(56) 20.08.03
la narrazione & la voce

La narrazione e la voce
L'editoriale
di Redazione "ateatro"

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and1
 
La voce recitante
Una riflessione
di Nevio Gàmbula

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and11
 
A proposito di Hamletmaschine
ovvero Note sul tempo
di Milena Massalongo

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and12
 
L'oralità a teatro: una grammatica per immagini
Intervista ad Ascanio Celestini in occasione del Melpignano Rock Festival 2003 a Melpignano (Lecce)
di Giuseppe Vitale

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and13
 
Storie mandaliche 2.0 di Andrea Balzola e Giacomo Verde a Castiglioncello
Verso una narrazione ipertestuale
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and15
 
Raccontare non è recitare
Un mail durante le prove di Storie mandaliche
di Giacomo Verde

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and16
 
Ruzante futuribile tra suono e immagine
Più de la vita di Michele Sambin a Volterrateatro
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and19
 
Due giorni con Judith Malina e Hanon Reznikov
Il Living Theatre alla Spezia e al Festival Portovenere Donna
di Anna Maria Monteverdi con le foto di Enrico Amici

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and20
 
Il Bardo nel Palazzo dei Diamanti
La mostra Shakespeare nell'arte a Ferrara
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and21
 
Le tre onde dell'avanguardia teatrale made in Italy
Gabriella Giannachi e Nick Kaye, Staging the Post-Avant-Garde. Italian Experimental Performance after 1970, Peter Lang, Bern, 2002
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and22
 
Le recensioni di "ateatro": Kyla di Lars Norèn
A Volterrateatro
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56nd30
 
Le recensioni di "ateatro": I canti del caos dal romanzo di Antonio Moresco
Regia di Renzo Martinelli per Teatro Aperto
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and31
 
Le recensioni di "ateatro": I pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht
Regia di Armando Punzo, Volterrateatro 2003
di Alessandra Giuntoni

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and32
 
Scaparro si lamenta
(e allora la situazione è davvero disperata...)
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and80
 
La scomparsa di Ivo Chiesa
L'anima del Teatro di Genova
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and81
 
Una lettera al "manifesto" su Santarcangelo
Claudio Meldolesi e Oliviero Ponte di Pino sull'articolo di Gianni Manzella
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and82
 
Guerra di Pippo Delbono in anteprima a Venezia
Il documentario sulla tournée in Israele e Palestina
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and83
 
Oltre Moira...
Le foto di Jacopo Benassi in mostra a Nantes e in Italia
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro56.htm#56and84
 

 

La narrazione e la voce
L'editoriale
di Redazione "ateatro"

 

Il teatro di narrazione è certamente uno dei filoni di lavoro più interessanti e seguiti di questi anni. Ci sono stati naturalmente i caposcuola.
Nel suo Kohlhaas Marco Baliani ha gettato con rigore scientifico le basi teoriche e pratiche del genere, mettendo a punto i meccanismi d'attenzione che legato attore e pubblico. Poi ha provveduto ad allargare il campo: il suo Corpo di Stato, rivisitazione in soggettiva generazionale dell'omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, trasmesso a suo tempo da Raidue, è stato di recente pubblicato dalla Rizzoli.
In parallelo Marco Paolini ha esplorato il ruolo, il punto di vista e l'autorevolezza del narratore, prima con i risvolti autobiografici degli Album e poi con il suo «teatro civile» di fronte alla grande platea televisiva del Vajont. In questi anni ha continuato a produrre spettacoli e video senza cedere alla tentazione televisiva ma proseguendo in un lavoro che è insieme di ricerca drammaturgica e di impegno politico (su questo, vedi anche il testo di Isabella Scaramuzzi su Gente di plastica in ateatro 39).
Sulla loro scia, si sono mossi autori-attori come Laura Curino (anche lei, come Marco Paolini, con il supporto registico-drammaturgico di Gabriele Vacis), il bravissimo Ascanio Celestini, Davide Enia... Ora, come sempre accade, il rischio è che il genere possa diventare un cliché, con le sue regole non scritte, i suoi luoghi comuni e le sue scorciatoie. Restano poi sempre problematici, al di là degli artifici retorici, il rapporto con la memoria (che rischia spesso di tingersi di nostalgia, con venature consolatorie) e quello dell'autorevolezza del narratore (che non deve essere data per scontata). In una parola, resta sempre in discussione il valore politico (tanto per cambiare) di questa forma di comunicazione.
Negli scorsi numeri di ateatro avevamo già dedicato ampio spazio alla narrazione come genere teatrale e ai suoi esponenti (provate a digitare nei motori di ricerca interni al sito «narrazione» oppure «Paolini» o «Baliani»...). Ma a questo punto ci sembra utile approfondire e ampliare la riflessione, con uno speciale dedicato non solo alla narrazione ma anche a un problema a esso strettamente connesso, quello dell'uso della voce sulla scena. Ecco così in ateatro 56 un'intervista ad Ascanio Celestini (un narratore puro) e la feconda riflessione sulla voce di un attore-autore (e per di più colto) come Nevio Gàmbula (accompagnato da un saggio su Hamletmaschine che prende spunto dalla interpretazione del testo di Heiner Müller).
Una nuova frontiera è quella della narrazione elettronica: ci sta lavorando Giacomo Verde con Storie mandaliche 2.0, in residenza a Castiglioncello dal 18 al 30 agosto. Le prove di questo lavoro gli hanno anche ispirato una serie di riflessioni sul ruolo del narratore (e sul suo rapporto con l'attore) di notevole interesse (e forza polemica).
Un approfondimento merita anche il lavoro di Michele Sambin che a Volterrateatro ha presentato il suo assolo visual-musicale sul Ruzante e che tra qualche settimana a Milano sarà al centro di una retrospettiva che "Invideo" dedica alla sua attività di videomaker.
Ma ateatro 56 è anche altro. Tanto per cominciare, se ci fate caso, questo numero dedicato a «voce & narrazione» è pieno di belle immagini. Infatti ci trovate il diario di Anna Maria Monteverdi (testo) ed Enrico Amici (foto) , per due giorni con il Living Theatre, le riflessioni di Oliviero Ponte di Pino sul saggio di Gabriella Giannachi e Nick Kaye Staging the Post-Avant-Garde. Italian Experimental Performance after 1970 e sulla mostra di Ferrara su Shakespeare e la pittura. E naturalmente recensioni degli spettacoli dai festival...
Nelle news, segnaliamo la lettera che Claudio Meldolesi e Oliviero Ponte di Pino hanno inviato al "manifesto", e che il «quotidiano comunista» - malgrado una serie di rassicurazioni agli autori della missiva - non ha ritenuto finora opportuno pubblicare. Se volete capire le motivazioni e il contesto della polemica, trovate nel forum «Nuovo Teatro Vecchie Istituzioni» l'attacco di Gianni Manzella al Festival e alla sua direzione e la successiva lettera pubblicata dal giornale che hanno dato avvio alla polemica. Ovviamente siete invitati a dire la vostra...


 


 

La voce recitante
Una riflessione
di Nevio Gàmbula

 


“Melodie e recitazioni nuove dunque, ed egualmente toccanti, cioè antiche. Non quelle dei nostri nonni: intendo profondamente antiche, vicine al punto dove l’espressione diviene spavento. Eppure totalmente nuove. Linee sospese nel vuoto, oltre c’è poco altro. Abitatrici della notte, quale accompagnamento sarebbe per esse mai nudo abbastanza? Sono riuscito ad accostarvi solo la durezza del presente, le pietre battute, gli spari”.
S. Sciarrino

Da qualche anno la voce è al centro di un rinato interesse pratico, oltre che teorico e filosofico. Lo sviluppo di internet, e della relativa possibilità di scaricare conoscenze e file audio, permettono la scoperta di esperienze altrimenti relegate nell’oblio, e vengono alla ribalta dischi, libri, riviste e spettacoli che esaltano le possibilità espressive dello strumento voce. Questa rinascita di interesse per la vocalità assume immediatamente una doppia importanza: colma il vuoto lasciato dall’esiguità degli apporti teorici in questo campo, ed è un utile strumento per tentare di definire nuove traiettorie di senso, dando sostegno a quelle pratiche che mirano a far cortocircuitare il linguaggio e il senso comune. Una cosa però salta subito agli occhi: la carenza di contributi e di analisi che prendano a riferimento la voce recitante,ossia la voce per come è esperita dal corpo dell’attore. Mentre non mancano riflessioni teoriche e filosofiche sulla voce in generale, o sulla voce nel canto lirico e contemporaneo, è evidente la carenza di discussioni critiche sulla voce dell’attore. Con questo scritto vorrei non tanto colmare questa lacuna, possibile solo con un lavoro collettivo, quanto piuttosto contribuire ad aprire un dibattito. Nella consapevolezza che l’omologazione agli statuti del tempo presente delle modalità concrete della recitazione (e del teatro in generale) ha sempre più spinto ai margini ogni “metadiscorso”, e la critica teatrale - come l’analisi teorico-storiografica, sedi deputate ad affrontare la questione - s’è via via trasformata in semplice discorso precettistico finalizzato ad avvantaggiare un comparto produttivo piuttosto che un altro. Tale fenomeno, per di più, al pari di quella “perdita di memoria” che caratterizza il pensiero e la società contemporanea, ha contribuito al definitivo stritolamento d’ogni sperimentazione, anche di quella storicamente già acquisita. Non solo, quindi, l’attore non elabora quanto sta facendo, trascinando la propria “capacità ermeneutica” nel gorgo senza scampo della superficialità, ma il proprio fare subisce le condizioni del presente e si propaga nel “paesaggio agghiacciante” ripetendo prassi e modalità o tramandate da una tradizione già superata, o, nel peggiore dei casi, amalgamandosi a quel grande pastone inespressivo e abbrutente che è il televisivo. Nel gran bazar del teatro contemporaneo, l’attore ha permesso, con la sua omologazione all’ideologia dell’ascolto gradevole, di far scadere la recitazione nella convenzione più vieta, accettando supinamente la cancellazione di ogni “devianza espressiva” dal proprio agire.

Affrontando questo discorso, sarà per me gioco forza riferirmi a come la voce è stata ed è usata da alcuni “irregolari” del teatro, e in particolare da alcune tra le esperienze più anomale che abbiano avuto modo di mostrarsi sulle nostre scene. La definizione di irregolare, intanto, rimanda a una norma assunta come canone dominante. Chi, in un modo o nell’altro, se ne discosta, si mette cioè fuori la consuetudine comunemente accettata - è appunto un irregolare. La scelta di incentrare le mie attenzioni su questa porzione di attori, per altro molto limitata, è obbligata: perché sono ancora fermamente convinto della necessità di “scovare il nuovo”, o meglio, per dirla con Ernst Bloch, di scovare in ciò che è ciò che non è; così come credo che soltanto l’infrazione del senso comune può aprire la coscienza ad un’altra visione (del mondo, dell’arte, del teatro). E siccome, nella odierna società dello spettacolo, ciò che ha cittadinanza è una voce recitante accomodata sul “vuoto estetico” dei nostri tempi, concorrendo così al mantenimento e alla conservazione di ciò che è, la mia attenzione per le voci discordi è una necessità. Ma è anche il risultato di una concezione molto precisa e rigorosa dell’arte dell’attore: ciò che mi affascina è il tentativo degli irregolari di sottrarsi alla rappresentazione - alla ripetizione stantia di una “imitazione della realtà” dove ha valore la “battuta ben detta o del carattere bene interpretato” - per esaltare “l’azione diretta della phoné dell’attore, dove la voce si rifiuta di farsi protesi del personaggio e esalta la soggettività dell’interprete” (Maurizio Grande).
Tra le righe non potrò fare a meno di richiamarmi all’utilizzo particolarissimo della voce recitante fatto in alcune composizioni di musicisti contemporanei, in particolare in Luciano Berio, Salvatore Sciarrino e Heiner Goebbels. Esperienze a loro modo collegate con quello splendido movimento che, come bene scrisse Adorno, “ha dissolto criticamente l’idea dell’opera rotonda e compatta” e minato dall’interno “il tabù del rispetto della tranquillità del pubblico”. Di Berio è esplicativo, per il discorso che qui interessa fare, l’uso della voce nella terza parte di Sinfonia, del 1969. Una voce maschile si cimenta con alcuni frammenti di Beckett, ricorrendo a una sorta di recitarcantando moderno; in sostanza, la dizione del solista viene strutturata esaltando le possibilità musicali del significante, in un gioco continuo di inseguimenti ritmico-melodici con le voci femminili del coro e con l’orchestra. All’ascolto, l’alterazione del significante, pur non trasformandosi mai in canto vero e proprio, si dispiega in una complessa struttura vocale, con frequenti cambi di ritmo e di intensità: la quotidianità della lingua si infrange in un aggregato di fatti vocali “estremamente cangianti”. Di Sciarrino mi preme evidenziare la vocalità nell’opera Lohengrin (1982-84). Si tratta, come afferma lo stesso autore, di una “azione invisibile” che trasforma i suoni in teatro, dove la dimensione della voce recitante (quella dell’attrice Daisy Lumini) disarticola il percorso narrativo in una serie di suoni allucinati, tipici del sogno. L’incoerenza (rispetto alla prosodia del quotidiano) è spinta all’estremo e, tra articolazioni vocali prive di significato (sibili, soffi, respiri affannosi) e dilatazione ritmica delle parole, tra imitazione di suoni della natura e articolazione tremolante dell’elemento verbale, l’ascoltatore è spinto a “ricomporre con l'immaginazione e la memoria auditiva” la vicenda narrata. Anche il teatro musicale di Heiner Gobbels mira a sovvertire il rapporto tra testo e voce, puntando a sostituire, nella recitazione, la “fascia fonica convenzionale” della lingua con una “fascia fonica ideale”, arricchendo così la narrazione di senso ulteriore. È il caso dell’opera La liberazione di Prometeo, su testo di Heiner Müller. La struttura musicale prevede tastiere elettroniche e utilizzo di materiali pre-registrati, col supporto ritmico di una batteria e altre percussioni. Due sono le voci che danno sostanza al suono della parola: quella dell’attore André Wilms, tutta tesa a creare effetti vocali in uno spazio compreso tra una narrazione fortemente ritmica e un “piacere agonistico della voce”, avvolgendo la materia linguistica di gesti sonori finalizzati comunque ad evidenziare la rivolta del “ladro di fuoco”; e quella di David Moss, che con la sua andatura multi-timbrica, quasi da cartone animato, inventa fonemi senza significato, effetti vocali di contrappunto all’altra voce, trattando lo strumento voce come una sorta di intonarumori futurista; e Prometeo sembra qui farsi ladro di suoni vocali inediti. Tutte queste esperienze, estratte “a naso” da un catalogo ampio di sperimentazioni, mostrano come, a partire forse dallo Sprechgesang di Schoenberg, si sia giunti a un “approccio alla voce rinnovato grazie anche ad una nuova visione della parola come oggetto sonoro”, con parentele molto evidenti con il processo di rinnovamento che ha spinto, in ambito teatrale, alcuni attori a un’articolazione della voce ben oltre la semplice ripetizione dell’uso proprio del parlato quotidiano.
Esperienza fondante per questo discorso sulla voce recitante è sicuramente quella di Antonin Artaud. L’ostinato grido di Artaud è innanzitutto discorso critico, rabbia che per mostrarsi sceglie una struttura feroce, dove ritmo e intonazione sono gli elementi determinanti. L’esplosione dei segni, la danza vertiginosa che è presso Artaud, esibisce “un corpo che subisce il mondo”, pur non rinunciando a evocare “un altro amore”. Le metafore che utilizza per la figura dell’attore sono esplicite: l’attore è “un suppliziato che dal rogo invia segnali tra le fiamme”. Per rendere i segnali è necessario contrarre l’urlo, stanarlo dai suoi aspetti immediatamente psicologici per trasformarlo in canto, in “danza buccale”; la fisionomia dell’urlo, e il soffocamento relativo allo stare tra le fiamme, vanno regolati, e il fiato, pur contratto, deve modulare la voce tendendo al superamento della situazione: emanciparla dalla facile e piacevole melodia per mostrare la ferita d’un corpo costretto ad abitare “la merda del mondo”. Un canto che è “come un lamento d’abisso scoperchiato”. Un canto perturbato, sorta di lingua ritmica della passione, con la volontà di spezzare in grido la parola, o in singulto sillabato il dire, in irruzione di brandelli di suono la materia linguistica, in fremito vocale il corpo. Come un affollarsi di visioni in un deserto senza scampo. Il laboratorio di Artaud è una grande allegoria della libertà possibile: l’agire dell’attore al di fuori degli schemi della dizione teatrale rompe la rigidità della comunicazione dove domina la prevaricazione dell’Altro, indicando direzioni innovative nella relazione tra diversi; come bene dice Carlo Pasi nel suo fondamentale saggio Artaud attore, “il contro-ritmo di Artaud rovescia le cadenze uguali e contratte della quotidianità e la rottura dell’equilibrio ritmico apre nuove possibilità motrici e verbali”. Ma l’ostinato grido di Artaud oggi è muto, costretto al silenzio nel chiacchiericcio del teatro contemporaneo. E difatti, per lo meno nella stragrande maggioranza delle esperienze attuali, la vocalità dell’attore è costretta nelle rigide regole della piacevolezza; privata delle sue possibilità espressive, viene vincolata a strutture che favoriscono l’ascolto distratto. Nell’era della stupidità eletta a canone culturale, la vertigine liberante di Artaud è dunque omessa: solo l’evasione ha cittadinanza, insieme all’effimero. Quel “crogiuolo di fuoco e di carne”; quella irruente e dolorosa recitazione; quella declamazione ingolata, strozzata, dissonante; quella scossa; quella anomala “danza alla rovescia”; quel darsi trasfigurandosi, dilatando le possibilità espressive del corpo; quello che è stato il profondo insegnamento di Artaud è non solo trascurato nell’odierno svagato fare teatro, ma tralasciato deliberatamente affinché le attese del pubblico non vengano turbate.

Questa censura “è compressibile ma non tollerabile”, per dirla con le parole del compositore Gyorghy Ligeti. Comprensibile perché va da sé che l’attore non possa che recitare “in sintonia con lo spirito e la concezione della vita del nostro tempo”; non tollerabile perché il nostro è il tempo della barbarie tecnologizzata. Senza contare poi il fatto che, nel rovinare vertiginoso della cultura (nella sua completa dipendenza dal mercato), quella “sintonia”, nella stragrande maggioranza dei casi, è in realtà una forma di sottomissione: semplice adeguamento alla patina elegante delle confezioni estetiche con cui si mostra lo spirito del tempo. Non è difficile verificarlo; basta rifarsi agli ambiti anche più superficiali della cultura per riconoscerla come fosca rappresentazione del potere: “lo schermo dove al dominio è consentito di mostrarsi con i paludamenti del suo passato e nascondere così i modi reali in cui si riproduce presente, è lo schermo della cultura, questa incallita conservatrice di robe vecchie” (Giorgio Cesarano). La sintonia dell’attore col tempo presente, dunque, non può che essere estensione della dipendenza di ogni ambito umano alla tendenza alla tesaurizzazione propria di questi tempi: l’attore si adegua al declino, evitando di commentare il disastro e rifugiandosi nell’abitudine (“l’abitudine”, diceva Hegel, “è un agire senza contrasto”). Ma questo assoggettamento non è un processo lineare, come appunto dimostra l’esempio di Artaud. Ogni movimento riserva sempre la possibilità dell’agire in “contrasto”. C’è insomma, per l’attore, un’altra possibilità di essere in sintonia col proprio tempo: dare voce alla crisi di senso in corso, levando gli scudi per resistere al degrado e ai giullari di corte. Senza accordarsi alle assordanti note delle “leggi del capitale”. Ed è stato il tentativo di voltare pagina e procedere oltre delle “sperimentazioni più avanzate” cui si riferiva Ligeti: tentare un’altra strada, diversa dagli esiti fatti sistema propri del teatro dal secondo dopoguerra ad oggi, all’interno dei quali è maturata una odiosissima ripetizione dell’identico: tra piagnisteo naturalista e estetizzazione neutralizzante della scena, tra primato del testo e ruolo invadente della regia, tra il mito della narrazione lineare e la celebrazione del Grande Attore… Rifuggendo alla rappresentazione spettacolare del potere, si sono dischiuse esperienze capaci di coltivare “altre utopie”.

