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(41) 02.09.02

ATTENZIONE

Continuano a crescere le adesioni al documento finale degli incontri Nuovo teatro vecchie istituzioni: le trovate sul forum Nuovo teatro vecchie istituzioni (e come avremmo dovuto chiamarlo?)
Lo spazio è ovviamente aperto alla discussione; il forum è anche una bacheca per segnalare iniziative, incontri eccetera.
Ma serve anche a mappare il nuovo teatro italiano, in linea con quanto annunciato nell'editoriale di ateatro 39-40 firmato da Federica Fracassi, Massimo Paganelli e Oliviero Ponte di Pino.
Nel forum anche il documento dei gruppi di produzione dopo l'incontro di Ravenna del 20 agosto.
 

L'EDITORIALE

Quale tipo di scrittura possiamo usare oggi per parlare di teatro?
Quotidiani e settimanali (ovvero la stampa che raggiunge il grande pubblico), salvo casi eccezionali, conoscono principalmente due forme di comunicazione e informazione sul teatro, ciascuna con i propri codici e regole: la recensione e l’intervista, entrambe con forti vincoli di spazio ma anche con tutti gli obblighi che derivano da una missione informativa. Negli ultimi anni lo spazio per le recensioni è andato diminuendo, a favore delle interviste - ovvero di informazioni diffuse direttamente dagli interessati - diminuendo dunque la qualità >>>
 

INDICE

Le vacanze sono finite e l’implacabile ateatro riprende il suo ritmo.
Per cominciare, Oliviero Ponte di Pino ha visto a Edimburgo il nuovo monologo di Steven Berkoff Requiem for Ground Zero e rilancia la riflessione sul teatro di guerra (di cui si parla da tempo anche nei forum...).
Poi è tempo di Metamorfosi: Giorgio Barberio Corsetti debutta il 12 settembre con la sua messinscena del capolavoro di Ovidio alla Biennale di Venezia e Chiara Ferrari offre una appassionata scheda sul regista romano.
Ma c’è un’altra Metamorfosi in giro per l’Italia, oVMMO : : ovidiometamorphoseon, la session per tecnologie audio e video di e con Mauro Lupone, Massimo Magrini, Marco Sodini e Giacomo Verde - e ce la racconta con occhio complice Alessandra Giuntoni. (A proposito, vi ricordiamo anche in ateatro 34 le info sul lavoro di Jean-François Peyret et Alain Prochiant, La Génisse et le Pythagoricien da Le Metamorfosi di Ovidio
Ma non è tutto:
# Giovanni Guerrieri recensisce L’officina del teatro europeo. Vol. I: Performance e teatro di parola a cura di Alessandro Grilli e Anita Simon;
# Francesco Niccolini se n’è andato in Svizzera a vedere l’Expo.02: forse non è teatro, ma noi che cosa è davvero il teatro lo stiamo ancora scoprendo;
# Francesca Lamioni arriva alla seconda puntata del suo saggio sul Teatro yoruba.
E poi notizie, segnalazioni, info...
 

NEWS

(ma intanto andate a cercarle - e mettetele - anche nei forum...)
 
CRISALIDE
festival di teatro
the problem of increasing human energy

IX edizione # IMPASSE CREATIVA
26, 27, 28, 29 settembre 2002
Bertinoro, Forlì, Fratta Terme

organizzazione e cura: masque teatro
col contributo di: Regione Emilia-Romagna, Provincia Forlì-Cesena, Comune Bertinoro, Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì
 
IMPASSE CREATIVA studio
Nella scorsa edizione del festival il seminario di studio, momento centrale della manifestazione, PENSIERO-OCCHIO, poneva alle sette compagnie ospiti, una importante domanda: “che cosa c’è di irriducibile nella tua visione del mondo”?
L’edizione di quest’anno, come seguito naturale della riflessione sul VEDERE, affronta un tema fondamentale quanto delicato inerente l’atto artistico: il blocco, il vuoto, lo
smarrimento che incalzano continuamente, nel dare vita a ciò che ancora non esiste. L’azione artistica è un gesto composito che crea intorno un movimento, sposta le cose, ridefinisce gli spazi, confonde i contorni, e dunque sconvolge delle visioni e provoca impasse, all’interno e all’esterno. Riflettere, a partire dal proprio soggettivo concetto di CREAZIONE, sullo stato dell’IMPASSE che la creazione stessa genera. Le giornate di studio cominceranno venerdì 27 fino a domenica 29.
Saranno presenti a discutere il tema: Francois Tanguy e Laurence Chable (Theatre du Radeau), Raimondo Guarino, Antonio Attisani, Antonio Caronia, Egum teatro, Terzadecade, masque teatro.
La partecipazione alle giornate di studio va comunicata tramite iscrizione gratuita alla segreteria del festival:
 
IMPASSE CREATIVA laboratorio
Egum teatro dai primi giorni del mese di settembre sarà ospite del festival, e lavorerà nella Palestra di Fratta Terme, per terminare la nuova creazione che debutterà al festival. Durante i tre week-end precedenti il debutto sarà possibile assistere al lavoro di creazione e composizione dello spettacolo.
Regia, lavoro con gli attori, allestimento, suono, voce, luce, testo, relativi al lavoro di Egum teatro su QUARTETT di Heiner Müller.
“Quartett per noi è un zona di gioco, un luogo dove si agisce e quello che si vedrà è questa azione. E siccome il teatro è questo agire, non si può fare finta, si deve fare e basta. Dunque ogni giorno uno spettacolo o nessuno. Abbiamo bisogno di occhi presenti, possibilmente nuovi che possano creare disagio, instabilità, non vogliamo un teatrino dell’esibizione. Concretamente il lavoro è aperto sempre. A chiunque.”
Egum teatro
 
masque teatro
laboratorio sulla composizione
“la zona è forse un sistema complesso di trabocchetti, e sono tutti mortali. Quando arriva l’uomo, le cose si complicano. La zona in ogni momento è proprio come l’abbiamo creata noi, come il nostro stato d’animo. A me sembra che faccia passare solo quelli che possono diventare indifesi come bambini, perché debolezza è potenza; rigidità e forza sono compagni della morte, ….che pace, sentite? Sarebbe meglio piantare tutto e venire qua, per sempre”
 
Giornate di laboratorio aperte al pubblico:
Egum teatro 7-8; 14-15; 21-22 settembre
palestra di Fratta Terme; orari da definire
masque teatro 7-8; 14-15; 21-22 settembre
Ex-filanda, via Orto del fuoco, 3 Forlì
partecipazione gratuita
 
IMPASSE CREATIVA spettacoli
Egum teatro - QUARTETT di Heiner Müller
Palestra della scuola elementare di Fratta Terme (Bertinoro)
26 settembre ore 21
27 settembre ore 23
28 settembre ore 21
29 settembre ore 21
masque teatro - POSTANOVŠCIK
Ex-filanda via Orto del fuoco, 3 Forlì
posti per n. 12 spettatori - prenotazione obbligatoria
26 settembre ore 23, ore 24
27 settembre ore 21, ore 22
28 settembre ore 23, ore 24
29 settembre ore 23, ore 24
Guigou Chenevier - concerto per n. 30 spettatori - prenotazione obbligatoria
Area Sismica Meldola
27 settembre ore 23, ore 1
29 settembre ore 23, ore 1
 
info
masque teatro
0543.370506
fax 0543.456239
e-mail masque@masque.it
 
tramedautore festival della nuova drammaturgia italiana
seconda edizione
dedicato a Remo Binosi
Milano, dal 9 al 22 settembre 2002
BETTY (Vintage) di Remo Binosi, l'autore di teatro scomparso prematuramente il 29 giugno di quest'anno, aprirà il festival lunedì 9 settembre al Teatro Studio.
I suoi compagni di lavoro, la sua famiglia e noi, vogliamo ricordarlo con quest’opera che Remo aveva seguito oltre la scrittura.
BETTY (Vintage)
di
Remo Binosi
a cura di
Francesco Migliaccio
realizzato e interpretato da Maria Ariis, Carla Manzon, Francesco Migliaccio
in collaborazione con il C.S.S. di Udine
Milano, Lunedì 9 Settembre - ore 20.30 - TEATRO STUDIO
 
Anticipazione: "CUT UP" settembre 2002
Sarà pronto a settembre il nuovo numero di "cut up", assolutamente imperdibile per gli amanti del grande fumetto mondiale: protagonista assoluto di questo numero Ashley Wood (Hellspawn, Sam and Twitch, PopBot). Illustratore e disegnatore dalla tecnica sopraffina che ha scelto "Cut Up" per presentarsi e raccontarsi al pubblico italiano in una lunga intervista raccolta da Andrea Campanella. Sua è la copertina originale e suo l’allegato con materiale inedito (come già era stato per due protagonisti assoluti del fumetto: Palumbo e Igort). Interviste anche per i John Bolton e Baru. Completano la sezione comix la solita dose di speciali, redazionali e recensioni . Uno speciale homevideo dedicato alle proposte della etichetta Rarovideo, Reportage dalla mostra napoletana dedicata a Alexandro Jodorowsky a cura di Fabio Nardini.
Speciale e intervista al collettivo Wu Ming.
Ritratti musicali per Aphex Twin e Piero Piccioni, intervista a John Foxx, mitico leader degli Ultravox. Per le icone del xx secolo intervista a Moira Orfei (con foto di Jacopo Benassi). Per il teatro Motus: Anna Maria Monteverdi racconta il loro omaggio a Genet con un originale fotoromanzo/fotoracconto dallo spettacolo Splendid's nella versione realizzata al Plaza Hotel di Roma.
Reportage corposo sul FAR EAST FILM FESTIVAL di Luca Pili. Ancora: cinema, musica, editoria indipendente, tecnologia militante, hacker art e activism, con gli interventi di Tatiana Bazzichelli, Tiziana Lo Porto, Filippo Conte, Andrea Bellucci, Alberto Conte.
 

Grafica di Armando Rossi.
 
Il disco
Poesia: Lombardi & Riondino all'Inferno
L'avete ascoltato il CD della Commedia con le voci di Sandro Lombardi & David Riondino e la chitarra di Giorgio Albiani? Per me è bellobello (ma non sono obiettivo). Voi che ne pensate? Se volete saperne di più, sul sito della Garzanti Libri troverete qualche spiega, un paio di foto del maestro Maurizio Buscarino (a propo, avete guardato-letto il suo ultimo libro?) e una track lo-fi in anteprima.

