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(43) 06.10.02

LA SCOMPARSA DI EMILIO TADINI

Emilio Tadini era pittore, romanziere, poeta, drammaturgo, intellettuale a tutto tondo. Ma era soprattutto una bella persona, curiosa, generosa, disponibile. E poi, come dicono a Milano, non se la menava: pur avendo fatto tutto quello che aveva fatto, viveva la vita e i rapporti umani con assoluta semplicità e disponibilità.
Ci sarebbero mille altre cose da dire: sul suo lavoro d'artista in grado di spaziare dalla scrittura alle arti visive mantenendo una profonda coerenza d'ispirazione, sofisticazione intellettuale e limpidezza nell'esposizione. E ancora, bosgnerebbe parlare a lundo della sua ironia e leggerezza - ma anche della sua consapevolezza che nella vita ci sono cose molte serie, e tragiche. E della sua straordinaria capacità di insegnare a capire la bellezza, con semplicità e precisione, nei suoi articoli, nei suoi libri e nelle sue trasmissioni radiofoniche e televisive. Da vero maestro, che vuole e sa farsi capire.
Intanto, dagli archivi in rete, un testo sulla sua personale a Palazzo Reale, qualche mese fa, e Profeta al trucco, il bellissimo monologo che aveva scritto per la Maratona di Milano.
 

ATTENZIONE

Beh, a propo di teatro di guerra. Il professor Walter Pedullà ha querelato Carla Benedetti per la sua ricostruizione del caso Martone-Teatro di Roma, contenuta nel suo saggio Il tradimento dei critici, chiedendo due miliardi di risarcimento.
Se non è una trovata pubblicitaria per far (ri)parlare del libro, non ci sembra un buon segno: perché l'analisi di Carla, in sostanza basata su rassegne stampa, rappresentava un invito al dibattito e alla riflessione. Portare una discussione su temi culturali in tribunale, a noi di ateatro non sembra un grande passo avanti: sarebbe stato meglio ribattere, argomentare, discutere, cercare di capire. Insomma, oppore argomenti e ragioni.
E' quello che - nel nostro piccolo - continueremo a fare.
 

L'EDITORIALE

Secondo un censimento del 1871, in Italia c’erano 940 teatri in 699 città. Nel 1907 una guida specializzata segnalava oltre 3000 spazi teatrali nella penisola. All’inizio degli anni Novanta, dopo l’avvento del cinema e della televisione, si contavano in tutto 840 spazi teatrali e musicali in attività.
In teoria esiste dunque nel nostro paese un enorme patrimonio inutilizzato di spazi destinati >>>
 

INDICE

De officis teatralis
Da Lo spazio aperto. Il teatro ad uso delle giovani generazioni, a cura di Tiziano Fratus
di Tiziano Fratus

Convertito, abbandonato, degradato, conteso
Breve storia del Teatro Rossi di Pisa che può rivivere solo per poche serate
di Roberta Mannelli

Il teatro yoruba
(parte terza)
di Francesca Lamioni

E per tnm
Bit bit hurrah!
Villette numerique, Parigi 24-29 settembre 2002
di Anna Maria Monteverdi
 

NEWS

(ma intanto andate a cercarle - e mettetele - anche nei forum...)
 
LA VITA E LE OPERE DI CARMELO BENE
Giunge alla terza e ultima parte la manifestazione che ORSA dedica a Carmelo Bene, a pochi mesi dalla sua scomparsa, in collaborazione con la Fondazione l'IMMEMORIALE DI CARMELO BENE.
 


L'appuntamento è a Torino, dal 23 ottobre al 10 novembre a Palazzo Bricherasio per una mostra, e dal 24 al 26 ottobre alla GAM (Galleria d'Arte Moderna) per un convegno internazionale.
 
DRAMMA.IT DI OTTOBRE
Dopo il debutto a Benevento di TOMBA DI CANI, la regista Cristina Pezzoli annuncia che al Festival Oltre90 il 30 settembre e al Teatro dell'Elfo di Milano l' 1 e 2 ottobre , nello spirito di "work in progress" che ha caratterizzato le prove e l'allestimento del testo di Letizia Russo, verrà presentata un'ulteriore e diversa versione scenica dello spettacolo stesso. Tutte le notizie sullo spettacolo nell'agenda dell'Associazione Teatrale Pistoiese.
Sempre nell'agenda uno stimolante articolo di Cristina Pezzoli che comincia così:"Recitare testi contemporanei fa bene alla salute..."
Inoltre L'Associazione Teatrale Pistoiese/TEATRO DEL TEMPO PRESENTE è lieta di annunciare il debutto della versione teatrale del film "VECCHIE" di Daniele Segre interpretato da Maria Grazia Grassini e Barbara Valmorin e recentemente presentato con grande successo come pellicola cinematografica alla Mostra del Cinema di Venezia 2002 nella sezione "Nuovi Territori - Nell'intimità".
Manco a farlo apposta (in realtà è proprio fatto apposta) il dramma del mese è Tomba di Cani di Letizia Russo.
Ultimissimi giorni (fino al 30 settembre) per partecipare al Premio Dramma in Rete, affrettatevi!
Nella sezione Drammaturgie, insieme a nuove recensioni ed articoli, una lettera aperta in cui si annuncia la chiusura di un piccolo teatro grazie alla brutta aria che tira per i piccoli teatranti.
Tutta da scaricare la tesi di laurea di Davide Miani sul Teatro No moderno di Mishima Yukio.
Avete già votato al nuovo sondaggio di Dramma.it? No? Allora fatelo! Non costa nulla...
Siamo sempre in attesa di avere segnalazioni sulle scuole di scrittura teatrale. Forse che non esistano?
Interessanti nuovi copioni nella libreria virtuale, guardatevi subito gli ultimi arrivi dal link sulla home page.
E poi... i prossimi bandi in scadenza, centinaia di siti teatrali, il forum, scrivi una scena del copione interattivo, i comunicati stampa...
 
LA STAGIONE DEI FESTIVAL
E' la stagione dei grandi festival d'autunno.
Se volete trovare qualche info:
 
# Oltre90, Milano, 25 settembre-31 ottobre;
# Crisalide, Bertinoro, 26-29 settembre;
# RomaEuropaFestival, Roma, 17 settembre-24 novembre;
# Festival dei Teatri d'Europa 2002, Milano, dal 4 ottobre;
# Generazioni Festival, Pontedera, 2-6 ottobre;
# Intercity ATENE, Sesto Fiorentino, 30 settembre-23 ottobre;
# Le vie dei festival, Modena, 6 ottobre-6 gennaio;
 
Il disco
Poesia: Lombardi & Riondino all'Inferno
L'avete ascoltato il CD della Commedia con le voci di Sandro Lombardi & David Riondino e la chitarra di Giorgio Albiani? Per me è bellobello (ma non sono obiettivo). Voi che ne pensate? Se volete saperne di più, sul sito della Garzanti Libri troverete qualche spiega, un paio di foto del maestro Maurizio Buscarino (a propo, avete guardato-letto il suo ultimo libro?) e una track lo-fi in anteprima.
 
Anticipazione: "CUT UP" settembre 2002
Sarà pronto a settembre il nuovo numero di "cut up", assolutamente imperdibile per gli amanti del grande fumetto mondiale: protagonista assoluto di questo numero Ashley Wood (Hellspawn, Sam and Twitch, PopBot). Illustratore e disegnatore dalla tecnica sopraffina che ha scelto "Cut Up" per presentarsi e raccontarsi al pubblico italiano in una lunga intervista raccolta da Andrea Campanella. Sua è la copertina originale e suo l’allegato con materiale inedito (come già era stato per due protagonisti assoluti del fumetto: Palumbo e Igort). Interviste anche per i John Bolton e Baru. Completano la sezione comix la solita dose di speciali, redazionali e recensioni . Uno speciale homevideo dedicato alle proposte della etichetta Rarovideo, Reportage dalla mostra napoletana dedicata a Alexandro Jodorowsky a cura di Fabio Nardini.
Speciale e intervista al collettivo Wu Ming.
Ritratti musicali per Aphex Twin e Piero Piccioni, intervista a John Foxx, mitico leader degli Ultravox. Per le icone del xx secolo intervista a Moira Orfei (con foto di Jacopo Benassi). Per il teatro Motus: Anna Maria Monteverdi racconta il loro omaggio a Genet con un originale fotoromanzo/fotoracconto dallo spettacolo Splendid's nella versione realizzata al Plaza Hotel di Roma.
Reportage corposo sul FAR EAST FILM FESTIVAL di Luca Pili. Ancora: cinema, musica, editoria indipendente, tecnologia militante, hacker art e activism, con gli interventi di Tatiana Bazzichelli, Tiziana Lo Porto, Filippo Conte, Andrea Bellucci, Alberto Conte.
 

Grafica di Armando Rossi.
 

