(32) 02.04.02

SCRITTORI PER LA PACE

Gli Scrittori per la pace si presentano a Milano l'8 aprile a partire dalle ore 18 al Teatro di Porta Romana: leggi il comunicato.
 

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO

La pagina dei teatrolinks stava diventando esagerata: oltre 350 link a compagnie, teatri, riviste, siti... Insomma, ingestibile. Sto trasferendo il tutto su un piccolo database. Provate a testarlo, cliccando qui. Guardate se ci siete & segnalate problemi, omissioni, errori eccetera scrivendo a info@olivieropdp.it
 

L'EDITORIALE

Qualche giorno fa Massimo Paganelli ha abbandonato la direzione del Teatro Metastasio di Prato. E’ l’ennesima dimissione annunciata, al termine del solito processo di logoramento che ha già fatto cadere più di una testa. E’ l’ultimo regolamento di conti all’interno di una sinistra che da anni non è più in grado di esprimere una credibile politica culturale in ambito teatrale. Le dimissioni di Massimo Paganelli possono certo dipendere da una specifica realtà culturale, politica o geografica (che a qualche chilometro di distanza rischia però di apparire banale provincialismo), mentre >>>
 

INDICE

ateatro 32 si apre con una breve riflessione su Infinities di Luca Ronconi.
Dopo di che Anna Maria Monteverdi racconta in Diarioateatro il suo week end teatrale, tra avanspettacolo & Cassandre (anzi, c'è pure una chorus girl Alessandra Giuntoni lo racconta da proprio punto di vista), per finire con il nuovo testo di Fausto Paravidino.
Sisto Dalla Palma ha mandato a "ateatro" il suo intervento al convegno di Scandicci, altri contributi arriveranno nei prossimi numeri (e se vi siete persi tutta la discussione, spulciate l'archivio di "ateatro"; in particolare, nel forum la sintesi dell'incontro curata da Kinkaleri e le riflessioni a margine di Barnaba Ponchielli).
Per teatro e nuovi media, Silvana Vassallo ci porta in visita al Laboratorio di Informatica Musicale "InfoMus" dell'Università di Genova e Anna Maria Monteverdi recensisce il saggio Vidéo: un art contemporaine di Françoise Parfait.
E da Londra Veronica Picciafuoco ci racconta di The Sun is Shining di Matt Wilkinson con la compagnia Mu-Lan, gruppo Orient-British che promuove i testi scritti da cinesi nati e cresciuti in UK.

NEWS

(ma intanto andate a cercarle anche nei forum...)
 
Subway Letteratura sta ottenendo un successo superiore alle aspettative. Sono arrivati oltre 600 racconti, 13 di essi sono stati selezionati e verranno pubblicati in 12 libriccini, distribuiti dal 18 aprile al 30 maggio attraverso 21 Juke Box Letterari nelle stazioni della Metropolitana Milanese - tiratura complessiva oltre 200.000 copie. Se volete saperne di più (e magari inviare qualche altro racconto), è attivo il sito internet.
 
Joel-Peter Witkin, Pernicious ideology or Redemption
Torino * Galleria Infinito * via Carlo Alberto 5 * 10123 * Torino * 4 aprile - 25 maggio (la mostra inaugurerà giovedì 4 aprile 2002 ore 18.30)
"Considero ogni personaggio nella sua parte meno valorizzata fino a trasfigurarla. La immagino come una redenzione". (J.P.W.)
Dopo l'ultima importante personale al Castello di Rivoli nel '95 ritorna in Italia alla galleria infinito Ltd: Joel - Peter Witkin. Una mostra curata da Patrick Amine che raccoglie un vasto periodo della sua produzione, dalle fotografie realizzate all'inizio degli anni '80 fino ad oggi, insieme ad alcuni disegni inediti.
Joel-Peter Witkin (nato nel 1939 a Brooklyn, New York. Vive e lavora ad Albuquerque, Nuovo Messico) artista di fama internazionale, ha un dono: quello di riuscire a fotografare la bellezza dell¹incontro tra la vita e la morte. Celebrare il diverso, il bizzarro, il dolore, le umanità alterate e i freaks fino al raggiungimento di una bellezza classica e di un concetto estetico.
Le sue fotografie, che stampa personalmente, sono omaggi quasi religiosi a mondi alterati nei quali viene ribaltata la percezione che abbiamo del sesso, come della degradazione e di tutto ciò che nella storia dell'arte chiamiamo bellezza. In un dialogo costante tra Fleurs du Mal et fleurs de Morale Witkin crea mondi a metà strada tra nature morte e nature vive, in bilico tra realtà e sogno, affascinadoci ed inquietandoci.
 
Orario: dal martedì al sabato <15.30 - 19.30 > mattina su appuntamento
Catalogo: con un testo e un'intervista di Patrick Amine, sarà pronto in occasione di Miart (2-6 maggio)
 
Le très édifiant destin de Silvio Berlusconi
C’è, a Montmartre, un piccolo teatro italiano, che dal 1974 sotto la direzione di Attilio Maggiulli prova a resuscitare i fasti dei comici italiani a Parigi. In queste settimane le Théâtre de la Comédie Italienne ha portato in scena uno spettacolo italianissimo (ma in francese e per i francesi): Le très édifiant destin de Silvio Berlusconi, ovvero una sarabande tragi-comique et cauchemaresque, testo di Iago Migatti Lulli e regia di Fabio Fabi, che racconta fasti e gesta del Cavaliere. La politica italiana ha - soprattutto agli occhi degli stranieri - diverse analogie con la Commedia dell’Arte (peraltro proprio alla Commedia dell’Arte rimandavano i titoli di “Libè” e “Le Monde” in occasione degli show diplomatici di Sgarbi al Salon du Livre). Lo spettacolo si diverte a divagare sul tema.
A proposito di demonizzazione, Iago e Fabio non vanno per il sottile: s’immaginano che dopo essere stato colpito in testa da un vaso da notte lanciato da un no-global, il Cavaliere finisca dritto all’inferno. Il testo è una farsa alla Dario Fo, ma con l’intento didascalico di far conoscere ai parigini la resistibile ascesa del Miliardario Ridens: nella locandina disegnata dal perfido Wolinski, sotto al Cavaliere c’è un monitor dove una annunciatrice snocciola “Mafia, Opus Dei, Milano 2, Mani Pulite, Loge P2, Forza Italia, pots de vin (ovvero mazzette)...”, mentre dietro di lui si erge il Duce che fa il saluto romano. In scena ci sono due diavoli che sparano lazzi e battutacce, e un Berlusconi che vorrebbe mettere ordine, a modo suo, persino nell’aldilà. Il Grande Comunicatore (Candido Temperini) riuscirà quasi ad ammaliare Lucifero (Margherita Bertoni) e il suo assistente (Guillaume Collignon). Il finale è un omaggio vagamente kitsch a quello che i francesi amano dell’Italia, e che il berlusconismo sta cancellando. Migatti Lulli cita Gelsomina e Zampanò, anche se forse sarebbe stato filologicamente corretto rimandare al profetico (e all’epoca incompreso) Ginger e Fred.
 
“Di tanto in tanto, quando si vogliono male, gli italiani si rimettono in mora e decidono di dare ragione ai peggiori luoghi comuni che li identificano: ed ecco la squadra di governo, puntualmente esemplata sull’organico di una compagnia dell’Arte (con i necessari ammodernamenti, ma non poi troppo). Ecco il capocomico, già dal nome identificato con un innamorato di commedia. Come l’innamorato parla con voce accattivante, sussurra parole ‘arrossenti’ al pubblico femminile, canta seduzioni da piano bar. Ma è anche molto capitano (nella variante moderna di cavaliere): sbruffone, ‘spagnolesco’, pronto ad accendersi al minimo affronto (e a dimostrare la falsità levandosi le scarpe con i rialzi, come il capitano di commedia tirava fuori la spada spuntata). E’ anche molto zanni, nella versione meno acrobatica (quanto permesso dalla bassa statura) o in quella arlecchinesca (venditore di specifici, cioè piazzista, parlatore di molte lingue tranne l’inglese) ma anche un po’ ’magnifico’ (cioè Balanzone quando pontifica con citazioni latine dalla sintassi incerta etc. (...) Recentemente l’improvvisazione geniale della foto ricordo con le corna ha fatto avanzare di un altro passo il colto e ben consigliato cavaliere è riuscito ad identificarsi anche con la più popolare delle maschere italiane: quella di Pulcinella (a cui finora non lo apparentava certo la povertà ma una certa qual irrefrenabile ingordigia). E’ dunque riuscito, come neppure ai sovrani più amati, ad identificarsi completamente col suo paese. Una paese che lotta evidentemente senza successo, per non essere considerato, appunto, di Pulcinella”.
Iago Migatti Lulli e Fabio Fabi
 
Una "Giornata per Gadda"
Milano, Teatro Filodrammatici, 15 aprile 2002
Una "Giornata per Gadda" di letture, interventi, immagini e testimonianze per ricordare l'opera del Gran Lombardo in un percorso – insieme biografico e geografico – attraverso le tre grandi città in cui Gadda visse: Milano, Firenze e Roma.
Tre città che hanno segnato profondamente la vita dello scrittore e hanno caratterizzato linguisticamente le sue opere, costituendo di volta in volta la componente dominante del suo straordinario pastiche: dalla “lingua materna” del dialetto milanese, al pianerottolo fiorentino degli anni Trenta, al romanesco che darà vita al Pasticciaccio. Il percorso gaddiano si snoderà attraverso la lettura di brani di romanzi, racconti, articoli di giornale e programmi per la Radio, pagine dei diari e delle lettere e, per la prima volta, degli importanti materiali che in questi ultimi anni sono stati scoperti tra le sue carte – ora per la maggior parte raccolte presso la Biblioteca Trivulziana di Milano – che hanno imposto una nuova rilettura della sua opera.
(Nell'ambito della stagione gaddiana del Teatro Filodrammatici)
 
Lo Straniero n. 22
E' uscito il nuovo numero della rivista diretta da Goffredo Fofi. Contiene tra l'altro una Lezione di teatro di Carmelo Bene (presentata da Piergiorgio Giacchè) e Il percorso della Raffaello Sanzio di Oliviero Ponte di Pino, che qualcuno di voi aveva forse già letto su "ateatro".
 
