ateatro
(non solo guerra)

numero 6 - 1 aprile 2001
a cura di Oliviero Ponte di Pino (in collaborazione con Federica Fracassi)
 

INDICE

Fare un teatro di guerra
a cura di Federica Fracassi con interventi di
- C.S: Leoncavallo,
- Pippo Delbono,
- Gigi Gherzi,
- Antonio Moresco e Carla Benedetti,
- Massimo Munaro,
in occasione delle retro-prospettiva su Mario Martone al Leonka, a cura di Teatroaperto (13-16 marzo 2001)
Questi materiali sono stati pubblicati (insieme ad altri testi, alcuni dei quali anticipati in "ateatro" 4 e 5) in Fare un teatro di guerra a cura di Federica Fracassi, scriba studio edizioni, Milano, 2001.

La scena trasformista di Lepage
di Anna Maria Monteverdi (sul nuovo spettacolo La face cachée de la lune)

Un questionario su Santarcangelo
di Oliviero Ponte di Pino

I Ricordi tristi e civili di Cesare Garboli
di Oliviero Ponte di Pino


Imperdibile: Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999.

Chi non legge questo libro è un imbecille


Fare un teatro di guerra
a cura di Federica Fracassi

"ateatro", nei numeri 4 e 5, ha ospitato alcuni degli interveti che sono poi confluiti nel volume a cura di Federica Fracassi, pubblicato da scriba studio edizioni (info: scribastudio@tin.it). Con questo numero di "ateatro" si completa la panoramica degli interventi in anteprima.

Grazie
Centro Sociale Leoncavallo

"per stare in questo viaggio dovete dimenticare il vostro nome, bruciare le vostre carte d'identità….." (Viaggiatori, 1996)

Vogliamo darvi il benvenuto con questa battuta di uno spettacolo* di alcuni anni fa perché ci piace pensare quest'incontro come l'inizio di un viaggio, la partenza di una carovana di uomini e donne che hanno la necessità e il desiderio di abbandonare le posizioni raggiunte per mettersi a rischio nelle zone di guerra. In quei territori bombardati dal conformismo culturale, come Milano, città in cui - più che altrove - il vorticoso e vorace consumo di eventi spettacolari produce svuotamento di senso, annullamento delle differenze e omologazione di ogni spinta creativa.
Milano, dove al vuoto culturale che avanza, come paradosso dei molteplici eventi proposti anche di ottima qualità e spesso a buon mercato, si risponde con la Fabbrica del Vapore: appropriazione indebita e strumentale di formule organizzative e autogestionarie altrui per trasformarle in operazione d'immagine calata dall'alto a scapito e dichiaratamente contro le esperienze spontanee e informali già esistenti e consolidate negli anni. Distanti dai bisogni della città. Questi ultimi espressi soprattutto nelle necessità diffuse di riqualificazione - anche attraverso percorsi progettuali periferici - dei territori , di valorizzazione delle pluralità artistiche e dei linguaggi, di potenziamento di momenti d'incontro delle comunità e di sostegno a quegli ambiti informali di produzione culturale che spesso proprio su quegli stessi territori sono presenti.
A mancare, ci sembra, è quel contesto di relazioni sociali e culturali che rendono significativo e pregnante un fatto artistico, trasformandolo in capacità di incidere sui comportamenti e sugli immaginari collettivi. Per questo abbiamo sostituito da tempo l'attenzione ai luoghi della cultura con quella per i contesti in cui questa viene prodotta e consumata.
Ed è da qui che vogliamo partire (nuovamente, lo abbiamo fatto varie volte nel corso della nostra storia), per tentare di riallacciare il legame tra produzione culturale e tessuto sociale, di trasformare il lavoro e l'esperienza dei singoli gruppi, operatori culturali ed artisti in una nuova visione critica del mondo che ci circonda, e in definitiva di riportare la metafora dell'arte, alle tensioni della vita.
Un procedere per tappe, inventando occasioni di riflessione con cui scandire i prossimi mesi, che ci vedrà camminare insieme ai tanti incontrati in questi anni (soggetti diversi per natura ruoli, appartenenze, per biografia e storia), coinvolgendoli nel tentativo di dar vita, per quanto ci riguarda, ad un nuovo percorso progettuale che partendo dai luoghi non convenzionali, non istituzionali, possa ripensare il senso e la funzione del teatro nella in-civiltà contemporanea..
E' tempo di andare al di là della transitorietà degli eventi, di aprire cantieri permanenti, tessere reti, costruire piccoli osservatori per lo scambio delle esperienze. Uscire dagli steccati dei propri luoghi (e ruoli) affinché nuovi "centri", intesi come catalizzatori di energie, risorse, ragionamenti, progetti si affermino e si moltiplichino, e - non ultimo - per sperimentare nuove formule di organizzazione e di finanziamento, e consolidare percorsi artistici sottraendoli alla precarietà delle proprie condizioni di vita e di lavoro.
Infine, riteniamo - ed è per questo che vi chiediamo di dimenticare il proprio nome... - che non serva oggi al teatro l'affermazione di forti identità ed appartenenze (il regista di fama, il critico noto, il gruppo ormai arrivato, l'istituzione teatrale affermata, consolidata e fagocitante) ma si debba partire dalla messa in relazione dei molteplici soggetti che a vario titolo producono cultura intrecciando nella rete sensibilità, riflessioni, competenze, progettualità per affermare con forza che il sistema teatrale attuale non è l'unico teatro/mondo possibile.
*(spettacolo prodotto da Senzasipario nel '96 per la regia di gigi gherzi con attori provenienti dai centri sociali milanesi)
 