L’aprirsi di una condizione nuova della ricerca sulla recitazione la si potrebbe far partire dal famoso Convegno sul Nuovo Teatro di Ivrea del 1967, per quanto il Convegno stesso rappresentasse nient’altro che un punto di arrivo di percorsi aperti molto tempo prima. In quel Convegno si sottolinearono alcuni punti che sarebbero stati poi centrali per tutti gli anni Settanta, per diventare sempre più minoritari negli anni Ottanta (gli anni del rinculo culturale), sino a essere quasi del tutto dimenticati nell’ultimo decennio del secolo scorso. Emergeva la necessità di superare il concetto di messa in scena a favore di quello di scrittura scenica, meglio capace di evidenziare la peculiarità dell’evento teatrale: non più semplice trasposizione di un testo drammaturgico pre-esistente sulle assi del palcoscenico, ma intersecarsi dialettico dei diversi elementi nella costruzione del senso dello spettacolo. “Il mutamento di prospettiva introdotto dal concetto di scrittura di scena”, afferma Maurizio Grande, “assegna la responsabilità del teatro in quanto tale (non solo dello spettacolo) alla scena, vista come luogo di produzione di teatralità e non come sfera di manifestazione/realizzazione del testo nello spettacolo”. Questa concezione mirava dunque a far risaltare come parti costituenti la scena, insieme al testo drammaturgico, altri “spazi” particolari, dalla musica alle modalità recitative, dalla scenografia alla luminotecnica, ognuno partecipante a pari diritto degli altri alla realizzazione dell’evento. Il concetto di scrittura scenica avrebbe poi permesso di sottolineare l’autorialità degli agenti, e dell’attore in particolare, sino allo sviluppo di un fenomeno rivoluzionario, quello dell’attore-autore, cioè “di colui che è in scena, che recita, che è attore e che è comunque l’autore dell’opera-spettacolo che lo spettatore conviene a incontrare” (Antonio Attisani). All’interno di questo contesto, cambiano anche le valenze date alla voce recitante, la quale cessa di essere considerata un “elemento secondario” e di mero supporto dei significati della lingua. La voce recitante viene sempre di più ad assumere un’importanza rilevante nella sperimentazione teatrale, e in particolare per la sua capacità di fare acquisire ai suoni della lingua una sua autonomia e una portata decisiva nell’elaborazione dello spettacolo.

La definizione di interprete comunemente accettata - secondo Steiner “l’interprete è un decifratore e un comunicatore di significati”- non è sufficiente per definire in modo appropriato il lavoro dell’attore-autore. Non ci si può insomma limitare a considerare l’attore un semplice “esecutore” di materiali preconfezionati. L’attore-autore è anche un creatore: è colui che compone lo spartito drammaturgico, e che è quindi in grado di compiere delle scelte, di farsi cioè, insieme, critico impietoso del materiale e inventore di forme. E non ha importanza se i materiali cui ricorre per elaborare l’opera sono tratti dal testo preso a riferimento o da un modo particolare di impostare la dizione, da una serie di gesti elaborati in sede di improvvisazione o da una idea precisa di scena; da materiali, insomma, che esulano il testo scritto e sono invece bagaglio della pratica specifica di un attore che elabora con rigore, e modifica in sede di prova o laboratorio, i suoi strumenti e le sue capacità espressive. Il percorso dell’attore per fare cogliere un senso particolare, se non limitato alla mera esecuzione di un compito imposto dall’esterno (dal regista, oggi vero tramite tra le esigenze di commercializzazione degli spettacoli e gli attori), è un lungo processo, all’interno del quale convivono il lavoro di palcoscenico e l’elaborazione teorica, elementi che tendono a creare un determinato “stile” e una evidente “estetica” e che sono basati sulla capacità di agire criticamente sullo specifico e sul contesto culturale generale. L’attore-autore, quindi, è capace di orientare elementi disparati per dare vita ad una mutevole recitazione, la cui “metrica” è di volta in volta “spessa come fango, volteggiante, corpo gonfio e obeso, decomposizione ritmica”. Senza questa capacità, l’attore è relegato nell’ambito della esecuzione e la sua creatività risponde a standard eterodiretti.

Ora, qui è necessario sottolineare l’estrema esiguità di esperienze del genere; ci si misura con l’evidenza di un “ritorno all’ordine” ormai compiuto, dove l’attore-servo ha soppiantato i migliori esempi di alterità: non più i tentativi di inventare “un nuovo linguaggio”, o di fare della recitazione “una scommessa conoscitiva”, ma stantia ripetizione degli aspetti più comodi dell’espressione attoriale. A questo punto è dunque chiaro il panorama: accantonato l’attore inteso come “un corpo mutilato che rovescia il senso abituale”, com’è presso Artaud, e abbracciata la cordialità di una dizione acquiescente, tutta tesa ad esaltare l’integrazione allo stato di cose, si è definitivamente affermata l’armonia in luogo della contraddizione.
L’attore contemporaneo, nel migliore dei casi, addestra lo strumento voce alla rappresentazione di facili sentimenti, sempre facendo attenzione a non urtare troppo lo spettatore. L’emissione è fluida, bene accordata con i significati delle battute. Allo scopo di suscitare emozioni standard, l’attore contemporaneo ricorre ad un modo di porgere la parola che ha strette parentele con la parlata quotidiana, che ne mima i suoi tic, le sfumature, le pronunce. E censura i potenziali sonori della voce umana. L’attore trova nella voce soltanto un mezzo per articolare la “parte”, con cui intessere un reticolo di sonorità in cui l’enunciato coincide con i modi dell’enunciazione. L’arte del dire rimanda al significato della lingua, limitando le possibilità di vita “autonoma” del significante. Si potrebbe dire che l’attore contemporaneo privilegia l’utilizzo simbolico della voce.
Il “dogma vocale” dominante contagia tutto il teatro, favorendo di fatto una drastica limitazione dell’apparizione di esperienze tese a sperimentare una vocalità senza limiti, votata a schiudersi in uno spazio compreso tra il grido e l’afasia. In tale contesto, appare difficile la possibilità di uno studio analitico che prenda in considerazione una vocalità che si ponga al di fuori del mero “porgere la voce”, e che possano proporsi come esperienza altra da quella dominante. D’altronde, ci sono esperienze che pagano caro il prezzo del mercato. Se l’isolamento e la marginalità sono il destino di attori considerati indigesti rispetto al gusto corrente (Rino Sudano è forse il caso più eclatante), la museificazione, e la relativa neutralizzazione, riguarda attori di un certo “successo” costretti a soccombere sotto le pastoie di un interesse archeologico, separato dall’impatto sul presente, e nel migliore dei casi (si pensi al fenomeno Carmelo Bene) vissuti come una eccezione che non farebbe altro che confermare la regola della “bella dizione”. Viviamo nella certezza del dispotismo del mercato, all’interno del quale non è possibile, se non tra le sue piaghe, alcuna “essenza vitale”. E l’attore diventa protesi della merce e merce esso stesso, impossibilitato a confrontarsi con la possibilità di “un altro orizzonte”. Lo scopo della sua arte è quello dell’efficacia commerciale: bisogna essere in grado di usare una recitazione che sia “comprensibile” dallo spettatore medio; pertanto, va privilegiata l’attenzione ad una dizione che renda l’ascolto facilmente fruibile e senza impedimenti. La standardizzazione della lingua attorno agli stilemi dell’italiano parlato dai professionisti della parola nei media e nella pubblicità (“una lingua che non esiste”, scrisse Pasolini nel suo celebre Manifesto per un nuovo teatro), ha inoltre contribuito, da una parte a creare norme cui attenersi, dall’altra all’isolamento e al progressivo annullamento degli “stili negligenti”. Si crea uno stato di dipendenza delle modalità concrete della recitazione dal contesto culturale. Sono essenzialmente due gli elementi sintomatici di tale dipendenza: la forma dell’esposizione e la struttura tematica. La forma dell’esposizione è data dall’insieme dialettico di voce-gesto-movimento, ossia della disposizione di “fatti ritmico-intonativi” secondo una certa intenzionalità; mentre la struttura tematica rimanda a quello che potremmo chiamare il processo di significazione, là dove si “traduce la lingua delle cose nella lingua dell’uomo”. L’intersecarsi di questi due elementi crea il pensiero spettacolare diffuso, dove ha influenza una esecuzione da “rituale di intrattenimento”, trasmessa in condizioni di “tranquillità emotiva”, in forma rigorosamente affascinante e ammaliatrice, superficiale, spesso nostalgica, senza profondità e banalizzata all’eccesso. Ciò presuppone l’assenza (o la normalizzazione) di un senso deviante dai codici istituzionali e richiede all’attore un annullamento della propria esistenza nella immedesimazione (l’essere ciò che mostra); mentre lo spettatore ne deve ricevere la sensazione di sentirsi porzione di una “comunità particolare” votata alla celebrazione (del Grande Attore, del Regista Demiurgo, del Testo Sempre-fresco-e-attuale). Lo spettacolo odierno, in altre parole, è affollato di tensioni tutte rivolte a esaltare le sollecitazioni “culinarie” che il mercato impone.

La materia principale della recitazione è l’uso quotidiano della lingua, ossia quell’insieme “dei fenomeni che si sovrappongono o si accompagnano all’articolazione primaria dei suoni” che siamo soliti chiamare prosodia. Sul palco all’attore spetta “simulare” i tratti del personaggio; la lingua - la prosodia del quotidiano - gli permette di agire “la fisionomia (verbale e mimica) delle dramatis personae”. In questo modo, la voce dell’attore è serva di una identità fittizia - quella del personaggio; e allo stesso tempo è limitata entro la gabbia di intonazioni e ritmi propri della comunicazione ordinaria. L’aspetto semantico, nella sua varietà di mezzi lessicali, grammaticali e formali, è trascritto vocalmente nell’atto dell’interpretazione - il percorso prescrive che si dia coincidenza tra la significazione e la sua esecuzione in voce. Le sfumature della voce si conformano dunque agli stati d’animo del personaggio: l’emissione è “dolce e fievole nel sentimento amoroso; aspra e interrotta da sospiri nell’ira; patetica nella commiserazione; tremante nella paura…”. Nella ricerca più interessante, invece, la voce tende a frantumare il linguaggio quotidiano e a interromperne l’andamento ritmico: la phoné “spezza la significazione” e cambia l’ordine del discorso. Nella recitazione, l’attore-autore mira alla dissociazione tra significato e significante - privilegiando così un utilizzo allegorico del mezzo. Si assiste allora a una “strana enunciazione”: la traccia testuale si mostra per quello che è, con i suoi significati bene in mostra, mentre il tessuto vocale crea un altro spazio percettivo (è caratteristica del procedimento allegorico presentare, nello stesso spazio linguistico, “diversi significati”). E la partecipazione dello spettatore (l’atto dell’ascoltare), nella sorpresa di sentire qualcosa che non si aspettava, viene rivitalizzata.
In questa prospettiva è fondamentale riflettere su alcune esperienze teatrali degli ultimi trent’anni, perché pongono le premesse di uno sviluppo ulteriore nell’arte della recitazione. In una trattazione del genere è impossibile non cominciare da Carmelo Bene, vero apripista per ulteriori sperimentazioni sul rapporto tra materia verbale e voce. Memorabile, al riguardo, il Tamerlano radiofonico del 1976, con la regia di Carlo Quartucci. Quest’opera è un concentrato di energia vocale: una allucinazione sonora, dove ogni parola è detta con un “preciso ritmo alimentato col sangue”. Una sequenza di brucianti scariche vocali, sospesa tra un grottesco irridere la recitazione e invenzione di modi radicali: Carmelo Bene passa in rassegna una possibilità enorme di gesti vocali, dal grido alla dizione rapidissima e concitata, dal vagito d’un morente al rutto, dagli schiocchi di labbra al sibilo, dal dire isterico a una scarica velocissima di parole rese fonemi incomprensibili… Quanto di più radicale sia mai stato recitato, per di più mostrando una maestria senza pari nell’uso dello strumento voce. Certo, questa è una fase particolare della ricerca di Carmelo Bene, ancora non affascinato da quelle “seduzioni liriche” che caratterizzeranno il suo lavoro negli anni Ottanta (dal Manfred in avanti, con l’esaltazione di una phoné espunta da ogni “deformazione irridente”). Nel Tamerlano Bene recita i versi di Marlowe scortese più che mai, con ritmi da tamburo primitivo e con un ventaglio di variazioni timbrico-tonali da crollo nervoso. Una eruzione continua, tra esagitate scariche di sillabe e emissioni gutturali. Resterebbe da analizzare l’influenza sulla vocalità di Bene delle idee teatrali di Carlo Quartucci, unico regista, insieme ad Aldo Trionfo, con cui Bene si è cimentato.
Quartucci, come mostrerà anni dopo con una particolarissima versione della Pentesilea di Kleist, è stato uno dei pionieri del rapporto, in teatro, tra la musica e la recitazione, anticipando la concertazione musicale dei segni che farà di Carmelo Bene un maestro indiscusso. Il concetto di drammaturgia vocale è quello che meglio si presta a illustrare il lavoro di Quartucci sulla voce recitante. La scena è uno spartito in cui la voce dialoga con il suo doppio registrato, con gli strumenti, con le luci; l’attrice (Carla Tatò) assume su di sé le voci di tutti i personaggi dell’opera di Kleist, rendendoli all’ascolto tramite un articolato reticolo di variazioni timbriche. Il risultato è una sorta di “scultura sonora”: la dimensione teatrale sconfina in quella musicale, in una composizione dove la voce si muove facendo ora da contrappunto agli strumenti, ora da sola, in una “furia guerresca” del dire che bene si adatta alla tragedia della regina delle Amazzoni.
Differente per esiti, ma strettamente imparentato con le esperienze appena citate, è la dolorosa vitalità sprigionata dalla recitazione free jazz di Leo De Berardinis, tra dialetto, giochi di parole e deformazione carnascialesca della voce. La voce di De Berardinis è “amara”, per riprendere il titolo d’un bel libro di Gianni Manzella sull’attore. È una voce sempre disposta a percorrere i significati della lingua, senza però farsene mai serva. De Berardinis è per me l’ultimo poeta orale, un cantore capace di entrare dentro la densità magmatica d’una poesia per restituircela con leggerezza, facendoci restare di stucco per quella sua forza immensa di sonorizzare il verso.
Questi esempi dimostrano come l’artificio della voce recitante, pur distaccandosi dal suo uso più scontato, possa riservare sorprese e novità. Ne è ulteriore testimonianza la ricerca teatrale contemporanea, per lo meno nelle sue esperienze più interessanti. Ci sono esperimenti tesi alla ricerca di una deformazione timbrica, dove l’esecutore si applica “nel variare la voce all'interno di diversi registri, nel farle assumere ruoli diversi, facendola suonare come uno strumento polifonico”, com’è nel caso della compagnia torinese Marcido Marcidoris & Famosa Mimosa; o a proporre una recitazione dove la voce non è più una semplice opzione del significato, ma diventa “lo strumento solista di una musica da camera dissonante”, come nei lavori della Raffaello Sanzio, e in particolare nel loro Viaggio al termine della notte, da Céline, o nell’opera L’isola di Alcina delle Albe di Ravenna, dove la vocalità di Ermanna Montanari si affida soprattutto a cambi di registro fino a farsi “ululato di pulcino, capriccio di bambina, riso, nitrito, verso di gufo”; o all’andamento orgiastico della vocalità di Danio Manfredini e Gabriella Rusticalli nel Parsifal del Teatro della Valdoca. Insomma, un panorama di possibilità sicuramente molto articolato e il cui atteggiamento verso la voce recitante può essere riassunto con le indicazioni sulla recitazione che Michele Perriera - grande uomo di teatro volutamente “dimenticato” dai gestori dell’odierna glaciazione culturale - dava agli attori impegnati nel suo Morte per vanto (era il 1969): “E’ importante che il rapporto con la parola sia dialettico: puntuale dovrà essere il contraddittorio tra significato e tono, tra portante ideologico della parola e spinta emotiva: fino a proporre una costante di sospensione, di congiura, di auto ed etero-tradimento”. Uno straniamento finalmente rimesso in gioco…


 


 

A proposito di Hamletmaschine
ovvero Note sul tempo
di Milena Massalongo

 