L'EDITORIALE

Secondo un censimento del 1871, in Italia c’erano 940 teatri in 699 città. Nel 1907 una guida specializzata segnalava oltre 3000 spazi teatrali nella penisola. All’inizio degli anni Novanta, dopo l’avvento del cinema e della televisione, si contavano in tutto 840 spazi teatrali e musicali in attività.
In teoria esiste dunque nel nostro paese un enorme patrimonio inutilizzato di spazi destinati allo spettacolo, profondamente innestati nel tessuto urbano di città e cittadine. Alcune regioni hanno realizzato un censimento di spazi per lo spettacolo in uso o dismessi: è accaduto per esempio Toscana o in
Emilia Romagna, dove l’Istituto Beni Culturali della regione ha censito una novantina di “teatri storici”.
Alcuni mesi fa l’Agis, in collaborazione con la Fondazione Teatro Massimo, ha completato un’indagine a livello nazionale: ha individuato 361 teatri chiusi o inagibili, in grandissima parte di proprietà pubblica; circa il 50% sono edifici di indiscutibile interesse storico. Nell’elenco figurano anche edifici progettati, costruiti e completati, ma mai inaugurati. In alcuni casi, le difficoltà sono state determinate dalle nuove normative sulla sicurezza. La riapertura di questi teatri è stata oggetto di una interrogazione parlamentare dell’onorevole Gabriella Pistone dei Comunisti italiani.
A Milano, è da anni al centro delle cronache lo scandaloso caso del Teatro Gerolamo, un piccolo gioiello chiuso da una ventina d’anni. Di recente si è deciso di ristrutturare e di recuperare all’attività teatrale un certo numero di questi antichi edifici - almeno di quelli che non sono stati irrimediabilmente trasformati in supermercati, garage, filiali bancarie o depositi di oggetti smarriti. In alcuni casi la ristrutturazione è stata addirittura portata a termine e il teatro ha ricominciato a vivere.
Perché il problema non riguarda solo il recupero delle strutture dal punto di vista architettonico. Il vero nodo è la funzione cui devono essere destinati questi spazi - una decisione che ha ovviamente un peso determinante nelle scelte da operare nel corso della ristrutturazione e che dipende da scelte politiche e culturali. Una sala recuperata ritorna a essere il salotto buono della città, e offre un’occasione per ritrovare la continuità storica. Ma una volta riaperta, a quale tipo di spettacolo (e in genere di attività) dev’essere destinata? Come farla diventare un vero teatro, un teatro vivo?
Quello che presentiamo qui di seguito, grazie al reportage di Roberta Mannelli, è un caso per certi versi tipico e molto italiano: la storia e il destino del Teatro Rossi di Pisa. La vicenda offre numerosi spunti di riflessione, anche nelle sue miserie politico-burocratiche. Ma potrebbe aprire anche nuove prospettive: per molto del nuovo teatro il nodo principale, oggi, sono le strettoie della distribuzione, l’impossibilità di garantire una adeguata circolazione agli spettacoli.
Accanto a questo caso esemplare, ateatro43 offre le anticipazioni di due volumi che stanno per arrivare in libreria: il primo è l’indagine a cura di Tiziano Fratus Lo spazio aperto. Il teatro ad uso delle giovani generazioni, di cui si può leggere la prefazione; il secondo è la terza e ultima parte del saggio che Francesca Lamioni ha dedicato al teatro yoruba, e che accompagna il testo del Premio Nobel Wole Soyinka Le Baccanti di Euripide: un rito di comunione, curato e tradotto dalla medesima Francesca Lamioni per l’Editrice Zona.
Infine, per la sempre più smagliante sezione tnm, Anna Maria Monteverdi se n’è andata a Parigi per raccontarci tutto (ma proprio tutto) sul mega-festival delle arti digitali alla Villette.
 :
L'interrogazione parlamentare
dell'On. Gabriella Pistone (Comunisti italiani)

 
Per sapere - premesso che:
da un censimento promosso e realizzato dall'Agis (associazione generale italiana spettacolo) e dalla Fondazione teatro massimo di Palermo risulta che sono 361 i teatri attualmente chiusi o inagibili in Italia (oltre il 50 per cento sono edifici storici, spesso di notevole pregio architettonico e artistico e la maggior parte risultano essere di proprietà pubblica, prevalentemente comunale);
tra i teatri suddetti vi sono chiusure che risalgono all'epoca della II guerra mondiale, casi di teatri di cui è stata completata la struttura muraria ma che non sono mai stati aperti e altri le cui chiusure si sono registrate tra l'inizio degli anni ottanta e la fine degli anni novanta, soprattutto a seguito delle nuove normative di sicurezza;
solo 40 teatri (circa l'11 per cento del totale) sono attualmente in ristrutturazione, 66 sono in programma di riapertura mentre per gli altri il futuro appare decisamente incerto, sia a causa del sempre più crescente degrado cui sono sottoposti, sia perché in molti di questi, per impossibilità fisica, non si possono applicare neanche le più elementari norme di sicurezza, utili a garantire - per legge - l'agibilità e sia perché altri ancora risultano essere molto piccoli per sopportare economicamente la loro gestione -:
se sia a conoscenza del censimento di cui sopra e se, giudicando grave e preoccupante la radiografia che ne scaturisce, non intenda attivarsi al fine di monitorare costantemente lo stato di avanzamento dei lavori per i teatri in fase di ristrutturazione;
se non ritenga, altresì, opportuno studiare e promuovere iniziative atte a riaprire i teatri a tutt'oggi chiusi, destinandoli - attraverso formule miste di cooperazione pubblico/privato - ad usi specificatamente teatrali o alternativi o comunque contigui all'ambito culturale, riqualificandoli e valorizzandoli, per le piccole e per le grandi città, come positivi punti di aggregazione sociale e culturale, soprattutto per il mondo giovanile, a tal fine anche incentivando il cosiddetto «prestito d'onore», che ha dato buoni risultati per l'avviamento di molte imprese giovanili nel settore.
 
A questa interrogazione è stato invitato a rispondere il Ministro per i beni e le attività culturali


De officis teatralis
Da Lo spazio aperto. Il teatro ad uso delle giovani generazioni, a cura di Tiziano Fratus
di Tiziano Fratus

cos’è il teatro se non perdita di sangue
compromissione di noi stessi
non è vero che serva, a qualcuno forse
può essere utile come le unghie
anche quando sono tagliate possono graffiare.
 
cos’è il teatro se non un buco nell’acqua
un foro nell’anima, vaganti gli orsetti
hanno trovato un muro.

è ora di ricominciare daccapo.

 
1.0 - ALLA RICERCA DI UN CONTAGIO
Vivere il proprio tempo è sufficientemente complicato. Può sembrare una constatazione banale, ma a mio avviso meritevole di maggiore riflessione. Dico che vivere appieno, completamente, senza scorciatoie, il proprio tempo è duro, non sono ammessi “rifugi”, nascondigli, ci si ritrova nel mezzo di un confronto sempre aperto, dal quale non ci si può (o non ci si deve) sottrarre. Questa situazione implica una continua e progressiva verifica dei propri parametri: l’incontro con quello che ci piace, con quello che affascina, oppure all’opposto con quello che più si intende osteggiare (questo non è mica teatro!), con quelle persone e realtà che maggiormente contrastano rispetto ad una certa scala di valori, rispetto ai modelli, rispetto a quello che più interessa. Essere come spugne che assorbono qualsiasi liquido è un impegno “non comune”.
Inizio da questi ragionamenti forse un po’ nebulosi perché vorrei rendere chiaro che questo volume è il frutto di incontri, il frutto di rapporti che uniscono e miscelano la vita e il lavoro in una ricerca (teatrale, culturale, intellettuale). Per me vivere fino in fondo la vita da artista, sebbene in Italia questo sostantivo oramai sia vilipeso e ridotto ad uno straccio lurido, significa prendersi la piena responsabilità di quello che si fa. Sono purtroppo diventati pane quotidiano diversi luoghi comuni: l’idea che gli artisti siano persone incompatibili con la società, che l’attore sia una di quelle mezze figure che farciscono i palinsesti della televisione, che i critici siano una casta chiusa e scontrosa, sempre pronta a divorare l’osso più grosso. Oppure che all’artista tutto sia concesso, non ultima una ricerca completamente incomprensibile (non ci capisco niente però è Picasso!). Tutti luoghi comuni che vanno sfatati, situazioni che la generazione di cui faccio parte ha intenzione di affrontare, mutare, scalfire, modificare. Ed ogni cambiamento prende il via da un contagio, da una voglia di fare e di costruire che metta da parte il nichilismo, l’idea anch’essa diffusa, che tutto quello che esiste non vada assolutamente bene, che oramai la cultura occidentale sia irrecuperabile, che le idee non servano più a niente e a nessuno.
E’ in queste epoche che gli esempi luminosi dei “grandi vecchi” possono essere di grande aiuto, ed è per questo che incontrare (anche per uno spuntino al bar) personaggi come Ingmar Bergman, Bernardo Bertolucci, Ermanno Olmi, Giuliano Scabia o le opere di Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Perla Peragallo, Amelia Rosselli, François Truffaut, si rivela essenziale, insostituibile. Loro il mondo lo volevano cambiare e si divertivano a provarci (per alcuni vale al presente), vivevano sfrontatamente come bambini le proprie ossessioni: le intuizioni le coltivavano e non programmavano il successo piuttosto che l’affermazione economica. C’è differenza tra essere artisti e vivere da artisti.
 