Due frammenti
di Pippo Delbono
Una volta mi ricordo quando ero piccolo stavo dormendo nella casa di mia nonna, una casa sulla collina dove si apriva una grande visione del mare e io una notte ho sognato che da quel grande mare usciva una grande nave e da questa nave spuntavano degli uomini vestiti di nero con gli occhiali scuri come soldati e riempivano tutto il mare e scoppiava una guerra su tutto questo mare e poi tutti si trasformavano in angeli e volavano via.

C'è un mistero che non diventa comunicazione se non l'ami tantissimo e se non vuoi che esca fuori in una maniera che altri la sentano, come la senti tu. Bobò è come se fosse al cuore di una profonda contraddizione della vita in cui nella violenza, nel limite, nel dolore c'è l'aspirazione alla gioia. E' così anche nella vita personale di ciascuno: quando sei ferito, trapassato, quando sei precipitato nel dolore non hai voglia di giocare col dolore o di parlare tristemente del dolore, hai voglia di vita. Quando sono stato a Sarajevo la gente che aveva vissuto per quattro anni assediata, circondata, bersagliata dalla mattina alla sera dai cecchini, ora voleva parlare di vita. Parlano con tristezza della guerra quelli che la guerra la vedono sui giornali o la vivono da lontano. E' lo stesso per quelli che parlano di handicap rispetto agli handicappati.
C'è stato qualcuno che Barboni l'ha odiato: ha proiettato una sua rabbia, qualcuno addirittura parlava di "relitti umani in scena". Invece io credo che nell'esperienza della crisi, del disequilibrio, della sofferenza c'è una possibilità straordinaria di bellezza. E' questa bellezza che io cerco…

E poi questo era il periodo della guerra in Bosnia e io vedevo alla televisione tutti quei morti, quei massacri, quelle stragi, e mi dicevo: "Ma Pippo, non puoi stare lì col tuo piccolo problemino mentre nel mondo ci sono le guerre!". Niente. Ero diventato apatico a tutto. E poi mi veniva in mente quando ero a Lima, in Perù, e c'era il coprifuoco e la polizia sparava per le strade e non si poteva uscire e la gente faceva delle feste dove ballavano, ballavano tutta la notte, e allora io mi dicevo: "Anche tu Pippo, devi danzare, danzare, danzare in questa guerra!"
(Da Barboni. Il teatro di Pippo Delbono, Ubulibri, 1999)