1. Quelli che seguono non vogliono essere più che appunti in margine ad un testo e alla sua messa in scena, non una recensione, né tantomeno un’interpretazione. È rindondante parlare di teatro, il teatro parla già da sé, e forse una critica teatrale può recensire solo la reazione del pubblico, occuparsi proprio del contatto, avvenuto o meno, del tipo di contatto. Per questo testo poi, vale, ma nel senso più letterale, quello che si dice di ogni testo di livello, che è il miglior commento e la migliore rappresentazione di se stesso. Hamletmaschine si rifà, tra l’ altro, in modo scoperto già nel titolo, all’Amleto di Shakespeare. Ma non è una rielaborazione, nemmeno una riscrittura perché non prende solo spunto dal testo shakespeariano per poi espandersi in una nuova opera. Amleto non è solo lo spunto, è la radice scoperta, portata all’estremo. Se è immaginabile qualcosa come una traduzione per sedimentazione, allora questo è Hamletmaschine, che non traduce solo da una lingua all’altra, da un tempo all’altro in vitro, come fanno le versioni attualizzanti. Il tempo che è intercorso, il tempo come dimensione fisica, al limite dell’umano, vi interviene e la scrittura tenta di tenere il passo, come se una traduzione avesse luogo in accelerazione, esaurendo storia e personaggi prima di averli raccontati, bruciando sul nascere anche la narrazione, non solo il dramma. Di fatto Hamletmaschine nacque in margine a una traduzione di Amleto a cui Müller lavorò per uno spettacolo di Besson-Langhoff e Müller stesso la definisce una volta ‘ein Schrumpfkopf’, una di quelle teste-trofeo che popoli primitivi ricavano dal teschio del nemico ucciso, conciato e rimpicciolito come se avesse subito una concentrazione.
Scrive questo testo di getto nel 1977, ma la stesura è una specie di emersione di una tensione cominciata fin da ragazzo con la prima lettura dell’Amleto, come lui stesso racconta, in lingua originale, quando ancora non conosceva bene l’ inglese e la lettura avveniva più per divinazione che per comprensione logica del testo. Credo che quella prima esperienza della lingua di Amleto, come di un fatto-corpo da percepire piuttosto che come una mezzo di comunicazione, sia stata determinante per Hamletmaschine. Di certo è in una percezione sfocata di motivi e psicologie che ha potuto emergere il senso di quel ‘tempo fuori dai cardini’, il vero antagonista nella tragedia di Amleto, ragione per cui Amleto non riesce ad essere una tragedia. In Hamletmaschine quel tempo è diventato il vero protagonista, e ciò va inteso nel senso più letterale possibile.
Il testo di Hamletmaschine costruisce l’esperienza della durata, attraverso cui perde d’interesse la storia: Amleto che non recita più il suo dramma, Ofelia, che non si uccide più, ha esaurito in tutte le donne/le vittime della storia il suicidio, la disperazione e il tempo dell’attesa. Una prospettiva in cui tutto è stato fatto, la storia è venuta a noia, ma una prospettiva talmente totale da avere anche nichilismo e delusione alle spalle. Non solo dell’avvicendamento dell’azione non resta che un cambio di scene, ma non esistono nemmeno più ruoli distinti, tutt’al più un’io - pronome che pronuncia il discorso, una voce impersonale.
Il testo non è nemmeno assimilabile ad un lungo monologo perché non sembra esserci nulla al di fuori della lingua, come un testo che abbia fagocitato dramma e personaggi e li ripercorre e li liquida con una accelerazione spaventosa, il dubbio amletico, la tragedia, la disperazione di Ofelia, e in un salto temporale anche la rivoluzione comunista, la sua pietrificazione in monumento e il suo soffocamento nella nauseante giostra consumistica. Come se la lingua di Amleto fosse sopravissuta alla sua storia alla sua ripetizione ossessiva nella storia fino a giungere al suo esaurimento per estenuazione. Perché il tempo si è dilatato a dismisura anche oltre la morte dei singoli individui.
Il ‘fuori tempo’ è la dimensione che la costituisce, il tempo in accelerazione e arresto istantaneo insieme, con una prospettiva che riesce ad essere storica, panoramica e interna/assoluta: ‘da entrambe le parti del fronte’. Critica e ‘urgente’ - pratica. Davvero, rendere giustizia a questa contemporaneità impossibile, per il teatro è un’impresa. Ma forse questo è teatro nel senso più stretto, non annacquato in racconto-simbolo-comunicazione.
Ciò che accade nella parola, la storia di Amleto, ciò che resta di Ofelia, la rivolta, tutto è insieme adesso, sulla punta dell’attimo ed è già irripetibilmente stato. Per questo non si riesce a cavare una ‘posizione’ di Müller. Nemmeno una posizione nichilista, per gli stessi motivi. La discronia è il principio compositivo di questo testo, non il funzionamento; il funzionamento invece è ancora lo sforzo di andare a tempo, di ricondurre il tempo nei cardini.
In questa macchina, il principio di funzionamento cozza contro la struttura. Hamletmaschine funziona contro se stessa. È questa la sua potenza al limite, la sua im-potenza, che non ammette però, come un’impotenza qualsiasi, il suo contrario.
.Il tempo è astronomico, compatto e dilatato al tempo stesso, in cui la luce di una stella morta miliardi di anni fa, ci giunge solo ora. Il pensiero è sparato alla velocità della luce, non dà tempo perché immagini, idee possano staccarsi, ma è una dialettica talmente vertiginosa da bruciare sul nascere qualsiasi atteggiamento mentale. Una pulsazione dialettica da forze fisiche, da particelle atomiche, non da pensiero.
‘Io ero Amleto’, l’attacco di Hamletmaschine, non è il segnale di un ricordare umano, ma di una memoria elettromagnetica, da nastro di registrazione: nel senso in cui i fossili sono l’unica testimonianza di una vita scomparsa, così questo testo è l’ unica testimonianza di una prospettiva impossibile sull’ uomo.
Certo, permane l’ambiguità, e ciò perché la lingua è ancora umana, è leggibile. ‘Io’ è il pronome della persona, il verbo passato è subito una rievocazione, anche dei sentimenti connessi: forse la nostalgia, o la rabbia proprio per questa impersonalità (un regno per un dolore vero). Ma quella forza immane che spinge oltre ed è la vera protagonista del testo, quel tempo astronomico resiste alla personalizzazione, è la forza che tenta di espellere anche la possibilità di un lettore/spettatore, di accedere ad una dimensione illeggibile-impronunciabile, da chiunque.

Impossibilità di descrivere tenendo il passo di ciò che accade; impossibilità di unificare scrittura e lettura; espulsione del lettore dal testo. Marionette riempite di parole, di segatura. Carne di cuore. Il bisogno di una lingua che nessuno possa leggere aumenta. Chi è nessuno. Una lingua senza parole. Oppure lo scomparire del mondo in parole. Al posto di questo, la compulsione a vedere che dura tutta la vita, il bombardamento di immagini […] le macerie della letteratura.
[H. Müller, da Traktor]


E’ uno scrivere al limite della paralisi. Arrivare prima dell’intenzione, uccidere l’ intenzione, qualsiasi, anche quella della poesia pura, anche quella che c’è nella scrittura automatico-surrealista, con cui questa non ha niente da spartire. Anzi, è una lotta perché nemmeno un soggetto inconscio possa formarsi, di modo che sia la realtà stessa a prendere brutalmente la parola. Ma quale realtà, dato che qui una realtà come oggetto di un soggetto, secondo la visione tradizionale e l’esperienza comune, è divenuta impossibile.
Brecht nella sua scrittura/rappresentazione epica calcava sull’esibizione dell’intenzione. Non solo il senso inteso doveva essere chiaro, come vuole il teatro di tradizione, ma anche la parzialità di quest’intendere, secondo l’ insegnamento pratico marxista. Nel ‘chi’ che sale all’espressione, alla pari del ‘come’ e del ‘cosa’, l’ espressività raggiunge il culmine. Probabilmente questo è anche il culmine del ‘drammatico’.
I testi di Müller in genere hanno invece la capacità di sottrarsi all’espressione, per quanto questa predispone almeno la finzione di una coscienza psicologica o di una riflessione. Si scrivono in margine, in un certo senso sono pronti un attimo prima di giungere all’espressione. Il senso prende corpo al di qua dell’esprimere, nella parola prima di venir ‘detto’.
Si nota e si dice volentieri che la sua lingua è violenta. Ma la violenza non è della lingua sul mondo, sulle cose, quanto della lingua contro se stessa, contro la sua stessa mediazione della realtà. Anziché imporsi in modo assoluto, si ha la sensazione che lotti per sottrarsi, ma senza l’ ingenuità di postulare un mondo fuori dalla lingua, dalla visione. È questa la drammaticità tutta interna al testo, che viene prima di implicare altre dimensioni.
In qualche modo ogni testo di Müller, perché è caratteristica della sua scrittura, e Hamletmaschine in forma palese, sono, in diretta, anche la propria critica, il proprio commento, e non come un momento a posteriori inserito nell’opera.
Per questo un commento critico si trova in esubero rispetto a essi e la stessa rappresentazione, in quanto contiene per forza un momento interpretativo, viene spiazzata dalla saturazione di questa lingua, che non ha più rispetto per l’indicibile e non consente spazi vuoti -a meno che non le vengano estorti.-
Se è utile concepire qualcosa del genere, diremo che è una sceneggiatura post-rappresentazione.
Come se Hamletmaschine venisse anche dopo la sua messa in scena.
Sembra che di questo testo si possa parlare soltanto attraverso dei ‘come se’, ipotizzando concretamente la situazione da cui si scrive e si espone in piena potenza, cioè in fondo attraverso un’operazione già teatrale. Se è un’opera ai limiti del rappresentabile, lo è proprio per la teatralità estrema.

2. Hamletmaschine è un testo metallico, dis-umano, nel senso che l’ uomo non è più la sua condizione di possibilità, si scrive oltre. Una rappresentazione che le assomigli il più possibile può essere, a prima vista, l’ unica a non fallire. E quindi una voce scorporata, fuori campo, impersonale, come una registrazione da un tempo futuro, può sembrare la soluzione più pronta (così è stato fatto a Berlino su CD con la collaborazione dello stesso Müller, nel 1990.)
Una messa in scena, infine, che non è una messa in scena, senza corpo, senza gesto, o che consiste nel ritirare il più possibile la ‘scena’ e nel farlo proprio tramite la sola parola, spersonalizzante, totale.
Forse è la versione ideale per rimarcare il più possibile la capacità del testo e quindi di fatto ‘propedeutica’ ad ogni rappresentazione.
Müller suggerisce però una volta, come rapporto ideale tra testo e messa in scena di un'altra sua opera, il Filottete, la resistenza del corpo esposto, fisico, a questa lingua implosa come un buco nero. Sembrerebbe che, proprio perché la lingua è così totale, l’unico modo di renderle davvero giustizia sia di ingaggiare una specie di prova di resistenza con essa, cercando scampo al suo risucchio.
Gàmbula sembra calcare questa via in modo anche più radicale, usando anche la voce come resistenza fisica. La sua versione di Hamletmaschine diventa una partitura musicale, ma in un senso che di solito non viene toccato: il testo recitato, proprio come un ‘pezzo’ musicale, si sgancia da un parlante-persona-maschera, almeno non ne dipende, come un discorso, dalla persona che lo fa. Difatti non diventa un monologo. L’ io è assorbito da un testo in espansione autonoma che le intenzioni non riescono più a governare. È una cantata-naufragio, dice bene lo stesso Gàmbula, ma non un flusso sonoro che ha rinunciato al senso. Lo impedisce il fatto che Gàmbula lavori sulla produzione fonica della singola parola, non solo della frase. Ciò che si sente non è una semplice variazione lirica di toni, e quindi un flusso di emozioni scollato da un referente preciso, come accade in media quando si insiste molto sul significante. Invece è lo sforzo onesto di coagulare il senso in diretta, lì sulla scena, a potenziare il significante, che si dilata e si moltiplica quanto più tenta di guadare l’abisso che si apre ad ogni parola. La musica di questa voce nasce dalla ricerca onesta di senso, e non dalla sua espulsione o dalla sua approvazione fin dall’inizio - perché anche un senso ‘dato’ al principio, non importa se più o meno scontato, ha già trasformato il testo, la recitazione, in un ritornello orecchiabile.- Il senso non manca, soltanto non è mai a tempo. Questa è la sua musica.
Qui succede qualcosa di strano, di deforme, deformante: il testo che ha esaurito la lingua diventa il discorso di chi sta imparando a parlare. Gàmbula è reduce da un lavoro su Calibano, figura shakespeariana di tutti quelli che sono costretti a esprimersi nella lingua straniera del più forte, e nello sforzo, nella forzatura di imparare, contaminano la lingua di una forza critica dimenticata che è degli inizi, quando ancora non ‘si dice così’ e il legame tra un segno e un senso non è naturale/normale.
Questa Hamletmaschine continua i frutti di quel lavoro sull’ articolazione onesta della parola e l’ effetto è potente: impararare a parlare, cercare non solo la pronuncia ma il primo senso della parola con un testo apocalittico che ha esaurito la lingua, che non ha spazi vuoti ai margini, che non rispetta più l’ indicibile.
Imparare a parlare saltando tutte le tappe intermedie, la religione-magia della lingua, la lingua babelica diventata sistema di segni confidenziali, anche la poesia ultimo rifugio della lingua che fa essere le cose e non ‘significa’, per arrivare direttamente a questa specie di giudizio universale senza dio né uomini. Nella tensione tra quest’ inizio e questa fine senza mediazioni lo spettacolo sfida di continuo il rappresentabile.
Hamletmaschine come la maledizione postuma di Calibano.

Il nostro compito, o il resto sarà solo statistica o faccenda dei computer, è lavorare alla differenza. Amleto, il fallito, non è riuscito a produrla. Prospero è l’ Amleto non morto: di continuo frantuma il suo scettro, questa la sua replica a Calibano, nuovo lettore di Shakespeare, il rimprovero attuale a tutta la cultura fino ad oggi:

TU MI HAI INSEGNATO LA LINGUA E IL PROFITTO CHE IO
NE HO RICAVATO
È CHE ORA SO COME MALEDIRE.
(H. Müller, Shakespeare Eine Differenz, discorso tenuto durante le giornate shakespeariane di Weimar, 1988)


Ne nasce uno scontro contaminante, la lingua dis-umana, l’ attore umanissimo. Nel contesto teatrale italiano, dove l’ umanesimo del rappresentare non è mai stato messo in seria discussione, dove il corpo e il discorso sulla scena sono ancora con prepotenza prima di tutto corpo e discorso di persona, l’impatto è forse ancora più forte. E Gàmbula riesce a salvaguardarlo, senza ridurre l’abnorme di questo testo alla convenzione e senza negare del tutto il corpo-persona nello stile. Un’operazione come quest’ultima tra l’altro, forse risulterebbe di sicuro effetto sulla scena, ma finta, troppo precipitosa nel rendere giustizia al testo, come lo sono gli effetti speciali al cinema per rappresentare ciò che va oltre le possibilità umane.
Nella fatica umana di tenere il passo vertiginoso di Hamletmaschine, forse anche di resistervi, l’incommensurabilità del testo viene sperimentata, anziché essere data per scontata e ‘comunicata’. Probabilmente qui sta anche la vera esclusiva del teatro, misurare tutto, anche l’ impossibile, sul corpo dell’uomo. E probabilmente questo è anche il motivo per cui la scelta antitecnologica della rappresentazione di Gàmbula-Zanolli, l’attore-voce-corpo senz’altro, la pittura-il gesto di fissare in immagini sullo sfondo, per un testo così ‘tecnico’ è indovinata.
Forse in questo caso è più esatto parlare di disegno, perché il disegno, a differenza della pittura, non consente contemplazione. Rimanda ad altro. Si potrebbe dire che ‘cerchi’ il testo e gli tenda imboscate, come dice lo stesso Zanolli. Non nel senso che lo anticipa in un gioco fin troppo facile ma che crea trappole, direzioni di senso in cui catturarlo, che subito però si disfano già nello scontro, mentre il disegno già muta. Il foglio viene strappato per fare spazio ad un nuovo foglio bianco su cui rimangono tracce di figurazione come residui germinali. In questo gesto di strappo si apre uno spazio anche per il testo, che riparte da un altro punto zero.
Si sviluppa una tensione tra testo e immagine come tra apparati di cattura in continua mutazione e per tanto in continuo reciproco fallimento. Una presa definitiva non ha mai luogo. Eppure, ciò che funziona oltre modo in questo spettacolo è proprio la sfasatura cronica: il fatto che nell’immagine ciò che sale dal testo giunga un attimo prima o un attimo dopo e che solo in alcuni momenti, imprevisti ogni volta, avvenga un incontro. In un certo senso l’appuntamento tra immagine e testo continua a fallire. Ma in questo fallimento non programmato vengono elusi proprio l armonia preconfenzionata, l’effetto-balletto’, la sensazione di copione e finzione.

3. C’è comunque, al di là della lingua, un residuo umano nel testo di Müller: è il corpo vivente che resta, il corpo senza idee, i pensieri vecchie ferite cicatrizzate, ormai luoghi ripercorribili solo sovrapensiero, meccanicamente. Il corpo che cammina e respira. In puro movimento. E, fuori, la bellezza del paesaggio che appare quando la rivoluzione è stata tradita ( H. Müller in La missione) Siamo riconsegnati alla natura che non c’è, che, dopo la dialettica storica, è solo estenuazione del pensiero, ‘deserto’ o ‘glaciazione’ anche dove brulica l’acqua più pura e il verde più verde. In realtà anche l’idea di bellezza deve mutare, perché nel nostro tempo per la prima volta la bellezza, grazie alla scissione atomica e ai prodigi tecnici derivati, riesce a darsi senza l’illusione della purezza. Che la purezza sia sempre stata un’illusione lo ricordano prima della storia i miti a doppia faccia. Ma non poteva darsi bellezza senza questa efficace illusione. Oggi (ma da quanto dura quest’oggi?) i paesaggi, i corpi, le poesie, l’arte riescono ad essere bellissimi, pur contaminati da subito a tutti gli altri sensi. Gli agguati e le insidie non covano sotto alla bella superficie. La malattia è sgargiante. Ma, soprattutto, non è più mortale. Il tempo della sopravvivenza facile, che non richiede arte e abilità, solo organismi più adattabili, dura, e questa durata è la nostra occupazione, dà origine a tutte le nostre occupazioni.
Interferire con questa contaminazione del tutto respirabile e commestibile, alla fine, tocca dirlo, persino piacevole, non è solo difficile, è una difficoltà che deve prima trovare il suo senso. E’ l’orribile inghippo di una resistenza oggi, che debba cominciare interrogandosi su di sé, e quindi già con l’autocritica e non come pratica di resistenza proprio al teorizzare puro.
È il peso schiacciante per l’arte dover reperire anche i contenuti che prima si limitava a rappresentare/estraniare. Dover tirare fuori dal gioco di prestigio senza veli, anche la passione per l’ idea, una verità: gioco nel gioco.
Farlo a teatro, in questo teatro italiano inesistente, senza una lingua parlata di tradizione, ma anche senza ricorrere alla lingua convenuta d’accademia, inventandosi una lingua parlata, nel senso di reimparare la parola, è una difficoltà ulteriore e necessaria. Alla mancanza di un tessuto connettivo di base, opporre non lo schiaffo di un’alternativa personalissima, semplice sfoggio d’aristocrazia, ma la radicalità di un’esperienza originaria. Farlo con un testo di lingua e storia straniera, che ha esasperato fino alla verità le tensioni di quella lingua e di quella storia, è una complicazione rischiosa, ma forse davvero onesta.
Perché muoversi tutto in materiale, mezzi, idee, lingua, stranieri diventa un urtare di continuo contro la propria orfanità italiana. Di storia, di lingua, di idea. Di fatto ci troviamo a quello stesso stadio di agonia della storia, che è il piano di partenza senza partenza di Hamletmaschine, senza avere una storia irrecuperabile, di Amleto o di un’ idea, alle spalle, soltanto la spontaneità ora del tutto scomparsa della provincia italiana, quella luce di chi è ciò che non sa, di cui si ricorda e ci ricorda solo Pasolini. Di fatto siamo a quell’estremo su cui si tiene in equilibrio Hamletmaschine, ma senza il suo gusto e il suo disagio dell’estremità.
In Italia un testo del genere non si sarebbe potuto dare come una radicalizzazione, una scrittura in accelerazione, ma solo come la registrazione di un’agonia, una deriva di parole che non ricordano nemmeno più se mai hanno avuto una direzione. Vale a dire come sintomo al massimo, uno sfogo di una linearità senz’arte.
Metterla in scena qui, adesso, non è nemmeno una provocazione, non può avere, per i motivi detti, l’effetto di uno scandalo, che tocca nel proprio. È invece l’esperienza di un’inappartenenza che si vive per tutto lo spettacolo, anche nei suoi momenti più ‘globali’, in cui è la società consumistico-televisiva dell’occidente ad essere messa alla berlina.
Qui c’è davvero un contatto con il pubblico -e non lo si legga come un paradosso prezioso- proprio nella mancanza di un contatto: che le stesse cose che in quel testo, sulla scena, fanno schifo, fuori, nel pubblico, nel quotidiano, siano placidamente accolte. È qui che avviene un urto fisico perché ogni comprensione è altrimenti impossibile.
‘La mia nausea è un privilegio’ dice ad un certo punto Müller-Hamletmaschine. Era, al momento della stesura, una confessione, anche autocritica, di un intellettuale della DDR, di fatto privilegiato. Lo è ancora, se dilatiamo l’ orizzonte, come fa del resto Hamletmaschine alla fine, alle metropoli del mondo.
Ma ciò che è cambiato è che adesso la nausea è privilegio di intere masse: che però non la sentono. È privilegio di tutto il pubblico che viene a vedere questo spettacolo e assiste in gran parte a questa nausea come a qualcosa che non gli appartiene.
Questo è il punto in cui il testo è più anacronistico e più fuori posto, non nel fatto di essere una specie di ‘discorso indiretto libero’ di una storia che, almeno così da vicino, anche intellettualmente, qui da noi non è stata vissuta. Il vero anacronismo è che la capacità di essere nauseati non sia più attuale. E l’ esperienza di questo anacronismo, invece di essere il fallimento, è la forza della rappresentazione.
Lo spettacolo lancia reti alla storia recente italiana, e trova contatti - la rivolta in cui ad un certo punto prende corpo il testo senza smettere di essere una ‘bolla insonorizzata da fumetto’, è come catturata in un senso possibile dalle registrazioni audio dei disordini di strada del G8 nel 2001. Sotto, tutt’attorno, l’inerzia ascolta come davanti al telegiornale.
Hamletmaschine cristallizza il primo momento dell’inappartenenza, il momento dello stupore, dell’eccitazione, della paura, quando è un’esperienza che non ci appartiene ancora. E infatti si scrive per espropriazione progressiva, di storia, di personaggio, di linguaggio teatrale, di idea, di azione, di comunicazione. In un certo senso il segugio che entra nel panzer alla fine, l’animale che si espropria dell’umano e si specializza nella sopravvivenza - voglio essere una macchina, braccia per afferrare…- è la condizione da cui parte fin dall’ inizio il testo che qui infine coincide con se stesso, nell’ultima attesa selvaggia che durerà forse millenni.
Di fronte al testo messo in scena, ci sta il suo doppio, l’inappartenenza addomesticata che dura da qualche decennio veramente come da secoli.
In qualche modo la profezia si trova di fronte alla sua realtà, ed è la profezia ad esserne scioccata: che ciò che è il punto di fuga, il non-plus-ultra, sia divenuto normalità, prossimità, con il ribasso che questo comporta. Che l’attesa selvaggia sia indistinguibile da un non attendersi più niente, che decenni passino in mille anni, che l’impotenza urgente di Elettra, alla fine di Hamletmaschine, nel durare del tempo sia impotenza e basta.
In coda a un’altra riscrittura per sedimentazione che Müller diede di Shakespeare, Anatomy Titus Fall of Rome, si trova la frase lapidaria:

Il teatro è l’ostetrica dell’archeologia. L’attualità dell’arte è di domani.