L'EDITORIALE

Quale tipo di scrittura possiamo usare oggi per parlare di teatro?
Quotidiani e settimanali (ovvero la stampa che raggiunge il grande pubblico), salvo casi eccezionali, conoscono principalmente due forme di comunicazione e informazione sul teatro, ciascuna con i propri codici e regole: la recensione e l’intervista, entrambe con forti vincoli di spazio ma anche con tutti gli obblighi che derivano da una missione informativa. Negli ultimi anni lo spazio per le recensioni è andato diminuendo, a favore delle interviste - ovvero di informazioni diffuse direttamente dagli interessati - diminuendo dunque la qualità dell’informazione indipendente.
Le riviste di teatro - che hanno tempi di realizzazione assai più lunghi, una diffusione minore e crescenti difficoltà di distribuzione - fanno ricorso sistematico alla recensione, ma possono sperimentare altri generi: per esempio l’inchiesta o saggi di più ampio respiro.
In tutti i casi, però, si tratta di una comunicazione fondata su un presupposto di autorevolezza - più evidente nelle riviste in vario modo legate all’accademia, ma implicito in tutte le comunicazioni che usano la carta come hardware - che impone modalità di comunicazione inevitabilmente rigide e strutturate, sia nella forma sia nel rapporto con il destinatario.
La carta stampata prevede il diritto di replica, nella forma di lettere alla direzione o alla redazione, ma questa comunicazione bidirezionale prevede anch’essa una precisa ritualità e codici di accesso impliciti ma ugualmente limitati.
Internet offre rispetto alla carta stampata alcuni vantaggi: non ci sono per esempio limiti di spazio; la pubblicazione è istantanea (e permette dunque di intervenire sull’attualità) e gratuita, e al tempo stesso permette di costituire con il tempo archivi assai vasti (nel giro di pochi anni, olivieropdp e ateatro hanno messo a disposizione centinaia di saggi, articoli e interviste, consultabili in ogni momento); rispondere e intervenire è assai facile (attraverso i forum, dove è possibile pubblicare istantaneamente); il principio di autorità conferito dalla carta stampata è molto indebolito, e l’autorevolezza va conquistata personalmente, in campo aperto.
Di conseguenza su internet anche le forme possono essere molto più libere e aperte (ma non è difficile trovare dei precedenti anche sistematici: il Patalogo, per esempio, è stata senz’altro una palestra aperta alle innovazioni). Internet sottopone qualunque opinione allo scrutinio pubblico e alla discussione, senza mediazioni.
(C’è un piccolo inconveniente, per ora è tutto gratis, vi beccate questo ben di dio senza sborsare un cent, ma la perfezione non è di questo mondo - e poi noi siamo ricchi dentro.)
ateatro sta provando a esplorare le possibilità offerte da questo nuovo medium, applicate a un oggetto come lo spettacolo dal vivo, con la massima libertà possibile. E qualche regola.
La prima regola è quella di non seguire le norme inventate per comunicare bene su internet. La seconda è avere ogni volta qualcosa da dire - insomma, confrontarsi con il teatro come oggetto di emozioni e di pensiero. La terza è che per vedere se è possibile, bisogna provarci. E ci proviamo. Chissà, pian piano potremo inventarci una redazione, e magari inserire più immagini, più audio, più video.
Nel frattempo ci stiamo divertendo - e speriamo che vi divertiate anche voi che ci leggete.


Lo spettacolo dell'11 settembre
Requiem for Ground Zero di e con Steven Berkoff
al Festival di Edimburgo

di Oliviero Ponte di Pino

Certamente uno degli spettacoli più discussi nella torrenziale offerta del Fringe al Festival di Edimburgo 2002 è stato il monologo di Steven Berkoff Requiem for Ground Zero, presentato alle Assembly Rooms e probabilmente destinato a essere ripreso a Londra nella prossima stagione.
Berkoff è da tempo uno dei protagonisti della scena inglese, come attore, regista, scrittore e drammaturgo fuori dai canoni, dotato di notevoli qualità tecniche e di un autentico talento di provocatore. Un suo spettacolo dedicato agli eventi dell’11 settembre si presenta come un evento - anche perché l’autore-attore affronta il tema nella maniera più esplicita e diretta: attraverso un racconto di quello che è successo quella mattina, “September eleventh at eight forty five a.m.”, come dice il primo verso.

Prima ancora di entrare nel merito del monologo di Berkoff, vale la pena di affrontare alcune questioni preliminari. O meglio, la questione preliminare. Con quale forza e legittimità il teatro può portare in scena un evento storico di questa portata? E’ una questione che il teatro e in generale la cultura occidentale affrontano da sempre: dai tempi dei greci, che dopo I Persiani smisero di affrontare nelle loro tragedie eventi troppo vicini a loro (per filtrarli piuttosto attraverso vicende e situazioni riprese dal repertorio della mitologia), fino alla domanda di T.W. Adorno sulle possibilità della poesia dopo Auschwitz e al successivo dibattito (basti pensare alle riflessioni di Primo Levi in I sommersi e i salvati).
Sui due piatti della bilancia, si possono pesare molti pro e altrettanti contro.
E’ chiaro che di fronte al dolore autentico, a qualunque dolore, le nostre parole sono impotenti, vacue. Rischiano di apparire inadeguate e - ancora peggio - frivole, perché l’arte, per sua natura, malgrado ogni proclamato rigore, punta sempre a una certa piacevolezza, oltre che a una maestria che può apparire virtuosismo.
Quando ci troviamo di fronte all’orrore assoluto, alla rivelazione del male, alla cancellazione del senso, quando ci confrontiamo con la Shoah o con la distruzione delle Twin Towers, il divario appare ancora meno colmabile. Che possiamo dire? Ogni spiegazione, ogni racconto appare inadeguato, minuscolo, velleitario di fronte alla sofferenza infinita delle vittime. Ma anche senza confrontarsi con tragedie di questa portata (e persino il termine tragedia, il più iperbolico che l’estetica abbia saputo concepire, appare così inadeguato, futile, elusivo), già di fronte a episodi storici meno devastanti lo sguardo dei contemporanei appare spesso miope, privo di quella distanza che pare necessaria a uno storico per non considerarsi un giornalista (Ma quanti anni servono prima di poter fare storia? Venti? Venticinque?)
A livello più volgare, in quest’epoca di ipocrisie collettive non possono mancare i sospetti di miserabili speculazioni: le televisioni pullulano di artisti che, sfruttando emozioni massificate e inalberando qualche causa politicamente corretta, si ripuliscono l’immagine.
D’altro canto, accettare il nostro silenzio è una dichiarazione di sconfitta, proprio di fronte all’orrore che abbiamo il dovere di combattere, proprio di fronte a quell’assurdo che vogliamo scardinare. Di fronte al trionfo del nulla e della morte, noi abbiamo il dovere di testimoniare: l’artista è uno dei custodi della memoria. In questo, i testimoni privilegiati - e forse gli unici legittimati a testimoniare - sono ovviamente le vittime; ma chi può dare voce alle vittime silenziose? E come tenere vive, in ogni caso, quelle voci preziose? La realtà, da sola, è muta, trovarne il suono e il senso è un compito arduo, che va ripreso e rinnovato ogni giorno.
Ancora, è vero che ogni dolore (così come ogni emozione) è personale e dunque incommensurabile e incomunicabile, ma proprio l’arte si è da sempre assunta il compito di rendere i sentimenti condivisibili. Si tratta dunque di dare al grumo che ci agita una forma, un linguaggio. Creare una serie di convenzioni e di gesti in cui una comunità possa riconoscersi - e partendo da lì, plasmare e incanalare le energie e le emozioni collettive.
A questa funzione rituale (a cui rimanda peraltro esplicitamente il titolo di Berkoff) se ne affianca una più direttamente e banalmente politica. Di fronte a eventi storici che cambiano la vita di una collettività, è inoltre necessaria una riflessione pubblica, che non è solo una discussione storica o politica, ma un tentativo di costruire un senso comune. In questo, l’artista ha l’arrogante e generosa missione di usare il proprio io (con tutte le sue facoltà culturali, intellettive, emotive, e anche fisiche) per dare una misura di quello che sta accadendo alla società in cui vive. E anche (eventualmente) per esprimere la propria posizione politica e offrirla al pubblico dibattito (e anche qui correndo il rischio di apparire didascalico, ideologico, manipolatorio nei confronti del pubblico).

Alla fine, la nostra bilancia pare dare una risposta pragmatica e precisa: se qualcuno ha il coraggio (o l’incoscienza) di fare un’opera del genere, e se qualcuno avverte la necessità di ascoltarla, allora vuol dire che è possibile fare poesia anche su eventi di questo genere. Ma anche in questo caso, è una risposta a metà, che vale solo per il nostro qui e ora: come possiamo sapere che peso avranno quelle parole tra cinquant’anni, o cento? Qualcuno - a parte gli storici e i filologi - sentirà ancora il bisogno di leggerle, di ascoltarle? Manterranno la loro capacità di trasmetterci un’emozione?

Il monologo di Berkoff è composto di quartine di pentametri giambici; molto spesso il primo e il terzo verso oppure il secondo e il quanto verso di una quartina rimano tra loro. Il testo è ricco di metafore, a cominciare da quella più facile: i due aerei dirottati sono “two great birds”, due grandi uccelli. E’ punteggiato di riferimenti colti, da una formula rubata a Romeo e Giulietta all’inevitabile citazione di Prometeo. Anche New York viene raccontata attraverso alcuni dei suoi monumenti culturali, da Gershwin a Shakespeare a Central Park passando per lo Yankee Stadium (anche se vengono citate pochissime icone dalla cultura pop).
Al tempo stesso, a cercare un effetto di verità, il poema riprende molti dettagli quotidiani, a volte convenzionalmente realistici, come il bacio sulla porta alla mattina, dopo i corn flakes e il caffè. Riecheggiano i nomi di alcune vittime, e quello del capo dei dirottatori Mohammed Atta, e quello del pilota John Ogonowski. Ci sono alcuni episodi che abbiamo tutti letto sui giornali, come quello dell’ultima telefonata dal cellulare di un passeggero che dava l’ultimo addio ai suoi cari.
Si tratta di un mix estremamente sapiente e controllato, ricco di sottili effetti retorici. E corrisponde in pieno alla recitazione di Berkoff (antico allievo, peraltro, del mimo Jacques Lecoq). Vestito di nero sul palcoscenico nudo, illuminato dall’alto, scandisce il racconto con gesti incisivi e precisi, a dare sostanza visiva alle immagini e alle metafore del testo. Anche in questo caso, a stupire è un controllo virtuosistico del corpo - il volto, le mani e le braccia. E’ una tecnica che riprende la lezione dei teatri orientali (il modello più evidente è il kathakhali) e al tempo stesso aggiunge una dimensione epica al racconto.
Sono dunque immediatamente in atto diversi effetti retorico, che danno una forma a un grumo di eventi amplificati e moltiplicati all’infinito dai mass media. Cercano di inserirlo nella griglia di una precisa (e raffinata) tradizione culturale - che è poi quella dell’autore, che circa a metà della narrazione si mette personalmente in gioco (e in scena), quando ricorda dove era al momento dell’impatto: a Oxford, non lontano dal museo in cui si possono ammirare disegni di Michelangelo e Raffaello, dove in quei giorni “My irony, we play the death of Christ”.
(Certo, per quasi tutti noi la vita è più importante dell’arte, ma per altri l’assoluto è un’emozione estetica, altrettanto indicibile...)

