) Comunicare il teatro di Giovanni Soresi, Anna Guri e Alessandra Arcidiaco, Lory Dall'Ombra


Per una politica della creatività
Una conversazione con Pippo Delbono
a cura di Oliviero Ponte di Pino


Questa intervista verrà pubblicata sul prossimo numero di "la porta aperta", la rivista del Teatro di Roma, in occasione delle repliche romane di Esodo al Teatro Argentina.
Su Pippo Delbono e sul suo teatro, trovi altri materiali sia nel volume
Barboni pubblicato da Ubulibri, sia nel sito, con le interviste realizzate in occasione degli allestimenti di Guerra ad Astiteatro e di Her Bijit alla Biennale di Venezia.

Qual è il percorso che ti ha portato a Esodo? Avevi presentato il materiale di partenza in Her Bijit, lo spettacolo realizzato a Venezia, alla Biennale nell’autunno del 1999. Che cosa è successo nel passaggio tra il lavoro presentato all’Arsenale e Esodo in palcoscenico?

Si trattava portare quel mondo sul palcoscenico. Her Bijit aveva una dimensione itinerante, in cui molto forte era la possibilità di lavorare su uno spazio per farlo diventare altro. Si è creato un incontro tra la compagnia, gli zingari, i bambini rom, la cantante africana e gli extracomunitari che poi sono entrati nello spettacolo.

Her Bijit è stato creato all’Arsenale, dov’era in corso la Biennale d’Arte. Nel percorso dello spettacolo s’incontravano dunque alcune opere che richiamavano una serie di cose presenti nello spettacolo.

Per me era uno scivolare tra cose che erano opere d’arte e cose che assolutamente non lo erano. Per esempio a un certo punto gli spettatori passavano accanto a un distributore di lattine di Coca Cola: non era sicuramente un’opera d’arte, ma è diventato un segno forte per lo spettacolo. Altre scene erano fatte negli uffici, un’azione si svolgeva in una nave riadattata, che viene usata come bar dell’Arsenale. Per me è stato un lavoro molto importante per quanto riguarda la relazione allo spazio e la dimensione itinerante: era quasi portare il pubblico in processione.

Her Bijit era anche uno spettacolo politicamente molto esplicito, rispetto ad altri tuoi lavori.

Non ho mai fatto politica e non ho mai voluto vedere la realtà in termini ideologici. Essere artisti significa essere trapassati dalla vita che ti scorre accanto - e senti continuamente violenza e ingiustizia. Ma in quel un momento avevo bisogno di dire alcune cose. Forse sono un po’ masochista, perché mi piace buttarmi a capofitto nelle situazioni di povertà, e anche di dolore. E a quel punto avverto un bisogno di chiarezza, il desiderio di non avere pudore di dire, di superare quella timidezza un po’ "da artisti". Non voglio dire semplicemente: "Questo è bianco, quello è nero", perché non voglio essere retorico. La parola certe volte è bella, ma in altri casi diventa una gabbia. Tra le parole che dicevo a Venezia, era interessante scoprire che alcune fossero di Pasolini o del Buddha. A un certo punto dico: "Noi non vogliamo essere salvati, noi non chiediamo la vostra pietà": sembrava Che Guevara ma era Buddha.

Nel dire le cose così come sono, senza mediazioni, non corri il rischio di perdere la dimensione artistica? A quel punto non conviene fare direttamente politica?

Non sono mai stato un grande amante del teatro, non mi interessa un certo tipo di narrazione e di rappresentazione. Le mie passioni sono la fotografia, la pittura, la musica e anche le parole. E quando dico "la danza e anche le parole" voglio dire questo: se faccio un comizio politico e mi metto in cima a una tribuna e dico "Non dobbiamo fare così!", questo è un comizio. Se invece in queste parole ci sono dei colori, dei tempi, delle danze, dei ritmi, delle fotografie, delle immagini, dei suoni, quelle parole forse sono "politiche", ma in qualche modo dialogano con tutto il resto.

Con una parte degli spettatori questa comunicazione diretta passava immediatamente. Un certo tipo di pubblico preferisce uno spettacolo più chiaro ed esplicito rispetto a uno più sottilmente metaforico.