Teatri di guerra
di Gigi Gherzi
La guerra non è un tema.
Non si chiama Kossovo, Mafia, Chiapas.
Non farsi belli della guerra.
Non aggiungere l'ennesima perlina
alla collana del "politically correct".
La guerra racconta di noi,
del nostro rapporto col mondo.

Tanto teatro vive ignorando la guerra.
Per ignoranza si ignora.
Per l'arroganza tipica dei professionisti invecchiati.
In omaggio agli ultimi miti decadenti "sull'essere artisti".
L'unica guerra che conosce è quella meschina
per la sopravvivenza.
Occupare poltrone. Trombare l'avversario.
Vendere più del gruppo concorrente.
Intortare il critico. Passare il provino.
La tristezza: giovani che invecchiano
aspettando di passare i provini.

La guerra vive nelle nostre cellule.
E' quella a bassa intensità che si avverte quando si guarda fuori
e ci si accorge che il mondo sta morendo.
Consumato dalle regole di una "necessità"
che ha assunto la forma dell'incubo.
Le leggi oggettive del mercato.
Le leggi oggettive del sopravvivere.
Palle.

Allora non si parla di Chiapas.
Si è Chiapas.
Si partecipa a quella bestemmia.
Si è Vajont.
Si è quel paese distrutto.
Si è la guerra presente nel mondo, perché, qui e ora,
la stiamo vivendo.

Testimoniarlo è atto d'amore.
E' anima che trabocca e si espande.
Che incontrando l'altro incontra se stessa.

Non si può che essere teatro di guerra, sempre.
Con visione e fantasia.
Imparando dagli errori del passato prossimo.
Non affrontare il nemico sul territorio a lui favorevole.
Non copiarne il linguaggio.
Non accontentarsi della miserabile nocciolina
rappresentata dal "riconoscimento della diversità".
Disinteressarsi del ricambio generazionale.
Delle politiche rivolte ai "giovani gruppi".

Dedicare forza e amore e passione
al pezzo di mondo che si sta costruendo.
Sapere che solo quel mondo, quei fratelli,
sono la tua forza,
il virus che potrà espandersi ed attecchire.
Essere più belli del nemico.
Praticare la sfida disarmata.

Essere coscienti che le luci del "centro"
vivono di uno splendore mortuario.
Costruire nuove forme di produzione e di incontro.
Pensare al teatro come a una selva
in cui, inizialmente pochi, si ha bisogno di capirsi,
di sperimentare leggi ed etiche,
forme della solidarietà, dell'incontro, della creazione.
Nessuna distinzione tra noi e il pubblico.
Ogni spettatore è un'artista che ti guarda.
La scommessa è comune.

Quando la colonna sarà pronta per partire
che il viaggio sia meraviglioso.
Nel frattempo, lavorando nel piccolo,
costruire mondi che permettano il respiro.
Essere combattenti della guerra che mira
a incrinare l'ignoranza.
Estinguerci nelle nostre identità fasulle.
Rinascere ricreando il sogno dell'arte.