2.0 - ORIGINI, OVVERO LE RAGIONI EMOTIVE DI UNA SCELTA
Qualche anno fa ero rimasto molto affascinato da una pubblicazione curata da Oliviero Ponte di Pino, animatore della scena teatrale milanese. Una casa editrice fiorentina che purtroppo non esiste più, La Casa Usher, che pubblicava dei libri molto interessanti, aveva dato alle stampe una raccolta di dieci interviste a dieci compagnie e artisti della nuova scena italiana: Il nuovo teatro italiano 1975-1988. I teatranti intervistati erano: Federico Tiezzi per Il Carrozzone - I Magazzini, Marco Solari e Alessandra Vanzi per La Gaia Scienza, Giorgio Barberio Corsetti per la propria compagnia, Roberto Bacci per il Centro di Ricerca e Sperimentazione Teatrale di Pontedera, Mario Martone per Falso Movimento - Teatri Uniti, Antonio Syxty per il Teatro Out Off di Milano, Alfonso Santagata per Katzenmacher, Romeo e Claudia Castellucci e Chiara Guidi per la Socìetas Raffaello Sanzio, Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri per il Teatro Valdoca, Gabriele Vacis per Teatro Settimo. Nel mio percorso confuso e frammentario, codificato attraverso quel progetto in continua ricerca di definizione e dalla geografia instabile che è ManifatturAE, ad un certo punto si è presentata l’urgenza di incontrare compagnie, teatranti, artisti, poeti, scrittori. Vivere il proprio tempo richiede la frequentazione, è intenso l’impulso a incontrare coloro che lavorano, coloro che stanno costruendo, ovviamente ciascuno a proprio modo. Ecco che ho incontrato - e “registrato” - Enrico Casagrande e Daniela Nicolò dei Motus, Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri del Teatro Valdoca, Giuliano Scabia, Franco Quadri, Renata Molinari, Antonio Calbi, Giuseppe Manfridi, Raffaella Battaglini, Luigi Gozzi, Roberto Traverso, Antonio Moresco, Roberto Cavosi, Ugo Chiti, Antonio Syxty, Luigi Gozzi, Antonio Tarantino. E telefonate con Franco Scaldati, Enzo Moscato, Marco Martinelli, Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, Roberto Mussapi, Giuseppe Conte, Fabio Doplicher. Diversi incontri si sono consumati nella massima riservatezza, altri sono stati occasionali, altri ancora hanno trovato spazio in questo volume.
In questa piccola guida all’ascolto ho inserito soprattutto compagnie nate nel corso degli anni Novanta: ventenni e trentenni come nel caso di Domenico Castaldo, Rossotiziano, Blusuolo III, Ascanio Celestini, Roberto Latini, Leonardo Capuano, Scena Verticale.
Poi ci sono due compagnie che lavorano oramai da un decennio e che operano in due zone assai vitali della scena teatrale: Teatro Aperto a Milano, i Motus nella Romagna Felix.
Infine ho inserito due interviste a compagnie storiche del Nuovo Teatro Italiano, del terzo teatro: la prima a Cesare Ronconi, regista e anima della compagnia Teatro Valdoca, la seconda a Marco Martinelli, regista delle Albe di Varhaeren poi Teatro delle Albe, uno dei più originali drammaturghi che ha scovato le radici africane della terra romagnola. Infine un'intervista ad Antonio Calbi, padre di Teatri ’90 oggi confluito in Oltre ‘90.
La vitalità dell’esperienza teatrale del Teatro Valdoca è di per sé dimostrata dal fatto che un loro “avvistamento” era già presente nel volume di Oliviero Ponte di Pino. Il motivo per cui ho inserito le interviste ai demiurghi della Valdoca e delle Albe sta non tanto in una preferenza stilistica, estetica rispetto a pari età - Barberio Corsetti, Raffaello Sanzio, Magazzini, Bacci - bensì nelle loro ricerche testuali, nelle invenzioni adottate per plasmare la scena col testo, e il testo nella scena. Se è indiscutibile che l’apertura interdisciplinare è oramai un fatto acquisito nel teatro italiano, che la genesi non parte più da un “ecco il testo da mettere in scena”, ma al contempo si nutre di molti altri punti di partenza - “ecco una scultura quindi”, “ecco un’installazione nella quale”, “ecco un tappeto sonoro che ci suggerisce” - attribuisco grande rilevanza ai percorsi che prevedono un lavoro su una materia testuale, contaminata da diversi linguaggi, reali o inventati come nel Peter Brook di Orghast (1971) e del dopo Africa, basti pensare ad uno spettacolo come Mahabharata (1985). Il lavoro sulla poesia del Teatro della Valdoca e la figura di Mariangela Gualtieri sono esperienze uniche a livello nazionale ed europeo, che ha cercato di dipanare il rapporto teatro - poesia
1. Dopo i primi dieci anni di lavoro sulle geometrie, lo spazio, e il corpo dell’attore, la Valdoca ha virato verso la poesia di Mariangela, caratterizzando un lavoro nuovo, distante rispetto al precedente ma al contempo rivitalizzando le origini del lavoro stesso della compagnia. E sono molti i poeti che si interrogano in questi ultimi anni su come naturalizzare la poesia in teatro, guardando con crescente interesse al lavoro di Mariangela e Cesare. E cosa dire dell’atto dirompente - politico, etico, sociale, culturale - contro un teatro borghese che ha portato Martinelli ha inglobare in compagnia tre attori senegalesi che in Italia, sulle spiagge ravennate, vivevano facendo i vu-cumprà? E questa nuova genesi ha fatto esplodere la lingua teatrale di Martinelli autore, colorando i tessuti di scena, variegando e capovolgendo luoghi comuni, figure, situazioni della vita quotidiana di una Romagna che vive comunque una maggiore integrazione interrazziale, che offre una apertura culturale senza pari in Italia (altro che le grandi città).
E poi Calbi, fondatore e direttore artistico del festival che ha maggiormente segnato gli ultimi dieci anni, Teatri ’90, permettendo l’emersione di diversi artisti e compagnie. Lui, con il suo dogma nel motto “La vertigine dell’iperbole e la bellezza del vuoto di una generazione plurale2, grimaldello col quale ha messo in discussione i generi teatrali, e ha rinnovato la figura medesima del critico di teatro.
Altri sarebbero gli artisti che avrei voluto incontrare e intervistare, come Teatrino Clandestino, la Socìetas Raffaello Sanzio, Fanny & Alexander, Armando Punzo, Emma Dante, Antonio Latella, Enzo Moscato. Questi incontri, se il destino lo vorrà, potrebbero far parte di un futura pubblicazione.
 