Mi hanno scritto molte lettere: donne, giovani... Per altri spettacoli non ne avevo mai ricevute così tante. Alcuni critici invece hanno avuto maggiori perplessità. Mi sono chiesto perché certe persone vogliano questa chiarezza, che invece ad altre dà fastidio. Secondo me viviamo in una cultura che ama molto fare metafora sulla guerra, sulla malattia, sull’Aids, sulle dittature, sui mali del mondo. Però questa stessa cultura quei mali non li ha sulla pelle. Allora secondo me c’è il rischio di diventare un po’ chic. Perché quando vai nei posti dove la guerra c’è davvero, oppure c’è stata, non incontri quella paura di dire le cose; c’è piuttosto la voglia di essere retoricamente felici, di cercare retoricamente una felicità, una gioia. Mi sarebbe piaciuto moltissimo andare a fare Her Bijit in Sudamerica, volevo capire che tipo di reazione potesse avere la gente di là, o la gente di Sarajevo, insomma persone che hanno vissuto certe situazioni, un po’ come è successo quando abbiamo fatto Esodo a Siena, dove tra gli spettatori c’erano molti argentini che la dittatura l’hanno vissuta sulla loro pelle.

A questo punto è il caso di seguire il passaggio tra Her Bijit e Esodo.

E’ successo che Esodo è diventato uno spettacolo.

Cioè richiuso in un palcoscenico.

A quel punto è iniziata ad intervenire più chiaramente una dimensione narrativa. Per me è sempre più importante che niente sia lasciato al caso, le cose che avvengono in scena devono essere significative. Non voglio certo dire: "Con questa immagine ti do questo messaggio", voglio costruire un dramma con la danza, un racconto fatto di parole, musica, immagine. In Esodo, rispetto a Her Bijit, ho avuto la necessità di togliere molte parole, adesso ce ne sono sempre meno, perché spesso il racconto passa attraverso le immagini. Alla fine questo porta a reazioni curiosamente opposte: sono tutti d’accordo, in Esodo ci sono immagini visivamente molto belle, ma per qualcuno le parole sono state vissute come eccessivamente politiche: "Non è il caso di dire certe cose, non ne possiamo più di Olocausto, non ne possiamo più di farci colpevolizzare da Delbono". Altri invece hanno messo l’accento proprio su quelle parole. Qualcuno ha detto: "Perché dire le parole?", qualcun altro: "E’ fondamentale dire certe parole". Per alcuni spettatori è importantissimo che vengano date anche le parole, anche parole semplici. Così è possibile portarli per mano attraverso un percorso che comunque non è facile. E poi mi chiedo: "Perché c’è questa paura di dire? Perché non vogliamo saperne più di Olocausto?" Credo che per le casalinghe di Prato o di Ferrara le parole siano fondamentali, che offrano un momento di riflessione. All’inizio di Esodo leggo un brano di Brecht: "Torturano i nostri fratelli e noi non facciamo niente, lui ruggisce dal dolore ma noi rimaniamo in silenzio, prendono la prossima preda e noi diciamo: a noi non faranno niente, intanto noi siamo fermi, se l’ingiustizia trionfa in città che scoppi la rivolta, se non scoppia che la città intera sia consumata nel fuoco prima che arrivi la notte..." Sono parole dure, sicuramente, ma è importante anche il modo in cui vengono dette. Quel brano di Brecht viene dopo l’apparizione di una attrice in rosso e di un grande applauso: quella donna ha un’eleganza, una qualità, sembra un po’ persa nel suo mondo. Il mio è un tono quasi da presentatore. Così si crea un contrasto interessante. Io non mi metto dalla parte di quello buono, di quello che sente di aver capito e di avere il diritto di dire agli altri delle cose. Queste parole le prendo da autori di cui ho grande rispetto, e direi amore, come Brecht, Pasolini o Primo Levi. Le parole che scrivo io sono molto più mediate.

Ma da questi autori scegli brani molto diretti ed espliciti.

Sì, ma queste persone si sono fatte forza proprio del loro essere così diretti. Il teatro di Brecht ha avuto forza anche perché è stato così diretto. Brecht parlava nei suoi testi con grande chiarezza, viveva in un tempo di lotta. In questo brano di Madre Coraggio questa chiarezza diventa un luogo di verità. Oggi il famoso straniamento brechtiano consiste nel provare a superare una convenzione, rompendo ogni schema teatrale, senza usarlo in una maniera che è diventata ormai chic. C’è bisogno di riportare lo straniamento brechtiano alla nostra situazione attuale, quando tutto - teatro, cinema, televisione, politica - prende una brutta dimensione di finzione.

Ma dov’è che il teatro può trovare la sua verità e la sua semplicità, in un mondo dove i media fabbricano continuamente finzione?