Gigi Gherzi, marzo 2001

Antonio Moresco a colloquio con Carla Benedetti
CARLA BENEDETTI - Per quale ragione il tuo primo libro pubblicato si intitola Clandestinità ?
ANTONIO MORESCO - Si intitola Clandestinità perché non avevo la possibilità psicologica, artistica e spirituale di disporre di un altro titolo. Questo è stato l'unico titolo che mi è stato permesso. Allora mi trovavo davvero nel più assoluto anonimato sociale, perché, oltre tutto, non svolgevo nessun mestiere, nessuna professione. Prima avevo fatto anche dei lavori pesanti.
C.B. - Per esempio ?
A.M. - Ho lavorato nelle fabbriche, stagionale, in campagna, facchino, portiere di notte, in un'officina seminterrata a costruire i piani dei flipper… Ma poi ero crollato, stavo male, piangevo continuamente, avevo degli scoppi di pianto anche in pubblico, ero spezzato.
C.B. - Quanti anni avevi?
A.M. - Una trentina. E' durato per tre o quattro anni in una maniera così terribile…
C.B. - "Clandestinità" mi pare una parola chiave per te, indica la condizione del tuo personaggio non solo nel racconto che ha questo titolo ma anche in altri. Questa è l'impressione che ho io. Cioè che l'occhio di questo narratore non può essere altro che quello di un clandestino, come se, appunto, il suo sguardo venisse da un luogo, un altro luogo, esterno ai normali rapporti sociali. L'immagine che mi viene in mente è quella di un alieno che è capitato su questo mondo che deve osservare e da cui, nello stesso tempo, deve difendersi.
A.M. - Non saprei dire se avevo la consolazione di sentirmi perlomeno un alieno! Forse non avevo neanche quella. Ma poi non è che questa condizione me la sia inventata, non c'era bisogno di una grande fantasia, era la mia situazione. Non è cambiata molto, in un certo senso, mi pare, perché in ultima analisi vedi anche tu che l'accettazione pubblica dei miei libri non è avvenuta, la parte decisiva di questa società culturale, i cosiddetti nomi che contano non si sono mai confrontati col mio lavoro, non una sola di queste persone che vengono considerate decisive, quelle che forniscono il nulla osta, la cooptazione, ha fino ad oggi mai recensito un mio libro. Se si sono occupati fuggevolmente di me è stato per denigrarmi… E' inutile star qui a raccontare. Però, nello stesso tempo… Tu sai come io ami quella frase di Dostoevskij che c'è proprio all'inizio dei Karamazov, dove l'autore si rivolge direttamente al lettore e dice: "Giacché non solo lo stravagante non sempre è particolarità e idiosincrasia, ma al contrario può avvenire che appunto egli, se non vi dispiace, rechi in sé, qualche volta, il midollo dell'universo, mentre gli altri uomini della sua epoca, tutti quanti, in una specie di turbine, si sono temporaneamente, per un motivo o per l'altro, distaccati da lui…"
C.B. - Torniamo a Clandestinità. Senti, tu questo libro l'hai scritto a trent'anni, mi hai detto. Però sei riuscito a pubblicarlo soltanto nel '93. Cioè quanti anni dopo?
A.M. - Quindici.
C.B. - Quindici anni dopo? Tanto ci hai messo a farlo accettare da un editore?
A.M. - Sì.
C.B. - Hai mai pensato di passare tutta la vita come un autore clandestino?
A.M. - Sì, certo, ormai pensavo che sarebbe finita così. E' come quando qualcuno rimane sepolto sotto le macerie della sua casa, dopo un terremoto. Lui grida, grida, ma se non passa per di lì qualcuno che senta, che sappia sentire, che voglia sentire, quello che sta sotto muore, e lo sa.
C.B. - Tu dici?
A.M. - Sì, ne sono convinto. Chissà quanti sono morti così! Ma questo vuol dire almeno che si tratta di una cosa vivente. La letteratura… può essere anche una cosa maledettamente vivente, dove entrano in gioco fattori che annichiliscono i grossi meccanismi della selezione naturale. Possono venir fuori cose che secondo le previsioni, le programmazioni non avrebbero dovuto aver spazio, avere vita, invece eccole lì, in una situazione di suspence terribile, cose che vengono giocate proprio all'ultimo secondo, a tempo scaduto, addirittura, la scena della macchina che corre e non si sa se riuscirà a passare un secondo prima che passi il treno, o dell'astronave che non si sa se riuscirà a passare prima che si chiudano le mastodontiche porte di metallo della base aliena in cui è intrappolata… Eppure questa sbalorditiva situazione può creare, per chi la vede, la sente, la soffre, un dramma che apre uno spazio verticale.
C.B.- Come sei riuscito a reggere questo scontro, visto che stavi solo su questo terreno, non avevi voluto tenere in mano altre carte, da un certo punto in poi, altre soluzioni di ricambio, linee di fuga?
A.M. - Non lo so.
C.B. - Cosa c'era?
A.M. - Non lo so... continuavo, nonostante tutto quello che mi succedeva, il prezzo psicofisico che stavo pagando…continuavo a sentire dentro di me questa cosa che prima avevo chiamato midollarità, mi percepivo in una zona irradiante.
C.B. - Proprio quella cosa che alcuni ti rimproverano, no?
A.M. - Sì.
C.B. - Cioè di credere troppo nella tua... vocazione, chiamiamola così. Questo è il paradosso: se tu non avessi avuto questo tipo di urgenza, di midollarità, come avresti potuto andare avanti in una situazione simile? Avresti smesso da un pezzo!
A.M. - Questo è certo. Oppure avrei cominciato a scrivere cose diverse, che non avrebbero avuto difficoltà a venire accolte subito dagli editori.