Libri & libri

Il teatro di Trionfo
Nessuno è ancora riuscito a scrivere una storia della regia teatrale in Italia (se non, a suo tempo e in maniera parziale, Claudio Meldolesi con il suo Fondamenti del teatro italiano, Sansoni, 1984). Ma chi oserà l’impresa, non potrà fare a meno di confrontarsi con il libro - bello e ricco - dedicato a Aldo Trionfo recentemente pubblicato da Ubulibri: Il teatro di Trionfo a cura di Franco Quadri, 336 pagine, 29,50 euro.
Per certi aspetti appartato ed eccentrico (o meglio, estraneo agli schemi dominanti) , Trionfo è stato un grande protagonista del teatro del dopoguerra. Attraverso una notevole quantità di materiali (testimonianze e interviste, immagini e ricordi, teatrografia e bibliografia, ma anche i testi dal lui scritti - o riscritti), questo volume disegna con chiarezza una figura di artista e una poetica personale di notevole respiro. Il lavoro registico di Trionfo risulta sempre animato da un punto di vista individuale che affonda forse le sue radici nella biografia e nelle radici ebraiche, e che si porta dietro il sentimento di una adolescenza sfregiata dalla violenza del mondo e dalla sua insensatezza.
Questo taglio “in soggettiva” rappresenta una linea di sviluppo alternativa rispetto a quelle per diversi motivi “oggettive” di Visconti, Strehler, Ronconi o Castri (dove le ossessioni personali sono state o vengono mascherate da postulati estetici o ideologici). In questo, Trionfo indica una delle possibili linee di sviluppo del nostro teatro, se non si fosse isterilito nella falsa dicotomia tra un “teatro di regia” ideologicamente sorvegliato e corretto, e un “teatro di ricerca” formalista perché concentrato sulla modernizzazione e ridefinizione della grammatica teatrale. Ecco, anche nella sua capacità di mescolare genere e distruggere categorie, la lezione di Trionfo mantiene la sua attualità.
Non a caso è stato l’unico regista a “scritturare” Carmelo Bene (per un memorabile Faust-Marlowe Burlesque con Franco Branciaroli. E non a caso, come emerge nella bella intervista di Franco Quadri a Carmelo Bene che compare nel volume, per certi aspetti Trionfo è stato quello che Carmelo avrebbe voluto essere senza poterci riuscire...
 
Poesia: Lombardi-Pasolini e Paolini-Calzavara in CD
Ma ancora non li avete sentiti, i due CD pubblicati da Garzanti Libri? Marco Paolini interpreta Marco Calzavara e Sandro Lombardi interpreta Pier Paolo Pasolini. Intanto potete ascoltare due brani in anteprima: Marco Paolini interpreta l'irresistibile Can, Sandro Lombardi la struggente Supplica a mia madre.
Per altre info, leggete l'intervista sul progetto di "Alice" a Oliviero Ponte di Pino, oppure visitate la pagina del sito Garzanti dedicate al progetto. Potete richiedere i due cofanetti subito subito da internetbookshop: Paolini-Calzavara (prezzo di copertina 27.000 lire) & Lombardi-Pasolini (prezzo di copertina 25.000 lire).

 

L'EDITORIALE

Qualche giorno fa Massimo Paganelli ha abbandonato la direzione del Teatro Metastasio di Prato. E’ l’ennesima dimissione annunciata, al termine del solito processo di logoramento che ha già fatto cadere più di una testa. E’ l’ultimo regolamento di conti all’interno di una sinistra che da anni non è più in grado di esprimere una credibile politica culturale in ambito teatrale. Le dimissioni di Massimo Paganelli possono certo dipendere da una specifica realtà culturale, politica o geografica (che a qualche chilometro di distanza rischia però di apparire banale provincialismo), mentre qualcun altro attribuirà il divorzio alla classica “incompatibilità di carattere”. Ma a Prato si è semplicemente ripetuto un copione già visto in numerose altre istituzioni teatrali pubbliche italiane. Un tentativo di innovazione che nasce con grandi speranze si scontra ben presto contro una serie di rigidità di sistema (di carattere politico e burocratico) , o semplicemente con antipatie salottiere o altri interessi in ambito teatrale. Segue una fase di logoramento più o meno lunga (con ingerenze politiche, attraverso i vari consigli di amministrazione) che porta alle dimissioni dell’innovatore in tempi più o meno rapidi. Il copione è già stato recitato più volte, sempre più stancamente.
Quello a cui stiamo assistendo in questi anni - una dimissione dopo l’altra - è semplicemente il suicidio del teatro pubblico italiano - ovvero dell’intero teatro italiano, visto che gli stabili costituiscono l’ossatura dell’intero sistema. Le responsabilità sono numerose e ben distribuite.
In primo luogo c’è la sclerotizzazione e burocratizzazione dei teatri pubblici, che li ha progressivamente svuotati di senso. A questa degenerazione ha contribuito anche un meccanismo di controllo politico messo a punto negli anni della lottizzazione e che usa i consigli d’amministrazione che strumento di controllo e meccanismo di gestione clientelare. E’ completamente mancata in questi anni una riflessione collettiva sul ruolo e sul senso del teatro pubblico: a parole il modello resta quello tracciato nell’immediato dopoguerra da Grassi e Strehler, e che però non è più praticabile, visti i cambiamenti della società e del linguaggio teatrale. Qualche spunto di riflessione su due possibili modelli di teatro pubblico sono arrivati di recente da Luca Ronconi in un articolo su “Repubblica” e dal Teatro Metastasio in un manifesto ripreso anche da “ateatro”. Ma quella che è mancato e continua a mancare è un indirizzo complessivo del settore, che si è trovato abbandonato alle dinamiche peggiori. Oltretutto gli stabili hanno da decenni rinunciato a uno dei loro principali compiti istituzionali, ovvero quello di far emergere il nuovo (nei vari terreni, dalla drammaturgia italiana alla scrittura scenica alle forme produttive e organizzative) e garantire il necessario ricambio generazionale. Date queste premesse, restano due alternative: un tran tran sempre più stanco, con concessioni sempre più ampie al “commerciale”; oppure un estremo tentativo di apertura al nuovo, alle forze vive del teatro italiano, cresciute in genere nell’area della ricerca.
Ogni volta questi innesti si sono risolti in un fallimento. Le motivazioni sono diverse. In primo luogo l’evidente incompatibilità tra le modalità produttive e di gestione dei carrozzoni pubblici rispetto a quelle del teatro di ricerca, o alle esigenze di una moderna regia. Non a caso uno dei più accesi terreni di scontro riguarda “la pianta organica” dei teatri, e in definitiva la ripartizione delle risorse tra la “macchina” e la produzione, la creazione. Ma è anche mancata con ogni evidenza la capacità di spiegare (e forse di capire ) la posta in gioco da parte dei diretti interessati. Non si è mai creato un fronte comune abbastanza ampio da permettere ai “casi particolari” di superare le difficoltà contingenti. Così uno dopo l’altro i direttori “innovatori” diventano ostaggio dei consigli d’amministrazione, fino all’inevitabile caduta. All’esterno questa “guerra dei teatri” è stata vissuta come una corsa alle poltrone tra le varie parrocchiette della sinistra italiana, alla ricerca di prebende e privilegi per amici e complici.
Un’indubbia responsabilità l’ha anche la critica, che non è stata in grado di delineare questo quadro con sufficiente chiarezza, che non ha saputo sostenere il rinnovamento con la necessaria convinzione, che non ha mai riflettuto seriamente sul ruolo e la funzione del teatro pubblico.
Oggi abbiamo di fronte un panorama devastato. Da un lato un sistema di teatro pubblico praticamente necrotizzato, con la scintillante eccezione del Piccolo Teatro di Ronconi e Escobar (che rischia di fungere da alibi per l’intero sistema). Poi una serie di personalità artistiche di notevole rilievo, che in questo sistema possono avere però ruoli soltanto marginali - mentre gli spazi si richiudono progressivamente e diventa sempre più difficile far circolare i propri lavori. Infine una rete di Stabili di Ricerca anch’essi in crisi di identità (vedi la Breve storia del Crt in “ateatro 31”).
E’ in questo scenario che si susseguono le grida d’allarme, le lamentazioni, gli appelli alla mobilitazione e i messaggi di solidarietà. Ma settimana dopo settimana la situazione peggiora, e la tendenza non si inverte...



Una recensione infinita?
In margine a Infinities di Barrow-Ronconi
di Oliviero Ponte di Pino

ISTRUZIONI PER L’USO: Leggere queste frasi in ordine casuale, all’infinito.
 
1. Con Infinities Luca Ronconi ha provato (come spesso gli è accaduto nel corso della sua carriera) a rappresentare l’irrappresentabile. In questo caso, attraverso il testo di John Barrow, ha tentato di trasformare in evento teatrale un concetto astratto che per molti aspetti trascende la nostra esperienza, se non le nostre capacità di comprensione (a essere più precisi: i matematici e coloro che hanno una certa preparazione scientifica sono in grado di manipolare i simboli riferiti all’infinito, per gli altri il concetto può risultare difficilmente afferrabile - se non in termini “non scientifici” di trascendenza).
 