A volte nel modo di essere attore. Sono andato a vedere uno spettacolo di tradizione: il regista aveva una sua poesia, un suo occhio, però non capivo quel modo di recitare, oltre al fatto che il pubblico teatrale va a spettacoli di quel tipo per sentirsi acquietato con la propria dimensione culturale. Insomma, ammiro tantissimo il fatto che l’attore abbia trovato sette modi diversi, sette piccoli toni, per dire: "Signorina, apriamo la porta". Ho un grande rispetto per un lavoro così preciso, però dopo un po’ mi allontano. Mi sembra che a lungo andare il lavoro dell’attore diventi solo quello, se tu non hai un tramite diretto con il tuo cuore. E’ vero, gli attori che hanno una certa bravura riescono a superare la tecnica e a comunicare altro – ma non sono tanti. Esodo inizia con un ragazzino, Fadel, che entra in scena e dice: "Nel mio paese ci sono tante stelle, nel mio paese la luna è la luce della notte, nel mio paese c’è un grande silenzio...". Per formazione io sto molto attento alla voce, ho approfondito molto il lavoro sulla voce, dei toni, dei ritmi, dei suoni delle parole. Se sostituissi al tono di Fadel quello di un attore, il risultato sarebbe, anche dal punto di vista della tradizione, pessimo. Uno dei primi trucchi che si insegnano quando si lavora sulla voce, consiste nel sostituire alle parole una cantilena...

Perché se dici le cose così come sono prendi un ritmo molto monotono, e la tradizione ti insegna in qualche modo a spezzarlo.

E’ già un segno. Una scelta. Io avrei potuto mettermi a lavorare in questo modo con Fadel, ma non lo farei mai, perché nella sua cantilena, nella semplicità e nell’ovvietà di questa cantilena secondo me c’è una verità profonda.

Diciamo che è una qualità che viene dalla naturalezza. Ma non c’è il rischio che a furia di ripeterla questa naturalezza si perda?

Non è naturalezza, è un altro modo di costruire una professionalità. Sarebbe naturalezza se Fadel dicesse questo testo così come viene, ma non credo che in teatro sia interessante la naturalezza. Io non parlo di naturalezza, è giusto che a un certo punto Fadel fissi quella cantilena, in modo che rimanga. Quella è la sua cantilena. A un certo punto l’attore prende consapevolezza, diventa osservatore di sé stesso. Io fisso la qualità dei miei attori: la qualità della loro voce, dei loro suoni, dei loro gesti, che siano belli o brutti; poi loro ne diventano coscienti e allora devono essere in grado di ripetersi. A quel punto la coscienza di Fadel, pur non essendo un attore, è dettata da questa qualità: quando entra sulla scena, ha un ritmo, ha un tempo, ha una pausa, ha uno stop, ha un guardare, ha un colore della voce che è la sua cantilena, ha un altro stop, ha un girarsi, un guardare con gli occhi, ha un camminare dentro questi ruderi con questo zoppichio... Segue un percorso totalmente consapevole, che può ripetere, e che non si è irrigidito in una maniera, in uno stile. In questa coscienza sta la professionalità dei miei attori.

Io credo che questo lavoro con gli attori abbia a che vedere con la natura del tuo teatro e con la tua idea di attore. Ma volevo capire meglio. Quando dici: "Io fisso la qualità", vuol dire che vai a ricercare delle persone che hanno determinate qualità? Il tuo compito consiste nell’individuarle, nel rendere gli interessati consapevoli di questa loro qualità teatrale e nel fissarla insieme?

E’ incredibile scoprire che tutti hanno dentro di sé la possibilità di essere artisti, un bauletto carico di luce, energia. Il buddismo dice che ogni persona possiede i dieci mondi, dall’inferno alla buddità. Non bisogna necessariamente venire dal deserto del Sahara, come Fadel, dal quarant’anni di manicomio come Bobò, dalla strada come Nelson. Magari questo bauletto ci mette molto ad aprirsi, perché è necessario trovare la strada per far uscire fuori le specificità di ciascuno.

Quando dici "tutti noi", intendi qualunque persona, che sia attore o meno?

Questo bauletto ce l’abbiamo dentro tutti. Però non posso incontrare tutti quanti per poi farli recitare.

In effetti, nei tuoi spettacoli non recita chiunque, i tuoi attori sono persone molto particolari.

In realtà nell’ultimo spettacolo c’è stata una grande apertura. Nel Silenzio, realizzato nell’estate del 2000 sulle rovine di Gibellina, c’erano persone che provenivano da storie molto diverse. Tanto per cominciare i miei attori...

...per esempio Lucia, Gustavo e Simone, che sono attori con un percorso di formazione canonico e con una certa esperienza di palcoscenico.