(Il brano è tratto da un libro di dialoghi con Carla Benedetti, La visione - KKP).


Il festival Opera Prima
di Massimo Munaro

Per un gruppo teatrale nato e cresciuto in una piccola città di provincia come Rovigo, l'idea di un Festival era di per sé una chimera da inseguire con costanza e una buona dose di follìa. Tanto più un Festival dedicato interamente ai gruppi - così ci sentivamo noi - della nuova ricerca teatrale italiana.
Chi ci avrebbe potuto prendere sul serio qui e tanto più fuori dalla nostra città, relegata com'era, ma oggi non è poi tanto diverso, letteralmente ai confini dell'impero - come amavamo dire allora?
Era il 1994: il Lemming contava già setti anni di esistenza. Un'esistenza fatta, già allora, di prove, spettacoli, laboratori. Ci sentivamo confinati ai margini di una città ai margini.
Il nostro rapporto con Rovigo non è mai stato facile. All'inizio ci guardavano con quella simpatìa con cui si guarda i giovani quando li si pensa innocui. Col passare degli anni, al nostro progressivo rivelarci non propriamente innocui , le cose sono via via cambiate, e ci siamo sentiti oggetto di una contesa fra una parte della città che ci guardava sempre più indispettita e un'altra parte della città che riconosceva in noi probabilmente una spinta al nuovo, al cambiamento.
Racconto queste cose perché trovo importante riflettere anche sul contesto, sui luoghi, in cui gli eventi accadono. E allora può sembrare assurdo che un festival dedicato alla nuova avanguardia teatrale italiana (uso questa parola consapevole di tutti gli equivoci che una simile definizione porta con sé) sia nato proprio in una piccola città culturalmente conservatrice - in cui esisteva, ed esiste, un unico teatro pubblico che proponeva da sempre una stagione lirica e una stagione di prosa tradizionale, e un teatro parrocchiale volto esclusivamente alla promozione del teatro dialettale. Di avanguardia o di Nuovo teatro qui non si era proprio mai sentito parlare. Può sembrare quindi un paradosso che Opera Prima sia nata (o meglio rinata come vedremo) proprio in questo contesto: ma certo non è un caso.
La scommessa, per noi, oltre tutto si faceva anche più ambiziosa visto che si estendeva a tutto il territorio nazionale. Proprio nel momento in cui i gruppi della ricerca storica conoscevano un forte momento di crisi e di involuzione poetica e artistica, o almeno così ci sembrava, noi eravamo pronti a scommettere che nell'oscurità una nuova fila di giovani teatranti lavorava e sperimentava con coraggio nel misconoscimento più assoluto. Nessuno per altro sapeva se questa loro esistenza era reale oppure no. Nemmeno noi. Si trattava di scommeterci.
Devo dire che fummo i primi a sorprenderci quando, in risposta ad una nostra scarna lettera/bando di presentazione (spedita ad un indirizzario fatto di biblioteche, scuole di teatro, compagnie riconosciute, centri di ricerca teatrali, e di quelle pochissime nuove realtà con cui eravamo già in contatto), fummo letteralmente sommersi da quasi duecento domande di partecipazione.
Fummo colti alla sprovvista. All'epoca non avevamo nemmeno un ufficio dove raccogliere tutto il materiale. Passavamo i giorni a vedere video e a viaggiare, quando ci era possibile, non solo per visionare degli spettacoli ma proprio per conoscere altri gruppi, altre metodologìe di lavoro, altre esperienze.
L'entusiasmo era crescente. Non eravamo soli. Una prima scommessa era già vinta prima ancora di realizzare concretamente la prima edizione del Festival.