In quella ‘durata indifferente’ del tempo che viviamo, occorre ripensare anche la costruzione di attualità in cui consiste il teatro, perché forse non è più possibile come un incontro/scontro di dimensioni, come uno schock.
Quando infine Hamletmaschine fu rappresentata per la prima volta nella DDR, come consuetudine per le opere di Müller, con quasi quindici anni di ritardo dalla stesura, Müller ebbe a dire che arrivava troppo tardi per la DDR e troppo presto per l’ occidente, quando la crisi della verità (comunista, ma non solo) poteva essere ancora percepita solo con delusione-disperazione o con speranza nell’avvenire.
Allora Hamletmaschine diventava, malgrado se stessa, l’ultima maledizione che giungeva dall’est comunista. Il tempo apocalittico di cui consiste avrebbe potuto essere invece l’urto ideale per un certo momento dello stato socialista.
Ora che siamo la durata di quel tempo, siamo, per così dire, intoccabili, contemporanei solo a noi stessi: inclusi in Hamletmaschine.
Che non c’è un oltre, nella storia degli uomini come nella scrittura, è chiaro, a meno di non pensarlo come un regresso, forse, come sosteneva un Pasolini senza nostalgie, un regresso da scegliere: Storia, fa che facciamo ancora un altro sbaglio...
Ma come si torna indietro? O come si resiste alla attualità terribile di Hamletmaschine?
Credo che qui stia il punto, e a Gàmbula riesce questo momento pratico che è qualcosa di più di una messa in scena.


 


 

L'oralità a teatro: una grammatica per immagini
Intervista ad Ascanio Celestini in occasione del Melpignano Rock Festival 2003 a Melpignano (Lecce)
di Giuseppe Vitale

 



Ascanio Celestini in Fabbrica.

Hai cominciato con la commedia dell'arte e ti sei reso conto che ti interessava più la parte umana della maschera che quella animalesca. Ma ciò che davvero ti interessava erano le modalità di elaborazione dei racconti. E' ancora questo il tuo interesse e perché per te continua ad essere importante?

Continua a essere importante perché l'oralità non è né un genere né una strategia di mercato e neanche una tecnica. L'oralità è una modalità della comunicazione. Le persone parlano "a parole" tra loro, si scambiano delle parole dette. Si scambiano anche lettere, e-mail, sms però parlano, ancora oggi, moltissimo a voce. A me interessa come attraverso la voce e la comunicazione vocale sia possibile plasmare l'oralità del teatro.

Oggi sei un affabulatore così affermato da aver ricevuto nel 2002 il Premio Ubu e la menzione per i Premi Olimpici del teatro. Come sei riuscito a tenere in piedi la tua produzione, specie nei primi tempi?

Sin dall'inizio volevo fortemente che il mestiere che faccio oggi diventasse anche e soprattutto un lavoro. Non credo che si riesca a fare qualsiasi lavoro come hobby. Esistono grandi cuochi che poi lavorano in banca o fanno altri mestieri. Però, nel momento in cui il lavoro che fai è fondato sulla comunicazione e sulla relazione continua con le persone, farlo solo di tanto in tanto, per hobby appunto, credo che sia difficoltoso. Il musicista riesce a suonare da solo dentro casa. Ma l'attore non recita da solo in una stanza al chiuso. E' vero che ci sono dei narratori che narrano all'interno delle mura domestiche, ma non è teatro. Mia nonna era una grande narratrice. Aveva un repertorio di racconti molto preciso. Mio padre raccontava in maniera straordinaria. Ma poi facevano altri mestieri nella vita. Per cui all'inizio io ho cercato di vivere immediatamente di questo lavoro e di portare avanti un progetto che fosse costruito tutto sull'idea del solista e sulla possibilità di riportare la percezione dell'individuo verso la percezione degli altri singoli individui. All'inizio non è che campavo solo di teatro. Facevo un po' tutto quello che mi capitava. Ho cercato il più possibile di fare male altre cose: di far male il restauratore, di far male l'imbianchino piuttosto che di far male il teatro. E poi, sinceramente, pian piano è diventato il mio mestiere ed è così da qualche anno.

Le persone raccontano storie perché hanno un bisogno che li spinge a elaborare delle immagini che costituiscono, in definitiva, la loro identità. E' tutta qui, secondo te, la grammatica del racconto? Quali sono le parti principali di questa grammatica?

Senz'altro sono le immagini, nel senso che le persone semplicemente rivedono quello che hanno avuto davanti agli occhi; o comunque pensano o credono di rivedere ciò che hanno visto e quindi dicono delle cose. Dico «pensano» perché spesso siamo convinti di aver assistito a dei fatti che, in realtà, non abbiamo mai visto. Questo accade o perché siamo convinti che gli eventi siano andati in una certa maniera o perché avremmo voluto che i fatti stessero in un certo modo. A volte, poi, alcuni avvenimenti sono così importanti che è come se anche noi ci avessimo partecipato per davvero. La televisione o il cinema o anche la fotografia, in qualche modo (e prima in parte anche la pittura) hanno creato la possibilità tecnica di poter assistere a dei fatti senza esservi presenti. Un avvenimento lo vediamo in una fotografia e continuiamo a riavercelo davanti agli occhi, anche se non siamo stati lì mentre accadeva. C'è un operaio che, in un libro di Alessandro Portelli sulla storia della città di Terni, afferma di esser stato nel 1921 al congresso di Livorno e di aver parlato prima o dopo Gramsci. In realtà questa persona non è mai stata a Livorno, o ci sarà stata a mangiare il pesce o a veder le navi al porto. Senz'altro non era presente al congresso. Però evidentemente il congresso di Livorno per lui, per la sua formazione, era così importante che "sentiva" di aver partecipato a quell'evento. Per cui persino una persona che non è mai stata in un luogo, che non ha mai visto una cosa, ha la possibilità di recuperarla attraverso un'immagine. Questo non avviene, quindi, semplicemente attraverso un discorso logico, un logos, a parole, ma soprattutto perché ha in testa un'immagine. E questa è la cosa che tutti ti dicono quando ti raccontano una storia: «Io ce l'ho davanti... Me la vedo davanti come un film, come un cinematografo, come una fotografia». Una donna una volta mi ha detto: «Ce l'ho talmente davanti che se io potessi la riprenderei». L'immagine è un elemento fondamentale per costruire un lavoro sul racconto. Lo spettatore che assiste al racconto ascoltando si costruisce a sua volta delle immagini, altrimenti nessuno sosterrebbe uno spettacolo come Radio Clandestina, per esempio, che dura un'ora e dieci dove, sostanzialmente, io sto fermo tutto il tempo. Nessuno starebbe davanti a una persona ferma che non fa niente. E io davvero non faccio niente in scena, tranne che muovere appena le mani. Per parte mia, io seguo una persona che parla anche per più ore di seguito: in un bar uno che mi racconta le sue vacanze lo seguo non perché mi cambia la vita, non perché mi dice delle grandi verità, non perché interpreta qualche parte remota della mia coscienza ma perché questa persona parla e io davanti agli occhi miei vedo delle immagini.

In cosa ti senti debitore verso artisti che, in qualche occasione, hai citato come tuoi maestri quali Dario Fo, Marco Paolini e Marco Baliani? Tra questi maestri Moni Ovadia, mi è parso di capire leggendo alcune tue interviste, ha un ruolo particolare per te?

Tra tutti loro credo che Moni Ovadia sia quello che è arrivato a questo lavoro di solista attraverso un tentativo di costruirsi un'identità, tutta fondata sul valore della memoria. Questo non tanto perché lui abbia fatto un lavoro di ricerca antropologica, che peraltro ha fatto anche attraverso la musica, dato che è un importante musicista. Moni Ovadia ha affrontato la questione della tradizione ebraica dell'yiddish che, in qualche modo, vede come basilare il ruolo della memoria per la propria cultura. In questo sono molto debitore nei suoi confronti. Gli altri hanno fatto un lavoro enorme. Per me andare in scena cinque, sei anni fa da solo non era più una cosa strana. «Ma questo qui chi è? Ma che vuole fare un monologo? è uno che racconta delle barzellette? Un cabarettista?», erano queste le domande degli spettatori. Oppure magari dicevano: «Ah, come Marco Paolini», oppure: «Ah, come quello del Vajont!» al limite. Però senz'altro persone come Dario Fo, Laura Curino, Marco Baliani, Marco Paolini, Moni Ovadia hanno dato una "patente" a questo teatro, a questo modo di stare in scena: hanno fatto in modo che fosse riconosciuto anche questo come teatro.

Ad un giornalista del «manifesto» hai dichiarato di aver scelto il racconto tragico delle Fosse Ardeatine perché questa tra le stragi nazi-fasciste vive solo nei racconti orali. Che cos'è per te l'oralità?

Nel racconto orale la strage delle Fosse Ardeatine è quasi il contrario di quello che realmente è avvenuto. E quindi è una cosa totalmente diversa rispetto alla storia degli storiografi, diciamo. L'oralità è la possibilità di lavorare sulla mia presenza in scena attraverso una voce povera, una voce impoverita: non povera perché scarsa di mezzi ma perché non si arricchisce di nessun orpello, di nessuna complicazione, se non quella degli eventi. Io credo che la realtà è già assolutamente incomprensibile nella maggior parte dei suoi accadimenti. Bisogna davvero andare all'origine, ma non all'origine primitiva, tornare indietro nei secoli o nei meccanismi: bisogna andare al massimo verso la semplificazione e l'oralità questo lo permette. Io posso lavorare sulla voce, sul canto difonico, perché lo devo fare e devo allenare il mio corpo perché devo imparare come usarlo. Qualsiasi movimento deve essere assolutamente indispensabile. Ovviamente la maggior parte delle volte i movimenti non lo sono e quindi tutto rimane completamente trattenuto. Nell'oralità questo è ovvio, è palese. Una persona mi racconta ciò che ha mangiato ieri a pranzo e io lo ascolto per quaranta minuti. Vado a vedere uno spettacolo - non dico di chi e in quale teatro - e dopo dieci minuti penso anch'io a quello che ho mangiato a pranzo. è evidente che nell'oralità c'è qualcosa di fondamentale che è l'immagine. Io lavoro su quello.

In te c'è una grande attenzione alle microstorie, ai piccoli particolari, eventi minuti e quotidiani. E' un caso, secondo te, che la narrazione ne abbia bisogno?

No, non è un caso proprio perché questo è un lavoro di solisti e perché chi racconta lo fa attraverso la propria identità, attraverso il proprio punto di vista. Quest'ultimo non è mai macrostorico: non è mai la storia vista dall'alto ma è la storia vista dal proprio punto di vista. Poi, io potrei stare, con il mio punto di vista, accanto al papa nel momento in cui arriva a San Lorenzo (un quartiere di Roma N.d.R.) e quindi lo vedo nella pseudosoggettiva del papa. Oppure potrebbe accadermi com'è avvenuto a mio padre, durante i bombardamenti di Centocelle, di vederli dal Quadraro (altri quartieri di Roma N.d.R.): guardava i bombardamenti come fossero i fuochi d'artificio. Per questi motivi, alla fine, il mio diventa un racconto che ha la prospettiva del singolo che sta solo lì in quell'angolo e in quel momento.

Per Carmelo Bene la lettura, ben lungi dalla pretesa per lui noiosissima di riferire lo scritto del morto orale, è non-ricordo, oblìo. In Cecafumo (Donzelli, Roma, 2002) tu inviti a leggere le storie che vi sono raccolte ad alta voce. Qual è per te il valore della lettura ad alta voce specialmente a teatro?

Per me innanzitutto devi scoprire nella scrittura le possibilità del suono. La parola cane, ad esempio, non è soltanto un termine di quattro lettere che ha un suo posto nel vocabolario e non è neanche il suo referente extra-linguistico: un animale con quattro zampe, la coda, il pelo, ecc. La parola cane è soprattutto il suono della parola cane, è anche la parola che io ho in bocca, la parola che io dico, che io storpio. è il tentativo di andare verso l'esperienza della parola piuttosto che la conoscenza logica.

C'è possibilità, secondo te, per nuove fiabe nella cultura contemporanea? E se sì secondo quali modalità e stilemi?

E' una domanda complicata a cui non è possibile rispondere di sì o di no. Prima di tutto la fiaba non è un testo che un autore scrive. La fiaba, quantomeno nella tradizione orale, è frutto di un lavoro di secoli, di comunità intere, di transizioni, di trasmigrazioni di storie da una parte all'altra. Però se dovessi scegliere e fare una scelta "partigiana" direi di no. Prima di tutto perché non esiste l'autore nella fiabistica orale. Ognuno è autore della fiaba quando la racconta. Ma poi chi racconta sa che racconta la storia che ha ascoltato. Quindi la può cambiare fino a un certo punto, con un certo rispetto per chi ha ascoltato. In Cecafumo mi sono trovato a raccontare delle storie e raccontandole alla fine sono diventate soltanto dei racconti formalmente vicini alla fiabe. Per esempio io racconto la storia della Mutola: non è una storia che io ho ascoltato appunto come storia della Mutola, però è piena di elementi tipici delle fiabe. C'è n'è una che nemmeno assomiglia a una fiaba ma sarebbe più una leggenda: lo scontro a carte tra Dio e il diavolo. In quel caso c'è una cosa che non si ritrova quasi mai nella tradizione popolare: Dio che fa il giocherellone. Figuriamoci, per noi di educazione cattolica... Dio si occupa di cose serie, certo non si mette a giocare a briscola con il diavolo! Non c'è quasi mai nell'idea della fiaba. Però quello lì è frutto del lavoro che ho fatto ri-raccontando le storie. Persino la storia che racconto su Treblinka viene da un racconto che ho ascoltato da un attore polacco, Olek Mincer. E prima di arrivare nel libro è passato a una seconda fase orale che è stata la messa in onda in radio. Prima si tratta di storie che io ho ascoltato. Ci ho lavorato sopra raccontandole e ri-raccontandole anche per strada, perché era l'inizio del mio lavoro. Poi c'è stato un secondo momento in cui sono state raccontate, che è stata la trasmissione radiofonica di Radio Tre. Infine sono diventate testo per cercare di sperimentare fino a che punto la parola detta può anche diventare anche parola scritta. Forse in parte del lavoro che ho fatto come scrittore di libri questo non accade: rimane ancora troppo scritto o rimane ancora troppo orale. Credo che lì ci sia un lavoro alle volte molto soltanto di testa, molto razionale, che però deve essere fatto: cercare di avvicinare la scrittura alla parola detta (e viceversa). Non per fare l'italiano uguale per tutti - questo lo fa la televisione nel peggiore dei modi - e neanche per insegnare a tutti come parlano all'Accademia della Crusca perché questa è una cosa inverosimile. Per esempio inserire parole gergali nella lingua è una cosa che succede automaticamente al bar e un giorno una certa parola c'è e il giorno dopo non c'è più, quindi, per esempio, non ha senso lasciare la parola "craxismo" nel nostro vocabolario perché già non la usa più nessuno. Invece il mio obiettivo è cercare almeno di creare la coscienza che la parola detta e la parola scritta hanno molto in comune.

copyright Giuseppe Vitale 2003


 


 

Storie mandaliche 2.0 di Andrea Balzola e Giacomo Verde a Castiglioncello
Verso una narrazione ipertestuale
di Anna Maria Monteverdi

 

Mandala è un diagramma di forme geometriche e antropomorfiche che manifestano diverse sfaccettature di significato (...) Immagine del mondo e luogo della teofania, proiezione della psiche e percorso che conduce all'illuminazione, il mandala è costruzione sintetica e dinamica (...) poiché è integrazione dell'uomo nell'universo e dell'universo nell'uomo; il termine più calzante per definirlo resta ancora quello di “psicogramma” coniato da Tucci.
(M. Albanese-G. Cella, Mandala, il linguaggio del profondo)