...c’erano poi quelli che lavorano con me da diversi anni, per esempio Bobò, Nelson o Gianluca.

Dunque in qualche modo "non attori" nei quali hai scoperto certe qualità...

...e che di fatto sono ormai diventati dei professionisti, anche se non hanno seguito il normale training degli attori. Poi c’erano quelli che avevano seguito i nostri seminari e avevano chiesto di venire a Gibellina per collaborare a questo progetto.

E l’ultima categoria?

Era formata da gente che non avevo mai visto. Loro conoscevano me e i miei spettacoli ma io non li conoscevo, magari li avevo incontrati per cinque minuti dopo uno spettacolo.

A queste persone avevi dei fatto provini?

No, assolutamente, però erano motivate a lavorare con me. Una o due di loro si sono perse per strada: forse erano venute in Sicilia sperando di fare un altro seminario, con l’ansia di venire a imparare, mentre c’era un clima di gran confusione, di gran gioco. Ma quelli che sono rimasti alla fine si sono resi disponibili ad aiutare, per esempio vestire gli attori, occuparsi degli oggetti di scena. Alla fine li ho messi tutti dentro lo spettacolo, e non per fare loro un piacere o per dar loro una gratificazione, ma perché ognuno di loro ha trovato una cosa, magari piccola, che secondo me c’era davvero. E quella piccola cosa era da professionista. Per esempio c’era una ragazza alta, che non avevo mai vista né conosciuta. A un certo punto nel Silenzio entra, è un po’ elegante, vestita di rosso, si sdraia a terra, fa la morta e se umilmente ne va. Secondo me in quel piccolo gesto è veramente giusta. Certo, non posso metterla a fare un monologo, ma nel Silenzio fa quella cosa e in quel momento è professionale. E’ cresciuta. E’ successa la stessa cosa in Francia, quando ho fatto un seminario per i disoccupati e per gente che proveniva da situazioni molto marginali. Non erano attori, ma in ciascuno di loro sono riuscito a trovare qualcosa in cui erano unici.

Dopo Barboni, la natura della compagnia è cambiata, al di là del fatto che ci sono persone in più o in meno?

Siamo più aperti. Sono ormai lontani i momenti in cui rischiavamo di finire nel filone "teatro-handicap". Ci siamo aperti a tante esperienze. Era la mia idea di fondo: un teatro che portasse in scena vite diverse – non solo vite emarginate, ma comunque vite, vite... E questo è successo: persone come Bobò, Nelson o Gianluca hanno acquistato una diversa coscienza. Sicuramente gli è cambiata la vita, non vivono più nei manicomi né per le strade, e questo mi fa piacere. Ma hanno anche una grande consapevolezza del loro essere in scena: quando ho visto nelle prove Bobò costruirsi la partitura del reggae e rifarla, mi sono commosso. Quando l’ho conosciuto nel manicomio di Aversa, questo ometto era una larva. Adesso vederlo lì, nella terza fase del lavoro, è stato emozionante.

Che cosa vuol dire "nella terza fase"?

All’inizio improvvisi ed è divertente. Nella seconda fase devi fissare quello che hai improvvisato, perché ogni spettacolo è una costruzione, un montaggio di tante piccole azioni, e le azioni che io scelgo dalle improvvisazioni l’attore poi le deve fissare, in modo da poterle ripetere sempre uguali. Questa seconda fase è noiosa, ma se non la superi non arrivi alla terza, quando all’interno della partitura ritrovi la vita originale, come quando in una partitura di Bach ritrovi l’anima. Bobò è nella terza fase del lavoro, ha capito questo gioco, come deve fissarsi le cose, e poi ritrovare la stessa identica vita del momento in cui aveva improvvisato. Anche il signor Nelson è diventato di una precisione incredibile.

Esodo è molto giocato intorno a Nelson.