3.0 - LO SPAZIO APERTO: UNA ETICHETTA PLURALE
La scelta del titolo non è stata particolarmente difficile: quasi immediatamente l’idea di apertura, di rottura delle ingessature che caratterizzano lo stato dei Teatri Stabili si è auto-imposta come prioritaria. Ed ecco che questo spazio di cui parlo, e a cui si riferiscono gli intervistati, è insieme uno spazio fisico e una serie di condizioni teoriche.
E’ e dev’essere aperto il luogo della rappresentazione, aperto ad un pubblico il più variegato possibile, in mezzo alla gente, inserito nello svolgimento della vita quotidiana, nel cuore dei quartieri, piuttosto che nelle vie più luminose e imbellettate della città. Mirabile è il tentativo che stanno portando avanti i Rossotiziano a Napoli, con la ristrutturazione di una vecchia masseria che spero diventi un punto di riferimento per i teatranti italiani che intendono arrivare nella città partenopea e al contempo per gli abitanti del quartiere San Pietro, che fino a poche settimane fa in quel luogo coltivavano ortaggi, allevavano maiali, galline, conigli. Altrettanto interessante è appurare come Teatro Aperto sia nato e cresciuto nel grembo del Leoncavallo, storico centro sociale milanese (i centri sociali sono pilastri di una sana e solidale democrazia). Oppure si può pensare all’istruzione nelle scuole3, la formazione della fascia socialmente più indifesa ma che rappresenta il futuro, attraverso laboratori, seminari, incontri, la preparazione di spettacoli, come avviene per il Teatro delle Albe, che negli ultimi anni hanno costruito addirittura degli spettacoli scoppiettanti e divertentissimi come I Polacchi (1998) 4.
E’ e dev’essere aperto il tavolo dell’interscambio, quel canale di comunicazione tra artisti di discipline distinte che vanno sempre più convergendo e sovrapponendosi. I Motus fanno un teatro performativo, che si nutre di arti visive, che produce immagini ad alta definizione. Così come fanno i Blusuolo III, che non a caso eleggono a riferimento i Raffaello Sanzio, come fa Teatro Aperto, come è nell’indole di Cesare Ronconi; e ancora si pensi al percorso di Roberto Latini e a buona parte dei componenti di Area 06. In questo interscambio può rientrare di tutto, qualsiasi disciplina, come la scienza e la matematica, basti pensare alla trilogia del Teatro della Scienza di Rossotiziano. E ci entrano le storie, la storia industriale e quella contadina, la storia politica, la storia delle idee, la filosofia, la sociologia, operazione che può essere dichiarata come nel lavoro del cantastorie Ascanio Celestini, o in Teatro Civile a Roma, il recupero dei carcerati di Armando Punzo e la Compagnia de la Fortezza a Volterra. E nel teatro entrano tutte quelle manifestazioni e quei gesti che l’uomo coltiva e manipola nella quotidianità, dallo starsene chiuso in casa a vedere per ore ed ore la televisione alle feste paesane, dai riti dello svegliarsi, del lavarsi, del fare colazione e dell’uscire per andare al lavoro4 fino all’andare la sera a puttane, fermarsi nei parchi per cercare un’avventura, andare in un cinema porno, andare in discoteca a impasticcarsi5, restarsene sotto le coperte in un giorno di pioggia. Tutte manifestazioni private che entrano prepotentemente nel teatro, in queste “arti del corpo e della parola”.
E’ e dev’essere aperta l’officina contenitore ad uso di diverse realtà artistiche, come avverrà nel progetto di Area 06, come avviene nello spazio dell’ex Scuola Caccia a Torino dove vive la Blusuolo III, come avviene anche a Teatranzartedrama, centro che promuove ManifatturAE a Moncalieri e che ha ospitato per anni il Laboratorio Permanente di Ricerca sull’Arte dell’Attore di Domenico Castaldo, come avviene al Leoncavallo, come avverrà alla Masseria di Rossotiziano e Le Nuvole, come avviene alla Corte Ospitale di Rubiera. Tale geometria riguarda non soltanto il luogo fisico quanto la forma associativa, o meglio consociativa. A quanto pare le formule più utilizzate quali la cooperativa e l’associazione culturale non sono più strumenti sufficienti: i ruoli che ogni artista deve coprire per garantire maggiore agibilità sono diversi, la vecchia figura dell’attore scritturato e del regista puro sembrano oramai in fase di tramonto.
E’ e dev’essere aperto il rapporto con la critica teatrale, situazione scottante, spesso dominata da interessi di clan, da giochi di potere, partite a scacchi che di certo se passeranno alla storia lo saranno per inettitudine e miopia. Se da un lato è auspicabile una maggiore spinta tra gli artisti a incontrarsi e ad ascoltarsi, come ben dice Leonardo Capuano al di là degli interessi economici, è pure raccomandabile un miglioramento decisivo nella qualità della critica, che deve uscire dal ghetto entro la quale si è andata a sedimentare, a parte mirabili eccezioni che però oramai hanno bisogno di ricambio.
E’ e deve essere aperto il dialogo e lo scontro con le istituzioni: le amministrazioni che si stanno facendo rapidamente sorde per ragioni di mercato e di scarso rientro di immagine (il teatro non richiama come la musica o il cinema), il Ministero che sembra sull’orlo di decisioni critiche che potrebbero affossare l’attività pluri-decennale di compagnie e teatri della ricerca. E bisogna scoperchiarli questi Teatri Stabili, che godono di finanziamenti miliardari per offrire spettacoli costosissimi, impolverati, e per garantire stipendi da paperoni ai propri dipendenti. E proprio nei mesi in cui ho lavorato per mettere insieme le pagine di questo libro alcune formazioni si sono incontrate in quattro festival (Primavera dei Teatri, Opera Prima, Santarcangelo dei Teatri, Volterra Teatro), per lanciare “una discussione non più rimandabile sullo stato e sulle prospettive del teatro in Italia”, in quanto “riteniamo che il vecchio sistema teatrale abbia bisogno oggi di uno sforzo di invenzione e di una concreta azione per creare nuove istituzioni6. E sulla necessità di trovare un piano d’azione comune, e sull’urgenza di atti concreti, sia dimostrazione l’occupazione fatta da Area 06 del Teatro India a Roma, spazio che è stato recuperato (nonostante i tacchi rotti) sotto la direzione artistica di Mario Martone, ma di cui lo Stabile della capitale sembra non sapere che farsene.
Non è casuale la scelta di prendere a prestito parte del titolo del “Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni” di Raoul Vaneigem (1967) 7, pietra miliare del situazionismo che oggi più che mai sembra specchio di tante (troppe) dinamiche che si stanno manifestando sotto i nostri occhi. Nella prefazione Vaneigem scrive: “Il mondo è da rifare. […] Una minima correzione dell’essenziale importa più di cento innovazioni accessorie. […] Tutto parte dalla soggettività e nulla vi si arresta. La lotta del soggettivo e di ciò che lo corrompe estende ormai i limiti della vecchia lotta di classe. La rinnova e la inasprisce. Il partito preso della vita è un partito preso politico”.
E’ questo un momento fondamentale - ora non sembra più forzato parlare di “anno zero”, come ipotizzava l’anno passato Franco Quadri nel suo Patalogo - tempo di passaggio, sul tavolo non ci sono soltanto decisioni atte a modificare lo status del teatro italiano, ma è in gioco l’esistenza, anzi la sopravvivenza, di devianze culturali. Che i Teatri Stabili e l’ETI diano un’impronta manageriale al sistema maggiormente finanziato, e che le Regioni - a cui lentamente si stanno spostando le responsabilità (e gli oneri) dell’amministrazione dei fondi per la cultura dello spettacolo dal vivo - seguano dei criteri di selezione dipendenti dal colore del governo locale, sono processi altamente discutibili ma oramai improcastinabili. Non è più possibile, rischio l’annullamento improvviso (un coup de théâtre degno del più grande dei drammaturghi) del sostegno statale.
La tragedia-farsa dell’undici settembre, quello che accadde a Genova al G8, l’assassinio di Biagi, il depauperamento della cultura di massa che si sta abbassando a livello di idiozia nazional-popolare, sono tutte spinte che portano inevitabilmente i teatranti a porsi molte domande, e quindi è materia incandescente che fluisce nei teatri o nei luoghi di espressione del pensiero.
In uno scoppiettante articolo apparso nel numero doppio 26-27 de Lo Straniero diretto da Goffredo Fofi9, Massimo Marino traccia un ritratto tragicomico delle dinamiche di potere insite in diversi Teatri Stabili (Parma, Torino, Roma), sfiorando figure limite come il maestro Ronconi, la critica Rita Cirio, i “quattro consoli di Roma”, e altre maschere di questa commedia dell’arte post-moderna. Le conclusioni di Marino sono due: da una parte egli denuncia il rischio concreto che non rimanga “che il lettino dello psichiatra per artisti senza circuito e senza produzione, per organizzatori scorati” (e qui cito in prima linea Massimo Munaro, al quale è stato tagliato l’intero sostegno per il festival Opera Prima, zona franca che ha co-generato una generazione di compagnie). Marino si chiede se siano stati tutti illusi, se il loro promuovere forme di teatralità differente, “all’altezza di tempi confusi”, sia stato vano. Personalmente risponderei di no, che è stato un lavorio coraggioso quanto incosciente, nel senso di non fare i conti con un’evoluzione politica che dieci anni fa era senz’altro poco prevedibile. E poi mi resta la convinzione che oramai lo scarto si sia compiuto, sebbene i dinosauri continuino a solcare i mari e a calpestare il suolo: il teatro di questi gruppi è entrato nel sangue, ha dichiarato la morte del teatro da Stabile, che già nelle produzioni dei gruppi giovanili risente “paurosamente” di queste influenze performative, legate al corpo, ad una ricerca sui linguaggi, al mischiarsi delle arti visive nelle cose serie del teatro.
La seconda conclusione che Marino traccia nel suo intervento è che si vada alla ricerca (e che lo si incontri, prima o poi) di un “qualcosa diverso dal teatro che conosciamo, un bisogno assoluto di conoscenza, di concentrazione, di spiazzamento”. Questo qualcosa esiste già, i gruppi che fanno parte di questa raccolta di interviste sono già parte di quel qualcosa. Pulsa ancora il cuore in fondo alla melma che ricopre il mondo, pulsa ed è un pulsare vitale. Se soltanto gli amministratori si rendessero conto di quello che esiste adesso fuori dai teatri.
Infine, prima che la critica agisca in merito, sottolineo che questo titolo è nato indipendentemente dal grande saggio programmatico di Peter Brook, The Empty Space (1968) 10, sebbene a conti fatti vi siano alcuni elementi in comune. Come i testi utopistici dimostrano - un esempio è il celebre Utopia (1516) 11 di Tommaso Moro - si parte dalla realtà, dalle cose così come sono, per delineare un quadro profondamente critico (pars destruens). A questo primo momento segue il tratteggio di un orizzonte ideale, una città che non c’è ma che rappresenta l’optimum (pars costruens). The Empty Space è stato un’utopia realizzata attraverso un lavoro pluridecennale, un percorso di conoscenza, scritto non a caso nell’anno più confuso e vivificatorio della breve storia dell’Europa occidentale democratica e pacificata. Ne Lo spazio aperto si ripresentano spinte critiche e costruttive, sebbene il volume intenda innanzitutto svolgere una funzione di semplice testimonianza.
 
NOTE
 
1 Un volume d’analisi del lavoro del Teatro Valdoca sta per uscire per i tipi della Rubettino, a cura di Valentina Valentini.
2 Catalogo di Teatri ’90, prima edizione 6-16 marzo 1997, Milano.
3 L’intensa attività di formazione è documentata in Noboalfabeto, 1992-2001 dieci anni di non-scuola, Edizioni Ravenna Teatro 2, Ravenna, 2001.
4 Jarry 2000, (a.c.) Marco Martinelli e Ermanna Montanari, Ubulibri, Milano, 2000.
5 Efficace lo spettacolo Eidola: sottili veli di trasparenza dei Blusuolo III.
6 Questi sbandamenti esistenziali sono sondati nel teatro dei Motus così come nelle drammaturgie di Mark Ravenhill, Biljana Srbljanovic e altri giovani autori.
7 Dal documento finale “Nuovo teatro vecchie istituzioni: vecchio teatro nuove istituzioni” pubblicato sul sito di ateatro, a cura di Oliviero Ponte di Pino e Federica Fracassi.
8 Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni di Raoul Vaneigem, Malatempora, Roma, 1999.
9 L’articolo in questione si intitola Dell’irrimediabile politicizzazione del teatro in Italia. Farsaccia con intermezzi di Massimo Marino. L’articolo fa parte di una sezione dedicata al teatro, con articoli di Fofi, Martinelli e Montanari, Raffaella Giordano intervistata da Paolo Maier, Peter Brook, Richard Schechner, a cui segue un omaggio a Tadeusz Kantor.
10 Il teatro e il suo spazio di Peter Brook, Feltrinelli, Milano, 1968, in seguito ristampato.
11 Utopia di Tommaso Moro, Newton Compton, Roma, 1994.
 
Tiziano Fratus dirige ManifatturAE, tiene un laboratorio annuale di scrittura teatrale, insegna storia del teatro e della drammaturgia del ‘900 presso Teatranzartedrama, collabora con le riviste Sagarana (Lucca), Tribù Astratte (Palermo), Atelier (Borgomanero), con il sito Dramma.it. Una raccolta delle sue drammaturgie, Il destino fra i capelli, è in fase di pubblicazione. Di questi testi John Burlatti sfida la storia ha partecipato alla manifestazione Scrittori per la Pace. Ha scritto e diretto L’autunno per Eleni, andato in scena nella galleria d’arte contemporanea Velan di Torino lo scorso maggio, spettacolo che ha poi replicato al Word Stage di Arezzo Wave e al Festival Linguaggi di Pescara. Ha curato, oltre al presente volume, l’antologia Un albero in scena. L’arte dei versi nella drammaturgia italiana contemporanea, sempre per Editoria & Spettacolo, Roma, 2002. La sua prima raccolta poetica, Il circo siamese, verrà data alle stampa nel 2003.