Come ogni requiem, anche questo è ovviamente dedicato alla vittime: dal monologo emerge un autentico coro di volti, voci e storie bruscamente e ingiustamente interrotte. Un secondo protagonista è il dirottatore Atta, il carnefice. Il terzo è Berkoff, e attraverso di lui il suo pubblico, noi, i sopravvissuti, la cui vita (e l’immagine del mondo) è stata colpita nel profondo. Che solo per caso non ci siamo trovati al posto delle vittime - su uno degli aerei, al nostro posto di lavoro. Noi, che potremmo essere vittime innocenti di un prossimo attentato.
Polarizzando l’attenzione su questo triangolo, su queste tre individualità, Berkoff non si pone molte domande sulle molteplici cause e sulle ragioni storiche (economiche, politiche) di quella mattina di folle terrore. Il problema è ridotto al fanatismo religioso di alcuni islamici, cui si contrappone il desiderio di vendetta del cowboy Bush, in cui interventismo militare è oggetto di una feroce e godibile caricatura (in questo lo spettacolo si è inserito polemicamente nell’attuale dibattito politico sull’opportunità della guerra all’Iraq, visto che non viene risparmiato neppure l’alleato di ferro Tony Blair).
La versione originale (a stampa) si concludeva con una arringa anti-Bin Laden, “the god of death”, “just like the Satan”, e proclamava il diritto di tutti noi “to live our lives in peace / By common consent with all humanity. / Mankind must offer shelter to all faiths: / We were humans before we had a creed”. (Di questa impostazione “teologica” resta tuttavia nel testo una traccia evidente. Dio viene infatti chiamato in causa spessissimo: “One hundred and ten floors up, you can see God’s heel”; “You God or something, you our destiny?”; “With fundamentalist insanities / Like God is mankind’s unforgiving foe”; “How easily we use the name of God”; “We know God weeps for all her souls who die / Before their rightful, fruitful years are spent” eccetera eccetera.
Nello spettacolo di Edimburgo, l’alternativa alla guerra è un invito alla pace e alla tolleranza, previa rinuncia al fanatismo religioso, in nome dei comuni valori dell’umanità: molto efficace sulla scena, condivisibile in tutto e per tutto, ma anche generico e inefficace sul piano politico.
E’ una scelta determinata forse anche dalle feroci polemiche suscitate da un lavoro dove l’esplicita polemica politica si intreccia con una riflessione di carattere più generale, quasi metafisico, sul valore della tolleranza e sul rifiuto del fanatismo religioso. E’ forse nel rapporto irrisolto tra questi due piani che lo spettacolo tradisce la sua maggior debolezza, riscatta da una interpretazione meticolosa ed energetica, anche se caratterizzata - così come l’intero testo - da una formalismo estetizzante.
 
Steven Berkoff (1937), inglese, è attore, regista e autore di vari testi autobiografici. Dopo aver studiato tra l’altro con Jacques Lecoq a Parigi, nel 1968 è tra i fondatori del London Theatre Group, che si afferma con una serie di adattamenti caratterizzati da partiture gestuali di grande rigore, su testi di F. Kafka (La colonia penale, 1968, La metamorfosi, 1969, in seguito interpretato da R. Polanski, Il processo, 1970), W. Shakespeare, Eschilo ed E. A. Poe, con un allestimento di La caduta della casa Usher (1970) replicato anche al National Theatre. Nei suoi testi, affronta tematiche e situazioni contemporanee utilizzando forme classiche, con effetti insieme parodistici e rivelatori: in East (1975) ripercorre la sua adolescenza londinese tra il blank verse shakespeariano e gli slogan dei tifosi di calcio; Greek (1979) racconta della vita di coppia nella società dei consumi riecheggiando la tragedia greca; Decadence (1981) è una satira dell’upper class. A Kvetch (1987) e Acapulco (1989), segue Requiem for Ground Zero (2002). Le sue interpretazioni (tra cui diversi monologhi-collage tratti da W. Shakespeare) sono caratterizzati da un’intensa presenza scenica, da una voce profonda e graffiante e dalla padronanza di una gestualità precisamente codificata. Come regista firma due fortunati allestimenti di Coriolano (1989) di W. Shakespeare a New York e Salomè (1989) di O. Wilde a Dublino e Londra.
 
Sul sito di Steven Berkoff ampi brani del testo (in inglese).
 
Le recensioni di Oliviero Ponte di Pino a Decadence e Alla greca nelle messinscene dei Teatridithalia.
 
Il sito del Festival di Edimburgo.
 
Il sito del Fringe.


Descrizioni d'interni
Una nota sul teatro di Giorgio Barberio Corsetti
di Chiara Ferrari

C’è sempre un nuovo spettacolo da fare fortunatamente. Finire uno spettacolo, porre un termine è una contraddizione assoluta, come voler significare un movimento stando assolutamente fermi, o uno sognando con le palpebre chiuse. Eppure dolorosamente si taglia il flusso, si pone un blocco e si ammassa, si ordina e si sviluppa, si costruisce e si lavora, insomma. Si lavora attorno a qualcosa che è la negazione del lavoro, che è sofferenza o rapimento, mai fatica, eppure diventa fatica. E man mano che si stringe ci si sente dei ciarlatani, perché sembra che tutto sia perduto. Fortunatamente qualcosa resta.
Giorgio Barberio Corsetti