2. Il punto di partenza è un testo dichiaratamente non teatrale, scritto in un linguaggio che non ha nulla di teatrale e che obbliga regista e attori a muoversi su un terreno estraneo. Barlow ha scritto per Ronconi cinque brevi saggi di divulgazione scientifica, che nulla hanno dei “normali” testi teatrali (mancano infatti personaggi, dialoghi, didascalie...) o addirittura narrativi. Il testo di Barrow contiene invece l’esposizione di concetti astratti, brevi dimostrazioni, metafore, paradossi, considerazioni, rari accenni biografici a vite di scienziati...
 
3. Partendo da questi materiali, Ronconi ha costruito (ed è probabilmente questo uno dei motivi della passione con cui ha affrontato questa sfida) uno spettacolo radicalmente anti-aristotelico - e sperimentale fino all’estremo limite del non teatro.
 
3. 1. Infinities non parte dalla mimesi della realtà. Come abbiamo visto, nel testo non esistono personaggi o paesaggi; piuttosto idee o concetti astratti, ai quali è necessario trovare una forma - magari una metafora, come quella dell’Albergo Infinito della prima scena. (Da un certo punto di vista, questa prima scena descrive e riflette la struttura dell’intero spettacolo, con i cinque luoghi deputati che corrispondono alle prime cinque stanze dell’Albergo Infinito; e da qui non sarebbe impossibile costruire un paradosso simile a quello sperimentato dai primi videomaker, che provavano a costruire l’infinito puntando la telecamera su un monitor nel quale si vedeva quella stessa telecamera, moltiplicando l’immagine all’infinito... secondo il procedimento ben conosciuto della mise-en-abîme).
 
3. 2. Infinities esclude ogni unità di tempo, spazio e azione, come è ovvio in linea di principio trattandosi di uno spettacolo che cerca di cogliere l’infinito. Dunque un “non spazio”, ovvero una serie di spazi astratti (che però si nutrono della concretezza dell’edificio che li ospita): attraversando queste “stanze dell’infinito” lo spettatore compie un percorso iniziatico. Dunque un “non tempo”, quello della riflessione, del pensiero, della verità assoluta dell’astrazione matematica. Dunque una “non azione” perché quelle verità, al di là del loro emergere storico (che però viene affrontato solo di sfuggita, nel quarti episodio), esistono da sempre e per sempre.
 
3. 3. In Infinities non esiste catarsi. Non esiste azione drammatica, non esiste trama, dunque non può esservi scioglimento. Ma soprattutto ogni singola scena è costruita su un paradosso, su una aporia insolubile: e dunque lascia allo spettatore una enigma che non può trovare soluzione. (Un’altra accezione possibile dell’espressione “spettacolo infinito”?)
 
4. Questa scelta si riflette nella costruzione di uno spettacolo-labirinto, con cinque stanze che lo spettatore può attraversare in sequenza. Ma si tratta anche di una sequenza potenzialmente infinita, sia che venga ripetuta identica sia che venga alterata nel numero delle stanze visitate o nell’ordine in cui vengono visitate. Di più, all’interno di ogni stanza gli interpreti dei vari “non personaggi” cambiano nelle diverse ripetizioni della stessa scena, che dunque (potenzialmente) risulta sempre diversa. Dunque un infinito che nasce da un procedimento combinatorio (e non dalle vertigine di cui al punto 1).
 
4. 1. In alternativa la possibilità di ripetere in eterno il ciclo delle cinque stanze rimanda alla soluzione al problema dell’infinito che illuminò Nietzsche - l’eterno ritorno.
 
5. Forse gli attori della seconda stanza, e quelli della quinta, sono spettatori che hanno avuto il dono della vita eterna (seconda stanza) o che arrivano da precedenti visioni dello spettacolo.
 
6. A quali condizioni può ritenersi vinta una scommessa di questo genere? Ovviamente è impossibile costruire uno spettacolo davvero infinito (o una narrazione infinita, come insegna la borgesiana Biblioteca di Babele, al centro della terza stanza). Ma è possibile costruirne uno potenzialmente infinito. Ed è inoltre possibile costruirne uno spettacolo che inneschi nello spettatore una serie di riflessioni infinite.
 
7. La scommessa di Ronconi può dichiararsi vinta solo se, dal punto di vista dello spettatore, lo spettacolo può essere dichiarato infinito.


Diarioateatro: venerdì, sabato e domenica
Breve cronaca di un fine settimana "teatrale"tra la Liguria e la Toscana
di Anna Maria Monteverdi

Questo ha di straordinario il teatro: ti riguarda tutto intero, anima e corpo. Non puoi ricavare una nicchia dentro la tua vita (la nicchia del mondano o dell'abbonato) e sperare di divertirti, se la tua vita non è predisposta al divertimento in teatro. Non c'è ipnosi a teatro. A teatro lo spettatore è attivo. La necessità del teatro andrà di pari passo con la sopravvivenza di persone attive. Quando tutti saranno addormentati, niente più teatro.
Mario Martone

 
Venerdì 15 marzo
Lerici (Sp), Teatro Astoria: Roberto Del Gaudio e i Virtuosi di San Martino con Medea Marturano

Un esilarante show da avanspettacolo, intelligentemente divertente che mescola canzonetta (Bobby Solo) con l'operetta e le arie liriche, la grecità con la napoletanità: ritratti di donne e uomini, verrebbe da dire, sull'orlo di una crisi di nervi, raccontati attingendo indifferentemente (come recita la ben nota canzone napoletana che riecheggia in scena - come pure nel Re Lear n. 2 di Leo De Berardinis) tra antichità, tradizione popolare e avanguardia, mescolando generi e creandone uno ex novo: il cabaret da camera, come un critico musicale ha simpaticamente definito questo teatro che unisce sceneggiata, comicità, musica colta, tragedia e commedia eduardiana. Filomena Marturano che pronuncia I figli non si pagano davanti a una caffettiera napoletana o l'idraulico edipico alle prese con perdite, tubi-tube e catene di varia natura, Medea, Eduardo di "a da passà a nuttata"; tutti i personaggi si cambiano davanti a un appoggia camicie-comodino che diventa, all'uopo, confessionale o insospettabile macchina della verità. Roberto Del Gaudio è il fregoliano attore napoletano abile nel recitar cantando, nel passare da un registro all'altro, dal comico al semiserio, accompagnato da impeccabili 4 musici 4 (musiche di Federico Odling), che gli fanno da "spalla" sonora e ritmica, sorta di "coro greco" o deuteragonista in scena; Del Gaudio è, poi, abilissimo nelll'imitazione non delle battute di Totò ma della sua maschera, nella messa in ridicolo dei luoghi comuni del testo e del personaggio, nel prelevare pezzi d'autore cantandoci sopra sberleffi, nel cambiare le carte in tavola continuamente, nel sovrapporre ruoli e mescolare personaggi. Così il regista-attore spiega questi personaggi "dalle molte teste":
"I personaggi sono contaminati. Filumena, per esempio, è stata Madre Coraggio e sarà Medea. Anche se la sua antica professione la farà rassomigliare talvolta alla Madame Duclòs o alla Juliette di De Sade; le facciamo raccontare un po’ di cose piccanti che possano interessare anche noi attori (la tournée, si sa, è a volte lunga e penosa…). Domenico sarà invece solo il ricordo pallido di Giasone, divorato però dal complesso di Ugolino che gli fornirà un carattere ed una incontenibile sete di vendetta. Sarà anche Azucena nella sua fissazione per il figlio perduto. Filumena difenderà i suoi figli dal pericolo che gli venga divorata la testa. Ma i tre ragazzi mostreranno in ogni modo di essere pervasi da una inguaribile modernità, di essere cioè già senza testa, almeno dal punto di vista di Medea, punto di vista che Filumena farà proprio, questa volta d’accordo con Mimì-Ugolino".
Roberto Del Gaudio e i Virtuosi di San Martino saranno al Teatro Bellini di Napoli, con Medea Marturano dal 24 al 28 aprile.
 
Il gruppo "I Virtuosi di San Martino", si forma a Napoli nel 1994; è composto da Federico Odling, violoncellista e compositore del gruppo,creatore di impasti musicali improbabili e riuscitissimi (musica coltissima e musica popolare, Verdi e il pop, folk e mazurke) e il cantante-attore Roberto Del Gaudio, fantasioso e irriverente "trascinatore". Il gruppo si completa con Antonio Gambardella (violino), Vittorio Ricciardi (flauto e ottavino) e Dario Vannini (chitarra). I loro brani più riusciti deridono crudelmente i personaggi-macchietta dei nostri giorni: il tribale dei centri sociali sempre più figlio di papà; il docente progressista indeciso metafisicamente sui voti da dare; il cineasta napoletano; il vegetariano "di tendenza". Dal '94 ad oggi "I Virtuosi di San Martino hanno realizzato i seguenti spettacoli:So' tribbale, Nel nome di Ciccio, Ciccio Concerto, Blu Carogna, Carogna Suite, Medea Marturano e Vade Retrò-concerto d'avanspettacolo.
 