Nella primavera del 1998 Giacomo Verde e il drammaturgo e critico Andrea Balzola pongono per la prima volta mano ad un progetto di narrazione teatrale con uso di tecnologia interattiva ispirandosi, per la stesura dei testi, alla forma e al significato del Mandala, guida della meditazione e simbolo della trasformazione spirituale dell'individuo, “cosmogramma” e “psicogramma” come ricordava Tucci. 1
Al Festival Scantafavole di Ripatransone (Ascoli Piceno, luglio 1998) inizia il primo laboratorio con conferenza dimostrativa pubblica in cui contestualmente alla scelta già predeterminata del sistema interattivo Mandala System, si pongono le premesse per la scelta dell'iconografia e il primo abbozzo di un testo che per adattarsi alle esigenze della macchina tecnologica fu concepito da Andrea Balzola con caratteristiche ipertestuali, ovvero connessioni, incastri, corrispondenze tra i personaggi e i luoghi. Balzola li definisce “iperracconti”. Sono sette storie di trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale, vegetale, animale e divino, ovvero sette storie di personaggi “linkate” tra loro che hanno un andamento “concentrico”: il bambino-uomo, il mandorlo, la principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra del parco, l'ermafrodita. Ogni storia e ogni personaggio è associato a un colore, ad un elemento e a un punto cardinale (nell'orientamento mandalico l'Est è rivolto in basso) più il Nord-Est che è nella simbologia mandalica il luogo del sole, il sud-ovest che è il luogo della luna, e il centro.
Il Mandala, il “cerchio magico” della tradizione tantrica, è un elemento fondamentale delle cerimonie rituali e delle pratiche di meditazione, secondo Jung “strumento per l'individuazione del sé” e “rappresentazione simbolica della psiche”. La struttura del mandala è concentrica: ha quattro porte che corrispondono ai punti cardinali ed un centro che è particolarmente importante perché il mandala è la determinazione di un percorso che conduce all'illuminazione attraverso un rito di orientamento. Il labirinto greco, i rosoni delle cattedrali medioevali, la figura del serpente uroboros si ricollegano allo stesso sostrato simbolico.2
La narrazione teatrale ha come unico elemento scenografico una piramide di legno a tronco rovesciato, come la montagna sacra della tradizione induista, intorno al quale il narratore agisce e racconta ripreso dalla telecamera posizionata a terra e con il pubblico seduto nel perimetro mandalico. In Storie mandaliche, che raccoglie l'eredità del tele-racconto, lo spettatore teatrale, collocato dentro il cerchio, entra dentro la narrazione, nel crocevia di tutte le storie con le immagini e i suoni in continua trasformazione grazie al programma informatico Mandala System. Nel Mandala System è possibile fondere insieme sfondi, ambienti bidimensionali con oggetti tridimensionali attraverso la videocamera: la videocamera riprende in diretta il corpo o la mano del narratore che viene digitalizzata in tempo reale e la sagoma della figura ripresa, appare sovrapposta alle immagini e agli oggetti generati, invece, dal computer. Se la mano o il corpo ripreso dalla telecamera “tocca” (virtualmente) qualcuno degli oggetti, crea eventi di tipo visivo e sonoro, generando in diretta situazioni in continua trasformazione trasmesse nello schermo o nei quattro monitor angolari. Lo spettacolo ha attraversato diverse fasi e ha acquistato nuovi sviluppi narrativi e “volubilità” di forma a seconda dei “contesti partecipati” in cui era collocato e delle ipotesi di lavoro e delle ricerche del gruppo; il Mandala System3 è stato sostituito dalle animazioni in formato Flash, create da Lucia Paolini; a ogni animazione è legata una musica, del compositore elettronico Mauro Lupone. 4 Nell'architettura labirintica e ramificata della narrazione non lineare e non sequenziale della scrittura ipertestuale creata per Storie mandaliche ognuna delle sette storie percorse conduce al centro - come ogni mandala.
Il centro, ovvero alla fine del tragitto, è la soluzione e il luogo fisico dove tutte le storie si intrecciano e si incontrano. La narrazione è quindi un percorso che conduce verso il centro, dentro l'intreccio dell'unica trama che lo spettacolo va a svelare: chi si trasforma non muore, chi non si trasforma muore, dietro cui si nasconde l'archetipico topos della mutazione-traformazione presente in tutti i miti e leggende della tradizione occidentale e orientale. La trasformazione è anche la caratteristica dell'ipertesto, ovvero "rete di segni interconnessi", la sua continua modificabilità e transitorietà dal testo di partenza in cui la responsabilità del percorso narrativo si trasferisce dall'autore al lettore (o al digitatore). Modalità "itinerante" e "creativa" è stata definita la navigazione in uno spazio di scrittura ipertestuale da parte di un “lettore attivo e a volte anche un po' invadente”. 5
Nella modalità del racconto orale inoltre, la storia viene ogni volta modificata, ricreata, si aggiungono particolari, se ne omettono altri a seconda dello "stato d'animo" del pubblico: il narratore diventa, secondo una bella definizione di Giacomo Verde "un termometro dell'emotività della platea"; l'attore-sibilla, attraversato dall'umore del pubblico, partorisce parole, suoni e immagini ed è in qualche modo anche lui "impasto di incessanti mutazioni”. 6 Longo ha riflettuto sulla recente riscoperta della narrazione, "attività non più unilaterale, rigorosa e sequenziale tipico della scienza bensì dalla dimensione immaginaria e dalla colorazione affettiva”. 7 A tale scopo il lavoro del tecnonarratore unisce alla memoria orale collettiva (quella che Pietro Barcellona definisce "il deposito della gruppalità, la cui elaborazione è fondamentale per la creazione dell'individualità” 8), l'abilità digitale (nel senso letterale e anche etimologico del termine): il cyber contastorie (la definizione è di Giacomo Verde, che ci tiene a definire il narratore sulla base dell'immagine del raccontastorie 9) anziché la tela disegnata, ha davanti a lui immagini in videoproiezione che lui stesso può trasformare seguendo il ritmo in tempo reale del suo racconto.
Storie mandaliche, luogo politonale di ricerca di un teatro della parola, è la possibilità di giocare una parola differente, che prende corpo, suono e immagine potendo sdoppiarsi, metamorfosarsi, concettualizzarsi e riconvertirsi in nuovo significato conferendo allo spettacolo mobilità di identità e di senso, come era nella originaria natura della maschera. In questo nuovo teatro, gioco di scambio di estetiche e di stati d'animo, il narratore tra computer e video in scena, conduce l'azione in un percorso labirintico prima della storia, prima di tutte le storie e lo spettatore dentro miti e archetipi invisibili. Lo spazio torna così ad assumere le connotazioni antropologiche e magico-rituali del “sacro recinto” arricchito di una sorprendente imagerie, frutto di un'elaborata scrittura scenica e di una raffinata partitura a più voci.

NOTE

1 G. Tucci, Teoria e pratica del Mandala, Milano, Ubaldini, 1969.
2 K. Kerény nel volume Dioniso riporta le iconografie greche antiche documentate a Mileto, nel Santuario dedicato ad Apollo, al Palazzo di Cnosso e su raffiguazioni provenienti da Atene relative all'immagine (come segno e non simbolo) del labirinto: il meandro e la spirale continua (linee curve o angoli retti), percorso iniziatico aperto che conduceva al centro e poi con una giravolta decisiva di nuovo all'ingresso se la conversione avveniva esattamente al centro oppure, se tracciato chiuso, prigione eterna senza via di uscita in cui si perde la vita. Labirinto come luogo di morte o di illuminazione. Raggiungere il centro del labirinto signicava, infatti, nel mondo greco antico, penetrare nei recessi sotterranei e protetti dei misteri divini, itinerario sapienzialie per raggiungere una rinnovata condizione di "liberazione conoscitiva". K. Kereni, Dioniso, Milano, Adelphi, 1992; vedi anche K. Kerèny Nel labirinto, Torino, Bollati Boringhieri, 1983.
3 Sui software per la danza vedi E. Quinz, La scena digitale. Nuovi media per la danza, Venezia, Marsilio, 2001. Su Storie mandaliche esiste un originale studio di Laura Gemini confluito nella sua tesi di dottorato (L'incertezza creativa. La comunicazione teatrale, Università degli studi di Urbino, Facoltà di Sociologia, 1998-2000); la ricercatrice aveva seguito alcuni laboratori e spettacoli aperti al pubblico e intervistato da una parte Giacomo Verde sugli intenti dello spettacolo, dall'altro gli spettatori per verificare quale degli aspetti contenutistici e in generale comunicativi dello spettacolo era stato maggiormento assorbito e compreso.
4 Storie mandaliche ha avuto ad oggi varie dimostrazioni-spettacoli a La Spezia, al Piccolo Regio di Torino, al Festival di Radicondoli, a Livorno, a Pisa. Documentazione più dettagliata su www.verdegiac.org. In corso di stampa il libro Storie mandaliche a cura di A. M. Monteverdi e A. Balzola. La nuova versione di Storie mandaliche prevede la collaborazione per le animazione in flash di Lucia Paolini.
5 G. Landow, L'ipertesto.Tecnologie digitali e critica letteraria, a cura di P. Ferri, Milano, Mondadori, 1998 (1a ed. 1994). L'ipertesto secondo Landow è costituito da blocchi di testo e da collegamenti elettronici tra i blocchi che permettono di “interagire, dar forma a sequenze sempre diverse, di generare percorsi di senso sempre diversi”. Ivi, p. 6.
6 La frase è di Fernando Mastropasqua in Attore e Sibilla, in Metamorfosi del teatro, Napoli, Esi, 1998.
7 G. Longo, Homo technologicus, Roma, Meltemi, 2001, p. 34.
8 P. Barcellona, L'individuo sociale, Genova, Costa & Nolan, 1996, p. 6.
9 G. Verde nello spettacolo delle Albe Lunga vita all'albero (1990) interpretava la parte del maggiante toscano che nella finzione teatrale era smemorato e chiedeva aiuto, per terminare la sua storia, al griot africano.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Raccontare non è recitare
Un mail durante le prove di Storie mandaliche
di Giacomo Verde

 

ciao Andrea e ciao a tutti
Ultimamente ho assistito a diverse «narrazioni» che mi hanno dato molto da riflettere su come affrontare la nostra Narrazione. Ho visto Giuliano Scabia, Massimo Schuster che raccontava il Mahabarata (si scrive così?), Paolo Panaro che raccontava il Cunto Napoletano, Judith e Hanon del Living che raccontavano la loro storia e leggevano poesie, e poi Assemblea Teatro a Torino che raccontava Il deserto dei Tartari in una antica rocca e ci metterei anche Cesar Brie che raccontava la vita e la morte di un suo amico. E poi mi tornano in mente tutte le diverse fasi di Marco Paolini che ho visto nascere e crescere quando ancora non era nessuno.
Bene... di tutte queste narrazioni quelle che funzionano di più, che riescono a toccare il cuore e il cervello degli spettatori, sono quelle meno teatrali, oppure i momenti meno «costruiti» degli spettacoli teatrali (ad eccezione di Vajont che meriterebbe un discorso a parte).
Mi ha molto colpito una riflessione di Giuliano Scabia sul silenzio e sulla necessità di riascoltare la voce naturale: che in effetti ha molto funzionato in tutti i suddetti spettacoli che erano tutti senza microfono (anche in condizioni che sembravano impossibili come la Rocca di Fenestrelle).
Infatti vorrei davvero capire come usare il meno possibile (o meglio: con reale motivazione) il microfono. Mi ha molto colpito una affermazione della Judith-Living che diceva più o meno che «il teatro è una particolare situazione di incontro tra persone che non può essere sprecata: a teatro bisogna dire cose importanti e urgenti». E allora cosa ho di così importante e urgente da dire con le nostre Storie mandaliche?
E' stata interessante anche una piccola chiacchierata che ho fatto con Massimo Schuster mentre cercava di «fare memoria» del testo riscritto del Mahabarata... e certe parole non c'era verso di farle entrare... certe frasi così buone sulla carta che non giravano nella sua testa... E poi quando l'ho visto raccontare ho notato che in effetti era più incisivo quando esitava, come quando si cercano le parole giuste per dire, o quando usava un ritmo (il vecchio trucco dei contastorie siciliani)... quando era meno teatrale.
Come è stato utile vedere Paolo Panaro che solo grazie al napoletano è riuscito a passare la cortina del racconto-scritto pur portandosi dietro il problema di dover rispettare "uno stile teatrale" che secondo me non ha fatto esplodere tutta la ricchezza contenuta in quel racconto (nonostante la sua bravura di attore).
Ma come spesso dico: raccontare non è recitare. Spesso gli attori non sono buoni narratori. Io confido nel fatto di NON voler fare l'attore. Non ho mai voluto farlo e meno che mai dopo averne apprese le tecniche da attori importanti come Marisa Fabbri, Jerzy Stuhr, Ciezlack (è sicuramente scritto sbagliato) ecc ecc
Confido nel fatto di riuscire a trovare delle motivazioni «sincere e urgenti» che vanno oltre e nascono prima del fare «un bel tecno-spettacolo». Confido nel fatto di NON riuscire ad avere una buona memoria del testo: il che mi mette in una condizione di rischio molto vitale. Penso che saranno solo le parole davvero necessarie che mi rimarranno in testa e «nel corpo».
Inoltre mi faccio forza delle mie esperienze passate. Quando nell'agosto del 1977 mi rinchiusi per una settimana in una casa di campagna e feci il Cantastorie di Il Prigioniero triste da cui in seguito nacque tutta la mia vicenda di «professionista» del teatro. E poi ancora l'esperienza di Hansel e Gretel: nato in tre giorni, seguendo esigenze sostanzialmente ignorate da tutti i teatranti e proprio in un momento di totale rifiuto del teatro, e che poi è cresciuto in ormai centinaia di repliche ed evoluto in diverse esperienze. E per ultima l'esperienza con Renzo Boldrini per fare dgHamelin.com. Una continua «battaglia» per eliminare qualsiasi «trucco teatrale o attoriale» dalla narrazione di Renzo. Una battaglia alla fine vinta e che permette a Renzo di guardare gli spettatori negli occhi, di seguirne gli umori e anche di poter improvvisare.
... Questi i pensieri con cui mi accingo a fare Storie mandaliche... tutto il resto sarà lavoro con «divertimento»... sarà alla fine solo quello che riesco a «fare con naturalezza e sincerità» quello che resterà... tutto il resto sarà per un'altra volta...
salutoni
giac


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Ruzante futuribile tra suono e immagine
Più de la vita di Michele Sambin a Volterrateatro
di Anna Maria Monteverdi

 

"Un ritorno storico al futuro", "la sintesi di un percorso", così Michele Sambin definisce il suo nuovo spettacolo realizzato come assolo per voce, corpo e strumenti della Lettera di Angelo Beolco (il Ruzante) a Messer Marco Alvarotto, considerato il testamento artistico e spirituale del commediografo e attore padovano del Cinquecento, scritto "secondo i requisiti di un grande monologo teatrale" (Ludovico Zorzi).



Musica e testo eseguiti insieme, "a più voci": accompagnano l’artista aiutandolo nella partitura di questo "Inno all’Allegrezza", un delay con feedback e il clarinetto basso, il tutto rigorosamente live. L’eco delle parole nel dialetto pavano – "il più vivo e franco parlare che sappia l’Italia" come Ruzante amava definirlo, che nello spettacolo si autorigenera all’infinito, come in un loop o come in una respirazione circolare continua – diventa un fiume in piena: prima enunciato verbale, racconto di un sogno che invita alla gioia nel "tempo della vita, che non si può allungare più della vita", poi, un attimo dopo, trasformato in tappeto sonoro, suggestione e atmosfera musicale su cui si sovrappongono ancora note improvvisate e ancora parole. Strati di parole, mélange di parole, incomprensibili, quasi onomatopeiche, parole-suono:

"Te vuò mo dir ti che, se l’arzonze la no slonga, perché a vivere asse, bisogna aver vita longa, e la vita non e più lunga d'una vita, chi no la slonga con un'altra vita."



Come la Lettera del Ruzante gioca con le ripetizioni, con le provocazioni ritmiche e foniche, così in questa recita musicale l'artista continua all'infinito a parlare e a (cor)rispondersi, vocalmente e musicalmente.
Ritorno a Ruzante, complice quello stesso testo a cui aveva già dedicato un sentito omaggio con lo spettacolo Fuore de mi medesmo al Festival di Santarcangelo nel 1991 (insieme con l’attore di tradizione Roberto Milani), definito dallo stesso Sambin "un confronto con le proprie radici, un dialogo tra contemporaneità e tradizione, la messa in scena di una trasmissione di esperienze" e che lo storico del teatro Antonio Attisani apostrofò come un "Ruzante giapponese, incomprensibile come quello, un brontolio profondo" ma dove "in effetti si capisce tutto. Lingua musicale, del non detto verbale" (Appunti per un saggio a venire, 1991).
Ritorno "futuribile" al passato anche per la scelta di una performatività solitaria, quella con cui Sambin aveva inaugurato la sua attività artistica, eclettica ed eccentrica (cine-video musicale) negli anni Settanta e a cui il Festival Invideo di Milano dedicherà significativamente una retrospettiva nel prossimo autunno; performatività solitaria presente anche negli anni Ottanta con Se San Sebastiano sapesse (1984), dove l’iconografia del Santo trafitto viene "accordata" al corpo del violoncello: gli archetti diventano gli strumenti di tortura e il musicista il crudele torturatore.



La musica ha occupato da sempre una parte determinante della sua sperimentazione, anche in diretto legame con la performance art, con il videotape d’arte, con le videoinstallazioni e infine, con il teatro. E’ paradossalmente quell’arte che lo ha condotto quasi naturalmente al suo approdo nel territorio dell’immagine. Il rapporto immagine-suono è da sempre la costante della sua ricerca, esplorato da Sambin nelle sue pieghe più recondite, anticipando temi e tecniche e influenzando autori:

"Tutto ha inizio da questo binomio immagine-suono. E l’artista singolo che lavora su questi due elementi. Gli strumenti che usavo negli anni Settanta erano la pellicola, prima Super Otto poi 16 mm, perché lì immagine e suono erano inscindibili e interdipendenti, e poi il video. Quindi tutto ha origine da questa incapacità di scelta, se stare dalla parte della visione o del suono, essere pittore o musicista. Quello che credo di avere fatto è di non stare da una parte o dall’altra ma di rispettare la mia parte che comprendeva tutti e due i linguaggi. Partire per questa utopica ricerca di costituzione di un linguaggio unico che comprendesse segni visivi e segni sonori".

Così Michele Sambin ci racconta del suo esordio artistico: guardando alle storiche soluzioni di "composizione globale", di un sinestetico scambio di linguaggi e tecniche dei pittori- musicisti e cineasti della prima e seconda avanguardia (Léger, Richter, Fischinger, Ray, Moholy-Nagy; Mac Laren, O’Neill), del New American Cinema (Brakhage, Snow, Warhol), alle esperienze americane del Black Mountain College di Cage e c., ai dispositivi video installattivi di ambito concettuale dei primi anni Settanta, Sambin mette in scena la tematica principale delle sue opere: il tempo:

"Concetto importante per me è il tempo, offrire una visione che si sviluppi nel tempo. Io partivo come formazione come artista visivo, e il primo conflitto è quello che si crea tra la visione - la pittura - che ha un tempo non determinato e la musica che vive solo nel tempo".

Dopo un periodo di sperimentazione filmica dal 1968 al 1976, testimoniato tra gli altri da Laguna, Blud’acqua, Tob&Lia, che lo colloca nel novero dei registi del cinema d’artista condividendo in Italia spazi di proiezione con autori come Antonio De Bernardi, Andrea Granchi, Sylvano Bussotti, Gianfranco Baruchello, Ugo La Pietra, inizia a occuparsi di musica elettronica fondando il gruppo Arche Sinth e successivamente si dedica al "videotape creativo2 (1975):

"Lavoravo con l’immagine in tempo reale. L’immagine diventava uno stimolo per creare suoni. In Spartito per violoncello (1974) usavo la telecamera come strumento musicale di tempi di visione: la scuotevo, la muovevo e questo determinava un input che l’esecutore – che ero io stesso – decodificava in termini musicali. C’era un po’ Léger, un po’ Anemic cinema. Lanciavo dei chiodi su una superficie bianca e questa azione determinava delle "palline" musicali su un rigo, traducibili in suono. Questo è Spartito per violoncello e parte dall’idea di usare il monitor come spartito."

Dietro l’evento, Cage e la musica indeterminata. Il caso, l’aggregarsi imprevedibile e accidentale di chiodi sul tavolo, i rimbalzi della pallina su una superficie, determinano ritmi, corrispondenze musicali e valori "cromatici". Il movimento degli oggetti, accentuato anche dal movimento della macchina che li riprende, stabilisce gli intervalli tra i suoni: più veloci sono i movimenti "disegnati" sul monitor-partitura, maggiore è la concentrazione di note e la loro velocità, creando l’effetto incontrollabile di flussi visivo-sonori. Esiste una videoregistrazione di Spartito per violoncello che documenta l’evento performativo: si tratta del primo risultato dell’incontro con Paolo e Gabriella Cardazzo della Galleria del Cavallino di Venezia, con i quali Sambin stabilisce negli anni Settanta, una relazione duratura di stima reciproca.
Nel 1979 insieme con Pierangela Allegro e Laurent Dupont fonda il Tam Teatromusica. L’orientamento estetico ispirato al rapporto immagine-suono per le videoinstallazioni e le performance, e naturalmente l’esperienza di musicista elettronico di Sambin, si riveleranno fondamentali nella definizione della nuova composizione scenica che, non rinunciando alla musicalità e alle tecnologie audiovisive, tende a privilegiare ideologicamente "il tempo reale e la condivisione di procedimento, l’arte dal vivo e il rapporto diretto con lo spettatore".


 


 

Due giorni con Judith Malina e Hanon Reznikov
Il Living Theatre alla Spezia e al Festival Portovenere Donna
di Anna Maria Monteverdi con le foto di Enrico Amici

 

La Spezia-Portovenere 31 luglio

Oreste Valente, attore e regista nonché direttore artistico del Festival "Portovenere Donna" ha salvato l'estate spezzina 2003. La presenza di Judith Malina e Hanon Reznikov del Living Theatre, da lui chiamati il 31 luglio alla Spezia, ha lasciato un segno indelebile in un territorio sempre più stagnante quanto a creatività e progettazione culturale.
Tralasciando alcuni dettagli insignificanti (l'assenza non giustificabile del direttore artistico Antonello Pischedda e di molti teatranti locali, la pressoché nulla promozione dell'evento da parte del comunale Teatro Civico), la comparsa sul palco all'aperto in piazza Mentana di Malina-Reznikov ha rigenerato tutti noi presenti in quella serata dove poesia, argomentazioni politiche, sguardi e azioni sceniche si mescolavano all'aria salmastra proveniente dal vicinissimo mare.
Labirinto dell'immaginario è un reading poetico molto speciale con poesie di Reznikov, Malina e Beck; aveva debuttato a Napoli, Castel Sant' Elmo, a luglio, in occasione della omonima mostra-omaggio a Julian Beck, ideata dalla Fondazione Morra (3 luglio-28 settembre).