 
Il teatro di Giorgio Barberio Corsetti è un flusso di materia che, alternando lo stato liquido a quello gassoso, si modifica e dà luogo ad uno scorrere vitale ed inarrestabile e, con esso, al trapassare dei significati e delle forme, in nuovi significati ed altre forme. Ogni singolo aspetto ne è la conferma: l’elaborazione di uno spazio scenico sempre mutevole, per esempio, risultato di una profonda riflessione intellettuale, che tiene conto della scenografia, (casa o tana che sia) come dimensione da abitare, da indossare sul corpo e da vivere, rivelando, in questo, una forte carica metateatrale, perché il teatro è il luogo dell’esistere: è protezione, rifugio, schermo illusorio; e del luogo, come porzione di spazio, da adibire simbolicamente ad altro, ad una parte di mondo o di corpo attorno a cui costruire percorsi.
Al periodo della Post-Avanguardia (metà anni ’70) appartiene l’idea dello spazio come concezione esistenziale (“spazio utopico”, “spazio illusorio”), luogo privilegiato in cui inscenare lo scontro diretto con la realtà; la sua definizione diventa precisa scelta politica che sottintende la messa in discussione delle regole, implicita, per esempio, nello sconfinamento dal luogo scenico deputato e nell’utilizzo di prospettive sghembe, alteranti la visione dello spettatore e la tradizionale demarcazione tra scena e platea (Cronache marziane,1977).
Gli spettacoli realizzati in collaborazione con Studio Azzurro (Prologo, 1985, Correva come un lungo segno bianco, 1986, La camera astratta, 1987), nati sulla scia delle prime sperimentazioni video, prodotto della logica post-moderna, e risultato della profusione dei codici sottoposti all’estetica della ripetizione, sono giocati sul rapporto tra spazio reale e spazio illusorio creato dai monitor. Essi danno corpo ad uno “spazio organico” (Valentina Valentini), organismo pulsante all’interno del quale si ricompone l’unità di psichico (il pensiero) e fisico (il corpo, la materia), compressi all’interno di una stessa dimensione: sostanza viva (corpi-voci-suoni) e forma inerte (simulacri-oggetti-immagini tecnologiche). In queste sperimentazioni il monitor è il generatore di uno spazio illimitato, capace di alterare la normale percezione delle profondità e della prospettiva al punto da dare consistenza ad una realtà astratta (La camera astratta) come lo spazio mentale, lo spazio del pensiero, o come la dimensione interiore. L’opera-video è, infatti, la rappresentazione in termini concreti di uno spazio totalmente indefinito: quello del pensiero di un soggetto, che agisce in uno stato di sospensione temporale. E la scelta dell’inquadratura costituisce ancora una scelta politica, poiché mostra una porzione di mondo piuttosto che la sua totalità.
Con Descrizione di una battaglia (dai Racconti di Franz Kafka, 1988) un muro bianco viene a rappresentare la tana all’interno della quale ci si rifugia: è lo spazio dei conflitti, delle angosce e delle paure; apparentemente solido, si dimostra presto tarlato e pieno di cunicoli: i percorsi sotterranei di quella dimensione interiore in cui ci si addentra per nascondersi, ma dove alla fine “tutto invece rimane immutato”.
America (da Franza Kafka, 1992) circoscrive le tappe di un viaggio iniziatico che si realizza nelle forme di uno spettacolo itinerante, all’interno del quale viene attivata una dinamica comunicativa che, ancora una volta altera il normale rapporto dello spettatore con la scena, secondo percorsi non inediti al regista romano, ma ora arricchiti di un senso forte che tiene conto dei significati, e che immerge lo spettatore nel preciso gioco identificatorio di una laica via crucis.
Con Il processo (da Franz Kafka, 1998), gli spettatori sono di nuovo invitati a seguire le spire di un procedimento, che è un procedere per scene, tappe, luoghi e momenti dell’esistenza di un protagonista, collocato all’interno di un universo ricostruito secondo coordinate puramente mentali, in cui l’esterno è la proiezione di un mondo interiore, popolato di fantasmi e figure distorte, ed in cui lo spettatore ha facoltà di insinuarsi per sbirciare tra gli angoli di una città della mente, trasportato da gradinate mobili.
Come lo spazio, anche il corpo è sottoposto ad alterazioni che investono la dimensione fisica e mentale dell’attore; in accordo ai principi della danza, e soprattutto alla considerazione di esso come il più eloquente strumento di comunicazione, il corpo è vessato, spezzato, scomposto, gettato a sfidare le leggi di gravità. E’ un corpo fatto di carne e che parla un linguaggio denso, di una carica selvaggia e sensuale, quasi animalesca, un corpo che si trasforma, presente anche in veste di ombra asettica e di simulacro silenzioso (nelle proiezioni o all’interno dei monitor); un corpo che si esprime attraverso un codice di gesti, rivestito di un tessuto analogico e poetico (Il legno dei violini, 1990 è un saggio di teatro-danza); un corpo che dà consistenza a personaggi, figure-funzioni-metafore dal carattere sfaccettato e poliprospettico, forme fluttuanti che giocano a confondersi nell’ambiguità di un’identità variabile e multipla, perennemente in bilico tra la perdita di sé e la perdita di gravità (la Signorina, il Vicino de Il legno dei violini, le figure femminili de Il processo, il Karl di America, il doppio de Il corpo è una folla spaventata, 1996...). Ma, soprattutto, ci sono l’ironia e il disincanto, (proprie soprattutto degli anni de La Gaia Scienza), che altro non sono che le prospettive distorte e alterate della realtà, giocose e divertite, ma spesso celanti una dimensione più angosciante e claustrofobica (il senso di smarrimento e la perdita di equilibrio dei corpi a testa in giù, la claustrofobia prodotta dallo sforzo degli stessi corpi incastrati nelle scatole dei monitor, da cui cercano di evadere in La camera astratta, il senso di soffocamento espresso dai corpi che strisciano lungo i cunicoli interni di una tana di gesso in Descrizione di una battaglia, l’oppressione e la costrizione fisica e psicologica che si percepisce all’interno della casa-armadio de Il legno dei violini...). E poi: l’uso degli oggetti come metafore essenziali su cui scorrono significati mutevoli e incostanti; le macchine sceniche, giostre che spesso ingabbiano il corpo divenendone una tragica estensione; il canto e la musica come testi primari; il video come sconfinamento e contaminazione; il senso e il non-senso; la dimensione interiore, della mente o dell’anima; la leggerezza impalpabile della poesia e la solida concretezza degli elementi primari: la terra, il fuoco, l’acqua, l’aria, il maschile e il femminile.
Sono gli assi portanti di un universo poetico che, nel tempo, si è sviluppato nella direzione di una ricostruzione del senso, dopo la fase dell’azzeramento, e che ha portato il regista-attore-autore romano, ad abbandonare le riflessioni più analitiche sul linguaggio e sui mezzi teatrali (in poche parole sui significanti), per aprirsi a considerazioni più ampie sui significati, sul valore e sulla funzione del teatro, sulla ricerca dell’identità (America), sulla profondità della dimensione interiore e dell’anima, o sul sacro (Graal). Questo è avvenuto anche grazie ad un particolare rapporto con la letteratura, segnato soprattutto dall’incontro-immedesimezione con Kafka, una delle “porte regali” attraverso cui entrare (o uscire) per accedere alla dimensione del “fuori del teatro”, ed utilizzare il linguaggio come veicolo di un messaggio o di un contenuto extralinguistico e, quindi, come strumento di riflessione sul mondo, o sull’individuo, di cui mettere a fuoco, ferocemente, le angosce e le paure.
Brevi cenni storici inquadrano l’itinerario artistico del regista romano attorno alle esperienze maturate nel contesto del fenomeno della Post-Avanguardia (nata intorno alla metà degli anni ’70 sulle ceneri dell’ormai istituzionalizzato Teatro-Immagine, si prolunga fino alle soglie degli anni ’80, quando essa diviene il prodotto del post-moderno, l’espressione polimorfa di quella che Maurizio Grande definisce “Nuova Babele”), insieme al gruppo storico La Gaia Scienza da esso fondato nel 1975 e successivamente sciolto nel 1984; un percorso che ha come punto di partenza il rigetto delle forme del teatro tradizionale, in accordo ad un’ipotesi di rifondazione totale dei codici, sulla base degli elementi primari, il corpo e lo spazio, elevati a medium di un discorso non-rappresentativo. Il percorso del regista si snoda lungo un processo di crescita compositiva segnata, dopo la lunga fase di afasia, dall’acquisizione della parola che, inizialmente si pone come voce narrante di un universo interiore, poi, sempre più, si rivela come veicolo e oggetto di scambio primario attraverso cui costruire un racconto, all’interno del quale viene messo in scena lo scontro con il reale, dando così, forma alla ridefinizione di un senso (America rappresenta il momento del passaggio, il confronto con una drammaturgia complessa come un romanzo di formazione, il desiderio di affrontare tematiche impegnative: l’ingresso nel mondo del lavoro, le responsabilità, l’età adulta, la ricerca di un posto in cui stare, e, con esse, l’adozione consapevole del racconto e della parola). Già con Prologo si esplorava il mondo della soggettività e del pensiero, attraverso la scrittura, luogo di contemplazione e finestra privilegiata attraverso cui guardare l’esterno, e per mezzo della voce del narratore che scopriva il paesaggio evocandolo con le parole di un viaggio interiore, quasi come se esso potesse esistere solo se nominato. Ma è solo con la scoperta dell’universo letterario che Barberio Corsetti dà voce e forma concreta ad un ‘Teatro totale’, un organismo strutturato e costruito attorno alla trascrizione scenica di una scrittura letteraria, contenente tutti gli elementi di un gioco complesso, stretti in una ideale fusione: il corpo, il personaggio, la scenografia, lo spazio, la letteratura, la parola che racconta, il video, i significati. E Kafka diventa il luogo perfetto di un incontro che scatena l’inevitabile immersione nelle profondità delle grandi angosce dell’io, per la fisicità di una scrittura che riesce a svelare quell’oltre celato e non immediatamente evidente; come un “codice di gesti” (W. Benjamin, Angelus Novus), un linguaggio geroglifico tracciato sul corpo o con il corpo, essa è perfettamente compatibile con il teatro di Barberio Corsetti, in cui il gesto agisce nella direzione di uno sfasamento rispetto al linguaggio, creando un’apertura, una piega, uno scarto, all’interno del quale si inserisce la possibilità poetica, quella che sa svelare significati sotterranei resi straordinariamente visibili spesso dall’ingrandimento di dettagli insignificanti, dalla serialità, dalle immagini distorte o spezzate riprodotte dalle video-installazioni.
Lo spettacolo Graal (adattamento da Chrétien de Troyes e Wolfram von Eschenbach, 2000), realizzato in occasione dell’anno giubilare, si pone come nuova tappa di un percorso di ricerca, che affonda le sue radici nella materia densa e perturbante del mito; pur con il consueto distacco ironico, da essa viene carpito il più profondo significato simbolico, secondo una personale visione del regista, che affronta la vicenda del Graal, delineando una prospettiva che mette in gioco la dimensione molto intima e personale della ricerca del sacro, inteso come contatto, profondo e silenzioso, con l’anima. “Il Graal è il cuore verso cui si viaggia per trovare il centro di sé stessi. Vorrei che attraverso l’emozione si cogliesse la tragedia del non essere in contatto profondo con il proprio spirito, della perdita del sacro che è in ognuno di noi”. (Giorgio Barberio Corsetti)
Il significato che lo spazio scenico assume nelle intenzioni di Barberio Corsetti, e cioè di luogo attraverso cui riflettere sul mondo, attraverso gli elementi costitutivi del Teatro, ha inserito lo spettatore nella condizione di affrontare un percorso a stazioni, attraverso cui ricostruire l’itinerario fisico e mentale che, sulla scia delle peripezie che capitano ai personaggi, lo invita ad interrogarsi sulle reali questioni poste in gioco: che cos’è il Graal, se non ciò che sfugge, ciò che non si può raggiungere perché non si è in grado di ascoltare la voce dell’anima? E che cos’è l’amore: un vincolo? Una schiavitù? Una prigione? Un’ossessione? Una forza annientatrice?
Con Woyzeck (di Georg Büchner, 2001) Barberio Corsetti si interroga sul rapporto tra l’umano e il bestiale, mettendo in discussione il concetto stesso di umano: il Woyzeck soldato-bestia, cavallo-asino e Maria-donna-lupa inscenano uno scontro di elementi primari giocato sullo sfondo di un teatrino da alchimista fatto di personaggi-metafora, a volte entità metafisiche, di scambi rapidi, di ossessioni: i frammenti ideali di una tragedia, contaminata dei segni di un disastro inevitabile. Uno spettacolo che parla del “dualismo tra natura ordinaria e altra natura, quella che si anima, che esprime i propri segni, decifrabili come una lingua nascosta, una natura in rapida degenerazione, una natura che diventa vuoto, silenzio e morte”. (Giorgio Barberio Corsetti).
Dopo l’esperienza francese de Le Festin de Pierre (da Don Giovanni di Moliere), in scena al Théâtre National de Strasbourg, e realizzato con gli attori del TNS, con il prossimo spettacolo atteso alla Biennale di Venezia (Metamorfosi di Ovidio, 12>14 settembre), Barberio Corsetti intende appropriarsi del linguaggio del circo, utilizzando corpi di attori-acrobati, per tornare a parlare di mito, inteso come momento di trasformazione, di passaggio tra mondi diversi, quello vegetale, animale, umano e divino, ed in cui il sacro rappresenta il segno tangibile di una inevitabile metamorfosi: “si raccontano metamorfosi, costellazioni splendenti che rimangono per sempre piantate nel cielo, salti, balzi animaleschi, inseguimenti acrobatici, uomini e donne trasformati in lupi, cervi, orsi, alberi. Un mondo fluttuante non ancora definito che si lascia pervadere da un sacro oscuro, lancinante, violento.” (Giorgio Barberio Corsetti).
 
Dagli archivi di olivieropdp,
# un'intervista a Giorgio Barberio Corsetti;
# La recensione di Oliviero Ponte di Pino a America, pubblicata sul "manifesto nel 1992:

Nel riallestire America a Milano (qualche mese dopo il debutto di Cividale e una edizione "indoor"), Giorgio Barberio Corsetti ha invaso il tessuto della metropoli. Zone di transito e passaggio (treni, stazioni) e zone in trasformazione (periferie degradate, capannoni in disuso, terrains vagues) fanno da sfondo all'odissea di Karl Rossmann in un'America immaginaria e profetica, e circoscrivono il flusso dei suoi vagabondaggi. Le avventure del giovane praghese, scacciato dalla natia Praga per aver sedotto una domestica, seguono tutte il medesimo schema: dapprima l'illusione (l'amicizia, la ricchezza, l'amore, il lavoro...), poi - come se riemergesse puntigliosamente l'antica colpa - la caduta. America è dunque il rovescio di un romanzo di formazione, una serie di variazioni sul mito del fallimento: non appena l'eroe sta per raggiungere un faticoso equilibrio, un embrione di identità, si ritrova nella trappola di doppi legami che rendono ogni sistemazione instabile e riaprono dolorosamente la ferita dell'abbandono. Dunque eccolo scivolare di nuovo, cacciato e sospinto verso un altro incontro, un'altra avventura.
Lo spettacolo segue questo beffardo e tragico percorso di iniziazione intessendo nel tessuto urbano parole, corpi e gesti che lo trasfigurano. Il porto di New York (dove Karl prende le difese del "fuochista", che verrà ugualmente punito) è il binario 1 della Stazione Nord, e il transatlantico è un treno. Lo stesso treno (con il suo carico di "normali" viaggiatori) porterà personaggi e spettatori verso i graniti e le porte automatiche della modernistica stazione della Bovisa, dove abitano lo zio d'America Jakob e la giovane e isterica Clara. Poi, visto che né i miliardi né l'aggressiva sensualità della ragazza fanno per lui, l'angosciato Karl si incammina verso un padiglione industriale di sorprendente verticalità: è l'Albergo Occidentale, dove troverà qualche invadente amicizia (materna e sororale) e un impiego come "ragazzo degli ascensori". Ma neppure il lavoro è il suo destino: Karl ricade nelle grinfie di due vagabondi, piccoli criminali, e della cantante Brunelda, con la sua travolgente follia. E quando anche questa soluzione si rivelerà precaria e umiliante, Karl si unisce al Teatro Naturale di Oklahoma, grottesco Aldilà ambientato tra il fango e le pozzanghere, dimenticati tra la nuova faraonica stazione, e la modesta e fatiscente banchina di quella vecchia. Alla fine, il cerchio dello spettacolo si chiude sull'immagine iniziale: una Statua della Libertà che, al posto della torcia, impugna una spada. Karl Rossmann, come all'inizio, è insieme colpevole e innocente, ingenuo e perdente: nella lotta tra se stesso e il mondo ha continuato infallibilmente, pur senza avere alcuna identità, a scegliere se stesso.
All'inizio la Milano di America profuma malinconicamente di nostalgia: tra quei binari riecheggiano infinite esistenze tutte uguali, gli eterni ritorni dei pendolari. Se poi la città mette in mostra il suo forzato e trionfalistico amore per il futuro, lo rovescia immediatamente in un rugginoso passato paleoindustriale, nel deserto di una fabbrica in disuso. Finché, nell'ultima scena, questo corpo metropolitano non rivelerà il suo squallore, le sue ferite.
Questi diversi luoghi vengono contaminati e straniati dall'azione scenica, distorti dall'irruzione di una diversa forma di realtà. Le esperienze e le memorie di chi li vive e li attraversa quotidianamente collidono con l'immaginario che vi viene proiettato - mentre la regia fa riemergere gli elementi costitutivi (aria, fuoco, lastre d'acciaio) di un mondo primordiale. E il meccanismo dialettico e ironico, minimale e visionario, di teatralizzazione e demistificazione di uno spazio finisce per sovrapporsi alle illusioni e disillusioni del protagonista.
Da Kafka, oltre al plot, Barberio Corsetti ha ricavato anche i "geroglifici gestuali" (un alfabeto di tic, atteggiamenti, camminate, posture), che caratterizzano i diversi personaggi, fino a costituire l'ossatura di una coreografia. Ma c'è in America anche un embrionale aspetto circense: a volte clownesco, soprattutto nel caso di Gabriele Benedetti, che disegna un Karl Rossmann in perenne movimento, fragile e vulnerabile, che trasforma la sua inquietudine in una continua vibrazione, il suo precario equilibrio in una continua spinta propulsiva, come un Charlot intrappolato dagli ingranaggi del mondo; a volte acrobatico, come accade con i due vagabondi Delamarche e Robinson, che finiscono quasi per assumere le sembianze di uccelli, appollaiati su fili sospesi a mezz'aria.
Da un lato, in America, vengono utilizzate le tecniche "povere", insieme concrete e allusive, della performance (quelle messe a punto negli anni della Gaia Scienza), a partire dalla convinzione che la conflagrazione estetica possa essere determinata dalla compresenza di realtà di ordine diverso: sei attori (oltre a Benedetti e Barberio Corsetti, Milena Costanzo, Alessandro Lanza, Roberto Rustioni e Federica Santoro) per dare vita a decine di personaggi e situazioni, l'evento viene costruito come esplosione di energia fisica e pulsioni elementari, l'evento artistico si sovrappone alla realtà, viene prestata l'attenzione ai materiali primari e alla struttura dello spazio, il pubblico viene chiamato a spostarsi e a interagire con l'evento. Ma nel contempo la trama romanzesca viene sostenuta dall'immissione di elementi letterari, musicali (Daniel Bacalov, Harry De Witt, Carlos Zingaro e, dal vivo, Massimo Munaro) e coreografici, e dall'allusione alla coincidenza tra corpo e scrittura, tra interiorità e mondo, tra romanzo e continente. Lo spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti sembra così aspirare all'Opera d'Arte Totale: che non è più concepibile nell'isolamento di uno spazio teatrale, ma deve necessariamente contaminare anche la realtà. E, al termine del percorso, America, assume il valore di una scrittura che s'inscrive in bassorilievo sul corpo dellla città, una spettacolarizzazione precaria e volatile, un graffito della memoria che gioca (forse illudendosi) a modificare la percezione del mondo.


Lo sperimentalismo nella storia del teatro occidentale
L’officina del teatro europeo. Vol. I: Performance e teatro di parola
a cura di Alessandro Grilli e Anita Simon
Pisa, Edizioni Plus, 2001, pp. 493, Euro 25,82

di Giovanni Guerrieri

“E’ difficile considerare il teatro sperimentale solo un caso particolare di teatro, un’esperienza limitata a pochi paesi, o circoscritta a pochi episodi di rottura; al contrario, teatro e sperimentazione sono un binomio inscindibile, proprio perché nessun altra pratica artistica più di quella teatrale ha rivelato accanimento e costanza a forzare i limiti dei codici alla continua ricerca di nuove forme di significazione e di nuovi significati. Gli studi qui raccolti partano appunto dall’ipotesi di lavoro che l’esplorazione sperimentale costituisca una delle principali dinamiche evolutive del teatro fin dalle sue origini…” (Dalla presentazione)
 
Il volume, insieme a un altro specificatamente dedicato al teatro musicale, raccoglie gli atti dei cinque convegni di studi nell’ambito di una ricerca universitaria sul tema: “Lo sperimentalismo nella storia del teatro occidentale”.
Partendo dal presupposto che la dialettica Teatro/Sperimentazione rappresenti una dinamica evolutiva costante nella storia dello spettacolo, la discussione che anima questa raccolta di studi costituisce uno stimolante contributo all’attuale riflessione intorno al teatro. Alla luce delle attuali condizioni del sistema spettacolare italiano, del difficile rapporto che lega il “nuovo teatro” alle sue “vecchie istituzioni”, il volume offre un’interessante prospettiva, un invito, coraggioso se lo si pensa lanciato da ambiti accademici, a rompere ingessature, schemi mentali ormai consunti. Un invito a leggere la Storia del Teatro non come somma di tanti importanti “Teatri istituzionali”, ma come “ricerca”, come continua tensione, vissuta in prima persona dai teatranti di ogni epoca, a superarsi, a non cristallizzarsi in opprimenti codici rappresentativi.
I temi affrontati nel volume, che spaziano dal teatro greco fino alla prassi teatrale contemporanea, si soffermano su alcuni punti nodali dell’evoluzione del linguaggio e delle modalità drammaturgiche nella cultura europea. Autori di maggior rilievo incrociano i loro passi con personalità minori, categorie nuove (come quelle di regia o di repertorio) vengono applicate a drammaturgie o scritture di scena antichissime.
Una delle parti più interessanti è sicuramente quella che riguarda Shakespeare: una serie di contributi (la parte centrale del volume) affronta il problema della cristallizzazione del mito di Amleto nella tradizione successiva. Partendo dagli “antenati” di Amleto, dal lucido studio di Alessandro Serpieri sulle fonti shakespeariane (Prima di Amleto), passando per l’interessante analisi freudiana della vendetta come “atto mancato” di Guido Paduano (Il re che poteva essere), si approda all’acuta riflessione di Concetta D’Angeli sul rapporto tra etica ed arte (Amleto e Craig: un sogno etico-estetico), un contributo quest’ultimo che accosta Shakespeare e Edward Gordon Craig nella ricerca di un rigore morale all’interno dell’opera, aprendo così una finestra sul mondo teatrale contemporaneo e sulle sue problematiche principali. La lettura di Craig dell’ Amleto è al centro di altri due saggi molto interessanti: in Amleto. Non parole, Fernando Mastropasqua, partendo dalle riflessioni di Craig raccolte nel volume Towards a new theatre, si interroga sull’enigmatico rapporto tra “agire teatrale” e “agire storico”, gettando le basi per una essenziale riflessione sulla natura stessa del teatro e sul suo significato politico; l’altro saggio, Il vero Hamlet. Analisi del bozzetto di Gordon Craig “Gold Court” per Hamlet di Anna Maria Monteverdi, offre una interessante interpretazione di un bozzetto di Craig sulla seconda scena dell’atto primo: un esempio illuminante di interpretazione registica attraverso l’iconografia del bozzetto. Chiudono il volume i suggestivi versi di Giuliano Scabia dal titolo Il Tremito (della Poesia nel Teatro il Tremito).


Riciclare l'ordine
Expo.02
Regione dei Tre Laghi - Neuchâtel-Morat-Bienne
Fino a 20 ottobre 2002