 
L'indice del libro

De officis teatralis
di tiziano fratus
 
Una nota critica
di paolo maier
 
Interviste
01 - Ascanio Celestini
02 - Gloriababbi Teatro
03 - Roberto Latini
04 - Blusuolo III
05 - Domenico Castaldo
06 - Leonardo Capuano
07- Rossotiziano
08- Scena Verticale
09- Teatro Aperto
10- Motus
11- Teatro Valdoca
in soffitta - teatrografie


Convertito, abbandonato, degradato, conteso
Breve storia del Teatro Rossi di Pisa che può rivivere solo per poche serate
di Roberta Mannelli

È un emozione varcare per la prima volta la soglia di questo teatro, nascosto dove non ce l’aspetteremmo mai. Costruito tra il 1770 e il 1771 - secondo il gusto dell’epoca, quando si preferiva evitare la corrispondenza tra uso interno e involucro esterno dell’edificio - ci appare dunque all improvviso, preziosa gemma incastonata nel cuore di un ordinario antico palazzo.
I progetti a noi rimasti si riferiscono, non a caso, solo alla sua parte interna; ma questo singolo interesse dipese anche dalla posizione scelta per l’edificazione, alquanto defilata rispetto al centro cittadino vero e proprio; nonché dalla tendenziale introversione che presenta ogni edificio teatrale.
L’architetto prescelto dai Lorena - i quali a partire dal 1767 avrebbero privilegiato Pisa per trascorrervi l’inverno - fu Zanobi del Rosso, fiorentino, benché pochi anni prima anche Ignazio Pellegrini - già autore a Pisa di molti palazzi privati - si fosse cimentato in un interessante progetto. Forse quest’ultimo pareva ancora troppo legato al manierismo per poter soddisfare la richiesta leopoldina di un architettura dell’utile.
Del Rosso, allievo di Vanvitelli e Fuga a Roma, tornato in Toscana diventa un architetto di fervida attività, al quale saranno commissionate le più grandiose fabbriche del suo tempo, tra cui i due teatri di Pisa e di Fiesole. Vicino a un’architettura neoclassica venata talvolta di spunti rococò, per Pisa formula un progetto che tiene ben presente quello già ultimato da Orazio Cecconi, capomastro dell’impresa. Per la sala sceglie la forma a ferro di cavallo. Quattro gli ordini dei palchi, con venti palchetti per ogni ordine. Il palco reale, tre volte più grande di quelli normali, è conformato a balconcino, secondo la tradizione dei Bibiena (anche se purtroppo non è giunto così sino a noi, rimpicciolito e snaturato negli innumerevoli successivi restauri). I camerini per gli attori furono insolitamente previsti dall’architetto esternamente all edificio teatrale.
Ma non è questa la sola particolarità del teatro. La più rilevante sta nella sua forma esternamente irregolare, dovuta ad un piccolo edificio preesistente al margine orientale dell’area che costrinse, in pianta, ad inclinare il fronte meridionale verso l’interno, in corrispondenza del palcoscenico. Questo fu progettato molto ampio rispetto alle abitudini dell’epoca, con due aperture sulla parete di fondo.
Lo spettatore rimane perciò piacevolmente sbigottito nel trovarsi di fronte un palcoscenico che si estende stranamente con una profondità maggiore sul lato destro, creando una singolare asimmetria; e resta incantato dai due enormi archi a sesto acuto trasversali posti da del Rosso a troneggiare sul palcoscenico: soluzione del tutto originale rispetto alle consuetudini costruttive di simili edifici. Insomma, lo sfondo della scena non è altro che l’angolo acuto del palazzo visto dall’interno, con tanto di finestre e finestrelle; il tutto come incorniciato dalla imponente doppia arcata gotica.
Resta da capire come mai, all’epoca, si scelse di edificare il teatro nell’Orto della Dispensa Vecchia, dove avrebbe dovuto essere così condizionato nella forma. Probabilmente nell’ottica di una riorganizzazione di quella parte di città intorno a palazzo granducale, ristrutturato e ampliato esso stesso. Forse perché così il teatro poteva essere collegato direttamente, tramite un lungo corridoio, alla sunnominata residenza; o forse ancora per la prossimità di numerose proprietà della nobile famiglia Prini, da subito coinvolta nell’impresa e sua unica proprietaria dopo pochi anni.
 

 

Il teatro venne inaugurato il18 maggio 1771 con l’Antigono di Metastasio. Portato a termine dal capomastro Orazio Cecconi, presentava un apparato decorativo di Mattia Tarocchi ed il sipario dipinto dal celebre maestro Giovanni Tempesti, tutti pisani.
Il teatro fu subito intensamente utilizzato e sebbene le rappresentazioni fossero generalmente di carattere popolare, sappiamo anche di un’esibizione di Paganini nel 1818.
Negli anni si succedono gestioni diverse. Nel 1798, con l’imminente dominazione francese in Toscana, il teatro passa alla neonata Accademia dei Costanti che nel 1804 affida ad Antonio Niccolini il compito di dipingere il soffitto della platea, le pareti, il vestibolo e il nuovo sipario. Viene usato come modello il Teatro della Pergola di Firenze come accadrà, singolare ricorrenza, in seguito per il nascituro Teatro Verdi. Il pittore ed architetto Niccolini è quello stesso che pochi anni dopo ricostruirà il Teatro San Carlo di Napoli in tutto il suo splendore. In un suo scritto elogia vivacemente la perfetta acustica del Teatro di Pisa, purtroppo danneggiata dai successivi interventi di modifica.
Nel 1820 il teatro viene ceduto all’Accademia dei Ravvivati. Col 1824, che segna i grandi lavori affidati ad Alessandro Gherardesca, il teatro assume una diversa fisionomia. Viene modificata soprattutto la zona dell’ingresso: i grandi ambienti concepiti da del Rosso con spesse murature vengono sostituiti da un colonnato con capitelli ionici, che crea un unico vano molto più spazioso, di un amabile stile neoclassico. E’ l’atrio che troviamo ancora adesso. Il Teatro dei Ravvivati diventa un polo culturale di importanza sempre crescente, dove gli attori più famosi d’Italia amano esibirsi e dove si può assistere sempre più spesso a opere liriche di Donizetti, Verdi, Cherubini.
Per mancanza di adeguati restauri nel 1860 si arriva purtroppo al degrado. Gli attori di maggior importanza ora cercano di disertare la tappa pisana. Poi la data cruciale, il 1867, quando a Pisa viene inaugurato l’attuale Teatro Verdi, bello e decisamente spazioso. Questo avvenimento segnerà inesorabilmente l’inizio della fine per l’antico teatro granducale, declassato da allora in avanti a semplice comprimario della vita culturale della città.
Il 1878 registra un nuovo ciclo di restauri, nella speranza di poter competere così con il nuovo teatro. Si ha un ennesimo cambio di nome per quello vecchio, intitolato da quel momento all’attore livornese (perché mai, ci chiediamo) Ernesto Rossi. L’intervento più evidente è quello apportato dall’ingegner Studiati nel 1912, il quale, seguendo ancora una volta l’esempio del fiorentino teatro della Pergola, demolisce le parti in muratura del quarto ordine di palchi riunendo tutto in un’unica galleria. I parapetti saranno sostituiti da una sinuosa ed elegante balaustra di ferro lavorata a motivi stile liberty, opera di Lelio Titta, padre del celebre baritono pisano Titta Ruffo, che abbiamo potuto ammirare anche noi.
Ma questo seppur felice ammodernamento non basta a rinnovare le sorti del vecchio teatro, ormai segnate dall’avvento del nuovo e ampio Verdi, dalla concorrenza di numerosi altri edifici teatrali in Pisa e dal crescente interesse per una nuova arte dello spettacolo: il cinema. Il Teatro Rossi dunque si vedrà costretto a snaturarsi, ospitando molte proiezioni cinematografiche.
 

 
Nel 1940 la società del Teatro Rossi fallisce. La Cassa di Risparmio di Pisa ottiene l’immobile alla conseguente asta, nello stesso anno, per una cifra irrisoria. Due anni dopo lo rivende per quella stessa cifra alla federazione fascista, che lo utilizza per riunioni e manifestazioni. Dopo la guerra, a cui il teatro miracolosamente sopravvive, diventa proprietà dello Stato italiano che lo possiede tuttora.
Tra il 1946 e il 1955 viene concesso in gestione a Luigi Bellini. In questo periodo viene impiegato per i più svariati scopi: rappresentazioni teatrali (per quanto sempre più scarse), proiezioni di film, conferenze politiche e incontri pugilistici. La destinazione principale sarà però quella cinematografica, tanto che si arriva a sventrare la sala centrale dei granduchi, dietro al palco reale, per creare una cabina di proiezione in muratura, danneggiando in gran parte le pareti affrescate.
Ma lo scempio non termina qui. Nel 1956 il Soprintendente dichiara che il soffitto della sala, affrescato da Niccolini e visibile ora in un’unica importante foto, non presenta alcun pregio artistico, per cui si può procedere alla demolizione. E così purtroppo accade.
Il Rossi continua tristemente a proiettare film sino al 1966, anno della sua definitiva chiusura. Il Comune di Pisa ha mantenuto in affitto il Rossi fino al 1977, destinandolo a magazzino-deposito di oggetti smarriti. Insomma, il nobile teatro è stato degradato a rimessa di motorini.
Nel 1981 il teatro viene affidato alla Sovrintendenza di Pisa. A contenderselo sono, nuovamente, la Cassa di Risparmio (che ha sede adiacente e gradirebbe la zona del retropalco per creare nuovi uffici) e il Comune. Cominciano le dispute per possederlo, mentre l’edificio ha bisogno sempre più urgente di restauri. Si dice che manchino i fondi, per cui vengono effettuati piccoli e graduali interventi di consolidamento, al solo scopo di garantirne la sopravvivenza, in attesa di una vagheggiata rinascita.
Oggi assistiamo a un tentativo di rilancio del teatro. Si sono mossi congiuntamente Comune, Provincia, Sovrintendenza, la neonata Fondazione Teatro di Pisa, i gruppi Teseco e Renova, affidando all’attore pisano Andrea Buscemi, diretto da Gianni Ippoliti, l’allestimento di Edmund Kean, testo-omaggio all’arte del grande attore scaturito dalla penna di Dumas figlio. Il 21, 22 e 23 maggio scorsi è stato così concesso a pochi iniziati (ogni serata poteva raggiungere un massimo di cento spettatori, quasi tutti su invito) di varcare dopo trentasei anni la soglia del teatro per sedersi in platea (l’unica zona agibile) su sedili portati per l’occasione. I trecento privilegiati hanno così potuto ammirare il teatro Rossi in tutto il suo fatiscente splendore regale, nella sua antica bellezza diroccata.
Per mantenere viva l’attenzione sul Rossi, dopo lo spettacolo di Buscemi-Ippoliti, è andata in scena Croisades, pièce di Michel Azama, drammaturgo francese contemporaneo. Il testo, che verte su una guerra senza nome, a racchiudere idealmente tutte guerre, è stato portato in scena dal 29 maggio al 3 giugno, in prima nazionale, dai giovani allievi del quarto anno di Fare Teatro e da una sola attrice professionista, per la regia di Franco Farina e Lorenzo Mucci. Ma hanno promesso di dare una mano al settecentesco teatro Flavio Bucci, Giorgio Albertazzi, Rossella Falk e Marina Malfatti. Nei giorni di Croisades Alessandro Benvenuti ha tenuto un incontro col pubblico all interno del teatro stesso e Alessandro Bergonzoni è stato protagonista di un videointevento trasmesso ogni sera prima della rappresentazione. Il 27, 28 e 29 giugno, giorni in cui la Scuola Normale di Pisa vi ha poi portato in scena la lettura teatralizzata della Divina Commedia dantesca, sostenuta da un progetto scenografico innovativo e di grande suggestione, per un coro di 254 voci.
Queste giornate di apertura straordinaria sono state concepite allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di completare il restauro del teatro. Per salvarlo si dice. Benché il soprintendente Guglielmo Malchiodi parli non di teatro, ma di edificio da salvare e da restituire alla città come spazio per momenti espositivi, musicali, culturali in genere. Con questo obiettivo l’iniziativa di rilancio sta proseguendo sulla strada che per il soprintendente è l unica da percorrere: quella di una fondazione, un gruppo misto, pubblico-privato, che proceda alla gestione con finalità non solo di spettacolo. Il progetto di restauro dell’edificio esiste già da sei anni e prevede un esborso di oltre due milioni di euro.
 