Inizia una raggiante Malina con una sua poesia tratta dalla recente raccolta Love and Politics, in cui la visione libertaria della vita genera una nuova classicità:

While off the isle of Cyprus in a boat,
I saw the heaf of Aphrodite afloat,
And told her I'm an Anarchist and do not vote.
She answered, "That's all right".
(...)
"Oh stay!" I cried. "There are so many things
we should discuss: the power of unnecessary kings,
The sexual oppression of which Sappho sings..."
But she sank out of sight.


Ancora ricordi in forma di poesia di Julian Beck tratti dal suo testamento poetico e postumo, La vita del teatro, letti alternativamente da Reznikov e Malina.
Malina interrompe le letture per spiegare il significato del "teatro politico" secondo il Living e l'eredità che ha raccolto dal maestro Erwin Piscator, "il cui pensiero ha toccato le sperimentazioni sulle forme artistiche contemporanee". Malina amava molto le costruzioni scenografiche "tecnocratiche" di Piscator, ricche di strutture a più piani, di pareti di proiezione per diapositive o film: "Oggi forse avrebbe fatto spettacoli con ologrammi!". Il vero lascito di Piscator secondo Malina è che "oggi il teatro si può fare ovunque"; grazie alla sua idea di "teatro totale",

tutto quello che facciamo nella nostra vita quotidiana è davvero un momento di teatro, ma non nel senso che è finzione ma che è azione drammatica, rinnovato e consapevole modo di essere.


Ancora sull'impegno dell'attore, seguendo il pensiero di Piscator Malina ricorda:

Il lavoro del regista è effimero, il lavoro dell'attore è nella testa; quando un attore entra in scena qualcosa succede, c'è un senso elevato in questo comunicare a teatro con altre persone, è un modo più intenso di vivere, è come vivere un più alto senso di realtà. Dobbiamo avere qualcosa di importante da dire, qualcosa di bruciante per noi, non ci deve essere culto della personalità né egoismo.

C'è una frase di Piscator che Malina cita nel suo diario datato 1947-1957 e che mi piace ricordare: "Vorrei fare di ogni attore un pensatore e di ogni drammaturgo un combattente".
E racconta la scoperta "della bella storia degli anarchici" da cui ha appreso "come è possibile organizzare tutta la nostra vita da un altro punto di vista che non sia quello del potere e del profitto" e che ha portato lei e Julian Beck a quella forma di "rivoluzione permanente" che è il loro teatro, "teatro migliorativo", "teatro della consapevolezza sociale". Pochi minuti per sintetizzare una vita e un'idea di teatro ancora "living" da 56 anni. Vengono in mente le migliaia di riflessioni sul pacifismo, sulla libertà, contro la guerra e tutte le forme di oppressione e prigionia che animano i diari suoi e di Beck, le "notes" agli spettacoli, alcuni dei quali mai pubblicati o mai tradotti in italiano, altri resi pubblici da piccole case editrici anarchiche. Il diario 1947-1957 di Malina offre una testimonianza straordinaria sulle vicende personali e storiche, un interessante mescolarsi di letture interiori, riflessioni sugli eventi quotidiani, squarci degli avvenimenti dell'epoca. La ricerca del lavoro e la ricerca di uno spazio dove aprire un teatro, la scelta del repertorio, la nascita del figlio Garrick, la conoscenza di William Carlos Williams, Allen Ginsberg, Jackson Mac Low e ee cummings, l'uccisione di Gandhi il 31 gennaio 1948, il timore di un nuovo conflitto mondiale in pieno clima di guerra fredda, l'ondata anticomunista e le leggi restrittive di Joseph Mac Carthy sull'attività sindacale e sull'attività politica, la Bomba H fatta esplodere in un atollo del Pacifico che quasi convinse Beck a partire per l'Europa, il costante timore di arresti per il proprio credo politico, la guerra in Corea, l'arresto durante una manifestazione pacifista insieme con Doroty Day del sindacato dei lavoratori Catholic Workers, la descrizione delle condizioni delle detenute e del livello di solidarietà e di aggregazione.


Con Hanon dànno poi, sul palco, corpo e voce attraverso la poesia, all'immagine anarchica di Utopia che "non sta in nessun luogo perché non è un punto ma una linea dove dirigersi" e sorprendono il pubblico con la decisione di mettere in scena anche alcuni brevi frammenti dell'Antigone, considerato universalmente lo spettacolo-manifesto del pacifismo. Vengono in mente i recenti bombardamenti sull'Iraq in nome dell'Impero.
Ci piace riportare la sequenza del dialogo tra Creonte e Antigone nella traduzione di Judith Malina (New York, Applause Theatre Book Publishers, 1990) recitata in inglese alla Spezia:

KREON
Do you admit or you deny that you did it?

ANTIGONE
I say that I did and I don't deny it

KREON
Now tell me, and be brief:
are you aware of what was announced
in the open city about this particular corpse?

ANTIGONE
I knew it. How could I help you. It was clear enough.
(Guarda intensamente il pubblico e coglie il singolo sguardo dello spettatore)

KREON
And yet you dared to break my law?

ANTIGONE
Just because it was your law, a human law,
that's why a human being may break it – and
I am just as human as you and only slightly more
mortal. And if
I die before my time, I think it's
because it has its advantages; when you've lived
the way I have, surrounded by evil, isn't there some
slight advantage in death? And further, if I had my mother's
dead son lie unburied
that would have made me unhappy; but this
does not make me unhappy. And if seem crazy to you
because I fear the judgement of heaven,
which hates the bare sight of mangled bodies,
and I don't fear your judgement,
then let a crazy judge judge me.

KREON
The toughest iron yelds
and loses its stubbornness, tempered
in the ovens. It happens every day.
But this one here enjoys
making fun of the laws of the land.
And to top this impertinence, now that
she's done it. I hate that: when somebody's
caught in a crime and tries to make it look pretty.
And yet, though she insults me in spite of our family ties,
I'll be slow to condemn her because of our family ties.
Therefore I ask you: since you did it in secret
and now it's out in the open, wouldn't you say,
to avoid severe punishment, that you're sorry you did it?
Tell me why you're so stubborn.

ANTIGONE
To set an example.

KREON
Doesn't it matter to you that I have you in my hands?

ANTIGONE
What more can you do to me, since you have me, than kill me?

KREON
Nothing more. But having this, I have all.

ANTIGONE
What are you waiting for? I don't like
what you're saying and I won't like what you're going
to say.
And I know you don't like me either.
Thought there are those who do, because of what I did.

KREON
So you think there are others who see things as you do?

ANTIGONE
They see it too and they are moved by it
(indicando il pubblico)

KREON
Aren't you ashamed to claim their support without asking?

ANTIGONE
There's nothing wrong in honoring my brother.



Malina termina con il ricordo in forma di poesia, dell'incontro con il suo principe, Julian Beck, quando ancora diciottenne lavorava in una lavanderia e sognava l'Arte del Teatro:

Every one of the cleaning women
dreamt of something else
when she was seventeen.
They smile, they joke, they sigh,
in their smocks and comfty shoes –
They try not to recall the plans
for a miracle or a marriage.
(...)
When I was eighteen and worked
in the laudry counting
the dirty wash, I dreamed
that the prince would come.
And he come. And that my talent and ardor
woud rescue me from listing:
Five napkins – 8 pieces underwear –
rescue, and lead to a privileged life.

And I was the fortunate one,
leading a privileged life – rescued
from smock and broom, and now my friends
ask me why I'm so sad when I see the cleaning women
laughing as if it were nothing.

"You and your Jewish guilt"
"But somebody has to do it".

But every one of the cleaning women
dreamed that it wouldn't be she.



Alla fine dello spettacolo Judith e Hanon raggiungono il foyer interno del teatro dove sono stati ricavati i camerini e dove sono raggiunti da una telefonata in diretta da Radio 3 per un'intervista.



Portovenere-Le Grazie, 1° agosto 2003

Abbiamo appuntamento alle 19 all'Hotel Paradise a Portovenere, che ha una splendida terrazza sul Golfo; porto il liquido per le lenti a contatto che Hanon mi aveva chiesto per telefono la mattina; il personale dell'Hotel chiede loro il permesso di fare una fotografia. E in disparte a me, di scrivere i loro nomi su un foglio.
Dico a Judith e Hanon che la serata della Spezia era stata davvero emozionante per tutti e che il pubblico aveva partecipato con passione sincera: "Molti ci hanno detto questo, c'era in effetti un clima particolare".
Iniziamo a parlare dell'attualità dell'Antigone, per rilanciare il significato urgente della pace. Sull'attualità del testo di Sofocle Malina ci dice che

è sempre il tempo giusto per fare Antigone perché le guerre sono sempre in corso. Era il tempo giusto per l'Antigone quando ci avevano chiamato in Israele nel 1982 e scoppiò la guerra in Libano; era il tempo giusto per un'Antigone «clandestina» quando negli anni Ottanta eravamo in Polonia ad appoggiare il gruppo di Solidarnosc e Havel era in prigione. Con tutti i problemi del mondo non c'è però motivo di perdere la speranza.

Mi parlano con entusiasmo della grande mostra di Napoli, del catalogo "grande come un elefante" che la Fondazione Morra ha realizzato per l'occasione. Oltre ai materiali storici ci sono installazioni visive e sonore di artisti contemporanei, mentre fino a settembre il programma prevede performance, concerti legati alla memoria, diretta o indiretta, del Living Theatre e di Julian Beck. Porteranno alcune di queste opere anche a New York, nel nuovo spazio che stanno costruendo:

Abbiamo comprato il terreno per costruire un nuovo teatro, avrà 200 posti; i lavori sono già cominciati, lo inaugureremo tra marzo e maggio prossimo. E' a Manhattan nella 49a strada. Nel cuore di New York a pochi passi da Broadway. I soldi li abbiamo avuti da sovvenzioni ma soprattutto da un'eredità dei genitori di Beck.

Malina si illumina nel volto a sentire raccontare questi dettagli, come se prefigurasse nella sua mente il teatro già terminato. Chiedo allora se si allontaneranno definitivamente dall'Italia. Ci risponde Hanon:

Judith dice: «L'Italia mi ama ma l'America ha bisogno di me». Così staremo otto mesi là e quattro in Italia e non il contrario come abbiamo fatto finora.

Parlare della situazione di Rocchetta Ligure, dove sono ancora ospiti in residenza a Palazzo Spinola, mette tristezza a Judith. Spiega Hanon:

Abbiamo una intimazione di sfratto. La situazione non è chiara. Sin dall'inizio il Comune non aveva risorse, ma dal primo anno la Provincia di Asti ha approvato un protocollo per il sostegno di queste spese. Il Comune non era però soddisfatto e ci ha detto che non poteva permettersi di sostenerci. Abbiamo avuto un incontro duro col Sindaco che ci ha fatto capire che non eravamo desiderati, ma la Provincia invece tiene molto alla nostra presenza.

Chiedo del nuovo progetto di spettacolo dal titolo Enigmi che inaugureranno il 27-28 settembre prossimo a Napoli, nello spazio di Castel Sant'Elmo (per poi partire immediatamente per l'America). Ci spiega Malina:

E' basato sulle notes che ha lasciato Julian Beck e abbiamo iniziato a discuterne collettivamente da marzo. Ma prima ancora ne avevamo discusso con Julian, era un discorso aperto, ne abbiamo parlato per un anno e lui ha scritto queste notes. Si parte da un interrogativo: «Cosa è l'enigma della vita?» e ora ti dico tre parole su cui abbiamo lavorato: enigma, puzzle, riddle. Riddle è l'indovinello della Sfinge a Edipo. Allora discutiamo collettivamente su cosa è enigma, è un pensiero profondo, una sfida da cui non c'è uscita, che non ha soluzione: «Che cosa è la morte?» Discutiamo e ci chiediamo «Quale vogliamo che sia il soggetto di questo enigma?» E abbiamo chiesto a ciascun attore di pensare al suo proprio enigma e ognuno ha la sua teoria. Finora abbiamo raccolto certe azioni e alcuni movimenti. Ma è ancora molto vago.

Hanon:

Julian ha lasciato pochi appunti sotto la rubrica di Enigma: sono tredici enigmi in chiave poetica, per esempio L'enigma del lato destro del cuore, oppure L'enigma della domenica pomeriggio.
Noi abbiamo lavorato in modo collettivo; ogni attore è stato incoraggiato a realizzare ciascuno il proprio enigma e io ho cercato di legarlo a quello di Julian. L'idea è di coinvolgere il pubblico, presentare loro degli enigmi che li portino a porsi delle domande. Negli appunti di Julian c'era un'enfasi su questo punto. Stiamo ancora cercando una struttura dinamica, con momenti intrecciati, non singoli. Ci sarà anche Amleto!


Ricordiamo le parole di Beck in Domande: «Le domande di Amleto sono la sua gioia o la sua rovina?»
Chiedo di Resistance:

Lo abbiamo realizzato completamente senza parole, abbiamo lavorato sui resoconti dei partigiani e abbiamo formulato certe azioni. Le testimonianze provenivano da uomini della resistenza o carte (referti) di ospedali e io ho aggiunto diversi cori poetici. Ma è uno spettacolo che è stato rappresentato poco in Italia, niente al Sud, ne abbiamo fatto una versione Resistance Now per Genova al G8 creato con 30 artisti. Il nostro teatro pacifico ha invaso la città. Ci legavamo col pubblico con nastri rossi che tiravamo come una spirale che ci stritolava. Poi recitavamo Moods, la poesia di Allen Ginsberg. E' stato realizzato anche un film documentario Resist diretto da Dirk Szuszies, girato nelle diverse situazioni, anche in Libano. Sarà presentato a Viareggio al festival europeo del cinema a settembre.

Judith e Hanon devono prepararsi per la serata. Prima di congedarsi Judith mi regala il suo libro di poesie Love and politics e mi scrive una dedica bellissima:

For Anna Maria
who has understood so much
of what we are trying to do




La serata ha per titolo Il tasto di Aladino ed è presentata al convento degli Olivetani alle Grazie. Oreste Valente ha inserito Judith e Hanon all'interno del progetto a cui ha lavorato quest'inverno a Ivrea per la Fondazione Olivetti sulla "memoria" e sugli "archivi olivettiani".
Nella prima parte Sara Bertelà ha letto e interpretato un testo, Macchinerie ispirato alla macchina da scrivere Olivetti Lettera 22; nella seconda parte Judith e Hanon hanno raccontato la memoria del Living Theatre e l'archivio costituito di materiali di ogni genere che la stessa Judith sta raccogliendo da cinquant'anni. Un archivio dalle dimensioni enormi conteso dalla New York University e da Yale:

Bisogna conservare tutto. Non sai cosa è prezioso dopo. Io raccolgo ogni cosa perché non sappiamo cosa potrà trovarci qualcuno per capire cosa è questa cosa effimera che è il teatro, questa cosa inesplicabile e trascendente che è il teatro. Quando il teatro comunica qualcosa non sai cosa può diventare una piccola cosa. Serve per non ripetere gli errori del passato. Possiamo avanzare e possiamo capire dove vogliamo andare.

Malina spiega anche che

La gloria e la tragedia del teatro è che è una cosa effimera. Film e video tradiscono il lavoro dell'attore perché il video non è il teatro e non può rappresentarlo. Abbiamo bisogno di molti oggetti, testi, voci, storie per la memoria. Qualche tempo fa ho avuto il piacere di visitare la «sacra camera degli oggetti preziosi», ovvero i memorabilia shakespeariani di una delle più grandi collezioniste del mondo. Mi ha fatto vedere, tremando, un testo. C'erano al margine alcuni appunti scritti dagli attori. Possiamo immaginare che quando hanno raccolto questi preziosi testi per pubblicarli, forse avrebbero voluto eliminare le note degli attori ma quelle piccole notazioni, quelle visioni del teatro di quel tempo, per me erano la cosa più toccante.

Vengono infine letti brani poetici di Beck Malina e Reznikov e frammenti da Zero Method.


 


 

Il Bardo nel Palazzo dei Diamanti
La mostra Shakespeare nell'arte a Ferrara
di Oliviero Ponte di Pino

 

La bella mostra che Ferrara ha dedicato a Shakespeare nell’arte (Palazzo dei Diamanti, 16 febbraio-15 giugno 2003, Direzione Andrea Buzzoni, Coordinamento scientifico Maria Luisa Paselli) offre attraverso una ottantina di quadri una serie di squarci da un lato sulla fortuna di Shakespeare, dall’altro sui diversi modi di intrecciare il teatro e la drammaturgia con la pittura; più in generale, per riflettere ancora una volta sulle tracce che il "qui e ora" teatrale lascia dietro di sé, e sulle possibilità di usare questi documenti per ricostruire quell'inafferrabile "qui e ora".
Come si sa, l’unica immagine di uno spettacolo shakespeariano di epoca elisabettiana (e dunque per noi ricchissima di informazioni) è il disegno che raffigura alcuni personaggi di Tito Andronico. Dopo la chiusura dei teatri nell’epoca puritana, la storia dell’illustrazione shakespeariana riparte dal genio di William Hogarth (1697-1764), che nel 1730 dipinge una scena dell’Enrico IV dove campeggia uno dei più amati personaggi shakespeariani: la scelta della scena in cui Falstaff recluta le truppe è legata alla polemica politica contro il corrotto governo Walpole e aveva dunque risvolti di immediata attualità politica; l’immagine riprende con ogni probabilità un allestimento dello spettacolo (quello che aveva per protagonista l’attore John Harper).



William Hogarth (1697-1764), Enrico IV. Falstaff recluta le proprie truppe, Collezione privata.

Un altro dipinto di Hogarth presente in mostra raffigura una scena della Tempesta che negli spettacoli del suo tempo veniva tagliata - e dunque con ogni probabilità è stata ispirata più alla lettura del testo che alla visione di uno spettacolo.
Con oscillazioni verso l’uno o l’altro polo d’attrazione - lo spettacolo e il testo - saranno questi i due filoni principali di Shakespeare nell'arte, i due approcci che segnano la pittura shakespeariana nell’arco temporale coperto dalla mostra, che copre Settecento e Ottocento, concentrandosi soprattutto sulla produzione inglese, com’è ovvio.
Da un lato stampe e quadri che riprendono i più fortunati allestimenti teatrali del periodo, dando ovviamente un ruolo preminente agli attori: i grandi interpreti, le star che campeggiano spesso al centro della composizione in pose emblematiche e memorabili. Sono documenti utili, con tutte le necessarie cautele, per "vedere" gli spettacoli dell'epoca: le scenografie e i costumi, ma anche la gestualità e l'espressione, la dislocazione dei diversi interpreti nello spazio, l'illuminazione possono aiutarci a ricostruire, insieme ncon altri materiali, una civilità teatrale. E, nel caso del teatro inglese, caratterizzano le successive generazioni di grandi interpreti shakespeariani che hanno scandito la sua storia.



Francis Hayman (1708-1776), Come vi piace. La scena della lotta, Londra, Tate.



John Henry Harlow (1787-1819), Enrico VIII. La famiglia Kemble nella scena del processo alla regina Caterina, Stratford-upon-Avon, Royal Shakespeare Company Collection.