di Francesco Niccolini

Svizzera, territorio miracoloso e miracolato in fragile equilibrio fra natura e tecnologia. Dove tutto è in ordine ed ogni indigeno sa dove parcheggiare la propria auto, gettare la bottiglia verde e quella trasparente: storica incarnazione della neutralità assoluta (solo quest’anno la maggioranza dei suoi abitanti ha deciso di aderire all’ONU), potrebbe essere il terreno ideale per un’ampia riflessione sullo sviluppo sostenibile e su tutto quello che in qualche modo riguarda il destino dell’umanità e del pianeta. E’ proprio questo l’ambizioso tema scelto per l’ Expo 2002, visitabile fino al 20 ottobre prossimo nella zona dei tre laghi: Neuchâtel, Bienne (Biel, per gli svizzero-tedeschi), Morat (Murten) ed Yverdon-les-Bains. Considerando la concomitanza con il summit di Johannesburg, questo contraltare neutrale e popolare, adatto ad accogliere centinaia di migliaia di visitatori (3 milioni fino ad ora, di cui 400.000 stranieri) è indubbiamente una scelta condivisibile.
Splendida la cornice (vivamente consigliato il battello per spostarsi da un sede all’altra), splendidi i paesi, a partire da quella piccola Praga svizzera che è Neuchâtel, forse non a caso scelta per il suo ‘esilio’ da una scrittrice straordinariamente kafkiana come l’ungherese Agotha Kristof. Per tre giorni provo a muovermi tra le quarto Arteplage predisposte: Arteplage, arte e spiaggia, spiagge dedicate all’arte. Le quattro città, amabilmente appoggiate al lungo lago, uniformano esteticamente gli spazi espositivi offrendo le proprie incantevoli ‘discese a mare’ alle installazioni. L’impatto è sorprendente quanto suggestivo: acqua e terra, palafitte tecnologiche, torri, ponti, passerelle, addirittura una gigantesca nuvola artificiale (ad Yverdon, vento permettendo) ed un monolito gigantesco (Morat). Tutto sull’acqua, tutto estremamente moderno e contemporaneo, eppure con una strana sensazione di preesistenza e di antico. Ferro, legno e materiali sintetici si mescolano di continuo, secondo l’assioma di un recupero della materia naturale, ecologica e riciclabile che però non vuole sbattere la porta in faccia alla materia artificiale cui non si può più rinunciare. Con consapevolezza e misura, però. E se un limite si può riscontrare in tutto questo approccio è proprio nello straordinario buon senso che si respira in tutti questi spazi e nel cortese comportamento di tutti, dal sorridente personale di ogni singolo spazio all’ordinatissimo pubblico che fa code orarie per entrare dappertutto, allietato dagli artisti di strada e dai piccoli doni dell’Expo (verdissime mele biologiche imperversano per tutta Neuchâtel).
A Morat il tema portante è il Tempo, a Neuchâtel l’Artificio, Yverdon riflette sull’Universo, mentre Bienne è il luogo del Potere e della Libertà. Fatalmente il simbolo di quest’ultima sono tre torri che fra i tanti significati proposti dall’Expo, ad un anno esatto dall’11 settembre 2001 forse ne assume uno più inquietante: diventano infatti una gigantesca torre di Babele intorno alla quale è difficile capirsi e distinguere concetti fondamentali: prezzo, valore, immagine reale e pubblicitaria.
All’ingresso dell’Arteplage di Neuchâtel un gigantesco geode in legno (rigorosamente riciclato dall’Expo di Hannover di due anni fa e già pronto per un nuovo uso...) sintetizza disgrazie e contraddizioni del pianeta, per poi proporre gli estratti della dichiarazione dei diritti dell’uomo. L’accostamento risulta una delle più perverse e feroci forme di ironia (volontaria?) che il cronista cisaplino possa immaginare, a conferma delle contraddizioni di un pianeta dove predicare bene e razzolare sporco è regola applicata ben oltre il buon senso dei ricchi e dei potenti.
Impossibile restituire l’innumerevole vastità e varietà delle installazioni e delle tematiche: tutto è sensuale e sensoriale, la scelta (eccezion fatta per parte delle installazioni di Morat) è antimetafisica. D’altra parte, nell’immenso spazio di tutto ciò che è universo sensibile, la proposta è praticamente infinita: a Yverdon prevalgono amore, dolori, sogni (migliaia quelli raccolti in tutta Europa da bambini tra i 5 ed i 13 anni), salute, sport. Neuchâtel è il regno dell’Intelligenza Artificiale, dunque di Pinocchio, dell’acqua e dell’energia elettrica, della robotica e dei cataclismi naturali. A Bienne si guarda e si discute di frontiere, di lingue, di industrie, soldi e valore, di felicità e territori immaginari, tutti temi particolarmente cari alla Svizzera (in questo, Bienne è sicuramente la sezione più folkoloristica dell’Expo: assolutamente imperdibile la visita, dentro un carrello della spesa, di tutte le bellezze ed i valori d’Oltralpe, Heidi, esercito e lingotti d’oro compresi, all’interno di un padiglione-luna park-museo delle cere e degli orrori insieme sponsorizzato da una grande catena di supermercati svizzeri...).
Infine, nella bella Morat si inseguono i segni del tempo, dell’istante e dell’eternità, tra la nostalgia di mondi perduti per sempre ed i rischi della guerra e della violenza (assolutamente da non perdere è la visita in battello verso il Monolito, all’interno del quale ammirare il restaurato Panorama della Battaglia di Morat, dipinto circolare di fine Ottocento di centoundici metri di circonferenza), la cecità (altra esperienza eccezionale e realmente dolorosa la visita al Blindekuh, dove si entra solo su appuntamento e dove, nel buio più assoluto, si viene accompagnati da personale cieco a fare esperienza quotidiana della vita senza vista, in un incubo alla Saramago), e la fantasia inarrivabile e sfolgorante del nostro amico e maestro, Antonio Catalano da Asti, che ha potuto esporre quadri, pietre, piume ed armadi (‘sensibili’, giustappunto) in un teatro costruito appositamente per l’Expo sotto una pietraia.
E sicuramente la visita di Morat è quella poeticamente più affascinante agli occhi del visitatore in cerca di arte: messe da parte le grandi strutture tecnologiche e ipermoderne, qui domina la ruggine. Città ed Expo non sono separate da cancelli di ingresso, ma una vive dentro l’altra con segnaletiche uniformate che rendono davvero indistinguibili le installazione fatte ad hoc dalle strutture preesistenti. Una lunga via crucis di edicole rugginose (come in una sacra rappresentazione cinquecentesca) ai bordi del lago aggiunge una inquietudine metafisica che le certezze della tecnologia avevano fatto rimpiangere al più incallito dei cronisti atei. Negli spazi antichi, teatrali e bui di Morat, finalmente troviamo anche noi un prato dove addormentarci e sognare mondi migliori.



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Metamorfosi elettroniche
oVMMO : : ovidiometamorphoseon
di Alessandra Giuntoni

Prima del mare e della terra e del cielo che tutto ricopre, unico e indistinto era l’aspetto della natura in tutto l’universo, e lo dissero Caos, mole informa e confusa, nient’altro che peso inerte, ammasso di germi di cose mal combinate. Nessun Titano ancora donava al mondo la luce, né Febe ricolmava crescendo la sua falce, né la terra, trovato il proprio equilibrio, stava immersa e sospesa nell’aria, né Anfitrite aveva proteso le braccia a recingere i lunghi orli della terraferma. E per quanto lì ci fosse la terra, e il mare, e l’aria, instabile era la terra, non navigabile l’onda, l’aria priva di luce: nulla riusciva a mantenere una sua forma, ogni cosa contrastava le altre, poiché nello stesso corpo il freddo lottava col caldo, l’umido con l’asciutto, il molle col duro, il peso con l’assenza di peso.

Così Ovidio, in apertura delle Metamorfosi, per introdurci nel colossale poema cinematografico in cui ogni verso, come un fotogramma, è ricco di stimoli visuali in movimento, in cui il tempo che domina è l’assoluto presente, dove tutto avviene sotto i nostri occhi e i fatti incalzano frenetici a ribadire che ogni distanza tra noi e la narrazione ci è per sempre negata. La stessa materia magmatica, lo stesso horror vacui che domina lo spazio del poema, attraversa oVMMO a firma XEAR.org, lo spettacolo andato in scena al Festival AVIGLIANA SOGNA 2002 nella sezione “Visioni Sonore, sincronismi… live theatre/live sound”, tenutosi ad Avigliana (TO) dal 13 al 27 luglio; organizzazione e scelte artistiche a cura di Opus rt Servi di Scena.
La session per tecnologie audio e video di e con Mauro Lupone, Massimo Magrini, Marco Sodini e Giacomo Verde sviluppa partiture visive e sonore elettroniche sospese su percorsi di creatività digitale a veicolare derive acustiche di inesplosa sonìa, spettri di frequenze microtoniche ed incerte sedimentazioni segniche. Le misteriose e tecnologiche macchine sonanti, composte da sintetizzatori e da software per l’elaborazione informatica del suono (l’interfaccia ad infrarossi, azionata dal programmatore e musicista noise Massimo Magrini/Bad Sector, è qualcosa di così sorprendente che il pubblico stenta a capire che di musica live si tratta), interagiscono con una complessa videomacchina scenica operante sul principio del loop. Una telecameracamera digitale inquadra un computer portatile sul cui schermo trans-corrono sequenze catturate in diretta dalla webcam rivolta allo spazio scenico. Su questo flusso ininterrotto di ripresa, il tecno-artista Giacomo Verde interviene per tutta la durata della performance sovrapponendo oggetti e riflessi ottenuti da un lucido trasparente appoggiato sullo schermo, generando immagini trasmesse in videoproiezione sul fondale fluorescente. Il tutto rigorosamente live, a riconferma che le nuove tecnologie dell’interattività e della multimedialità, quando sono in grado di modificare la modalità di azione del performer e la fruizione dello spettatore, producono un cortocircuito sinestetico davvero avvolgente, un ambiente sensoriale di ricezione modificato e continuamente automodificantesi capace di recuperare tutta l’aura e la magia di una moderna e ipertecnologica opera d’arte totale.
 

 
Al centro di questa entità spettacolare densa, ibrida ed immersiva (sicuramente unica nel panorama italiano della scena multimedia) sta un corpo/voce d’attore (un convincente Marco Sodini) a sua volta presenza metamorfica in bilico tra lontananza e inneità, biomacchina impegnata in un raffinato studio sulla gestualità - il corpo come iperstrumento su cui intervenire e sperimentare - e con la dizione del testo di Ovidio, quest’ultima molto classica e curata. L’elaborazione drammaturgica, dello stesso Sodini, procede secondo un metodo analogico e visuale, dando vita ad una puntuale ritmica scenica in cui la partitura gestuale è saldamente legata al montaggio delle sequenze narrative. Ciò assicura quell’effetto di continuità e mobilità del tutto, quel senso di trapasso universale della materia, che da sempre costituiscono lo stigma del barocchismo di Ovidio, la nota distintiva della sua visionarietà postmoderna. Ma la varietà tumultuosa dei mitologemi ovidiani è resa, in oVMMO, da una pluralità di proposizioni polisensoriali, da un florilegio di sollecitazioni ibride che restituiscono il senso di permeabilità dei media, della loro instabilità, della loro reversibilità. La spazializzazione del suono, ora bianco rumore elettronico e informativo, ora nero rumore di fondo, torbido come la pece a scandire un tempo assoluto e metropolitano, è resa nelle immagini del videofondale da un fluire montante di giochi cromatici in cui si delinea sempre più la ricerca di una simultaneità plastica e sensitiva che, attraverso la poetica del frammento, evolve verso ritmi astratti e bidimensionali.
Giacomo Verde è tra i primi videoartisti italiani a realizzare opere di arte interattiva e net-art; il suo lavoro si caratterizza per “riflettere, sperimentando ludicamente, sulle mutazioni tecno-antropo-logiche in atto” ed ha come costante la creazione di connessioni tra i diversi generi artistici. Gli oggetti di scena, dicevamo, filmati dalla videocamera con perizia chirurgica e digitalizzati sul fondo in configurazioni geometrizzanti di compatta e accesa stesura cromatica, sono oggetti ‘poveri’, di uso quotidiano. La macchina, cui si avvicinano con grazia pulsante o zigzagando a ritmi convulsi, li trasfigura condensandoli in nodi e grovigli a rilievo dai colori violenti, in iridescenti e luminosissimi graffiti dalla densità variabile. Ecco allora un sasso di fiume divenire dorata esplosione fauvista in omaggio-richiamo all’Icaro di Matisse, la figura librantesi a mo’ di nube colorata entro la spazialità densa e sconfinata. Ecco ancora certi ninnoli infantili e ludici, come le festose cartine dell’uovo di Pasqua, farsi arazzi dai ritmi danzanti, dalla giocosità coriandolare e dalla poligonale allegria. Il processo formale è tutto additivo, ogni colore sostenendo gli altri in un crescendo espressionista di straordinaria forza plastica, secondo un metodo scompositivo a tasselli policromi che ricorda i contrasti scintillanti di argento, oro e smeraldi dei Boulevards di Gino Severini (si pensi al Dans du Pan-Pan à Monico o a certe Danseuses coperte di lustrini e paillettes) o, ancora, la propagazione e moltiplicazione dell’immagine generata dai quadri di Delaunay. La rappresentazione del dinamismo avviene in termini ottico-percettivi: gli oggetti scanditi in piccoli poligoni si spezzano, perdono segmenti, si frastagliano nel riverberare caleidoscopico di luci triangolari, nel tentativo di restituire allo spettatore un impulso dinamico puro, svincolato dalla sua origine oggettuale e che, attraverso il continuo variare delle radiazioni luminose, imprima una metamorfosi alla forma. Una scatoletta a foggia di cuore ci appare dapprima come pura esplosione di rosso vermiglio a fare da sfondo allo strazio amoroso di Orfeo, la campitura larga di colore a densità cangiante attraversata da repentini guizzi porpora. E’ soltanto nella scena finale che lo sfavillante cuoricino, dalle apparenze di festa irreale, si mostra nel suo valore d’uso ed emerge, a quel punto, stranamente focalizzato, ingrandito come in una tavola scientifica, quasi a voler rivelare la magia illusionista della ripresa in macro. Ad ulteriore riprova del portato stilistico di spoliazione, l’episodio dell’infelice cantore di Tracia non viene mai menzionato: esso è piuttosto agito plasticamente quando Marco Sodini/Orfeo, dimostrando grande sapienza attoriale, si blocca in posa isometrica e si gira in slow-motion a cercare sul fondo la sua Euridice. L’uomo, distante, sospende la versificazione del testo in una pausa di stupore e memoria e si sofferma a giocare sul filo dell’intenzione; è il mistero che nasce quando si realizza la presenza integrale di un attore. Nel frattempo l’improvvisazione musicale propone inaspettate texture di sintesi (suoni vetrosi e graffiati che provengono dalle più svariate fonti cibernetiche quali generatori di segnali radio, contatori geiger, sensori per la misurazione del battito cardiaco) giustapposte, in spregiudicata alternanza, a uno stralcio riconoscibile dell’Orfeo di Monteverdi. Il sound che ne scaturisce possiede una musicalità deviata e assurda che nasce dal campionamento del rumore di fondo scollato e restituito in sovversiva libertà sonora. In una conversazione successiva con Mauro Lupone (sound designer e docente di computer music), scoprirò che il suo lavoro si focalizza sul processamento del suono in digitale e sulla disgregazione morfologica dello stesso, ottenuta con tecniche miste tra cui processi di granulazione (Csound del MIT) per accentuare l’instabilità e la precarietà latente nel materiale sonoro.
 