Nelson passa da figure comiche come il presentatore che fa da filo conduttore allo spettacolo, a figure melanconiche, ad anime violente quando grida con il megafono, o quando vola con questo corpo scheletrito. Mette in mostra tanti aspetti diversi, e insieme è incredibilmente preciso sul tempo, sulle pause. Tocca spesso a lui il compito di tenere le giunture tra una scena e l’altra: ha sempre lo stesso passo, lo stesso modo di muoversi, gli stessi stop. Sembra che a un certo punto si dica: "Beh, adesso mi alzo...", e invece si alza sempre nello stesso identico momento e nello stesso modo, con l’energia di chi ha deciso di farlo in quel momento. Le sue azioni, pur nella ripetizione, hanno sempre la stessa intensità di quando le ha fatte per la prima volta, e in questo c’è una grossa sapienza. E’ in questo che secondo me Nelson è cresciuto come attore. Ora posso dire che il mio metodo di lavoro funziona anche con queste persone. Certo, se pretendessi che di far parlare Nelson con un tono di un certo tipo, probabilmente sarebbe un attore mediocre, non ci riuscirebbe. Ma invece, cercando di fare luce sui suoi toni e sulle sue qualità, cercando di farlo diventare consapevole di queste sue qualità, che non sono mie imposizioni, avvengono alcune cose interessanti. Tanto per cominciare, teatralmente Esodo si è fissato in una partitura sempre uguale. Certo, come sempre c’è la replica che va un po’ meglio e quella che va un po’ peggio, però nell’insieme lo spettacolo è sempre quello, così come era successo con Guerra, che ho fatto tantissime volte ed è diventato ormai un rituale precisissimo. Questo secondo me è quello che è cambiato. Anche se non siamo certo una compagnia che va al debutto con uno spettacolo fatto e finito – ma neanche lo voglio.

Dopo il debutto i tuoi spettacoli crescono e continuano a evolvere.

Sì, anche perché continuiamo a ripresentarli tutti.

E’ anche una compagnia di repertorio.

In tre mesi, tra novembre e gennaio, abbiamo fatto sette spettacoli: Il tempo degli assassini, Enrico V, La rabbia, Barboni in Francia, Guerra, Il silenzio, Esodo.

Quando vuoi criticare quello che fanno gli altri, dici "E’ diventato chic". Non c’è il rischio che anche la compagnia di Pippo Delbono diventi in qualche modo chic?

Sì, questo rischio c’è.

Ma è un rischio che hai già sperimentato e al quale hai cercato di porre rimedio? Oppure il problema non si è ancora posto?

Chic non è un giudizio. Per me vuol dire fermarsi a una maniera. Io lotto contro questo pericolo. So che corro questo rischio, e dunque amo mettermi in situazioni dove non c’è certezza, ricominciare. La mia compagnia è sempre aperta, non mi sono seduto. Mi piace rimettermi in discussione, di recente ho ripreso a suonare il violino, sono sette mesi che lo faccio, non riesco ancora a fare ancora una scala ma insisto. Mi metto sempre e comunque in un atteggiamento di ricerca, come se ricominciassi ogni volta dall’inizio. Forse questa potrebbe essere una cosa che non ti fa mai diventare chic, rimettersi un po’ in discussione su tutto.

Si ringrazia per la trascrizione Anita Morasso.


Glance=Sguardo
(Sull'Orfeo dei Motus)
di Anna Maria Monteverdi


Questo saggio verrà pubblicato sulla rivista "Cut Up" (sito attualmente in costruzione).


Cantare in verità
un certo altro respiro.
Spirare a nulla. Un soffio nel dio. Un vento.
Rilke, Poemi orfici 1, III.


Orfeo scende nell'oscurità degli Inferi alla ricerca dell'amata Euridice per riportarla per sempre alla luce. Il suo meraviglioso canto commuove le Creature dell'Ade che gli concedono di rivedere la luce a patto di non volgere il suo sguardo sull'amata prima di uscire dal buio. Orfeo non attende la luce e a causa di quello sguardo, Euridice torna tra le creature dell'oscurità.
Il tema di Orfeo è il tema della voce e dello sguardo, delle tenebre e della luce, della felicità scorta e dell'eterna sua ricerca o ricordo.
Canto e sguardo (la vista e l'ascolto) riportano all'origine del teatro: ad Orfeo, cantore di Dioniso, sono dedicati quei riti misterici che ci offrono, secondo Colli, un'altra via per esplorare l'origine della tragedia (preparare l'estasi misterica attraverso rappresentazioni sacre). Nelle laminette funebri dedicate ai misteri orfici e nei frammenti della poesia orfica troviamo, infatti, la conquista della "visione suprema" propria della sapienza dionisiaca che permette di desistere dal ciclo e prender fiato dalla miseria secondo le stesse parole che la tradizione platonica attribuisce ad Orfeo.
Teatro, seguendo Dioniso e Orfeo, è luogo privilegiato per vedere oltre (la radice della parola teatro è theatron, ovvero spazio da dove si guarda), luogo di passaggio estremo al di là della dimensione umana che si materializza nell'immagine liminare e metamorfica della skenè, ovvero soglia attraverso la quale intravedere inaudite verità.
Teatro nell'accezione greca e nelle sue due incarnazioni più importanti, maschera e skenè, da porre proprio in relazione con il mondo dei morti: il cimitero come culla della nascita del teatro, ricorda lo studioso Giorgio Colli. Ade e Dioniso sono la stessa cosa, così il filosofo greco Eraclito.
Nel regno dell'altrove il dio Orfeo, che da lì trasse l'ampia natura (Rilke), sperimenta l'unica verità:

"Chi sa se il vivere non sia morire
e il morire invece vivere."