In questo filone di documenti direttamente legati allo spettacolo si potrebbero inserire, a maggior ragione e con i necessari distinguo, i bozzetti per le scene (che molto spesso erano fondali dipinti) e i costumi, anch’essi esemplificati nella mostra ferrarese dagli schizzi di Philippe-Jacques de Loutherbourg (1740-1812) per il celeberrimo Riccardo III di William Garrick, dagli acquerelli della famiglia Grieve (gli scenografi di Charles Kemble e Charles Kean) e dai bozzetti di William Talbin Senior (1813-1873)
Sull’altro versante i testi vengono invece utilizzati come repertorio di immagini, situazioni, suggestioni, atmosfere che liberano la fantasia dell’artista: non a caso su questo versante non sorprende la frequenza di tele ispirate al Sogno di una notte di mezza estate, con le sue invenzioni fiabesche e psichedeliche; ma anche le streghe e le apparizioni del Macbeth e l'Ariel e il Calibano della Tempesta "suggeriscono effetti speciali visivi" che la materialità del palcoscenico non consente (o che consente solo attraverso qualche trucco illusionistico).



John Everett Millais (1829-1896), La tempesta. Ferdinando attirato da Ariel, Washington D.C., The Makins Collection.

Un discorso a parte meriterebbero alcuni artisti che con l’opera di Shakespeare (o con una sua opera) hanno condotto un lungo corpo a corpo. Primo tra tutti Johann Heinrich Füssli (1741-1852), la cui passione shakespeariana era stata oggetto qualche tempo fa di un’altra bella mostra alla Fondazione Magnani Rocca di Parma.



Johann Heinrich Füssli (1741-1852), Il sogno di una notte di mezza estate. Titania abbraccia Bottom, Zurigo, Kunsthaus Zürich.



Wiliam Blake (1757-1827), Il sogno di una notte di mezza estate. La danza di Oberon, Titania e Puck con le fate, Londra, Tate.

Ma sono notevoli anche le incursioni del visionario Wiliam Blake (1757-1827) e di Eugène Delacroix (1798-1863), ossessionato dall’Amleto e in particolare dalla scena del teschio, rivisitata in diverse occasioni. In questi casi, si tratta di autentiche operazioni critiche, di letture illuminanti e profonde di un medium (il teatro, o meglio la letteratura drammatica) attraverso un altro medium.
A metà percorso, una sala con quadri di irresistibile effetto kitsch è dedicata alla Bardolatria, con una mezza dozzina di opere ispirate alla reverenza per il drammaturgo. Sono testimonianze dell’affermazione di un culto che ha faticato ad affermarsi ma che ora pare inattaccabile (malgrado le voci contrarie di Tolstoj e Wittgenstein).



Angelika Kauffmann (1741-1807), Ritratto ideale di Shakespeare, Stratford-upon-Avon, Royal Shakespeare Company Collection.


 


 

Le tre onde dell'avanguardia teatrale made in Italy
Gabriella Giannachi e Nick Kaye, Staging the Post-Avant-Garde. Italian Experimental Performance after 1970, Peter Lang, Bern, 2002
di Oliviero Ponte di Pino

 

La bibliografia sul nuovo teatro italiano non è - purtroppo - particolarmente folta. Questo fenomeno così ricco e sfaccettato imporrebbe una attenta ricostruzione storica e una serie di riflessione teoriche. Ma è come se alla copiosa e interessante produzione di spettacoli di ottimo livello non corrispondesse una adeguata reazione nella cultura teatrale (ma è una notazione che non riguarda solo il nuovo teatro: per esempio, dopo Il rito perduto di Luca Ronconi, il saggio di Franco Quadri che risale agli ormai lontanissimi anni Settanta, non vi è un libro che ripercorra adeguatamente la carriera di uno degli uomini di teatro più importanti del Novecento).
Ben vengano dunque pubblicazioni come Staging the Post-Avant-Garde. Italian Experimental Performance after 1970 di Gabriella Giannachi (University of Lancaster) e Nick Kaye (University of Manchester), il volume che inaugura la collana Stage and Screen Studies dalla casa editrice bernese Peter Lang. Già il fatto che una collana di questo genere si apra con un titolo dedicato a un fenomeno che in Italia resta marginale sarebbe un sintomo da prendere in considerazione. Inoltre l'agile saggio (197 pagine, più bibliografia e indice dei nomi) affronta diversi nodi teorici, importanti per comprendere la recente storia del teatro italiano.
Staging the Post-Avant-Garde riprende implicitamente la suddivisione in tre «ondate» del nuovo teatro italiano emersa negli ultimi anni. Per cominciare, la stagione soprattutto romana degli anni Sessanta (le «cantine», secondo un'abusata etichetta), qui rappresentata da una serie di schede dedicate a Carmelo Bene, Carlo Quartucci, Leo De Berardinis, Carlo Cecchi e Memè Perlini, che mettono a fuoco diversi aspetti della pratica di quell'avanguardia: la destrutturazione del linguaggio e della parola, dello spazio con il coinvolgimento del pubblico, l'incontro tra popolare e contemporaneo, tra tradizione popolare e avanguardie storiche, la frammentazione e ricomposizione geometrica dello spazio-tempo dell'evento teatrale, lo stretto rapporto con il cinema. A seguire, appunto dal 1970, la stagione della post-avanguardia, seguendo la definizione da Beppe Bartolucci: è quella che costituisce il nucleo del libro, con ampi squarci dedicati al Carrozzone-Magazzini, a Mario Martone e Falso Movimento, a Giorgio Barberio Corsetti e alla Socìetas Raffaello Sanzio, con una puntuale attenzione ai rapporti tra queste realtà e i recenti sviluppi delle arti visive e della performance. Infine, accorpati nell'ultima sezione, alcuni dei «Teatri 90», ovvero Motus, Masque, Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander e Egumteatro.
Concentrandosi su alcuni gruppi, sulle punte alte e internazionalmente riconosciute di un movimento molto più ampio, il saggio rischia di lasciare in secondo piano la ricchezza di un fenomeno che ha anche interessanti risvolti sociologici. Ma questo è coerente con un'impostazione che privilegia l'analisi delle opere - o meglio, di alcune opere e in generale dei primi lavori, quelli in cui si gettano sperimentalmente le basi di una poetica, si costruiscono una grammatica e una sintassi teatrali che verranno poi sviluppate - o tradite - in seguito.
Un primo controverso nodo storiografico riguarda appunto la divisione in tre fasi di un percorso ormai quarantennale. E' solo una divisione di comodo, basata sul criterio cronologico-generazionale, oppure riflette anche delle profonde discontinuità nella pratica teatrale? Giannachi e Kaye parlano di un passaggio "From avant-garde to post-avant-garde" dove "sono evidenti molte influenze e connessioni specifiche tra le pratiche dell'avanguardia e quella della post-avanguardia" (p. 31), anche se non approfondiscono le differenze con il teatro di regia, costruito sulla messinscena di un testo preesistente. Tuttavia evidenziano anche una serie di divergenze altrettanto profonde tra queste due fasi della "tradizione dell'avangiardia". In primo luogo "una radicale accentuazione, e addirittura accelerazione, di pratiche implicite nell'avanguardia" (p. 32).
Non è solo una differenza di grado, ma anche di qualità. A parte "il rapporto controverso ed esplicitamente critico con l'egemonia della cultura e dei valori culturali nord-americani, anche nel momento in cui questo nuovo inizio teatrale assorbiva e si confrontava con l'arte concettuale e post-minimalista emersa alla fine degli anni Sessanta" (p. 32), a caratterizzare la post-avanguardia sarebbe soprattutto un diverso atteggiamento nei confronti dell'evento teatrale. La prima avanguardia usava nuovi linguaggi e contaminazioni con le altre arti per affrontare e trasgredire il canone drammaturgico, un linguaggio teatrale in qualche modo codificato. Il punto di partenza della post-avanguardia sarebbe invece la messa in discussione dei fondamenti stessi della rappresentazione teatrale, la necessità di ripartire da un "grado zero" del teatro, dalla riduzione dell'evento spettacolare ai minimi termini, ai suoi elementi costitutivi; di qui la costante attenzione ai "limiti" della rappresentazioni e una tendenza all'eccesso, fino a disattendere programmaticamente le aspettative dello spettatore (pp. 32-33). Ma qui, da un punto di vista storico, siamo ancora nell'orizzonte delle avanguardie d'inizio secolo e del modernismo: i suoi pilastri erano appunto la rifondazione dell'opera d'arte su base razionale e progettuale, e il desiderio e la necessità di sorprendere il pubblico riorganizzando e "modernizzando" il suo quadro percettivo, e sconvolgendo dunque le sue attese.
C'è però un aspetto in cui si avverte con maggior determinazione una diversa prospettiva: il "gioco tipicamente post-moderno con la sovversione e l'appropriazione ironica per coinvolgere storicamente e culturalmente la propria pratica artistica in un 'disvelamento' di significati e riferimenti" (p. 34). E' una pratica intertestuale ed eclettica destinata ad aumentare la consapevolezza del meccanismi linguistici, retorici, politici e storici della rappresentazione e della comunicazione (e anche, in una seconda fase, dei classici). A caratterizzare dunque la post-avanguardia è questa "combinazione di una radicale sperimentazione formale e il serrato confronto con le eredità storiche e culturali" (p. 35).
Un ulteriore aspetto che differenzia le due prime «onde» (e in qualche modo una conseguenza di questo assunto) è l'irruzione dell'aspetto esistenziale, personale - a partire dal dato più immediato dell'esistenza, il corpo: e qui giustamente viene ricordata la lezione di performer come Ulay e Abramovich e soprattutto Gina Pane.
Il passaggio dalla seconda alla terza «onda» (la "New Generation" di Motus, Masque, Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander ed Egumteatro) pare porre agli autori minori problemi, in una linea di sostanziale continuità, al di là - sulla scia di Chinzari e Ruffini, Nuova scena italiana, Castelvecchi, Roma, 2002 - di una attenzione al corpo "deforme" e "malato" (ma già il Carrozzone parlava di "patologico") e di un rapporto problematico tra il corpo, la tecnologia e l'identità.
Forse a illuminare la questione potrebbe essere un altro snodo teorico che sottende questa ricostruzione, ovvero lo statuto della rappresentazione nella post-avanguardia. Concentrandosi sul "grado zero" della rappresentazione, così come viene discusso e definito nelle prime performance dei gruppi esaminati, Giannachi e Kaye hanno sempre ben presente che nell'orizzonte post-moderno non è in gioco solo il rapporto tra il reale e la finzione.
Quello tra reale e finzione, tra realtà e rappresentazione è un rapporto da sempre problematico, e che tuttavia proprio per questo ha trovato nel corso del tempo varie soluzioni: per fermarsi alla prima «onda» dell'avanguardia italiana, ecco Carmelo Bene esercitarsi sulla disarticolazione della rappresentazione fino ad arrivare alla teoria di una phonè svuotata di significato, oppure Leo De Berardinis rifondarla sulla base di una figura sapienziale di attore-saggio, o ancora Memè Perlini giocare sulla sua personale visionarietà d'artista, in funzione di una esasperata soggettività poetica, o infine Carlo Quartucci scommettere sull'impossibilità di ricondurre la rappresentazione a un quadro unitario e dunque procedere a disseminare frammenti, azioni, segni...
Per la seconda «onda», quella della post-avanguardia, non esiste più ancoraggio possibile, la rappresentazione è stata svuotata di senso - ma è stata svuotata di senso anche la realtà. Il problema è la virtualizzazione del reale a opera dei nuovi mass media e dei nuovi meccanismi della comunicazione - o, se si preferisce, dell'avvento della società dello spettacolo. L'obiettivo della creazione teatrale resta ovviamente la costruzione di uno spazio virtuale (che deve seguire delle regole di coerenza interna); ma questa realtà virtuale non ha più come referente un reale che è diventato un fantasma; viene dunque immediatamente ri-ancorata nella propria fisicità, nella dimensione esistenziale, nella materialità del corpo e nell'esperienza dello spettatore (Grotowski e Barba rispondono in chiave di teatro povero esattamente alla stessa domanda, ma la risposta - il recupero dello specifico teatrale - non passa attraverso la meditazione dei teorici della virtualizzazione; ad accomunare gli uni e gli altri è in ogni caso la lettura di Artaud...).
La performance può anche inglobare (e all'inizio lo fa spesso e sistematicamente) echi e frammenti di quel virtuale che sta svuotando di senso la realtà, ma poi li fa interagire con la propria immediatezza esistenziale. Non a caso si muove spesso in un gioco barocco sui limiti tra finzione e realtà, a metterne in discussione e ridefinirne i rispettivi confini.
Quello della post-avanguardia era dunque un obiettivo assai ambizioso, anche se forse non del tutto consapevole: rifondare la rappresentazione nell'era del virtuale. Questa esigenza ha prodotto una serie di spettacoli (o meglio di esperienze) memorabili ma forse irripetibili, perché quel tipo di tensione e di scoperta può darsi storicamente in un'unica occasione.
Per i gruppi della terza «onda», il problema non si pone più. Siamo irrimediabilmente oltre l'orizzonte del virtuale. Dunque non si tratta più di rifondare l'ordine della rappresentazione, quanto di utilizzare una serie di regole e tecniche teatrali (e spesso multimediali) per costruire nuovi ordini virtuali, nuove macchine del desiderio. E anche in questo caso producendo spettacoli di notevole efficacia.
Ma qui siamo già giunti all'ultimo nodo che vale la pena di approfondire. Giannachi e Kaye "liquidano" la recente produzione di diverse realtà significative in poche righe (con l'eccezione della Societas Raffaello Sanzio, che non a caso continua pervicacemente a mettere in discussione i fondamenti stessi della rappresentazione). Per certi versi il recente lavoro di molti eroi della post-avanguardia segna in apparenza ritorno all'ordine, di una ripresa dei moduli del teatro di regia (anche se con un taglio e una consapevolezza diversi). E' il segno di una sconfitta e di un ritorno all'ordine, oppure rappresenta la maturazione di chi riesce a innervare la tradizione delle proprie scoperte? E che cosa ha portato tutto questo nel corpo del teatro? Sono domande che un saggio come questo, centrato sulla ricostruzione storica di una fase assai precisa della storia del nuovo teatro italiano, può soltanto suggerire.

Gabriella Giannachi e Nick Kaye, Staging the Post-Avant-Garde. Italian Experimental Performance after 1970, Peter Lang, Bern, 2002.


 


 

Le recensioni di "ateatro": Kyla di Lars Norèn
A Volterrateatro
di Anna Maria Monteverdi

 

Prima nazionale al Festival Volterrateatro per Kyla del drammaturgo e regista svedese Lars Norèn.
Tre ragazzi entrano di corsa nel ring di una scena spogliata persino delle pareti; uno di loro ha in mano una busta con lattine di birra, un altro ha un tatuaggio con svastica (mimetizzata sotto forma di un segno a due uncini) e inizia a spaccare sedie. Fanno il saluto fascista, intonano inni militari ("Fede, speranza, violenza!"), tifano per la razza bianca, urlano l'orgoglio nazionalista ("Rispetta la sacra lingua svedese!") e riconoscono nel martello di Thor, dio guerriero, e la zanna di lupo i simboli della Svezia. Le tipologie dei tre ragazzi sono riconoscibili immediatamente: il più violento è il "capo", segue gerarchicamente, l'amico obbediente e introverso, e infine il più piccolo, remissivo, forse plagiato, con un disperato bisogno di appartenere al gruppo, alla "tribù". Tra di loro esistono chiaramente relazioni di dominio e subordinazione. Le loro storie parlano di abbandoni, di genitori in carcere, di famiglie disastrate, separate o violente. Il branco diventa l'unica fede, la riconversione dal nulla a un delirio di onnipotenza. Vomitano sentenze contro gli immigrati, pensano a come fargliela pagare, a come la Svezia dovrebbe punire "con una legge in Parlamento", tutti quelli che non sono "geneticamente dei nostri".



In un crescendo di argomentazioni arrivano a esaltarsi all'idea di uccidere chi non ha "geni svedesi", per "l'igiene della specie", a punire con la morte gli immigrati di tutte le razze: cinesi, ebrei, negri. La birra che scorre a fiumi aiuta a rinforzare i loro credi, ad aumentare le loro farneticazioni, le loro dichiarazioni di fede neonazista, a non porsi limiti con le parole, a scherzare pesantemente con ferite ancora aperte della Storia: l'Olocausto, le deportazioni, i campi di concentramento. Ridono a rifare l'ebreo che muore nella camera a gas. La parabola prevede che questi loro deliri debbano trasformarsi in fatti: passa un coreano, un giovane e ricco studente adottato sin dalla nascita da una famiglia svedese, dalla lingua e dall'educazione svedese, e che quindi gode a tutti gli effetti dei loro stessi diritti. Viene identificato, accerchiato e ritualmente sacrificato come capro espiatorio di tutti coloro che vengono a lordare la razza svedese: l'odio esplode sotto forma di insulti e di calci, e diventa una vera e propria esecuzione sommaria. Il più giovane non ne vuole inizialmente prendere parte, ma poi incitato, si lascia trascinare nell'orgia di violenze generate dal fanatismo di gruppo. Un'attesa lunga, ma la sentenza contro il ragazzo coreano è già stata, in qualche modo, pronunciata sin dal suo comparire in scena. Ne prevediamo la fine, che ci viene però risparmiata nella sua crudezza. La vittima paga non in quanto emarginato dalla società civile ma paradossalmente, in quanto perfettamente integrato nella cultura e nell'economia della multiculturale, "democraticissima" e tollerante Svezia. L'urlo razzista è insostenibile. Siamo terrorizzati. Siamo a teatro e siamo in pericolo. Lo spettacolo lascia un segno: angoscia e rabbia sono i sentimenti che ognuno di noi prova, e che ci trasciniamo oltre la recita teatrale. Assistiamo impotenti a quello che conosciamo essere una tragica emergenza mondiale. Cosa genera questo fanatismo, quale filosofia malata alimenta questa assenza di umanità? Perché la Storia non ci insegna niente? Scrive Claudio Magris: "Non credo che il fascismo possa tornare ma se tornasse troverebbe credo, poca resistenza. Si ha la sensazione che sia venuto a mancare quell'ethos condiviso che unisce chi crede nella libertà e nell'umanità, e rende più facile, quasi inevitabile, resistere al Leviatano."
Si fa fatica a credere che ci troviamo di fronte ad una finzione e non piuttosto ad un nostro inconsapevole precipitare dentro un drammatico squarcio di realtà. Si fa fatica, alla fine dello spettacolo, ad ascoltare gli attori mettendo da parte il pensiero che loro non siano più quello che erano pochi minuti prima in scena, spietati assassini in nome del mito della purezza della razza. Per levarci ogni dubbio Norèn ci rassicura che si tratta di "un dramma che non è autentico ma che ha grande autenticità".
Alla fine gli attori -non più naziskin- si abbracciano a lungo, a suggerire la loro stessa paura a oltrepassare quel limite cui il teatro li costringe, a cercare conforto e trasmettere il loro rifiuto e disgusto di quel mondo di cui indossano temporaneamente la maschera. E lasciano in noi il senso di una speranza, una traccia di ottimismo, premessa necessaria per quel teatro che deve essere, secondo le stesse parole di Noren, "la forza stessa del cambiamento."



Lars Norèn (foto di Matthias Johansson/Ricksteatern ).