 
La sensibilità cromatica, davvero raffinatissima, ed il vitalismo luministico non sono le uniche note su cui si gioca il repertorio iconico dello spettacolo: immagini sporche, dai colori acidi di pellicola graffiata emergono su di un supporto inchiostrato, imitando turbini materici da frottage di elementi disparati, campionando in questo modo anche la casualità del segno. Lo spazio coagula in striature digitali; il segno si appresta a divenire erosione lasciando intravedere chiazze di écriture a campiture sabbiose, organiche nervature, coaguli ematici, strane infiorescenze di sfavillanti mitocondri. La psicogeografia dello spettatore si popola di ombre elettroniche, di linee rumoristiche inarmoniche caratterizzate dalla permanenza di gomitoli sonori, di bassorilievi di interferenze luminose flesse in zone chiare e oscure. L’ambiente sonoro, decriptato dall’evidenza del grafico, è dato adesso da arrovellii, da cirri mutevoli e industriali, dal rumore che resiste all’estinzione della fabbrica, ai suoi ritmi alienanti, ossessivi, lancinanti. E’ un giacimento di immagini e suoni che si richiama alla scena industrial (quella dei primi Einstürzende Neubauten o dei Throbbing Gristle), ai gruppi che perseguirono la sperimentazione musicale servendosi di materiali di recupero, riproponendo sul versante sonoro l’utilizzo di tecniche di bricolage e di cut-up mutuate dai dadaisti e da W.Burroughs. Appare chiaro che il principio di rottura asignificante che diede via alla guerra dell’informazione - la musica divenendo un pretesto per comunicare a più livelli, per utilizzare diversi media e diversi network in strategia catastrofica contro il sistema ed i suoi stessi simboli - è lo stesso principio di connessione dell’eterogeneo che informa l’andamento anarchico di questa tecno-performance. Un fenomeno spettacolare ibrido e difforme che, attraverso l’uso contrastivo dei supporti impiegati, attraverso il travaglio e la saturazione di materiali eterogenei, giunge ad un’affascinante transcodifica dei generi. La manipolazione dei testi, trattati alla stregua di cellule intercambiabili ed usati come reagente l’uno dell’altro, produce infatti una profonda contaminazione tra codici letterari, iconici e sonori; lo spiazzamento che ne deriva è dovuto alla complessità dell’ambiente fisico e relazionale, al rapporto di instabilità tra corpo reale, figure virtuali e ambiente di risonanza.
 

 
La vera complessità di questo evento/spettacolo risiede però soprattutto nella grazia che gli deriva dalla sua semplicità; anche il dispositivo scenico, nella scarna essenzialità del décor, sembra congegnato ad arte per palesare il tecnologico, per suggerire una poetica della trasparenza nel rapporto tra scena e platea. La mediazione tecnica infatti, rimpiazzando il rapporto tra i personaggi o quello esclusivo tra attore e spettatore, fa sì che l’opera ritrovi un’immediatezza nella trasparenza dell’interfaccia, nel feedback interattivo degli strumenti di scena. Ciò è ravvisabile nella postazione stessa dei tre tecno-artisti - operanti con macchine informatiche a vista - il cui performarsi interattivo comporta una definizione della scena come luogo della compresenza, della contiguità dell’azione, delle strategie di connessione. La conseguenza più immediata di questa pienezza è la materializzazione di un piano di pura immanenza dove i ruoli gerarchici sono contraddetti o azzerati, dove si realizza uno stato di divenire assoluto. Ascolto e visione sono puro accadere. La curva emozionale intensa che accompagna lo spettatore durante lo svolgersi dello spettacolo, declina infine verso un’apertura percettiva amplia e indefinita. E’ a questo punto che lo sguardo sensibile si affaccia su remoti paesaggi interiori e le metamorfiche presenze sintetiche assumono i contorni di trascendentali agnizioni, di immaginali attraversamenti dell’anima.
 
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LE SEGNALAZIONI DI TNM
 
ARS ELECTRONICA 2002
Linz, 7-12 settembre
UNPLUGGED Art as the scene of global conflicts
 
Workshop su "Storytelling in Collaborative Virtual Environments"
Workshop at the ACM CVE2002
30 September 2002
Bonn, Germany
Call for Participation
Description

Virtual storytelling concepts provide opportunities to engage the users in activities in virtual environments and to enhance the content presented through the environment. This workshop will focus on the requirements, generation and effects of storytelling in CVE's. We will examine scenarios for storytelling, consider design issues and methods for the generation of narratives, and discuss the impact of storytelling on the interaction in virtual environments.
Themes
Themes may include "What makes a good story - content vs. technology capability", "Design issues in collaborative storytelling", and "Supporting the emergent story-who's story is it anyway?" Position papers should address one of the following topics:
* Which kinds of activities have been proven useful for representation in collaborative storytelling?
* How do we generate stories based on activities in shared spaces?
* How do we develop a storyline? What makes a 'good' story?
* Story development by characters vs. story development by script?
* What are the design issues in collaborative storytelling?
* How do we interact with narratives in shared environments? What is the role of narrative?
* Does all the storytelling have to take place within the environment in a CVE?
 
Organisation
We will conduct three (very interactive) panel presentations and small and large group discussion sessions, followed by a wrap-up discussion session on future directions. Each panel will consist of 5-6 short talks given by a subset of workshop attendees, and followed by intensive discussion by the entire group. Each attendee will give a brief (refereed) talk of one of the panels and participate in the audience discussion for the other two panels. Speakers on the panels will present existing collaborative storytelling applications and discuss requirements to combine collaborative activities with storytelling.
The workshop will close with a group discussion session chaired by the organizers, in which we will focus on highlights and interconnections between the three panels. The results will be prepared as a poster for the conference poster session. We plan to publish a summary of the workshop and selected position papers in the SIGGROUP bulletin.
 
Participation
Workshop participants are requested to submit a 2-4-page position paper that addresses the topic of the workshop. The workshop participants will be selected based on these position papers. Acceptance of applications will be based on the quality of the work proposed for presentation and its relevance to the workshop. Participants will be limited to 20-25 people.
Participants will have opportunities before arriving to the workshop to get to know each other, and become familiar with the topics being presented. We plan to maximize interpersonal interactions by suggesting that workshop participants have lunch and dinner together.
Send submissions to: cve2002-storytelling@fit.fhg.de
 
Important Dates
6 September 2002 : Position Paper Submission Deadline
15 September 2002 : Notification of Acceptance
30 September 2002 : Workshop on Storytelling in CVE's
 
Workshop Organizers
Léonie Schäfer, Fraunhofer Institute FIT, Germany
Dr. Elaine Raybourn, Sandia National Laboratories, USA
Amanda Oldroyd, BTexact Technologies, UK
Dr. Kurt Fendt, MIT Comparative Media Studies, USA

Contact
Léonie Schäfer
Fraunhofer FIT
Schloss Birlinghoven
53754 Sankt Augustin
Germany
Email: cve2002-storytelling@fit.fhg.de
Web: http://www.cve2002.org/cve2002-storytelling.html


Il teatro yoruba
(parte seconda)
di Francesca Lamioni

La prima parte di questo saggio è stata pubblicata in ateatro 39-40.
 
Origine e sviluppo del teatro nigeriano
In Africa esiste una robusta tradizione preteatrale, che appare evidente dai numerosi riti e dalle feste di molte comunità. I riti e le feste sono generalmente atti a celebrare avvenimenti sociali (nascita, matrimonio, morte) o cicli stagionali (l’avvento del nuovo anno, la primavera, il raccolto). Essi dimostrano il rapporto stretto che esiste fra uomo, società e natura: l’uomo cerca di perseguire i suoi desideri danzando e recitando, cercando di imporre l’illusione sulla realtà per ristabilire l’equilibrio, assicurandosi il controllo sulle forze della natura. La maggior parte degli studiosi è concorde nell’individuare quattro fasi nello sviluppo del teatro nigeriano: teatro rituale, teatro tradizionale, opera folk , teatro moderno in lingua inglese.

Teatro rituale
E’ difficile delineare con precisione il momento di passaggio da semplice rito a teatro rituale, in quanto nella società africana il sacro è strettamente legato al profano e non c’è una netta distinzione fra le due sfere. Il rito è funzionale, ha uno scopo religioso che manca al teatro: un rito diviene spettacolo quando viene estrapolato dal suo contesto o quando la credenza che sosteneva ha perso il suo significato. Secondo Ola Rotimi, scrittore di teatro nigeriano, elemento essenziale per passare dal piano rituale a quello drammatico è l’imitazione di un’azione, di una persona o di più persone in azione.