Il Festival Opera Prima nasceva innanzi tutto in una sorta di continuità ideale con un analogo Festival realizzato a Narni una decina d'anni prima dal critico Giuseppe Bartolucci. Come Narni si era fatta promotrice della generazione teatrale precedente, noi ci proponevamo, per citare alla lettera il programma della nostra prima edizione, "in controdenza rispetto alle consuetudini odierne, di offrire un panorama significativo, anche se non esaustivo, dei diversi percorsi intrapresi dal giovane teatro italiano - di fare il punto, in sostanza, sul teatro degli anni '90".
Piuttosto che di teatro sarebbe più giusto, come è stato successivamente rimarcato da Antonio Calbi con il nome dato alla sua fortunata rassegna milanese, parlare di teatri '90. Per noi, fin dall'inizio, le tendenze dovevano essere rimarcate proprio nelle differenze. Le differenze erano un valore e costituivano un po' la caratteristica di questa che andava configurandosi via via come una nuova ondata.
Scegliemmo la metà di giugno come data di realizzazione del Festival un po' perché si proponesse come il primo dei Festival estivi italiani, lontano da antipatiche e per noi deleterie sovrapposizioni di date con altri Festival, un po' come ulteriore omaggio a Martino Ferrari da poco prematuramente scomparso. Martino aveva fondato il gruppo con me e aveva condiviso e contribuito a tutti i nostri progetti, compreso l'idea di un Festival da dedicare ai giovani gruppi della ricerca teatrale italiana. Lavorava come ricercatore presso l'Università di Ferrara. Durante un sopralluogo aereo su degli scavi archeologici che conduceva ad Isernia, l'aereo su cui era è precipitato. Giugno era il mese in cui era nato. Era giusto che Opera Prima nascesse in giugno.
Alcune precisazioni metodologiche.
Volevamo realizzare un Festival anche da un punto di vista politico e organizzativo diverso dagli altri. Nonostante i nostri rapporti non facili con la città per noi era chiaro che il Festival doveva riuscire a coinvolgere almeno la parte più viva di Rovigo, altrimenti non avrebbe avuto senso. Lanciammo così l'idea di una sorta di sottoscrizione, attraverso il tesseramento alla nostra compagnia, per sostenere la realizzazione del Festival. Raggiungemmo quota 300 soci. Il valore politico di questa adesione convinse il Comune a garantire un sostegno economico e logistico (per l'allestimento tecnico degli spazi) all'intera iniziativa. Anche Provincia, Regione e il Circuito teatrale regionale ArteVen aderirono al progetto seppure con cifre quasi simboliche (in tutto il badget della prima edizione del Festival era di 67 milioni - budget non aumentato nel corso degli anni).
La responsabilità organizzativa doveva essere collegiale e investire più persone possibili.
Alle Compagnìe doveva essere garantita la liquidità immediata del loro cachet e una assistenza tecnica completa.
Scegliere pochi gruppi ogni anno su una quantità davvero enorme di richieste non era facile. Ce ne siamo sempre assunti la responsabilità: oneri e onori. Questo succede sempre e a chiunque organizzi un Festival. Noi avevamo l'aggravante di dover scegliere fra colleghi e di essere, da questo punto di vista, misconosciuti ed esposti al giudizio come tutti gli altri.