 
Comune e Provincia, rappresentati dagli assessori alla cultura Fabiana Angiolini e Aurelio Pellegrini, non invitati alla conferenza stampa di Malchiodi, dalle pagine dei giornali si diichiarano in disaccordo sull’eventualità di una seconda fondazione teatrale in città, a loro parere controproducente. Disponibilità totale degli enti locali, invece, sul restauro del teatro, di cui è stata richiesta più volte l’acquisizione al Ministero dei beni culturali (la Soprintendenza è proprietaria del teatro per conto del suddetto Ministero), per rendere possibili interventi di sistemazione altrimenti irrealizzabili, data la attuale normativa che impedisce opere su immobili di cui non si abbia la titolarità. Pellegrini rincara la dose dicendo che sarebbe opportuno che la Soprintendenza intervenisse per impedire l’ulteriore degrado del teatro: «Chi ha voluto tenerlo, ignorando le richieste di vendita degli enti locali, è ora tenuto a salvaguardarlo: dopo si potrà ragionare di gestione. La Provincia è disponibile al confronto e a sostenere le iniziative che non sono pura accademia».
Il dibattito è continuato sui quotidiani locali con l’intervento di Ilario Luperini, presidente della Fondazione Teatro di Pisa, che individua il punto centrale della questione nella scelta del tipo di teatro con cui connotare il nuovo Rossi. Secondo Luperini la fisionomia della sala non può essere stravolta. Asserisce che Pisa avrebbe bisogno di un teatro dalla capienza medio-piccola (circa 400 posti) per quegli spettacoli che per le loro caratteristiche difficilmente si collocano al Verdi; e se questo progetto è possibile, continua il presidente, è necessario presentarlo al più presto. Si dichiara d’accordo a raccogliere un insieme di forze diverse, pubbliche e private, che mirino a restituire alla città un edificio con la funzione di teatro. Per quanto riguarda il problema della gestione dell’attività della sala, Luperini pensa che costruire un organismo che non tenga conto della presenza di un altro teatro, già dotato di una struttura gestionale ben consolidata e competente (ovviamente quella dal lui diretta), sarebbe un inutile spreco di risorse.
Continuare a contendersi il teatro e a palleggiarsi ignominiosamente le responsabilità, evitando per anni e anni di giungere ad una soluzione, cioè a come fare per restaurarlo definitivamente e così salvarlo, è una vergogna. Che poi si possa arrivare al restauro per destinarlo a attività che non riguardino la sua funzione primaria, è un vero sacrilegio.


Il teatro yoruba
(parte terza)
di Francesca Lamioni

Si conclude con questa terza puntata il saggio di Francesca Lamioni sul Teatro yoruba. La prima parte di questo saggio è stata pubblicata in ateatro 39-40, la seconda su ateatro41.
Il saggio funge da prefazione a Le Baccanti di Euripide: un rito di comunione di Wole Soyinka, cura e traduzione di Francesca Lamioni, pagg. 112, euro 12,00,
Editrice Zona, che sarà in libreria tra pochi giorni.
 
Teatro Moderno in inglese
Nel 1863 l’Inghilterra si assicurò definitivamente l’influenza sulla Nigeria, grazie all’annessione di Lagos ai suoi domini. La Chiesa missionaria, secondo la cosiddetta politica delle tre C - Cristianità, Commercio, Civilizzazione - cercò di dare vita a una classe d’élite nigeriana che avrebbe detenuto i ruoli base nella politica, nell’economia e nella chiesa stessa. Per questo motivo l’istruzione divenne di tipo totalmente occidentale. Nel 1886 fu aperta l’Accademia, che fu definita un centro sociale e culturale per il divertimento pubblico, teso a promuovere arte, scienza e ogni altro genere di cultura. In seguito centri di questo genere si moltiplicarono, diventando la sede principale degli spettacoli, per lo più impostati sullo stile dance-hall dei primi anni sessanta inglesi, con canzoni comiche e d’amore, duetti, storielle e sketch in cui la musica tendeva a predominare sulle altre forme espressive. Verso la fine del secolo essere colti, a Lagos, significava avere acquisito un gusto vittoriano, con tutta la sua vacuità e superficialità: si andava alle corse dei cavalli, si giocava a cricket e si andava al teatro, anch’esso ovviamente promosso e monopolizzato dai ceti sociali più elitari. A causa dell’esorbitante costo dei biglietti il teatro non era avvicinabile da gran parte della popolazione e con la Prima Guerra Mondiale e l’avvento del cinema subì un crollo.
Dopo la guerra si diffusero molte confraternite che predicavano un ritorno alla spiritualità e all’essenza della religione: coscienti dei legami fra trance, teatro e religione gli uomini di chiesa cercarono di ridare vita alla danza, alla musica e alle canzoni tradizionali, restando però sempre vincolati alla tradizione ecclesiastica occidentale. Nel 1944 fu determinante l’entrata in scena di Hubert Ogunde, che con la sua Native Opera liberò il teatro dagli stretti confini dei monotoni ritmi di chiesa, dando vita a un nuovo stile brillante, usando musiche e danze yoruba. Pur tuttavia il linguaggio teatrale era ormai compromesso da anni di dominazione straniera e gli spettacoli offrivano come tematiche un miscuglio di elementi attinti dalla Bibbia, da Shakespeare, dalla commedia americana a dalla retorica vittoriana. E’ in questo contesto che si inserisce il 1960 MASKS, gruppo teatrale che appare nel 1960 a Ibadan, sotto la guida di Wole Soyinka. Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986, è il maggior esponente del teatro nigeriano e africano; egli ha dato vita a un nuovo linguaggio teatrale, mescolando elementi della tradizione africana e occidentale, affrontando tematiche molto attuali: la sua vasta produzione teatrale (edita in Italia da Jaca Book nelle antologie Teatro 1 e Teatro 2) affronta le problematiche dell’Africa contemporanea, che si trova a fare i conti con un’indipendenza acquisita soltanto a metà, risultato - talora alienato - della colonizzazione dei paesi europei. Altro aspetto caro alla produzione letteraria di Soyinka è quello del rito, trattato sia dal punto di vista mitologico-religioso (in cui l’Autore mostra l’importanza della tradizione per la costruzione del patrimonio etico di un popolo) che sotto l’aspetto della degenerazione nel fanatismo religioso e nell’uso corrotto del divino per manipolare le masse. Soyinka ha spesso sottolineato il parallelismo fra il pantheon yoruba e quello greco, in particolar modo fra il dio Ogun e il Dioniso ellenico: a questo proposito è assai interessante il suo rifacimento della tragedia Le Baccanti di Euripide, la cui traduzione in italiano verrà pubblicata dalla casa editrice Zona fra poche settimane. Insieme a Soyinka fra i principali rappresentanti del teatro nigeriano moderno ci sono Obatunde Ijimere, John Pepper Clark e Ola Rotimi: antimaterialista e mistico, il primo attinge da fonti religiose nigeriane e straniere; discepolo della fratellanza e dell’universalità, il secondo elabora sapientemente gli stili poetici stranieri, rifacendosi soprattutto all’antica Grecia. Ijimere è nato in Nigeria nel 1930. Dopo avere terminato il liceo si è unito alla compagnia di Duro Ladipo, che ha lasciato subito dopo per frequentare corsi di Ulli Beier sugli scrittori ex moenia. In seguito ha scritto alcune storie brevi e quattro opere teatali: The Fall of Man, in pidgin, The Imprisonment of Obatala, Everyman e Woyegi. Al 1967 risale Born with Fire on his Head.
John Pepper Clark, nato nell’Ijaw occidentale nel 1935, ha frequentato il Government College di Ughelle e completato la sua formazione con una laurea in inglese presso l’Università di Ibadan, nel 1960. Mentre era studente ha fondato “The Horn”, una rivista studentesca di poesia nella quale apparivano anche alcuni suoi versi. Dopo la laurea ha lavorato come impiegato presso il Ministero dell’Informazione di Ibadan. Nel 1961 è diventato direttore di uno dei reparti dell’Express Group of Newspaper a Lagos. Al 1962 risalgono The Masquerade e The Raft, seguite da America, Their America, frutto della sua personale esperienza americana e sorta di travel-note. Dal 1963 al 1964 è stato ricercatore presso The Institute of African Studies di Ibadan e in seguito è diventato lettore d’inglese all’Università di Lagos. La sua terza opera teatrale, del 1965, s’intitola Song of a Ghoat; ha scritto inoltre poesie e numerosi saggi critici.
Ola Rotimi è nato nel 1938 ed è coetaneo di Soyinka e Clark; il suo teatro però sembra un ponte fra la tradizione drammatica yoruba e una forma di avanguardia. Rotimi ha studiato a lungo la tradizione yoruba quando era ricercatore all’Università, pur non essendo uno yoruba puro ma un misto fra yoruba e ijaw: egli stesso ha confessato di parlare più correttamente l’inglese dello yoruba. Fra le sue opere più celebri troviamo la tragedia Kurunmi, del 1969, Ovanramwen Nogbaisi e The Gods Are Not To Blame, entrambe del 1971; l’ultima delle pièces citate è un rifacimento della tragedia Edipo Re di Sofocle, trasferita in suolo yoruba.
Il giovane teatro africano presenta ancora molti problemi per gli scrittori che intendono occuparsi professionalmente di drammaturgia. I problemi principali a cui essi vanno incontro sono di tipo tecnico: mancano infatti in Africa gruppi di attori professionisti e anche bravi registi in grado di mettere in scena le opere restando fedeli al messaggio dell’Autore; c’è inoltre il grande ostacolo della lingua, del quale ho parlato precedentemente. Molti scrittori si sono impegnati nel dibattito sul teatro e lo stesso Soyinka vi ha preso parte con un saggio intitolato Towards A True Theatre, in cui espone il suo punto di vista in proposito.