Sabato 16 marzo
Genova, Teatro Duse, Cassandra. Regia di A. Battistini
Spettacolo che crea delle aspettative innanzitutto per il testo scelto: il romanzo di Christa Wolf in cui la protagonista parla in prima persona della sua tragica storia, della sventura di una stirpe e dello sterminio di un intero popolo (Cassandra, profetessa di Apollo, veggente non creduta, testimone e interprete della guerra di Troia e dello scatenarsi del destino degli déi contro gli Atridi). La Wolf allontanandosi dalla tematica eschilea destino-colpa, dona piuttosto alla veggente attributi idealistici, tra emancipazione, insubordinazione e liberazione, in cui si sono riconosciute generazioni di attiviste.
Come è noto, è proprio l'Orestea - in cui compare Cassandra tra i personaggi della prima tragedia della trilogia (Agamennone)- a testimoniare significativamente il passaggio nella storia della Grecia antica, da una civiltà matriarcale di matrice indoeuropea (diffusa a Creta e di cui sarebbero testimonanza pitture murali raffiguranti donne che partecipavano sedute al posto d'onore al culto e ai rituali) ad una di stampo patriarcale: "Non è la madre la genitrice di colui che si dice di lei generato, di suo figlio, bensì la nutrice del feto appena in lei seminato" (vv. 658-59), questa la motivazione con cui Apollo assolve Oreste dall'accusa di matricidio.
L'atmosfera cupa, sinistra, introdotta in scena dall'imponente (ma anche un po' ingombrante) scenografia piena di metallo, enormi tubi di areazione e grate di ferro, Ade dalla vaga apparenza industriale da dove si scorgono cavità, buchi, anfratti da cui ci si aspetta apparizioni, suggerisce l'attesa della morte e si confà al personaggio di Cassandra e alle sue visioni profetiche macchiate di sangue ed è perfettamente in sintonia anche con quella paura descritta nel terzo stasimon dell'Agamennone, cantato dal Coro mentre è in scena proprio Cassandra:
 
"Perché qui sul mio cuore, davanti al mio cuore presago, un'ombra di paura svolazza e non la posso scacciare? Perché il mio canto, non pagato, non chiesto, è un canto funesto di vaticinio?"
 
Nello spettacolo il dolente coro iniziale delle donne troiane dissidenti, portate a Micene verso il castello del vincitore Agamennone, immagine che evoca battaglie antiche e recenti, immette nella modernità della tragedia vista dagli occhi della Wolf: l'evocazione di un'utopica società femminile che ha in odio le guerre.
Uscito il coro, tutto è nelle mani della attrice-ballerina russa, Oxana Kitchencko, ovvero Cassandra, colei che ricevette il dono della veggenza da Apollo che però volle possederla e al cui rifiuto il dio, sputandole in bocca con disprezzo, ordinò che lei avrebbe previsto il futuro ma che nessuno le avrebbe mai creduto.
La Cassandra della Wolf narra dell'amore struggente e tenerissimo per Enea e della violenza di Achille "la bestia" che violenta, dopo averla uccisa, l'amazzone Pentesilea ("I maschi, deboli, ma con il prepotente bisogno di vincere, si servono di noi come vittime per poter conservare il sentimento di sé"), della comunità femminile dello Scamandro, che si incontra dal vecchio e saggio Anchise abiurando ogni forma di violenza ("La guerra modella gli uomini di cui si appropria"), mettendo insieme passato, presente e futuro: "Voglio restare testimone anche quando non esisterà più un solo essere umano che mi chieda di rendere testimonianza". L'attrice è, in scena, un vero manichino di carne dalle "movenze immobili" (e dalla pronuncia indecifrabile, talvolta) costretta, inspiegabilmente, in una limitata porzione di spazio.
Alcune pose durante il lungo monologo, sono di vero effetto: l'incurvatura del corpo, le torsioni delle braccia lunghe, magre e nervose; la posa da Dea cretese dei serpenti, lo sguardo terrifico.
La seconda figura che compare in scena, l'amazzone mascolina Pentesilea con cintura di borchie, fa da controcanto alla dignità femminile umiliata e offesa, rivendicata ed infine difesa anche a costo della prigionia, di Cassandra, la cui voce dovrebbe richiamare alla mente le recenti guerre che hanno usato proprio lo stupro verso le donne come arma di "pulizia etnica":
 
"Le gambe maschili che vidi in un solo giorno mi bastarono per tutta la vita....Sentivo i loro sguardi in viso, sul petto. Neanche una volta mi girai verso le altre fanciulle, né loro verso di me. Non avevamo niente a che fare l'una con l'altra, i maschi ci dovevano scegliere e sverginare. Udii a lungo, prima di addormentarmi, lo schioccare delle dita e, con quante diverse intonazioni, quell'unica parola: vieni...Sperimentai due specie di vergogna: quella di essere scelta e quella di restare seduta in attesa".
 
Proprio nell'Orestea - come già ne I Persiani - si rivela il tema politico della tragedia secondo Eschilo: il rispetto delle leggi, la fede nello stato democratico ateniese (ricordava Aristotele nella Poetica che i personaggi della tragedia attica antica non parlano ancora retoricamente ma politicamente) di cui è emblema il commosso commiato nella terza tragedia dell'Orestea (Le Eumenidi).
Questa l'invocazione alla benevolenza e alla concordia del popolo ateniese intonata dal coro delle Furie diventate Eumenidi (=benevole) - significativamente ripresa anche dal Living Theatre nel finale del Frankenstein -:
 
"Lungi di qui le morti che troppo giovani vite recidono! E a vergini amabili, vita di nozze felici concedano gli dèi (...)
Anche fo voti che mai nella nostra città si odano fremiti di discordia civile, insaziata di mali. Né mai la polvere delle nostre strade si abbeveri di nero sangue di cittadini per strappare alle case, in collere vendicatrici di morti altre morti. E scambio ci sia di gioie nella comune concordia".

(Traduzione di M. Valgimigli)

 
"Perché Cassandra di Christa Wolf?", si domanda Battistini, già regista anche de Il Maestro e Margherita. "Quello che ci interessava, quello che ci serviva, quello che io e gli attori abbiamo assorbito nel nostro percorso laboratoriale, trasformandolo attraverso una scrittura comune in una sorta di canovaccio narrante, è stato concentrare l'attenzione su un nucleo drammaturgico che ci permettesse di ricostruire una storia nella storia: quella delle vicende di Troia e degli eroi della tragicità antica".
 
Domenica 17 marzo
Firenze-Rifredi, Genova G8: video, teatro e cronaca a confronto

a cura del Teatro della Limonaia
Convegno, incontri, proiezioni e dibattito. Lettura del testo Genova 01 di Fausto Paravidino e presentazione in anteprima dello spettacolo Noccioline (dai Peanuts alla Diaz), dal testo di F.Paravidino, con i giovanissimi della Compagnia Laboratorio Nove diretti da Barbara Nativi. Un progetto in collaborazione con il National Theatre di Londra per Connections 2002.
Non avrei mai creduto di portare mio figlio così piccolo (2 anni e mezzo) a teatro; non esattamente composto come si conviene, era Haidi Giuliani, la mamma di Carlo, a trattenere affettuosamente le sue frenesie.
Il testo Genova '01 del giovanissimo Fausto Paravidino è stato commissionato e rappresentato in lingua inglese dal Royal Court Theatre di Londra; in Italia la lettura del testo prevista a Roma per la rassegna"Teatro di Mezzanotte" organizzata da Macchine Teatrali, è stata clamorosamente censurata (per approfondimenti vedi il forum Teatro di Guerra).
Scritto al di là della Manica, "laddove non arriva il trattato di Schengen", il tentativo assolutamente intelligente e coraggioso di Fausto in Genova '01 era quello "di raccontare tutto quello che è successo a genova in dieci minuti", senza trascurare niente. Usando i fatti (le violenze, gli scontri, l'omicidio ancora impunito di Piazza Alimonda) come protagonisti indiscussi di una storia che ricorda altri tempi.
In Peanuts tutto è mascherato abilmente dietro un gioco: in ogni momento ciascuno di noi ha a che fare con quei problemi politici e sociali che ci riguardano come collettività e di cui siamo responsabili con le nostre scelte comportamentali, con l'economia domestica, con la nostra permeabilità alla pubblicità che decreta nuove povertà in un'altra parte del mondo.
Vengono in mente le parole del regista Peter Sellars:
 
"L'arte oggi deve avere un ruolo di attivismo puro: dare alle persone la possibilità di riprendersi la loro società, le loro sicurezze, la propria vita, non come spettatori ma come partecipanti attivamente impegnati".
 
Paravidino ci ricorda che ci troviamo ogni giorno a travestirci - esattamente come è accaduto a Genova - in global e in no global, poliziotto o manifestante. Tradotto in spiccioli (cioé in noccioline, appunto) i termini della questione della globalizzazione, della liberalizzazione dei mercati, della libera informazione in tempi di comunicazioni mass mediatiche monodirezionali, di ingiuste politiche del lavoro, sono così semplici che davvero basta poco (la lunghezza di una comic strip..) per capirli: in scena il rispetto dello stato di diritto, il trattato di Schengen sulla libera circolazione di persone e cose vengono trasposte nel salotto di una casa "provvisoriamente occupata" da gente "senza permesso di soggiorno" (ovvero, senza essere invitati) per un festino. Buddy deve "sorvegliare la proprietà dell'amico", ma lì e si danno appuntamento una serie di amichetti per vedere la televisione, mangiare pizza e bere bibite. Ogni loro scelta nell'arco della giornata è, appunto, metafora delle politiche economiche dei grandi Paesi industrializzati che impongono marchi, stili e comportamenti: Coca o Pepsi? Oppure solo acqua per tutti? Tanti canali tv o uno solo? Collettivizzazione delle risorse?(gli spiccioli per comprare le bibite).
Cambio di scena: carcere di Bolzaneto, sullo sfondo le celle, i ragazzini sono diventati grandi (e infatti i vestiti si sono allungati...) ma mantengono le caratteristiche psicologiche che avevano dieci anni prima: chi individualista, chi idealista, chi succube dell'autorità, chi sognatore, chi aspirante al posto di lavoro. Questa volta la divisione non è tra chi sceglie Coca o Pepsi ma se stare tra chi picchia o tra chi è picchiato, e diventare o vittima o carnefice. La regia, colorata e divertente nella prima parte, poteva "osare" un po' di più nella seconda parte. Nessun "segnale tra le fiamme" arrivava in platea. Proprio nella (non lieta) fine si perde quello che era maggiormente atteso: l'attivismo ha bisogno, ora più che mai, di messaggi forti e chiari. Io non ero a Genova né a Bolzaneto Me la sono scampata, mio marito Giacomo Verde ha ripreso le immagini che vedete in Solo limoni.
Plauso ai giovanissimi attori guidati da Barbara Nativi.
Così il giovane drammaturgo Paravidino racconta le motivazioni di Genova '01; e così spiega come, proprio con Genova, sia rinato il "teatro civile":
 