Per quanto riguarda la critica decidemmo subito di fare le cose in grande. Prendemmo in mano telefoni e fax e sommergemmo di comunicati stampa le redazioni di quotidiani e di televisioni, oltreché un numero imprecisato di critici importanti: unico a rispondere il critico di Repubblica Franco Quadri.
Provammo a invitare anche organizzatori di altri Festival, i responsabili dei Centri di Ricerca: non si vide nessuno.
Il fatto più clamoroso restava il dato politico. L'esistenza di un numero così impressionante di gruppi teatrali (al nostro censimento arrivammo a 200 ma di lì a un anno il numero arrivò a 300) che popolava in modo sommerso la realtà teatrale italiana ci pareva un dato importante e decisivo.
Così sull'onda dell'entusiasmo, alla fine del Festival ci facemmo promotori di una serie di incontri fra i gruppi teatrali e arrivammo un anno dopo alla seconda edizione del Festival ad un Convegno il TEATRO ESPLOSO in cui si decise di presentare un documento politico comune. I quattro giorni del Festival si trasformarono in assemblea permanente: una sessantina di gruppi discussero animatamente le bozze di un manifesto che solo una parte dei presenti (35) finì poi per sottoscrivere. Ma il dardo era stato lanciato e l'attenzione verso il nuovo sarebbe da lì a poco, finalmente, cresciuta a dismisura.
Il documento politico era diviso in quattro punti:
1. la denuncia sull'impossibilità effettiva di un ricambio generazionale - "da dieci/quindici anni il Carrozzone Teatro si è rinserrato in se stesso e ha gettato le chiavi. Entrarvi non è più possibile per nessuno";
2. la constatazione della mediocrità e del marciume in cui il teatro italiano ufficiale perversava;
3. la rivendicazione di esistenza di un teatro sommerso e che è finalmente vitalmente esploso;
4. la necessità di una solidarietà comune.
Da quel Convegno nacque successivamente l'Associazione dei Teatri Invisibili (da cui il Festival omonimo a San Benedetto) che segnò per altro una spaccatura (ideale, politica, ma anche poetica) all'interno di questo movimento nascente: spaccatura che per altro non si è più rimarginata. Spaccatura che infondo era già insita nelle premesse. Così recitava la premessa poetica a quel manifesto scritta come IO collettivo da Paolo De Falco giovane artista leccese: Addìo. Restiamo ad aspettare. La giovinezza ha un rapporto meraviglioso con l'attesa. E l'attesa del teatro ha un rapporto meraviglioso con la giovinezza. L'arte non ha bisogno di generazioni. Ma noi rappresentiamo un diritto del tempo a poter morire. A inventarsi il passatempo dell'inizio e della fine. Niente di nuovo ma le ripetizioni a teatro sono la vita. La sua vita. (...) Noi siamo il dubbio del teatro. L'eredità del dubbio... che ha bisogno per la sua stessa sopravvivenza di conservarsi giovane e audace. Noi siamo il suo strumento. (...) Sicuramente finirà questo legame d'intesa ma che importa se è così bello piegarsi al destino dei fallimenti.(...)"
In quei giorni si respirava nell'aria febbrile la sensazione che qualcosa potesse davvero cambiare.
Decidemmo di dedicare la terza edizione del Festival ad una prima riflessione pubblica sulle linee poetiche che caratterizzano il Teatro degli anni '90. A questo Convegno di due giorni furono invitati una decina di critici e storici del teatro, alcuni artisti delle passate generazioni, e soprattutto una trentina di gruppi invitati finalmente a parlare del loro lavoro, della loro ricerca, della loro poetica. Anche questo fu credo un momento decisivo per far rivelare la consistenza e la maturità almeno di alcuni percorsi artistici in seno a un movimento così magmatico.