Terreno, ultraterreno, estasi, demoni e angeli: Orfeo, dio "fonocentrico" è secondo i Motus - raccontato, nello spettacolo, da una nuova mitologia metropolitana e underground (nel duplice significato di "sotterraneo, infernale" come tutta sotterranea è la vicenda di Orfeo alla ricerca di Euridice e, per traslato, nel significato di "cultura indipendente"). Orfeo incarnatosi nell'icona vivente Nick Cave, dopo un mascheramento del mito greco in chiave pop, è alla ricerca dell'amata Euridice che indossa le vesti rosso fuoco della donna fatale e che nella tragica avventura dalla colonna sonora vivente (raccontata in parte attraverso alcuni stereotipi narrativi dei film d'azione), diventa sua inseparabile ombra, oggetto-reliquia, oggetto-ricordo.
La scena si definisce in funzione del corpo e dei movimenti degli attori all'interno delle singole stanze di cui è composta la struttura scenografica tecno-glamour-costruttivista: bagno, cucina, camera da letto, salotto, un vero ambiente domestico ricreato, incorniciato e raccontato sin nei dettagli.
La struttura a due piani è in realtà il regno dell'Ade abitato da un enigmatico Lucifer (o l'angelo Heurtebise del film Orphée di Cocteau) piena di tracce della presenza di Euridice, che là nell'Ade abiterà per sempre ma che viva rimarrà solo nello sguardo della memoria di Orfeo, diventando così immortale.
E' proprio Mnemosine, la dea orfica della memoria, ad insegnarci che dissetandosi alla sua fonte, si recupera la vera conoscenza del passato e l'origine di tutti i ricordi in una dimensione sottratta al tempo e al divenire umano grazie alla quale si rinasce a nuova, immortale vita:

"(...)Sono riarso di sete e muoio; ma date, subito, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine.
E davvero ti mostreranno benevolenza per volere del re di sotto terra;
e davvero ti lasceranno bere dalla palude di Mnemosine;
e infine farai molta strada, per la sacra via che...percorrono... gloriosi anche gli altri iniziati e posseduti da Dioniso."
(Laminetta aurea 4A62)

Lontana da una concezione classica di unitè di tempo, di spazio e di azione, la scenografia ci ricorda le macchine a messinscena fissa e multipla dei miracle plays medioevali, strutturate come piccoli palchi allestiti uno a fianco all'altro simultaneamente alla vista (i décor simultanées) in cui non veniva rappresentato solo un luogo ma una quantità di luoghi contemporaneamente. Lo spettatore, ieri come oggi, deve tenere conto unicamente dello spazio "agito" dagli attori in quel momento (ed evidenziato dalla luce) e dimenticare il resto degli ambienti.
Ma la scenografia funziona anche e soprattutto come "installazione" scenica, con una sua presenza e un suo respiro, con dei veri e propri quadri visivi e sonori a se stanti affiancati quasi "fotogramma per fotogramma".
Lo sviluppo diacronico dello spettacolo sembra risultare proprio da una sorta di montaggio cinematografico di tutti i pezzi, o un "seguito di visioni" - come avrebbe detto Ragghianti - di immagini staccate direttamente dalla superficie di una tela (dipinta) o di un telo (cinematografico).
Ecco quindi la storia d'amore vissuta e raccontata attraverso un gioco di interni ed esterni ed un gioco di riflessi, specchi, e di ricordi in forma di fotografia-souvenir card. Lo specchio è quello del Narciso liberato di Rilke: lo specchio non inganna. Restituisce la verità.
Ma lo specchio è anche il giocattolo di Dioniso fanciullo, contemporaneamente fonte e soglia di verità, simbolo per eccellenza di conoscenza attraverso cui il dio vede riflesso non se stesso ma il mondo.
Riferimenti
G. Colli, La Sapienza greca, Vol.I.
E. Rohde, Psiche, Vol. 2.
F. Mastropasqua, Metamorfosi del teatro.


Da Moby Dick al futuro


Nel numero 2 di "ateatro" abbiamo pubblicato un intervento sulla situazione di "Moby Dick". Molte informazioni si trovano sul sito dei Teatri della Riviera, dov'è aperto anche un forum con vari interventi sulla questione. Intanto, ecco la lettera-programma del Comitato "da Moby Dick al futuro".