Gli spettacoli che rivelano nel loro stile di presentazione, nel loro intento, nel loro significato segni di imitazione, divulgazione o intrattenimento, possono essere definiti teatro.
1

Il teatro rituale è quindi una sorta di cerimonia di culto, la cui forma espressiva principale è costituita dal mimo; il culto è un tentativo di comunicare con gli dei per capire i misteri della vita. Nei riti il compito di intercedere fra gli dei e la comunità appartiene all’oracolo sacerdote o babalawo: egli è l’attore principale, spesso posseduto da forze sovrannaturali e si esprime con una particolare voce gutturale, usando un linguaggio criptico e molto poetico. Canta inni di lode mentre prepara alcuni oggetti rituali, ricavati da foglie o da parti di animali essiccate; lancia i dadi e ne interpreta i simboli; si suppone che tutti questi cerimoniali lo aiutino a svelare misteri e a comunicare con gli dei.
Rappresentazioni meno spettacolari e più personali sono spesso svolte presso le tombe familiari, in quello che è chiamato il culto-antenato. Molte famiglie hanno un proprio luogo sacro, spesso adornato da un elaborato legno intagliato, al quale viene reso tributo periodicamente. I morti, nella oro prerogativa di guardiani dei vivi e intermediari fra uomini e divinità, sono spesso consultati nei periodi di carestia e prima che la famiglia prenda decisioni importanti. In questi casi presso la tomba viene eseguita un’elaborata azione drammatica, che vede i membri della famiglia imitare l’antenato morto, del quale sta invocando la guida e la protezione. La tecnica è principalmente la mimesis, accompagnata da inni di lode e da un leggero battito di tamburi. Il culto Egungun, ad esempio, è scaturito da queste occasioni di culto familiare per divenire una complessa danza in maschera, ora diffusa in tutta la Nigeria. Ola Rotimi spiega come la mascherata abbia conservato la sua funzione di culto, sviluppandosi però anche in arte rituale indipendente.

La presenza dei morti, la cui memoria è stata onorata, è invocata non solo attraverso lodi ma principalmente attraverso una serie di lugubri suoni vocali che imitano la voce nasale che si crede appartenga al mondo dei morti. Nel tempo questi gesti, questi suoni, questi movimenti sono stati estrapolati dalla loro rappresentazione originaria per divenire simbolici, dei pattern che annunciano la danza…2

Essendo la maschera l’elemento essenziale di una rappresentazione Egungun, ogni membro del corteo ne indossa una intagliata e decorata, dedicata a una particolare divinità o ad un antenato. L’uomo simbolicamente assume il carattere della maschera e tutti gli spettatori riconoscono il nuovo ruolo che l’anziano del villaggio sta interpretando. Ma indossare una maschera ha un significato più profondo che travestirsi per interpretare una parte in teatro: essa consente una trasformazione spirituale a colui che la indossa. Margaret Laurence, studiosa di teatro africano, spiega il fenomeno assai chiaramente:

Le maschere sono un tangibile mezzo di unione con l’altro mondo. Sono guardate con reverenza e allo stesso tempo offrono un simulacro sacro dell’oggetto adorato - dio divenuto carne - perché nel momento della possessione del danzatore da parte del dio della maschera, danzatore e maschera si fondono in un’unione di mortale e immortale. Quando un Egungun danza giunge spesso a uno stato di possessione e in quel momento si crede che lo spirito ancestrale sia concretamente visibile e presente. Lo stesso spirito del danzatore è sospeso quando diviene schiavo della maschera e spesso riesce a recitare con un’abilità superiore alla sua. 3

Si potrebbe affermare che col tempo il mimo e la mascherata, che facevano parte della sfera del culto, sono stati separati dal rito e hanno dato vita a una rappresentazione orientata verso l’intrattenimento. La nuova forma di spettacolo è ancora condotta dai membri dell’Egungun ma ora anche spettatori e partecipanti non iniziati al culto sono ammessi a partecipare all’evento. Questi sviluppi possono essere osservati meglio nel gruppo Agbegijo4 della società Egungun. I danzatori sono spesso al seguito dei fedeli ma enfatizzano la danza e la recitazione. E’ concesso loro di indossare maschere spesso vistose, profane e satiriche ma è loro proibito usare le vere maschere Egungun, più sobrie, che rappresentano particolari divinità o famosi antenati. Alcuni danzatori Agbengijo si sono allontanati dal culto Egungun per formare gruppi indipendenti di professionisti che recitano nelle piazze e nei mercati ma tutto sommato il loro spettacolo è limitato a episodi e sequenze di danza attinte dal culto. Le loro rappresentazioni sono in genere più simili a spettacoli di marionette e recite satiriche, nonostante rimangano utili veicoli per il teatro religioso. Nella categoria di dramma religioso potremmo anche includere la messa in scena di storie bibliche e di mitologia cristiana: la spiegazione della Bibbia attraverso scorci drammatici faceva infatti parte dell’insegnamento dei missionari, che hanno portato questa tecnica dall’Europa nel primo periodo della loro immigrazione in Nigeria e in altre parti dell’Africa. Una ripetizione anno dopo anno della Natività, con la solennità della Chiesa missionaria, si è presto trasformata in un monotono e stilizzato rituale agli occhi di gente che ama suonare tamburi e danzare come gli yoruba. La monotonia del culto cristiano è stata infatti la causa maggiore del distacco dei cristiani africani, soprattutto dalla Chiesa protestante, per la ricerca di una nuova dimensione e questo movimento è iniziato nel 1939 circa.
Un recente caso è quello di Duro Ladipo che, dopo essere stato per molto tempo insegnante di catechismo, se ne è andato dalla scuola per dare inizio a una propria attività teatrale, solo perché i missionari non gli permettevano di suonare i tamburi in chiesa. Nelle Chiese indipendenti la drammatizzazione delle storie bibliche raggiunge la perfezione: non solo è permessa più libertà nella rappresentazione ma si deve anche competere con altre corporazioni per ottenere adepti e sussidi; la recitazione si fa di conseguenza sempre più originale per attirare nuovi seguaci e mantenere vivo l’interesse dei vecchi fedeli. Questo aspetto delle sette religiose è ridicolizzato nell’opera di Wole Soyinka The Trials of Brother Jero.

Teatro tradizionale
Il teatro tradizionale prende origine da quello rituale e gli è molto vicino, al punto che talvolta è difficile operare una netta distinzione fra i due tipi di rappresentazione. In generale possiamo dire che il teatro tradizionale è più sofisticato, infatti vi sono stati introdotti contenuti linguistici, una trama, un’interazione di personaggi, una maggiore varietà di costumi e maschere, più musica e danze. Il teatro diventa tradizionale quando ha carattere profano e si rivolge a un pubblico. Un’ulteriore difficoltà nella distinzione scaturisce dal fatto che è difficile stabilire cosa sia secolare e che cosa sia religioso presso gli yoruba, in quanto non sembra esserci differenza fra realtà e finzione, carne e spirito, morti e vivi. Come abbiamo visto nel culto Egungun, l’aspetto religioso e quello carnevalesco possono convivere nel rito stesso.
Un’importante fonte di ispirazione per il teatro tradizionale è la mitologia; i miti più famosi sono connessi agli dei, alle loro origini, ai loro poteri e alla loro influenza sugli uomini. Il pantheon yoruba è molto vasto e gli dei vengono onorati con feste solenni e colorate. C’è quasi un approccio irriverente verso le divinità, come se gli yoruba sentissero il bisogno di portarle su un piano umano, in modo tale che possano rispondere di quello che nel mondo non funziona. Più o meno gli dei sono tutti imperfetti, hanno commesso qualche cattiva azione in passato: Ogun, ad esempio, ha ucciso la maggior parte dei suoi soldati quando era ubriaco e Obatala, sempre in preda ai fumi dell’alcol, ha creato gli albini, gli zoppi e i ciechi. Gli dei inoltre sono sempre in guerra fra loro e per questo motivo non ci si può aspettare che gli uomini facciano altrimenti. Queste storie sono raccontate e messe in scena in tutto il Paese durante le feste e formano la parte più cospicua del materiale drammatico.
Come ogni altra cultura non letteraria, la cultura yoruba è racchiusa in una serie di storie che la comunità ha accumulato circa le proprie origini, le conquiste, la grandezza passata e gli eroi. Tutto questo sapere è stato passato di generazione in generazione grazie alla più antica delle arti, quella della narrazione. Tutti i membri della famiglia partecipano al racconto ma gli anziani sono i più esperti, conoscono un maggiore numero di leggende, favole, aneddoti, proverbi. La struttura generale del racconto rimane più o meno invariata ma la narrazione differisce molto a seconda delle capacità del narratore di rappresentare i personaggi nei punti della vicenda che richiedono una recitazione più complessa: per raccontare la celebre storia di un cacciatore, il narratore deve mimare almeno una dozzina di animali. Spesso il racconto è arricchito da canzoni e i più bravi le accompagnano col ritmo del tamburo e passi di danza. I presenti si uniscono allo spettacolo danzando e cantando. La stessa parte narrativa diventa una sorta di dialogo col pubblico, che partecipa con appositi ritornelli e scambi di battute.
La letteratura orale non è usata solo per scopi ludici ma anche per fini pedagogici, infatti esistono storie adatte per i bambini piccoli che vengono raccontate di solito dalle nonne, sono storie che sviluppano la fantasia. In seguito ai ragazzi più grandi verranno raccontate storie che stimolano il coraggio, mentre alle ragazze quelle che mettono in risalto la laboriosità e la fedeltà. La conoscenza della storia e dei costumi della tribù è richiesta alle coppie che vogliono sposarsi; a chi invece vuole seguire la vocazione religiosa è richiesta la conoscenza delle leggende di Ogun5 e di tutto il sistema di Ifa, cioè del pantheon yoruba. La funzione di queste storie è di creare un codice morale: per gli yoruba l’etica incomincia infatti dalla comprensione degli dei e del loro ruolo nelle cose terrene. Ola Rotimi afferma:

La letteratura orale che è stata di aiuto alla nostra società, ebbe inizio quando i misteri dell’universo furono semplificati nella forma dell’esperienza quotidiana dell’uomo. Le vie degli dei divennero più vicine alla comprensione umana. I codici sociali dimostrarono allora di non essere solo un mezzo per preservare la pace ma anche uno strumento per il raggiungimento della vita ideale. I nostri progenitori nigeriani incominciarono ad aspirare al “bene” che ci si aspettava da ogni individuo all’interno della società. Gli uomini che divennero esempi viventi di questo ideale in seguito passarono ad altro mondo, ma le storie che richiamiamo alla memoria le loro virtù e il coraggio delle loro azioni vivono ancora e sono diventate la maggior radice per il fiorire del teatro.6

NOTE
 
1 Ola Rotimi, The Drama in African Ritual Dispaly, in Y. Ogunbiyi, Drama and Theatre in Nigeria, Lagos, 1981, p. 77.
22 O. Rotmi, Traditional Nigerian Drama, in Introduction to Nigerian Literature, Lagos and London, Bruce King, 1971, p. 176.
3 M. Laurence, Long Drums and Cannons, cit., p. 14.
4 Letteralmente significa Noi prendiamo il legno per danzare.
5 Dio del metallo, della strada, della guerra, della caccia.
6 O. Rotimi, Traditional Nigerian Drama, cit., p. 181.


Appuntamento al prossimo numero.
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