Qui Soyinka narra la sua esperienza presso un teatro a Kampala, che gli è apparso come la miniatura di un teatro di provincia inglese: corridoi in cui la gente beveva gin e conversava, sontuose toilette, poster affissi al muro che riproducevano opere e attori inglesi di tutti i tempi, da Richardson a Oliver e altri della Old Brigade. Il tutto dava l’idea che la New Shakespeare Theatre Company stesse facendo una tourneé nell’Africa occidentale:
 
L’edificio stesso è un esempio del generale fraintendimento della parola teatro. Il teatro, in particolare il teatro nazionale, non è mai la massa di legno e cemento che gli architetti piazzano su un pezzo di terra. Abbiamo sentito dell’esistenza di un Teatro Nazionale e siamo corsi pieni di gioia: abbiamo trovato un edificio elegante nel centro della città. Quello che abbiamo trovato è una sorta di sfarzosa Casa delle Bambole, sorella gemella del National Museum.

 
Ulli Beier è uno studioso europeo appassionato della tradizione nigeriana che si è trasferito da molti anni in Africa a studiare gli usi e i costumi yoruba ed è stato accettato come parte della popolazione, al punto di essere stato iniziato al culto egengun, rituale di estrema sacralità precluso stranieri.
2 W. Soynka, Towards A True Theatre, in Y. Ogunbiyi, Drama and Theatre in Nigeria: a critical source book, Lagos, 1981, pp. 457-461
3 Ibid., p. 457.



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Bit bit hurrah!
Villette numerique, Parigi 24-29 settembre 2002
di Anna Maria Monteverdi

Inaugurato all'insegna del molto popolare Villette numerique, prima edizione di un Festival biennale dedicato alle arti digitali diretto da Frédéric Mazelly, ha invaso ed elettrificato per sei giorni, dal 24 al 29 settembre la città di Parigi e nello specifico il Parc de la Villette. Sotto l'alto patrocinio (e il sostegno economico) di France Telecom, Ministero della cultura e della comunicazione, Regione de l'Ile de France, il Festival ha richiamato il grande pubblico grazie anche alla presenza di eventi musicali di rilievo quali il concerto dei Kraftwerk, pionieri della musica elettronica e quello dei GRM experience. Per quanto ben lontano dal traguardo dei trentamila visitatori previsti, forse un po' troppo ottimistamente, Villette numerique, la cui apertura era stata criticata da Didier Fusellier, direttore del Festival Exit della Maison des arts di Créteil, ha effettivamente catalizzato l'attenzione generale dell'intera città.
Dislocato tra la Cité des sciences et de l'industrie, la Grande Halle e la Cité de la musique, il Festival prevedeva un numero altissimo di eventi, performance, spettacoli tecnologici, installazioni video e sonore interattive, proiezioni e incontri sul cinema digitale e sul film d'animazione (con finestre sui vari Festival: Imagina, Film d'animation d'Annecy, Acm-Siggraph), ed infine workshop (tra cui quello su danza e tecnologia a cura di Armando Menicacci di Mediadanse, Paris VIII). Un'importante sezione era dedicata agli approfondimenti teorici, chiamata Medialounge ideata, organizzata e coordinata dall'associazione Anomos, che ha messo nel carnet degli appuntamenti, incontri con ricercatori, critici ed artisti. Gli atti del convegno verranno pubblicati nella rivista „Anomalie“, organismo divulgativo su arte e media “generato“ da Anomos.
Villette numerique annoverava, inoltre, (e si trattava dell'area di gran lunga più frequentata) una sezione dedicata ai giochi intitolata (non a caso) Playtime, e Nuits électro, dj set che si protraevano per buona parte della notte. Collegato al Festival anche un concorso internazionale di net-art vinto da http://akuvido.de/www/; http://www.inbarnarak.com/ruthron/volume e http://www.flyongpuppet.com/shocl/oneday.htm.
Segnaliamo, inoltre, www.lecielestbleu.com di Jacques Birge (sito di giochi interattivi: tra questi lo zoo sperimentale, dove è possibile spostare e far ruotare pezzi di un cavallo e dare vita a un animale mutoide); e soprattutto Guerriglia news network dei GNN: si tratta del sito creato dai veterani di Mtv sulla falsariga del sito delle news della CNN, con détournement delle immagini televisive fatto da artisti hip hop americani e montati secondo le tecniche di scratch video dei Guerrilla tapes.
Prima edizione di un Festival non particolarmente entusiasmante Villette numerique segue altri tentativi di manifestazioni votate alla creazione elettronica e digitale (Global tekno, 1998; Mix move, 2001). Lontano dal proporsi, come invece la stampa locale titolava, quale versione francese di Ars electronica (la manifestazione legata alle arti video di Linz), questo Festival è, comunque, un primo coraggioso tentativo di proporre, riunificandole, le arti della (nuova) visione (e del nuovo ascolto) digitale in un contesto finalmente aperto al grande pubblico e non soltanto a quello degli “addetti ai lavori“.

La sezione DIGIT@ART, collocata alla Cité de la Science, relativa alle installazioni interattive, è stata realizzata grazie al sostegno e alla collaborazione dell'Università Paris VIII (in particolare il Laboratoire Mediadanse, il CICM Centre de recerche en informatique et création musicale, il CIREN Centre interdisciplinaire de recerche sur l'esthétique numérique, Università Paris I, e numerose Scuole e Accademie di Belle Arti (tra cui l'Ecole Nationale Supérieure des Arts décoratifs, l'ARI-Atelier de recherches interactives, Paris VII; KHM-Accademia di arti e media di Colonia).
Il direttore artistico della sezione, Jean-Louis Boisser, docente all'università di Paris VIII, ha selezionato opere che esploravano i temi del gioco, dell'estetica della relazione e della variabilità.
La visione era purtroppo sacrificata a causa dello spazio ristretto e dell'affollamento generale (siamo dentro un Museo della scienza frequentatissimo dai bambini...).
Tra le opere interattive esposte da segnalare Morphoscopie du transitoire di Tania Ruiz che rende concreta e visiva la temporalità intesa come sequenza, come stratificazione di momenti, dell'immagine video; J'efface votre trace di Du Zhenjun, sorella minore di Coro di Studio azzurro. Si entra in uno spazio rettangolare di metri 3 x 9 nel cui tappeto sono proiettati corpi nudi che, grazie a sensori collocati a terra, si “accorgono“ della nostra presenza e non appena proviamo a percorrere questo spazio, iniziano a pulire le nostre tracce, lavando e strofinando il pavimento. L'installazione Newyorkexitnewyork di Priam Givord e Martin Lenclos ci trasporta, invece, dentro le intricate maglie della città di New York, la cui immagine è proiettata su un grande schermo 3D. La visita virtuale, effettuata grazie a un joystick, diventa l'esperienza visiva e sonora di un paesaggio urbano visto da una macchina in corsa dalla quale è possibile effettuare liberamente mille deviazioni dalla strada principale.
 


La sezione SPECTACLES prevedeva uno spettacolo di teatro (Calderon da Pasolini, di Jean.Marc Musial), due di danza (Blue provisoire- Yann Marussich e D.A.V.E. di Klaus Obermaier e Chris Haring) e un'opera lirica digitale (Comme cela vous chante, Equipe Image numérique e Réalité virtuelle, Paris, VII).
 


L'inserimento di una pièce teatrale nella kermesse degli eventi complessivi, ci è sembrato più un dovere che non una scelta realmente meditata. Questo Calderon non era, infatti, a nostro avviso, rappresentativo del panorama attuale del teatro tecnologico né francese, né internazionale. Si trattava di un'affastellarsi di schemi, monitor impilati che riempivano la scena come disturbante “moltiplicatore di sguardi“, omaggio ad una contemporaneità già datata, e producevano come unico effetto, da una parte un fastidioso horror vacui e dall'altro un intollerabile bombardamento retinico. Immagini tratte dai documentari televisivi sulla guerra di Spagna, sulla Spagna post franchista e su Pasolini, passavano sui monitor, mentre a ricordare che si è sempre “dentro una cornice,“ campeggiava, da ispirazione pasoliniana, il quadro di Velasquez Las meninas in cui l'osservatore è incluso nell'opera grazie allo sguardo del pittore che si autorappresentava, rompendo l'illusione dell'arte. Un operatore con una Betacam riprendeva in diretta i personaggi di questo tableau vivant scenico vestiti o alla moda della Spagna del 600 o da reduci della Prima Guerra mondiale, proiettando in diretta parti del loro corpo su un grande schermo, citazione forse di quel capolavoro di teatro tecnologico che è Il mercante di Venezia di Peter Sellars dove ogni personaggio era esplorato attraverso la duplicità della sua maschera sezionata in corpo reale e immagine televisiva, a svelare il potere mistificante del media.
In questa sezione ci saremmo aspettati piuttosto Jean-François Peyret, autore di un interessante progetto sulle Metamorfosi o Jean-Lambert Wild, regista di un' Orgia tecnologica “pasoliniana“ di cui avevamo dato notizia sui numeri scorsi di ateatro; spettacoli acclamati dalla critica che avrebbero potuto raggiungere in occasione di una manifestazione come Villette numerique, un pubblico che normalmente non frequenta i teatri (tantomeno un Teatro nazionale come il Théâtre de la Colline dove lo spettacolo di Wild era andato in scena lo scorso febbraio) e avrebbero offerto l'opportunità (anche a noi stranieri) di vedere spettacoli tecnologici di rilievo che, a causa degli alti costi e della difficoltà delle sale ad accogliere questo genere “ibrido“ del teatro di ricerca, spesso nascono e muoiono in un brevissimo arco di tempo.
 