"e' cambiato qualcosa dopo genova. quegli ultimi giorni di luglio per molti di noi hanno ridisegnato la mappa dei sentimenti, hanno risvegliato l’indignazione, la rabbia, la paura, lo stupore.
molti di noi ne sono stati toccati e molti di noi - soprattutto - si sono ritrovati ad avere bisogno di parlarne. ricordare, ribadire, celebrare...
ho scritto una commedia per il national theatre con l’intento di portare oltre manica - lì dove non arriva il trattato di schengen - la denuncia di ciò che non è più solo appannaggio delle dittature sudamericane o islamiche, ma che è ‘entrato in europa’. in seguito ho scoperto che la mia esigenza teatrale di testimoniare non era prerogativa esclusiva del mio senso di colpa di assente, ma si accordava perfettamente con quella di altri artisti che - per farla breve - a genova c’erano. per quel che mi riguarda, con genova, è rinato il teatro civile...
il mio tentativo è stato quello di raccontare - con lo stile di un’ansa personale - tutto il g8 in dieci minuti, nonostante molteplici sforzi non sono riuscito a stare sotto i venti. dopodiché questo lavoro ha preso due vie diverse e naturali. si è accorciato per soddisfare le esigenze degli inglesi e si è allungato per diventare uno spettacolo italiano. spettacolo è improprio. non c’è niente di spettacolare - a meno che non vogliamo definire spettacolari i fatti di cui parla. è una testimonianza. di fronte all’irrappresentabilità della tragedia noi - un gruppetto variabile di attori che sentono il bisogno di raccontare quella storia - testimoniamo quei giorni con parole non nostre (che provengono dalle documentazioni raccolte) e nostre (i ricordi vivi di chi di noi c’era e di chi no). è un lavoro in continuo divenire che si trasforma a seconda dei contributi umani che vi partecipano. è il nostro g8.

 
 
Fausto Paravidino, attore, scrittore di teatro e qualche volta regista, ha scritto sette commedie: Trinciapollo, Gabriele (in collaborazione con Giampiero Rappa), Due fratelli (Premio Tondelli 1999), Tutta colpa di Cupido (con Giampiero Rappa e Lello Arena), La malattia della famiglia M (Premio Candoni Arta Terme 2000 - sez. opere commissionate), Natura morta in un fosso e Noccioline - Nuts (Commissionato dal Royal National Theatre di Londra). Ha scritto anche per il cinema e la televisione e ha frequentato l' "International Residency for Playwrights" 2000 presso il Royal Court Theatre di Londra.


Tra le donne di Cassandra
di Alessandra Giuntoni

Raccontare Cassandra attraverso lo sguardo delle donne del coro; la prospettiva m’intriga nonostante la fatica, nonostante le ore trascorse insieme alle ragazze del laboratorio, accovacciata sulla scenografia di ferro del ‘Duse’ - la carne e gli arti dolenti - ad intonare il funebre lamento che accompagna l’entrata in scena della profetessa Cassandra. Il testo, che narra di stupri e misfatti, della città di Troia crollata sotto l’urto trionfante della società greca patriarcale, è un crescendo luttuoso che da mormorio indistinto si fa litania dai ritmi arcaico-cadenzati. Noi, le troiane schiave dei vincitori, restiamo in attesa di venir deportate e in quest’attesa diamo corpo e voce ai ricordi straziati di lei, all’orrore di vecchi e di nuovi misfatti. Il dramma che insanguinerà la casa degli Atridi è sul punto di compiersi e Cassandra è schiacciata dal peso dell’oscura e inascoltata veggenza.
Il più affascinante personaggio del mito, già immortalato nell’Agamennone eschileo, è ripreso negli anni Settanta dalla rilettura, femminista e politica, di Christa Wolf che la ritrae durante le ultime ore di vita trascorse, come lei stessa dice "a ripercorrere segretamente la storia della mia paura". Ma se il racconto della scrittrice tedesca scivola all’indietro lungo la scia di ricordi di un’infanzia felice dominata dalle figure di Priamo, l’amatissimo padre compianto, e di Ecuba, la madre dalle "forti braccia virili", Andrea Battistini decide di fermare la sua Cassandra sui passaggi più tragici della guerra di Troia con l’arrivo in città delle Amazzoni e di temibili uomini dalla ferocia mai vista, capeggiati dalla figura di Achille la bestia che assomma su sé i caratteri odiosi di un’assurda violenza maschile, cruenta e gratuita qual è solo la follia della guerra.
Il grido straziante di Oxana Kitchenko, la bellissima Cassandra del Teatro di Castalia, attraversata da fremiti d’odio, scossa da brividi di trance, è un misto convulso di dolore e pietà, che risuona a lungo nelle orecchie dello spettatore. L’interpretazione dell’attrice russa rifiuta ogni naturalezza intenzionale per accentuare l’astrazione e la nudità della scena, il suo incedere è ora a scatti, ora trattenuto, con movenze che ricordano più una ballerina giavanese che non il Bolscioi, il tempio della danza classica da cui Oxana proviene. C’è una stanchezza e una frenesia nei suoi gesti, una sorta di pathos consacrato alla sventura del tempo e all’ossessione del ricordo. La donna, dagli zigomi alti, dai bruni capelli che le incorniciano il volto, possiede una fisicità elegante e rabbiosa che dapprima si scioglie in abbozzi di danze sciamaniche poi si contrae nei singulti sincopati di dolorosi ricordi. Nell’azione scenica raggelata da fendenti di luci azzurrognola, gamme di varianti, i tempi Forte o Improvviso si alternano a pause di sospensione facendo da contrappunto alla tematica della Memoria. E’ un sommovimento interno quello che sostiene l’attrice, la cui voce promana roca da un luogo remoto di denti serrati e rabbia schiumante a complicare una ricezione del testo già di per sé difficile e intermittente. L’italiano sussurrato grave in pause di sospiri che l’accento russo reinventa e rende enigmatico, dà il senso di una marginalità idiomatica davvero inquietante: la lingua balbetta in sonorità inaspettate, il senso è costretto a disseminarsi in stato di variazione continua. Le spezzature passano sull’accento originario enfatizzando il testo esploso, l’italiano soffiato dal ventre: l’inflessione slava di Oxana non è impedimento alla comprensione del testo ma è qualcosa di intimamente connesso alla condizione di esule e donna che Cassandra dovette affrontare.
Nel finale Oxana-Cassandra dismette le vesti di fascinosa mistagoga, rinunciando alla possessione sciamanica che l’invade per abbandonarsi svuotata ad una dimensione altra, più intima e umana. Il timbro decresce impercettibilmente in ultimi sprazzi di luce, la donna ritrova la propria voce con cui dire il reale, con cui svelare i misfatti di un potere creatore d’inganni e di simulacri. Di un potere ottuso e feroce che, per paura e sospetto, disconosce la "terza via" che sta tra il morire e l’uccidere. Vivere, appunto.