22 febbraio 2001
Cari cittadini,
è stato costituito il Comitato "da Moby Dick al futuro".
Esso si prefigge di salvaguardare il patrimonio culturale maturato con l’esperienza che ha fatto capo alla Cooperativa Moby Dick, attualmente in liquidazione volontaria, nel desiderio di mantenere al territorio quella che ormai deve ritenersi parte della sua identità, preservandone la progettualità e recuperando le professionalità che nel corso degli anni si sono affermate.
L’eredità ideale dell’esperienza culturale di Moby Dick è stata raccolta da un soggetto di nuova costituzione, la Cooperativa "Echidna", che noi intendiamo concretamente aiutare.
Sono note a tutti le difficoltà in cui si dibatte ogni realtà culturale, stretta fra l’indifferenza dei più e una carenza endemica di risorse finanziarie.
Del resto una società abituata a misurarsi sui valori economici, non può che vedere con diffidenza iniziative imprenditoriali tendenti al soddisfacimento di bisogni immateriali non suscettibili di immediato ritorno economico.
Valorizzare il bene cultura alla stregua degli altri beni, facendolo rientrare nella logica di mercato, far capire che quello culturale è un bisogno primario, anzi è il prerequisito indispensabile per una economia sana, perché elemento generatore di fiducia sociale, è la sfida che il Comitato vuole affrontare.
Esso si pone perciò quale cerniera operativa fra quanti, riconoscendosi nei suoi obiettivi e nei suoi scopi, intendono contribuire con il loro appoggio, anche economico, ad aiutare Moby Dick nell’ultimazione della stagione in corso ed "Echidna" nella programmazione delle future iniziative.
Per il raggiungimento di questi obiettivi il Comitato si doterà di un fondo per costituzione del quale viene indetta una pubblica sottoscrizione.
I contributi raccolti verranno depositati nel conto corrente n. 44/63000 acceso presso la sede di Mira della Banca del Veneziano ed intestato al Comitato "da Moby Dick al futuro".
Nella speranza che l’iniziativa possa essere condivisa dal maggior numero di persone, porgiamo i nostri migliori saluti.
Il Comitato "da Moby Dick al futuro"
Il Presidente
Avv. Giampaolo Fortunati
Studio Legale Fortunati e associati, tel. 041 415307 fax 041 5101237
e-mail: damobydickalfuturo@libero.it


Si può fare qualcosa per la nuova drammaturgia italiana?


E' uno dei dibattiti che ciclicamente s'accendono nel piccolo mondo del teatro italiano: che fare per la drammaturgia nostrana? La discussione sale di tono non appena balena la possibilità di un qualche sostegno economico da parte dello Stato o degli enti locali.
Fermo restando che
- non si possono produrre capolavori per decreto ministeriale;
- i drammaturghi hanno continuato a lavorare in questi anni di vacche magre producendo risultati di notevole interesse (avete dei nomi?);
- uno dei compiti del teatro pubblico è proprio quello di promuovere la ricerca drammaturgica;
- drammaturgia non vuol dire solo scrivere l'Amleto del XXI secolo),
per dare un primo punto di riferimento agli interventi sulla questione, ecco intanto la lettera (e la proposta) inviata al ministro Melandri dal Teatro Nuova Edizione.


Ministero per i Beni e le Attività Culturali
al Ministro Giovanna Melandri
p. c. Dott. Oberdan Forlenza e Avv. Pier Paolo Forte

Oggetto: DL n.492 1988 - art. 8, lett.C

Signor Ministro,
a quanto si può apprendere è in preparazione da parte del suo Ministero un provvedimento di prossima emanazione riferito alla regolamentazione degli aiuti finanziai agli 'autori e soggetti teatrali impegnati nella produzione contemporanea' di cui al DL n. 492/1988 art. 8, lett.c.
Riteniamo che il tema della promozione della drammaturgia contemporanea sia di estrema importanza per tutto il nostro teatro e non riguardi solo 'gli autori'. Senza una drammaturgia nuova un teatro è probabilmente destinato a invecchiare e a diventare accademico. E non ci sono formule certe per dare diffusione e forza a una nuova drammaturgia, specialmente dopo che per decenni e da diverse parti essa è stata depressa e scarsamente incoraggiata.