Lars Norèn, nell'incontro sollecitato da Armando Punzo dopo lo spettacolo, parla del crescente e preoccupante antisemitismo in Svezia. Si è trovato a lavorare per un anno in prigione e da questo lavoro con i carcerati è nato lo spettacolo Kyla; due di loro erano dei giovani naziskin che avevano 22-23 anni e la cosa lo aveva colpito molto: "Quando ho iniziato il lavoro nel carcere non avevo idea che ci potessero essere persone con idee nazionaliste così radicali e volevo capire come in un Paese come la Svezia che non era andato in guerra, si fosse potuto sviluppare questo odio razziale. Il problema del razzismo e del nazismo riguarda oggi una maggioranza silenziosa". "Uno spettacolo come uno spaccato di quello che la Svezia è adesso", incalza uno degli attori.
Nello spirito del lavoro di Norèn, abbiamo fatto una piccola indagine sulla situazione attuale in Svezia in riferimento alle tematiche da cui prende vita lo spettacolo.
Le prime significative informazioni riguardano i 2000 crimini registrati nel 1998 e i 2363 del 1999 ad opera di gruppi neonazisti e la recente approvazione di un programma statale denominato "Exit", di reinserimento sociale per i giovani che decidono di uscire dai movimenti razzisti e violenti. Quello che segue è poi, un elenco di articoli che riguardano i numerosi casi di aggressioni e attentati di matrice neo nazista (giovani affiliati a White Power ammazzarono nella città di Malalexander due poliziotti e nel 1999 un sindacalista, evento quest'ultimo che scatenò manifestazioni in 20 città della Svezia); notizie dell'Osservatorio europeo sul razzismo, report sui casi di discriminazione (suscitò molto scalpore qualche tempo fa la decisione del titolare della svedese Ikea di non assumere personale di colore); rapporti della Commissione Europea contro il razzismo e l'intolleranza, notizie sui gruppi di estrema destra e le loro rappresentanze politiche, studi storici sulla diffusione della pratica della sterilizzazione su "individui di serie b" e lo sviluppo dell'eugenetica.
Nella nostra ricerca ci siamo imbattuti in numerosi siti svedesi inneggianti al neo-nazismo di cui non riportiamo indirizzo ma che abbiamo denunciato all'Osservatorio europeo.
Questi testi, da considerarsi parte integrante della nostra riflessione sul teatro di Norèn, sono frutto di una ricerca dell'amico Marcantonio Lunardi, attivista lucchese attualmente impegnato in un progetto videodocumentativo sulle "morti bianche," che colgo l'occasione per ringraziare di cuore.

Kyla di Lars Norèn
Festival Volterrateatro 2003
Con Bjorn Bengtsson, Kristofer Fransson, Tito Pencheff, Ulf Ronnerstrand

La scheda sul neonazismo in Svezia.

La scheda su Lars Noren: sul sito di Voleterrateatro.


 


 

Le recensioni di "ateatro": I canti del caos dal romanzo di Antonio Moresco
Regia di Renzo Martinelli per Teatro Aperto
di Oliviero Ponte di Pino

 

In queste stagioni Teatro Aperto è impegnato nella teatralizzazione dei Canti del caos, il torrenziale romanzo di Antonio Moresco di cui Feltrinelli ha pubblicato la prima parte, mentre la seconda è in corso di pubblicazione presso Rizzoli.
A Santarcangelo (o meglio al Teatro Petrella di Longiano) è approdata alle scene una nuova tappa del lavoro. Nell’autunno del 2002 era stato presentato a Milano uno studio che riprendeva la struttura narrativa del romanzo, che ruota intorno al problema della creazione: da un lato la creazione artistica, incarnata da uno scrittore che lavoro a un capolavoro irrealizzabile e lotta con il suo editore e con il mondo intero per difendere la sua opera; ma anche la creazione come gesto vitale, generativo, e dunque come atto sessuale e anche come perversione. Da questo punto di vista, la perversione permette di sovrapporre due tipi di creazione, quella «naturale» e quella «umana», intellettuale o culturale; coerentemente, una delle scene chiave del romanzo (e degli studi di Teatro Aperto) è proprio la scena dello stupro di una donna incinta. Ma sotto a questa trama esile si agita, nel travolgente flusso della scrittura di Moresco, una autentica cosmogonia, o meglio una sorta di caosmogonia, un percorso che dal disordine magmatico del mondo porta verso una più alta comprensione della realtà.
E’ impossibile ridurre un romanzo di centinaia e centinaia di pagine nello spazio di uno spettacolo teatrale senza rinunciare a molti dei suoi elementi; ma una operazione drammaturgica di questo genere è anche una operazione critica, che mette in luce alcuni snodi e toni dell’opera su cui si esercita.
La versione presentata a Milano manteneva in primo piano la struttura simbolica e narrativa del romanzo. In primissimo piano, nuda su uno sgabello, campeggiava una donna incinta. E il personaggio dello scrittore entrava prepotentemente in scena, offrendo un filtro ironico (e autoironico) ai canti veri e propri, affidati a un coro sullo sfondo. Era una lettura che privilegiava l’aspetto grottesco della scrittura di Moresco e del suo rapporto con il pubblico, teatralizzando in qualche modo la forza delle sue provocazioni, mettendole tra virgolette.



Nella versione presentata invece a Longiano, questi filtri sono scomparsi (e vengono giustamente evitate le illustrazioni letterali degli eventi del testo). Restano solo il coro e i canti del caos, che assumono la forma di un rituale, di oratorio laico. La scena è disseminata di mattoni, i cantanti-attori sono infagottati sotto coperte chiare, come una tribù di profughi o come i monaci di un nuovo culto. Il loro è prima di tutto un tappeto di note tenuto all’infinito, sopra il quale s’intarsia il testo vero e proprio. Il rituale rivela ben presto il proprio percorso: il punto di partenza è il caos, l’indifferenziato, un gigantesco grumo di magma e merda, dal quale si staccano i due principi, il maschile e il femminile - cazzi e fiche, simboleggiati da una pila di copertoni e da una gigantesca camera d’aria. Questi due principi innescano a loro volta un meccanismo di generazione, di nascita e di crescita. Parallelamente, sulla scena, si assiste al passaggio dal caos all’ordine: i mattoni sparpagliati e disseminati casualmente vengono allineati come le pagliazze di ferro quando si avvicina la calamita, quello che era oscura e indecifrabile pulsione vitale diventa conflitto - ma ricondotta in una forma, e dunque decifrabile e dunque inscrivibile all’interno dei rapporti sociali. Fino all’immagine finale, quando di fronte a un fondale che s’illumina come un cielo stellato, diventa possibile addirittura immaginare una trascendenza, un oltre - o un altrove, o magari una utopia.
In sé, questa versione dei Canti del caos presenta ancora diversi aspetti irrisolti: aspetti tecnici, come il rapporto non ancora del tutto risolto tra azione scenica e canto, e una eccessiva staticità nell’impianto dello spettacolo. Ma soprattutto il rituale portato in scena dai nove attori-cantanti resta sostanzialmente, seppur costruito con grande cura formale, un percorso intellettuale, che non riesce a farsi davvero carne e mito. Ristretta nella forma chiusa di uno spettacolo di due ore, scandito per «canti», rispetto alla «non-forma» del romanzo, al suo continuo strabordare oltre i suoi limiti e confini verso un’opera potenzialmente infinita, al suo costante sorprendersi, il rischio è quello di irrigidire la materia del testo in un percorso ideologico, e dunque per certi aspetti prevedibile. Ma questa è solo una fase di un lungo processo, che nelle prossime tappe avrà il compito di recuperare sia la carne sia il turbinoso piacere dell’eccesso.

I canti del caos
dal romanzo di Antonio Moresco
Regia di Renzo Martinelli
Longiano, Teatro Petrella


 


 

Le recensioni di "ateatro": I pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht
Regia di Armando Punzo, Volterrateatro 2003
di Alessandra Giuntoni

 

I riferimenti al presente sono evidenti sin dall’inizio, da quando cioè omini sghembi e caricaturali attraversano lo spazio scenico con enormi cartelli vergati a mano su cui è possibile leggere la temperatura del giorno: trentotto gradi di afa irrespirabile nel pomeriggio infuocato al carcere di Volterra. Di lì a poco la denuncia della condizione carceraria si fa ancora più esplicita: improvvisando uno scanzonato piano bar, l’attore-detenuto Vincenzo Lo Monaco ammannisce lazzi e battutacce irriverenti contro i governanti di turno, intonando canzoncine sulle arie di Kurt Weill a proposito di un indultino che, vergognosamente, non riesce a prendere corpo.
L’uso di cartelloni, di proiezioni e di song era il tratto distintivo del teatro epico che amava glossare, smontare e interrompere, davanti agli occhi del pubblico, il ritmo drammatico dello spettacolo. Con un omaggio esplicito alla drammaturgia dello smascheramento ha dunque inizio un coloratissimo «cabaret chantant» – I pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht - l’ultima fatica della Compagnia della Fortezza che, sotto la guida del regista Armando Punzo, si appresta a festeggiare i quindici anni di attività teatrale. Si celebra l’attualità di Bertolt Brecht e della sua famosa antiopera – Die Dreigroschenoper – dramma buffo di un mondo votato alla perdizione in cui ladri e sfruttatori sono vittime dello stesso sistema e dove si dimostra il fondamentale assunto politico secondo cui i metodi della malavita e quelli dei gentiluomini si equivalgono.



Foto di Stefano Vaja.

Nello spazio nero pece a bagliori rossastri allestito al pian terreno del carcere, prende vita uno strepitoso can can percorso da toni e atmosfere espressionistiche stile Weimar anni Venti con il Nazismo in irresistibile ascesa. Militari che sembrano usciti dal pennello di George Grosz passeggiano impettiti lungo il camminamento antistante la scena, intrattenendosi in atteggiamenti sconci con atletici travestiti coperti di lustrini e lamé. A un certo punto fa la sua comparsa anche Polly, avvolta nell’abito nuziale (l’ennesimo attore detenuto travestito) in compagnia del padre Peachum, re dei mendicanti, e del suo sposo Mackie Messer, re dei rapinatori. Agghindati come moderni gangster, doppiopetto scuro e occhiali da sole, gli attori si abbandonano a lascivi toccamenti o si accatastano in coiti simulati con la novella sposina senza però prendersi troppo sul serio. Nella bolgia carnevalesca di questo assurdo tabarin carcerario non mancano neppure due esponenti del clero: baconiani cardinali rosso porpora spenzolano da praticabili sopraelevati o si posizionano, come ballerini di fila à la chorus line, su tavole scenografate di sghimbescio, quasi si trattasse di una composizione protocubista in cui si è perduta la prospettiva e dove tutto si mostra in simultaneità di visione. E poi ancora prostitute, furfanti, miserabili di ogni tipo, ognuno a far mostra di qualche abilità, ognuno prigioniero di un universo sempre uguale in cui violenza e sopraffazione rappresentano il linguaggio condiviso. Una violenza, va detto, che si afferma e ha la meglio se legalizzata e istituzionale.
Ma il messaggio di fondo non è mai “a tesi” o volutamente engagé: è un’umanità da operetta quella che sfila davanti agli attoniti spettatori, messi a dura prova dalla temperatura tropicale e traditi nelle aspettative di uno scavo testuale e drammaturgico sull’opera di Brecht. Secondo le parole dello stesso Punzo, “Brecht va tradito. Dal tradimento della forma può rinascere la vita. Non ci si può fermare al senso, alle parole, alla forma della sua drammaturgia. Bisogna risalire alle motivazioni che si possono intuire dietro la forma del testo. Bisogna riscrivere con fedeltà. Esser fedeli tradendolo. Del testo cancellare i legami, le corrispondenze, la successione, dilatare una parola, accordarsi con il suono, stemperare un’immagine, far emergere un particolare”.
E il tradimento all’ortodossia brechtiana è manifesto anche nel montaggio dei testi: nel crescendo di danze, musiche e verbigerazioni si riconoscono, è vero, i dialoghi dei personaggi dell’Opera da tre soldi (spesso attualizzati in chiave parodica) ma è possibile rinvenire, allo stesso tempo, l’ultimo Nietzsche di Ecce Homo, passi veterotestamentari dall’Apocalisse, stralci delle canzoni di Marilyn Manson. E poi c’è la musica, tantissima musica, a far da collante tra i diversi elementi, ad alimentare l’aspettativa di una chiusa dissacrante e provocatoria contro buonismi e false ideologie.
Registrata come base per improbabili assoli, sparata a palla per forsennate tecno-dance, sussurrata suadente dalla voce di Carla Bruni (Il cielo in una stanza) o, addirittura, eseguita dal vivo (dalla Banda di Pomarance e da un complessino rock affatto pregevole), la musica accompagna l’intero evento teatrale stemperando di gioia e risate l’asfittico bunker della Fortezza. E’ così che nel finale gli spettatori si uniscono al festante corteo di attori detenuti, cantando e ballando al ritmo di Caparezza che, significativamente, scandisce un liberatorio “Sono fuori dal tunnel”.

La recensione di Anna Maria Monteverdi a I pescecani si cut-up.

I pescecani ovvero quel che resta di Bertolt Brecht
regia di Armando Punzo
Compagnia della Fortezza
Volterrateatro, luglio 2003


 


 

Scaparro si lamenta
(e allora la situazione è davvero disperata...)
di Redazione ateatro

 
''Oggi credo si possa e si debba chiedere a tutte le forze politiche e sindacali, e naturalmente alla presidenza del consiglio e al ministro Urbani, di affrontare senza ulteriori ritardi e debolezze la vertenza culturale''. Il regista Maurizio Scaparro, vicepresidente vicario dell'Agis, si associa al grido di allarme lanciato dal presidente Alberto Francesconi per denunciare la scarsa attenzione verso lo spettacolo da parte delle istituzioni. ''Abbiamo di fronte un possibile progetto esaltante - scrive Scaparro sul Giornale dello Spettacolo - che vede l'Italia protagonista per tradizione, storia, potenzialita' attuali, nell'Europa Culturale, oppure colpevole per assenza di interessi e di volonta', e destinata a una inesorabile deriva che non riguarda soltanto, sia chiaro, lo spettacolo''. Scaparro, impegnato nel progetto 'Les Italiens', che portera', da settembre a dicembre, il teatro e il cinema italiani in Francia, parla dello sciopero dei precari che sta bloccando gli spettacoli in quel Paese e, a proposito della situazione italiana, dice ''quello che e' successo in Francia non puo' passare sotto silenzio nel nostro Paese dove il disagio ha altre cause, ma e' ugualmente profondo e diffuso''. ''La verita' - continua Scaparro - e' che ormai da mesi (se non da anni) un malessere corre per l'Europa in forme diversificate, investe i lavoratori dello spettacolo e in particolare dello spettacolo dal vivo, che per sua natura e' artigianale, talvolta anche solitario, sempre comunque debole e indifeso rispetto alla forza stabile crescente dell'industria dell'intrattenimento''. All'Agis, che riunisce al suo interno le varie esperienze e categorie dello spettacolo, secondo Scaparro, spetta il compito di ''affrontare il grande tema della gestione della cultura in Italia e in Europa, nei prossimi anni''. (Mak/Adnkronos)
 


 

La scomparsa di Ivo Chiesa
L'anima del Teatro di Genova
di Redazione ateatro

 
E' scomparso sabato 26 luglio a 82 anni Ivo Chiesa, una delle maggori personalità del teatro italiano del dopoguerra. Nel 1946 fonda "Sipario", e dopo una parentesi come regista e impresario nel 1955 diventa direttore dello Stabile di Genova, portando lo stabile genovesi al livello dei grandi teatri europei (chiamando spesso a lavorare i grandi nomi della regia europea). Aveva lasciato la direzione del Teatro di Genova nel 2000, la sera della prima del Tartufo con la regia di Benno Besson, quando la direzione era passata a Carlo Repetti e Marco Sciaccaluga.
 


 

Una lettera al "manifesto" su Santarcangelo
Claudio Meldolesi e Oliviero Ponte di Pino sull'articolo di Gianni Manzella
di Redazione ateatro

 
Prosegue il dibattito sul Festival di Santarcangelo, di cui trovate traccia nel forum "Nuovo teatro vecchie istituzioni".
Oggi Claudio Meldolesi e Oliviero Ponte di Pino hanno scritto una lettera al "manifesto", a proposito dell'articolo di Gianni Manzella sull'ultima edizione della rassegna romagnola (ampi estratti nel forum).
Qui di seguito il testo della lettera al direttore:

Caro direttore,
confidiamo nella tua disponibilità a pubblicare questa lettera di problematico dissenso dall’articolo consuntivo di Gianni Manzella «Santarcangelo, un festival a rischio di "siccità" creativa». Gianni è un amico e il suo approccio è tutt’altro che scandalistico, ma i tempi richiedono nuovo rigore.
Oltre gli spettacoli su cui fa perno il ragionamento polemico del pezzo, non ne sono mancati di notevoli, probabilmente non visti da Gianni. Mentre Cinema Cielo, su cui dichiara soltanto che tornerà, è un capolavoro che rilancia con originalità scenica i film testamentari di Fassbinder e Pasolini aperti a un ulteriore senso del tragico. A partire da questo exploit va considerata la rassegna 2003 di Santarcangelo, che è riuscita a riflettere una fase di autointerrogazione dei gruppi teatrali italiani (raccogliendo non a caso qualificati operatori teatrali stranieri); e con così pochi soldi che i direttori Castiglioni e Marino hanno consultato noi e altri partecipanti già disposti a collaborare sull’opportunità di non realizzarlo. E’ anche colpa nostra, insomma, se questo festival ha scontentato qualcuno.
In altri tempi potevano risultare rivelatrici le rassegne economicamente incerte, ma non siamo più negli anni in cui il Festival di Spoleto poteva ospitare i maestri statunitensi del nuovo teatro garantendo loro solo vitto e alloggio perché creassero in loco. Ed è eloquente il fatto che si parli di Pippo Baudo come direttore artistico del Festival dei Due Mondi.
Castiglioni e Marino, l’attore e l’intellettuale che dirigono Santarcangelo, vanno oggi aiutati perché abbiano, oltre al budget, anche un contesto culturale adeguato; perché l’offerta spettacolare del Festival rimanga libera da condizionamenti; e perché delle osservazioni stesse di Manzella si possa prendere il grano di volontà innovatrice, senza il pericolo che, contro le sue stesse intenzioni, il suo sasso offensivo faccia valanga trascinando con sé i tanti motivi di invidia diffusi oggi più che mai, per il contagio della nuova destra.

Claudio Meldolesi e Oliviero Ponte di Pino
 


 

Guerra di Pippo Delbono in anteprima a Venezia
Il documentario sulla tournée in Israele e Palestina
di Redazione ateatro

 

Alla prossima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Nuovi Territori, sarà presentato il documentario "Guerra" (Sala Perla, martedì 2 settembre, ore 19).

Guerra è diretto da Pippo Delbono, nome di spicco nel panorama teatrale internazionale, che con questo lavoro esordisce nel cinema.



Nel gennaio 2003, la compagnia teatrale di Delbono ha attraversato Israele e Palestina per mettere in scena la pièce "Guerra": un progetto teatrale e culturale che si è trasformato in un film su ciò che è accaduto nei teatri e nelle città, sulla scena e nella vita reale.
 


 

Oltre Moira...
Le foto di Jacopo Benassi in mostra a Nantes e in Italia
di Redazione ateatro

 

Vi ricordate le strepitose foto dell'inarrivabile Moira Orfei in ateatro ? Se ve le siete dimenticati, eccole...
 

Moira Orfei e il circo russo, foto di Iacopo Benassi.

L'autore di quelle immagini, Iacopo Benassi, è uno deigli artisti scelti per rappresentare il nostro paese alla prestigiosa "Quinzaine Photographique", che si svolge a Nantes dal 18 settembre al 5 ottobre prossimi.
Ci non riesce a salire fin lassù, le foto di Iacopo (baìravo bravissimo!) può vedersele anche in Italia, alla Fnac di Torino fino all'11 settembre prossimo: è infatti una delle tre "menzioni speciali" del concorso "Attenzione Talento Fotografico Fnac 2003". Se siete così pigri e non ce la fate neppure ad arrivare a Torino, le foto selezionate saranno anche nei negozi Fnac di Verona (dal 12 settembre al 26 ottobre 2003), Genova (dal 31 ottobre al 10 dicembre 2003) e Milano (dal 12 dicembre al 10 febbraio 2003). Altre info, ovviamente, sul sito della Fnac.


 



Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
copyright Oliviero Ponte di Pino 2001, 2002