Eppur si muove
In margine all’incontro di Scandicci
di Sisto Dalla Palma

Con l’incontro del 2 marzo a Scandicci mi pare che ci sia qualcosa di nuovo sotto il sole. Il dibattito su alcuni nodi essenziali della ricerca teatrale, che si era frammentato o isterilito, si è rimesso in movimento. Mi sembra un’occasione da non perdere.
Faccio, per quel che mi riguarda, qualche considerazione più generale.
1) La prima è che lo sviluppo della ricerca, della sperimentazione ha dato origine più recentemente a una serie di forme nuove, più ricche e più aperte sul fronte dei vari linguaggi. La fenomenologia dell’esperienza artistica si sta dispiegando con opportunità nuove, rompendo cristallizzazioni organizzative, classificazioni di generi, modelli professionali di artisti, statuti della rappresentazione e comportamenti del pubblico. Cambiano i luoghi, i tempi e le forme delle convocazioni e i rituali tradizionali diventano stereotipi improduttivi. Sappiamo da tempo che è caduto l’orizzonte delle comunità come insieme articolato e organico di relazioni in un sistema umano. E’ emerso da tempo un continente differenziato, multipolare, che si sfrangia dentro un universo che si pretende pluralistico ed è invece monistico, chiuso, inevitabilmente direttivo. Il diversificarsi delle culture artistiche è funzione del diversificarsi delle microculture anche in senso antropologico.
2) Il secondo problema da affrontare riguarda questo scambio tra i due livelli, tenendo presente che le istituzioni culturali si sono bloccate perché fondate su meccanismi inerziali che tendono a perpetuare i vecchi apparati come espressione di culture storicamente consolidate, ma che adesso operano in posizione per lo più difensiva, spesso presidiando assetti antropologici che non esistono più o sono minacciati nella loro costituzione. Gli apparati dello spettacolo tendono a garantire la funzionalità di un sistema che necessita invece di una comprensione e di una tolleranza capace di far crescere il nuovo. Ciò che è in crisi nelle istituzioni culturali è la capacità di ascolto e di mediazione, la forza maieutica atta a far crescere domande e risposte nuove. Inoltre si sta determinando da anni un corto circuito fra istituzioni politiche e istituzioni culturali che minaccia l’autonomia della cultura e l’affermarsi di nuove identità. Mi domando cosa bisogna fare per liberare risorse umane, artistiche e finanziarie in grado di assecondare i nuovi processi.
3) Un’altra constatazione è che questa ondata di esperienze ha la caratteristica di un processo carsico dentro il quale si coglie una diversificazione di pratiche, di grammatiche espressive e di condotte empiriche, che spesso non costituisce una vicenda “statu nascenti” portatrice di una discontinuità forte rispetto agli assetti esistenti, perché in realtà questi assetti nel migliore dei casi trattano il nuovo non come fosse nuovo, ma una variante del vecchio. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un fenomeno classico: la divaricazione tra architettura istituzionale, rete di produzione e di distribuzione ed esperienze emergenti. Il cambiamento rischia così di essere il modo nuovo del vecchio. Sembra un gioco di parole. Ma in realtà la questione di fondo riguarda il senso di questa congiuntura. Essa investe la struttura stessa della rappresentazione, dei suoi agenti e referenti, dei produttori e consumatori, la concezione del loisir che essa sottende. Il rischio, questa volta, è ancora una volta si riproponga un processo di integrazione capace di assorbire e neutralizzare le spinte al cambiamento, facendo prevalere logiche di stabilizzazione quando invece occorre elaborare politiche “de jure condendo”, riplasmando la strategia dell’intervento pubblico, organizzando un sistema di servizi e dando vita a opportunità mai prima immaginate. Tutto questo non può ancora esser visto e fondato con chiarezza. Occorre che l’emulsione in parte si faccia più ricca e in parte si sedimenti per lasciar intravedere non solo le nuove forme dell’esperienza artistica, ma anche le condizioni reali, le possibilità empiriche, i modi e i luoghi per recepire queste forme e garantirne lo sviluppo. Penso ai nuovi generi che si affermano, interni alla drammaturgia performativa, al sistema delle forme aperte, alle ibridazioni di linguaggi, alle pratiche delle installazioni e così via. In parte siamo a un livello spontaneistico che non consente di immaginare una risposta pubblica capace di raccordo reale con le nuove domande di pubblici settoriali. In questa fase bisogna probabilmente non fare troppi errori: battaglie di retroguardia o fughe in avanti, che sbilancino il processo di crescita di tutto il sistema. Forse sarebbe bene trovare dei saldi punti di riferimento; che agiscano come volani di nuove esperienze, traghettando il nuovo.
Mi spiego meglio: poiché credo che sia in atto una divaricazione rispetto all’eredità, e che il sistema non sia in grado di aderire a una processualità nuova, l’errore da evitare è di riadattare i modelli esistenti. Questo errore può essere compiuto anche da artisti e operatori che assumono come punto di riferimento gli assetti storici dello spettacolo così come si sono dati storicamente: produzione, distribuzione, recite, giornate lavorative, giornate recitative, area pubblica e area provata, profit no profit, scena all’italiana, sbigliettamenti, borderò e così via. In realtà i cambiamenti della comunicazione vanno in ben altre direzioni da quelle previste dai tracciati storici e la contaminazione dei linguaggi è tutt’altro che una sommatoria di generi. I linguaggi si mescolano perché le sensibilità sono cambiate e non si incontrano più nelle forme e nei luoghi abitati dalla convenzione, secondo la classica distinzione dei generi, teatro, musica, danza, video, cinema. A ben guardare siamo di fronte a una cultura polimorfa cui risponde un sistema a canne d’organo che nell’atto di recepire, trasforma, deforma, tradisce le esperienze.
4) Un quarto problema è come rimodellare l’essere delle nuove forme, dei nuovi gesti creativi, delle nuove occasioni di incontro e di relazione tra operatori, artisti e pubblico in termini che garantiscano realmente la crescita del nuovo: altri tempi, altri luoghi per la rappresentazione, altre modalità di convocazione, per invasione di interstizi liberi, per saldatura e circolazione di esperienze, aggregando in ambiti e forme imprevedibili forze non riconducibili alle strutture operative di sempre: gallerie d’arte, teatri, fabbriche dismesse, tanto per dire, pongono in essere intersezioni e contatti tra le arti rispetto a cui bisogna cambiare i modi e i luoghi della organizzazione. L’organizzazione è un linguaggio; è un sistema che disciplina, orienta, promuove la nascita e la crescita di esperienze diverse. Da sistema empirico si fa sistema ideologico di controllo dell’esperienza.
In questo senso la prima cosa da fare è che all’immaginazione creativa si accompagni l’immaginazione attuativa con codici operativi e organizzativi in grado di assecondare questa emersione prima che sia spinta ai margini e neutralizzata.
In questa prospettiva credo vadano pensati appunto gli strumenti per sostenere le diversità e le istanze divergenti della creatività.
5) A di là dei sistemi più o meno spontanei di autoregolazione e di mediazione occorre dunque:
a) riprogettare la rete complessiva delle arti e dello spettacolo a livello empirico e a livello di politiche culturali, tenendo presente che le istituzioni dello spettacolo si sono irrigidite nella difesa dell’esistente, nella tutela delle forme storiche.
b) Ripensare a una strategia di lungo periodo tenendo presente che l’evoluzione complessiva del sistema lascia intravedere una contrazione delle risorse a sostegno delle politiche di welfare. Bene o male lo stato postmoderno non è in grado di accogliere tutte le domande emergenti dal dilatarsi dei nuovi mondi vitali, dai modelli che restituiscono una diversa qualità della vita, dalle pulsioni sotterranee della creatività, dal bisogno di estendere la rete delle comunicazioni umane.
La divaricazione tra welfare e domande soggiacenti con ogni probabilità si accentuerà perché le domande nel mondo della sanità, dell’istruzione, del loisir non possono essere saturate in termini di efficacia e di distribuzione equitativa delle risorse ed esigono nuovi rapporti tra pubblico e privato. Se non un arretramento dello Stato, occorre un recupero di responsabilità attive nell’ambito della società civile.
L’evoluzione dei sistemi politici sembra infatti sospingere le aree in questione verso il mercato, verso nuove forme di volontariato e di semiprofessionismo, dando sostegno alle reti di sussidiarietà e di solidarietà. Io credo che anche lo spettacolo sarà interessato da queste dinamiche, che speriamo colpiscano i centri di spesa fuori controllo.
6) Per concludere di fronte alle politiche restrittive che si delineano occorre agire per la decostruzione dei sistemi che assorbono un carico esorbitante di risorse, agendo per una loro diversa ridistribuzione in grado di soddisfare le nuove culture.
Questa battaglia nei confronti dei grandi apparati dello spettacolo è la prima delle battaglie da fare, mettendo in questione le logiche culturali, economiche e corporative che li alimentano, in un sistema di alleanze dove tout se tient: star system, lottizzazioni, controllo politico, sostegno dei media. In questo orizzonte non astratto si pone il problema della autonomia e della libertà della cultura, intercettando ogni pretesa, venga da destra o da sinistra, di controllare dal di dentro le istituzioni culturali. Ma questo comporta il riesame dei modi attraverso cui si è concretato l’intervento dello Stato. Lo spettacolo cui assistiamo di liquidazione delle identità storiche dei teatri pubblici e dei teatri di ricerca mostra la crisi di un sistema ideologico che si è perpetuato non solo in termini di mediazioni culturali ma purtroppo anche secondo modeste logiche di potere. Le culture emergenti devono darsi, io credo, un progetto politico capace di far valere le istanze di aggregazione e di socializzazione, la necessità di rispondere a categorie artistiche e tensioni comunicative nuove. Per questo occorre attrezzarsi, ricostruire un sistema di elaborazione delle nuove domande, prepararsi a fare sistema, predisporre regole nuove di convivenza, di relazione, forse persino modelli che proteggano dalla dispersività delle risorse umane i nuovi soggetti sociali, singoli o gruppi che siano, per evitare una sconfitta storica.



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Dietro le quinte del Laboratorio di Informatica Musicale "InfoMus" dell'Università di Genova
di Silvana Vassallo