Tuttavia il riconoscimento (e relativi interventi finanziari) a delle strutture associative orientate alla promozione lascia perplessi: in linea di massima il nostro teatro non ha bisogno di intermediari (ce ne sono fin troppi: vedi il ruolo delle agenzie di distribuzione, di cui tutti tacciono), ma di protagonisti. E da parte nostra riteniamo che i protagonisti della promozione appunto della nuova drammaturgia debbano essere, oltre agli scrittori, le compagnie di produzione, quale che sia la tipologia. I 'centri per la drammaturgia', come vengono chiamati, possono svolgere un utile compito di autonomo supporto (suggerimento, incentivazione, diffusione ecc.)

Ricordiamo (e per questo alleghiamo copia) che in data 15/4/00 abbiamo fatto pervenire a codesto ministero qualche considerazione e proposta che riteniamo possano essere prese in considerazione, non trascurando, ovviamente, le più ampie consultazioni del settore.
Alla nostra lettera e alle proposte contenute fu data a suo tempo risposta con dichiarazione di interesse da parte del dott. Forlenza; in seguito non siamo più stati contattati.
Infine vogliamo annunciare che la nostra compagnia con il sostegno della Provincia di Bologna, Assessorato alla Cultura ha in preparazione per la fine del mese di maggio un convegno intitolato SCRIVERE PER IL TEATRO che nella durata di due giorni prevede interventi di organizzatori, politici, studiosi ma soprattutto un numeroso gruppo di drammaturghi (o scrittori per il teatro che forse è una più bella definizione) che testimonino quale sia il loro apporto e la loro fattiva poetica teatrale. E' ovvio che questo annuncio anticipa un invito formale che sarà inviato al più presto e che speriamo venga accolto.

Nel frattempo, in attesa di un cortese cenno di risposta e restando a sua disposizione per qualsiasi chiarimento voglia gradire e nostri più cordiali saluti.

Luigi Gozzi e Marinella Manicardi
Teatro Nuova Edizione
Bologna, 8/02/2001


Proposte per il calcolo degli incentivi a favore della drammaturgia italiana
In un momento in cui comincia ad esserci interesse da parte del pubblico verso la drammaturgia italiana e gli autori contemporanei, ci sembra giusto chiedere al Ministro Melandri di dare un segnale preciso a sostegno della produzione e distribuzione della drammaturgia italiana, così come è stato fatto per il cinema. In questi anni sono state soprattutto le compagnie legate a piccoli teatri a produrre opere italiane, mentre sia gli stabili sia la grossa distribuzione non hanno mai (o pochissimo) rischiato sul contemporaneo, trincerandosi dietro la giustificazione che il pubblico non avrebbe gradito.
La verità è che il teatro, come qualunque altro prodotto artistico, può ottenere l¹attenzione e la curiosità del pubblico solo con l¹unione di più forze. Come per il cinema occorre incentivare la produzione, la distribuzione, lo studio e il marketing di opere di autrici e autori italiani.
Ciascuno con la propria funzione può collaborare a far conoscere, discutere, confrontare ciò che gli autori del nostro tempo intuiscono, pensano o raccontano per il teatro e la scena contemporanea.

Rispetto al regolamento e alla futura legge pensiamo che vadano modificati i parametri a sostegno della drammaturgia italiana. Abbiamo individuato 2 criteri di assegnazione degli incentivi:

1. sostegno ai teatri di produzione e distribuzione e non al singolo autore o al singolo progetto.

1/a. per le compagnie di produzione, teatri stabili pubblici, privati.

Incentivi del 30% per quegli organismi riconosciuti dal Ministero che abbiamo nel loro repertorio triennale il 60% di opere di autrici e autori italiani. L'attuale regolamento a proposito della drammaturgia italiana assegna un 10% della quantità a chi produce un testo di drammaturgia italiana: questo può andar bene per chi saltuariamente inserisce nel proprio repertorio un'opera italiana. La modifica proposta invece tende a valorizzare una linea culturale chiara e continuativa.

1/b. per i circuiti e teatri di sola ospitalità.
Incentivi del 20% alla programmazione in misura significativa di spettacoli di drammaturgia italiana contemporanea. Così come per il cinema o per qualsiasi prodotto é importante sostenere non solo la produzione ma anche la distribuzione, senza la quale non si rende visibile l'investimento produttivo.

2. riconoscimento della figura professionale di drammaturgo.
Incentivi a quei teatri di produzione e circuiti che ospitino in forma permanente o per progetti triennali un drammaturgo nella sue funzioni di scrittore di testi, ma anche di traduttore, adattatore, consulente per le scelte drammaturgiche.


Appuntamento al prossimo numero.

Se volete scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it

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