D.A.V.E. (Digital amplified video engine)
Klaus Obermaier e Chris Haring
 


fptp Marianne Weiss.
 
Geniale spettacolo di danza ideato dai due artisti austriaci Obermaier (creatore delle musiche e delle immagini video) e Haring (danzatore e coreografo) sul tema dell'ibridazione, clonazione, manipolazione del corpo umano in epoca di riproducibilità biotecnologica. Si tratta di citazioni e di un'ironica presa in giro di tutte le modalità con cui la letteratura e il cinema (da quella classica a quella di science fiction cyberpunk, al genere splatter) ma anche la storia dell'arte hanno raccontato le mutazioni e relative ossessioni di decostruzione (che diventa in questo caso “malleabilità“ e “intercambiabilità“) dell'identità: dalla Metamorfosi di Kafka al Neuromante di Gibson, da Videodrome di Cronemberg a The mask).
In effetti proprio queste stratificazioni di immagini video, proiettate direttamente sul corpo (quasi "innestate", con una precisione di movimenti da parte del performer che raggiunge la perfezione), che apportano membra, occhi e bocche e lo deformano all'estremo senza però intaccarlo, rendono virtualmente (che in questo caso equivale a un “magicamente“) il corpo figura mitologica: metà uomo e metà animale, metà donna e metà uomo, ma anche metà uomo e metà macchina, metà uomo e metà “cosa“, forma indefinita che fuoriesce da un ammasso di pietra (come i Prigioni di Michelangelo).
La nuova carne proposta nello spettacolo è parente stretta del cyborg di Donna Haraway, dei post umani di Sterling ne La matrice spezzata, ma soprattutto di quella carne macellata con cui Deleuze definiva le figure umane di Bacon. Come i quadri di Bacon, infatti, creati a partire dalle “fotografie in movimento“ di Muybridge, che dànno l'impressione di aderire ad un principio “cinematografico,, della visione, implosi nel loro urlo fossilizzato nella tela che incrudelisce la carne e che equivale alla vita in ciò che essa ha di irrappresentabile, così lo spettacolo restituisce un corpo che negando le regole di equilibrio e di armonia, è letteralmente scorticato, stritolato, meccanizzato e ossimoricamente in movimento e in stasi, in rotazione e nella sua fissa frontalità. Per un momento lo spettatore rimane spiazzato: non trovando più davanti ai suoi occhi il corpo, pensa che questo sia stato ingoiato dall'immagine, divorato e poi vomitato in forma allucinata. Il dubbio è se quello che sta vedendo in scena sia un ologramma o un essere umano in carne ed ossa. Mutazione come seconda natura, come una sorta di “felice“ alienazione dell'uomo nella sfera bio-tecnologica, passaggio indolore ad una nuova realtà, a una nuova “artificialità naturale“. “Il video fa parte del corpo“ -ricordano nella nota di sala gli autori- “o meglio, il danzatore fa parte del video“.
 
360
Granular Synthesis
 


Spettacolare la struttura concepita per 360°, opera installattiva ideata dal duo austriaco Granular synthesis, artisti legati soprattutto alla creazione video e alla sperimentazione musicale elettroacustica: un'architettura circolare avvolge il pubblico con 16 schermi monumentali; l'impressione è quella di entrare in un'arena o in un enorme gasometro o in un'improbabile cattedrale, all'interno della quale ci si immerge collettivamente (e sgomitando...) in un universo fatto di luci flashanti, intermittenti, di immagini che non riescono a prendere forma e rimangono “neve“, schermo senza segnale, e di sonorità fatte di risonanze e riverberi. Il ritmo è quello cardiaco, sistolico e diastolico. Le forme e le luci sembrano generate direttamente dai decibel. Tutt'altro che esperienza rilassante, casomai incubo, 360° ci porta in un'interiorità angosciante; è l'esperienza di un “dentro“: circuito, chip, bad sector, cervello. E la linea continua di luce che percorre gli schermi blu è un laser, un televisore dal tubo catodico rotto, un encefalogramma piatto, con alterazioni elettriche in corso (campi magnetici, scariche metereologiche o elettroshock?). L'impressione visiva e sonora è quella di abitare in un ambiente che ha definitivamente eliminato la differenza tra organismo, natura e macchina in una sorta di somiglianza “elettrica“ tra l'attività cerebrale, fenomeni perturbativi ed elaborazione digitale. Mi viene in mente la prima frase del Neuromante di William Gibson: “Il cielo aveva i colori di un televisore sintonizzato su un canale morto“.
 
Full play: a media dance project
E-101. Ideazione: Paolo Atzori Anthony Moore, Robert O'Kane.
Coreografia e performance: Bud Blumenthal.
Co-produzione: Sk Stiftung Kultur, Colonia.
Contatti: info:@art2b.net
 


Otto schermi di grandi dimensioni situati all'ingresso della Grande Halle delimitano lo spazio deputato per gli spettatori. Una pedana centrale rialzata è il luogo dove agisce il danzatore che è anche operatore-manovratore delle immagini e del suono. Il corpo in movimento, infatti, rilevato da sensori collocati a terra e da un sistema di motion capture e motion tracking, controlla sia il suono (potendo effettuare variazioni su 4 accordi di tre note ciascuno) che le immagini (preregistrate: il performer stabilisce con la sua danza, sequenza e velocità). La danza circolare porta all'interiorità e alla memoria: una casa, un giardino, dettagli di oggetti. E' un indagine introspettiva, il cerchio è il suo mondo. La narrazione è fatta di immagini e di suoni già preesistenti nell'hardware (ovvero, nella coscienza) a cui basta un gesto per farli “venire alla luce“. Se con il corpo, attraverso le direzioni, le diagonali, la velocità del movimento, ma anche attraverso il calore, il performer può generare armonie e fermi immagine, sequenze e accelerazioni, le immagini restituiscono il tempo della memoria, il passato, il rewind, insomma; lo stesso zoom, controllato anch'esso dal danzatore, sembra rispondere a un principio di affettività: fa affiorare una traccia mnesica. Le tecnologie sembrano simulare processi mentali. In fondo la storia, la memoria o come noi ricostruiamo una storia a memoria è una questione di recombination, di selezione, di montaggio, a cui i nostri desideri qui e ora danno un ordine (e un senso) sempre diversi.
Difficoltà tecniche hanno purtroppo menomato la performance di alcune parti, ma il ballerino ha intelligentemente compensato tale mancanza con una spiegazione pubblica sulle tecnologie digitali e sui sistemi impiegati per la creazione dello spettacolo.
Perché in effetti, nella generale (e per certi aspetti incomprensibile) volontà di nascondere a tutti i costi le tecnologie o di non palesarle, il pubblico che assiste a queste performance, ne comprende solo in minima parte il funzionamento e l'interattività diventa davvero soltanto una “questione privata“ tra il performer e il suo sensore.
 
Approfittiamo della nostra presenza a Villette numerique per incontrare Richard Castelli, direttore di Epidemic. Castelli ci spiega che Epidemic è un'importante struttura di progettazione, produzione, promozione e distribuzione di opere legate alla multimedialità, (video, film o performance live). Per Villette numerique Epidemic ha proposto 360, l'installazione ideata da Granular synthesis per lo spazio della Grande Halles. Questi alcuni degli artisti che fanno parte della “scuderia“ Epidemic: i giapponesi Dumb Type e Saburo Teshigawara, i francesi Art Zoyd, i canadesi Robert Lepage e La La La human steps (che saranno presenti al Festival RomaEuropa a fine ottobre). Totalmente assenti, invece, artisti italiani.
Castelli ci illustra brevemente la filosofia di Epidemic e le modalità organizzative e di intervento: Epidemic ha una struttura molto leggera, non ha una sede fisica, a differenza del CICV (il Centro di Creazione video Pierre Schaffeur con sede a Montbéliard-Belfort, nel castello Peugeot di Hérimoncourt; vedi www.cicv.fr), esiste in rete al sito www.epidemic.net.
Il compito principale è quello di lavorare su progetti multimediali che possono proposti dall'artista oppure ideati e formulati direttamente dalla stessa Epidemic: “Non c'è una regola, non c'è un metodo predefinito, dipende dalle diverse esigenze, dai diversi artisti“. Ma, come tiene a precisare Castelli, quello che è importante è il contenuto artistico del progetto, il quale una volta definito, deve essere seguito in tutte le fasi del suo processo. Epidemic studia il piano complessivo del progetto, individua i possibili e più adatti partner, sia essi istituzioni pubbliche, centri artistici, festival, o industrie interessate a finanziarlo interamente o a coprodurlo. Epidemic sulla base della tipologia del progetto, inoltre, ipotizza le collaborazioni: "connette" letteralmente artisti di nazionalità diverse, non secondo un procedimento casuale di melting pot, tiene a precisare Castelli, ma di profonda comprensione delle possibile affinità e sintonie tra i diversi artisti e rispettivi ambiti ed estetiche.
Il regista teatrale e cinematografico Robert Lepage ha affidato a Castelli, per esempio, il compito di creare il casting per Zulu time, il cabaret tecnologico inaugurato lo scorso anno consistente in danze, acrobazie, proiezioni sui vari livelli di un'enorme arco di trionfo metallico (vedi www.exmachina.qc.ca).
La filosofia di Epidemic e la rete di collaborazione tra artisti è bene esemplificata dallo schema che si può trovare in rete al sito ufficiale, insieme con schede biografiche degli artisti e schede tecniche dei progetti già realizzati e quelli in corso di realizzazione.
 


Appuntamento al prossimo numero.
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