Il Laboratorio di Informatica musicale InfoMus del Dist (Dipartimento di Informatica Sistemistica e Telematica) della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Genova rappresenta un caso unico nel panorama italiano di coinvolgimento di scienziati e artisti in progetti di ricerca volti a investigare forme di interattività uomo-macchina basate sull'analisi del suono e dei movimenti corporei, le cui implicazioni sono di notevole interesse per la sperimentazione linguistica in ambito teatrale, musicale e nella danza. Per presentare gli esiti delle sue più recenti sperimentazioni e dei suoi nuovi progetti di ricerca, il Laboratorio InfoMus ha organizzato dall'11 al 13 marzo una serie di workshop aperti al pubblico, che si sono svolti presso il teatro Carlo Felice di Genova, dove il Laboratorio ha sede a partire dal 1997, a seguito di un proficuo rapporto di collaborazione stabilitosi tra il Dist e il teatro.
In una grande sala ad anfiteatro situata al quindicesimo piano del teatro, occupata nella parte superiore da computer, telecamere e sofisticate strumentazioni tecnologiche, un pubblico attento e variegato, composto da studenti universitari provenienti da varie discipline e da addetti ai lavori, ha potuto assistere a una sorta di "dietro le quinte" del laboratorio, con dimostrazioni dal vivo di come artisti e ricercatori cooperino in diversi progetti, volti alla realizzazione di sistemi interattivi e di prototipi utilizzabili in vari settori, dalla multimedialità all'arte, dalla didattica alle terapie di riabilitazione.
Le ricerche portarte avanti dal Laboratorio sono incentrate essenzialmente sulla progettazione di sistemi in grado di sviluppare ambienti multimodali interattivi, per l'acquisizione e la sintesi in tempo reale di informazioni sull'espressività nel movimento e nel suono. Particolarmente significativa, nell'ambito di queste ricerche, è la partecipazione del Laboratorio al progetto Mega (Multisensory Expressive Gesture Appplications), finanziato dall'Unione Europea, che si occupa dello sviluppo di interfaccia multisensoriali per l'analisi e la sintesi di gesti espressivi nella musica, nel movimento, nei visual media, e che raggruppa a livello europeo università, centri di ricerca e aziende leader nel settore della comunicazione e dell'intrattenimento. Per questo progetto il Laboratorio ha implementato un innovativo sistema chiamato Eyes Web (per ulteriori informazioni si veda il sito www.infomus.dist.unige.it/eywindex.html, di cui durante i seminari sono state presentate varie applicazioni.
EyesWeb significa ragnatela di occhi e sta ad indicare un insieme di telecamere e sistemi particolari che rilevano da diversi punti di vista il movimento, la voce, i suoni prodotti da una o più persone utilizzando tali informazioni per controllare in tempo reale dispositivi per la sintesi e il controllo di suono, musica, live electronics, di visual media (per esempio animazioni grafiche), di luci, e per agire fisicamente sull'ambiente (per esempio attraverso scenografie e robot mobili). Si creano in tal modo degli "ambienti sensibili" che consentono di rilevare alcune caratteristiche del movimento (per esempio di un danzatore), per controllare e generare suono e musica, e far sì che il corpo intero, o una sua parte, muovendosi, grazie a una serie di interfacce governi l'emissione musicale, facendo corrispondere alla carica emotiva-interpretativa del gesto un'affine risposta sonora. I parametri utilizzati per analizare e rilevare l'interazione tra linguaggi compositivi e linguaggi del movimento si ispirano da una parte a teorie di coreografi e musicologi e dall'altra a teorie psicologiche in una complessa trama di rimandi e interconnessioni.
La collaborazione con artisti è parte integrante dell'attività del Laboratorio InfoMus, che ha contribuito alla realizzazione di spettacoli di compositori come Luciano Berio (Cronaca del Luogo, Festival di Salisburgo, 1999) e di coreografi come Virgilio Sieni (L'Ala dei Sensi, Ferrara, novembre 1999). A conclusione dell'attuale workshop è stato realizzato un seminario-concerto per attrice e sistema interattivo Eyesweb su testi di Gianni Revello, dal titolo Allegoria dell'opinione verbale: il brano è stato concepito dal compositore Roberto Doati e si fonda su una sorta di inseguimento tra l'attrice protagonista (Francesca Faiella) e il suo doppio sonoro, che nasce ed evolve durante la performance unicamente dalla voce e dal movimento delle sue labbra, acquisiti dal calcolatore attraverso il sistema EyesWeb. Tra l'attrice e la sua voce sdoppiata si instaura una sorta di lotta, nel tentativo di trattenere le immagini evocate dalle parole, che ineluttabilmente sono destinate a svanire.
In un convegno sullíinterattività svoltosi a Pisa alcuni anni fa (Arte tra azione e contemplazione, Pisa, 1998; atti del convegno in corso di stampa) Antonio Camurri, responsabile del Laboratorio InfoMus, nel suo intervento aveva affermato
 
"collaboriamo a produzioni musicali, a progetti artistici, dove spesso succede che impariamo da artisti, e gli strumenti che progettiamo sono influenzati da questo tipo di applicazione. Dopo una esperienza in una produzione artistica, dopo esserci sciacquati il cervello in un altro modo di vedere le cose, in un altro modo di affrontare i problemi, ritorniamo agli stessi sistemi che abbiamo progettato e usato in una produzione e li ripensiamo, e questi sistemi evolvono in modi che unicamente con l'approccio ingegneristico non sarebbe possibile fare".
 
Ciò evidenzia quanto la sperimentazione sul versante artistico sia parte integrante dell'attività del Laboratorio InfoMus e contribuisca in maniera determinante a connotarne la fisionomia e i percorsi di ricerca.
Per ulteriori informazioni rimandiamo alla rivista "Computer Music Journal" (vol. 24, n. 1, primavera 2000, MIT Press) che contiene un ampio articolo di Antonio Camurri sull'argomento dal titolo Eyesweb: toward gesture and affect recognition in interactive dance and music systems.
 

 

 
Interactive installation for the exhibition "Arti Visive 2", Palazzo Ducale, Genoa, october 1998.


All'inizio era la TV
Françoise Parfait, Vidéo: un art contemporaine, ed. Regard.
di Anna Maria Monteverdi

Una storia della videoarte raccontata attraverso gli autori storici (Paik, Vostell, Vasulka, Schum, Kuntzel, Viola), quelli più giovani (Stan Douglas, Steve McQueen, James Turrel, Pierrick Sorin, Tony Oursler), movimenti (Fluxus), pratiche artistiche (happening e enviroment), ma anche attraverso quelle modalità e tecniche (installazioni, performance, ambientazioni, décollage) sperimentate per provocare o inventare un'"altra" televisione (Tv as a creative medium era il nome della storica mostra del 1963 a Wuppertal nella quale Nam June Paik presentò i famosi 13 distorted television sets).
"Altra televisione", che significa anche "controinformazione" (ovvero, l'altra storia della videoarte) quella promossa dai collettivi radicali anti-establishment statunitensi e canadesi (Raindance, Global village, General Idea, Ant farm) riuniti nella rivista "Radical software".
E' un fatto che la nascita del video coincida con una sentita volontà di pluralismo politico, di rivoluzionare i sistemi di informazione e i network di stato grazie alla relativa accessibilità del mezzo video e ai suoi bassi costi. Michael Shamberg che crea la prima televisione alternativa via cavo, la "TVTV", definì la televisione di guerriglia (questo è il titolo del libro da lui pubblicato nel 1971 considerato all'epoca uno dei manifesti del movimento alternativo), come "l'applicazione delle tecniche di guerriglia, di combattimento nel campo della comunicazione. La televisione di guerriglia lavora con la gente, si fa portavoce delle sue proteste e insoddisfazioni". Purtroppo lo spazio dedicato a queste esperienze di video militanza è, nel libro, decisamente sacrificato. Ne parla invece diffusamente Illuminating video. An essential guide to video art di Doug Hall e Sally Jo Fifer (nel capitolo che Deidre Boyle dedica al video documentario americano e alla storia delle "Comunity Tv" e delle "Street tv") e Simonetta Fadda, Definizione zero. Origini della videoarte tra politica e comunicazione (Costa e Nolan, 2000).
Anche la Francia (maggiore territorio d'interesse di Françoise Parfait) ha il suo movimento controculturale; all'inizio degli anni Settanta si costituiscono cooperative di produzione e collettivi video-militanti (Video out e Vidéo 00) che fanno capo a cineasti come Jean-Luc Godard e Chris Marker.
La guerrilla television diventa, a Parigi, la télévision sauvage.
Il libro mette, inoltre, in luce la relazione (diventata "classica") - tra similitudini e differenze, citazioni e prestiti - tra video e cinema, quello sperimentale e quello delle avanguardie: Léger, Duchamp, Moholy-Nagy, Vertov e il "new american cinema": Jonas Mekas a Stan Brakhage. "Il cinema di ricerca ha previsto il video", ricordava Sandra Lischi nel suo libro Cine ma video (Pisa, Ets, 1996), "la teorizzazione della potenza dell'occhio meccanico; la saturazione del quadro con stratificazioni di immagini; la scomposizione e moltiplicazione dell'immagine o degli schermi; le astrazioni; l'applicazione di dispositivi di visione particolare alla macchina da presa; la non-narratività; il lavoro non a partire da riprese ma direttamente sul supporto; la ricerca di forme e colori non naturalistici; la sperimentazione di nuovi spazi e nuove modalità di presentazione delle opere".
La specificità del medium video è rintracciata da Françoise Parfait nel tempo:
 
"La vidéo, technique temporelle par excellence qui fait partie de la catégorie générale des Time based media, c'est-à-dire un media défini par sa spécificité temporelle, a fortement affecté notre perception du temps et donc des représentations que nous pouvions en faire.
La vidéo, c'est du temps, dans sa structure meme, avant de l'etre dans ce qu'elle représente".

 
Gli artisti, insieme ad una sommaria descrizione delle loro opere o installazioni, non vengono presentati secondo un ordine cronologico, ma inseriti all'interno di numerose griglie tematiche:
- la temporalità (Bill Viola, Thierry Kuntzel, Peter Campus, Bruce Nauman);
- la telesorveglianza (Martial Raysse);
- l'effetto "quadro" o "mosaico" (Zbigniew Rybczynski, Peter Greenaway);
- il video-specchio (Dan Graham).
 
Per quanto riguarda le installazioni (il corpo del video) sono analizzate le diverse possibilità di relazione del "dispositivo" con l'ambiente e di interazione o di "inclusione" dello spettatore, nonché l'effetto prodotto dalla proiezione di luci e immagini nelle più svariate superfici.
Una brevissima sezione è dedicata anche allo spettacolo, agli schermi in scena. Riprendendo lo schema cronologico-storico e le argomentazioni di Béatrice Picon-Vallin (Les écrans sur la scene, Lausanne, 1999) la storia del video in scena è suddivisa in tre periodi:
- gli anni Venti in Germania e Russia (Mejerchol'd e Piscator);
- gli anni Cinquanta a Praga (Svoboda);
- gli anni Sessanta in America (Rauschenberg, Kaprow).
L'esempio (ancora un "classico") usato per mostrare l'uso del video a teatro è Il mercante di Venezia di Peter Sellars (1994), in cui la storia raccontata da Shakespeare di una "consuetudine" di antisemitismo e di ingiustizia sociale nella Venezia del '500 viene trasposta ai giorni nostri: i video in scena (in realtà veri e propri televisori) mostrano lo sguardo interiore, il dettaglio, il primissimo piano dei personaggi, mentre l'ebreo Shylock si difende in tribunale davanti a un televisore in cui scorrono le immagini del pestaggio da parte di poliziotti bianchi (poi assolti dai giudici di Los Angeles) del nero Rodney King ripreso casualmente da un videoamatore.
"La televisione", dice Sellars, "ha cancellato il poter emozionale degli eventi".
Arricchito da numerose immagini a colori tratte dalle opere (alcune delle quali analizzate nel dettaglio) che ne fanno una sorta di fotoracconto, il libro non sembra, però, mostrare "novità" né sul piano della teoria, né sul piano dell'impostazione generale, mentre la sintesi sacrifica purtroppo autori (non viene nominato nemmeno un artista italiano), mostra clamorose lacune bibliografiche (ancora una volta a farne le spese sono i critici italiani) ed elimina argomenti (tra gli altri, il rapporto tra video e musica o tra video e suono).

The Merchant of Venice by Peter Sellars at the Goodman Theater, Chicago. Photo: L.Lauren.


SEGNALAZIONI
 
# "Jet-NET", i giovedi tecnologici del Forte Prenestino.
Secondo incontro del ciclo "Attivismo Digitale".
VIDEOATTIVISMO: teorie, pratiche, alchimie Introduzione alle tecniche di ripresa e di montaggio necessarie per trasformare la tua stupida telecamera in una potente arma mediatica.
Il programma dell'incontro prevede quattro fasi:
- etica del videoattivista;
- elementi di indy-organizzazione;
- ottica, formati, e dritte di ripresa;
- montaggio digitale e compressione per la rete.

A cura di IndyRoma e Candida Tv (Iokry -Cristina-e Hakkenden -Manolo-.
L'ultimo incontro del Jet-Net per il ciclo "Attivismo Digitale":
- [04/04/2002] - hacktivism (hacker Art)
More info: http://avana.forteprenestino.net
mailto: info@forteprenestino.net
 
#A_D_E- Art Digital Era. Festival Inteatro Polverigi (6/13 luglio 2002)
Concorso per WEB EXPERIENCES (termine iscrizioni: 29-04-2002)
Info e form: www.inteatro.it/ade
 
# Nuovo numero di "Computer e Internet" (n. 18, aprile-giugno 2002) dedicato a Musei virtuali, video arte e tekno-teatro con cd-rom allegato. Uno speciale (con profusione di testi e immagini a colori!) dedicato al progetto in corso di tecnospettacolo Storie mandaliche di Zonegemma con interventi di Verde, Balzola, Monteverdi. Sul sito www.x-8x8-x.net/zonegemma alcuni esempi di animazione in flash dello spettacolo.
Lunga intervista, inoltre, ad Antonio Caronia a cura di Anna Fata.
 
Segnaliamo inoltre Media Arts Newsletter curato da Katherine Jerkovic per Independent Film & Video Alliance (Montréal)
La newsletter informa mensilmente su concorsi video internazionali, finanziamenti per Festival, progetti, performance interattive, eventi, dell'America del Nord (Stati Uniti e Canada). Dal nuovo nuomero abbiamo selezionato:
 
* The Canada Council for the Arts. Dissemination Project Grants: The budget (new forms coming up) will have to indicate this, visit the Council's website by mid-April.
 
* Concorsi per opere video e film indipendenti
 
# Atlantic film. Fiction, documentary, animation or experimental of any length. Deadline: June 7, 2002.
 
# 14th Vancouver Queer Film + Video Festival: Films & videos by, for and about lesbian, gay, bisexual and transgendered. Deadline: April 18, 2002. mailto: programming@outonscreen.com
 
# Niagara Indie FilmFest (NIFF) Short - 30 min. max - films & videos of all genres. Deadline: April 19, 2002. T (905) 688-5550 ext. 3998
 
# 9th Annual Chicago Underground Film Fest: Independent, underground & experimental film and video. Deadline: May 1, 2002; late deadline: May 15, 2002.
 
# Hollywood Film Fest: Features, shorts, docs & animation. Deadline: March 31.
 
* Progetti:
 
# Ed Video Media Arts Centre seeks submissions by independent curators and established media artists for the Programming season of September 2002 - September 2003. Video, film, new media installation, audio & webcast presentations. Deadline: March 31 2002. For info contact Mary Cross at T (519) 836-9811; edvideo@albedo.net


 
London Calling

di Veronica Picciafuoco

The Sun is shining by Matt Wilkinson
The King's Head, Islington
Regia di Matt Wilkinson
Interpretato da Daniel York e Pauline Lynch
Direttore artistico: Paul Courtneay Hyu
Produzione: Soutre Gilmour
Luci: Simon Opie
Suono: Mike Walker

Si tratta di un teatro del presente fatto su misura per questa città adrenalinica, “pumping, throbbing, finger-snapping” dove si corre tutta la settimana in cerca di affermazione personale, adeguandosi ai ritmi del successo, scrutando computers, rispondendo ai telefonini, parlando di politica, odorando il sudore nei corridoi delle metropolitane, pensando global.
Dave, interpretato da Daniel York, dai tratti orientali che tradiscono le sue origini, in contrasto con la tipica parlata dell'East End londinese, è profondamente a disagio nei propri panni e cerca di apparire diverso piuttosto che accettare la propria identità.
Lorna, pittrice ex alcolista che con fatica lotta contro la sua dipendenza e le sue insicurezze, ha ancora la sensibilità di ascoltare, guardare, toccare veramente quello che le è intorno e dentro di sé.
Nasce tra i due una relazione, che può sembrare alquanto improbabile, Dave “nouveau riche-in-carriera” & Lorna artista volubile, eppure perfettamente affini nella loro crisi di identità. La loro storia nasce da un incontro casuale nella Londra “underground” e intraprendono una relazione che lentamente si sgretola tra liti casalinghe e all'estero. (Londra, Corfù, Reykjavik, New York). Il sole che sorge in quella notte e lentamente un giorno tramonta.
Il set, un piccolo palco in questo ambiente un po' retrè del King's Head (uno dei più antichi pub londinesi e tra i teatri fringe meglio reputati - tutti gli attori migliori di Londra hanno recitato almeno una volta nel piccolo teatro del King's Head e spesso le sue produzioni sono state trasferite nei teatri del West End), una pedana centrale e allungata, moderna ed essenziale, che lascia spazio all'immaginazione trasformandosi in un letto, un divano, un palco nel palco, una discoteca, una veranda sul mare. Nonostante la freddezza quasi asettica della scena, l'uso delle luci ne cambia facilmente l'atmosfera insieme ai suoni, come il rumore del mare, o la rimbombante musica funky-techno della discoteca, alternata alla musica cinese come ombra del subconscio di Dave.
Mentre il testo alimenta con le parole la loro relazione, Dave e Lorna sono stanziati ai lati opposti della pedana e i loro sguardi raramente si incontrano, ma proiettano pensieri, immagini, rancori e ricordi verso di noi , il pubblico. Questa attuazione rinforza la comprensione di questi due personaggi che raramente riescono e fermarsi e guardarsi dentro o cercarsi e aiutarsi con l'altro, ma sono sempre rivolti al di fuori. I loro sguardi raramente si incrociano e ognuno porta avanti le proprie convinzioni e punti di vista contraddicendosi con il partner ma rispettando un tempismo perfetto nella battuta e risposta di questa partita a ping pong.
Monologhi alternati a dialoghi, dove il linguaggio ricco di allitterazioni, si sviluppa in un crescendo incessante, dove il ritmo inevitabilmente aumenta, la mandibola è obbligata ad aprire, scandire, articolare sempre più velocemente, le consonanti si susseguono sempre più taglienti lasciando lo spettatore col fiato sospeso fino all'esplosione, il punto culminante di questo crescendo e finalmente un punto.
A capo, ora lei in un altro virtuosismo che dà colore alle emozioni più delicate che il testo lascia trapelare. E poi il ritmo che si alterna come una retta di un grafico con picchi, pause, parabole, precipizi. Mi sono sorpresa a battere la mano sul tavolo per scandire il tempo come un metronomo, sempre più veloce.
Perfetta fusione tra regista che inscena la sua propria idea e incontra due interpreti eccellenti che ne colgono il ritmo.

“La forza trainante sono il ‘motore-bocca’ di Dave e lo strano senso di intimità che Lorna suggerisce.”
“The Stage”

“Il problema razziale non è affrontato in modo diretto e non né è il punto centrale della storia, Daniel York e Pauline Lynch sono entrambi splendidi, esibendosi in esibizioni incredibilmente diverse che si mescolano superbamente”.
“Time Out”

Una relazione tra oriente ed occidente con nessun posto dove andare e con tantissimi punti e virgola prima del punto finale. Lui declina, lei cresce. Lui tutto compreso nella sua piccola grande persona, lei vede oltre.
Quando si guardano negli occhi, lui nota a malapena quelli di lei, lei non si vede in quelli di lui.

***

Matt Wilkinson, autore e regista, ha seguito gli studi di drammaturgia presso RADA e fa parte della compagnia MU-Lan dal 1988. Sun is shining, il suo primo testo per il teatro, è stato presentato per la prima volta nel settembre 2000 dal Mu-Lan in collaborazione con il Royal Court in occasione del programma di nuovi scrittori teatrali.
Questa produzione è unica anche per il fatto che vi si fosse associato un programma educativo che offriva stages liberi nelle varie scuole della contea di Deptford, culminando in una anteprima per gli studenti prima della presentazione ufficiale al King’s Head.
Mu-Lan Theatre è stato fondato nel 1988 ed è la prima compagnia “British-Oriental” che ha vinto un award. Cercano di diffondere il teatro/cultura Orient-British e promuovono i testi scritti da cinesi nati e cresciuti in UK.


Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
copyright Oliviero Ponte di Pino 2001, 2002