Giungiamo così al 1997 e al 1998, e cioè alla quarta e alla quinta edizione del Festival. Lo scenario intorno, come da auspici, è completamente mutato. Sul modello di Opera Prima altri Festival analoghi nascono in Italia: il Festival Extraordinario a Roma (che purtroppo conosce solo lo spazio di una stagione), Crisalide a Bertinoro e poi Scena Prima seguita da Teatri '90 a Milano, che si estende prima a Torino e quest'anno anche a Palermo. Festival importanti come Santarcangelo, Volterra, Polverigi aprono le porte ai giovani gruppi. I Teatri e le stagioni consacrate da sempre alla ricerca storica cominciano a contenderseli i nuovi gruppi. L'interesse critico si estende a macchia d'olio. I giovani gruppi sembrano diventare la moda del momento. Le grandi istituzioni, l'Eti in testa, dimostrano un'attenzione al nuovo che non sembra del tutto effimera. Persino lo Stato ripensa la sua mitica circolare ministeriale (di una legge al momento si continua ancora soltanto a parlare) e aggiunge un articolo (il 14 - per altro già sparito nel nuovo regolamento) che è (era) una porta di accesso - seppure densa di inganni e trappole - aperta apposta per le giovani formazioni. Potremmo dire, per i pochi gruppi entrati al finanziamento, dalla invisibilità alla precarietà. In buona compagnia.
Basta aspettare però qualche anno - siamo ariivati già ai giorni nostri - e tutto torna ad una preoccupante normalità. E' il ritorno all'ordine. I segnali si sono fatti, improvvisamente, sempre più sconfortanti. Della apertura ai giovani gruppi non resta traccia nel Nuovo Regolamento ministeriale. E di nuovo per chi nasce oggi accedere ai contributi torna ad essere una chimera. Il Carozzone è tornato a rinserrarsi in se stesso. La moda del nuovo si è rivelata piuttosto effimera: e l'interesse critico, così come quello dei grandi Festival, sembra essersi fossilizzato soltanto su alcuni gruppi già per altro abbondantemente emersi. Chi si preoccupa oggi del Teatro sommerso? La risposta è: nessuno.
Le prime ricostruzioni storiche, siamo già nell'epoca dei bilanci, danno un quadro semplificato di una complessità che, per altro, appunto, non registrano affatto. Le pubblicazioni, che oggi si affrettano ad uscire, lasciano così piuttosto imbarazzati. E uno sguardo sullo stato generale del teatro italiano lascia stupiti. Annichiliti. Arrabbiati. Corsi e ricorsi della storia, il movimento resta ciclico. Siamo nell'epoca della risacca.. Tutto è ritornato allo stesso punto da cui siamo partiti otto anni fa.
Così, al solito, tutto sembrava cambiare per rimanere in realtà sempre lo stesso.

La Tetralogia del Lemming:
il mito e lo spettatore

In un'epoca di pensieri deboli e di fragili idee sul teatro, questi lavori implicitano innanzitutto la necessità di un ritorno al senso originario e profondo dell'esperienza teatrale.
Il teatro, al contrario di quanto comunemente si pensa e si pratica, non nasce come mera rappresentazione, ma è, prima di tutto, accadimento: l'evento condiviso, da almeno un attore e uno spettatore, in uno spazio e in un tempo comune.
Se per i greci Dioniso era il dio del teatro, lo era per la sua capacità di instaurare, attraverso il teatro, il regno della con-fusione fra realtà e illusione. Da cui il noto paradosso per cui "la tragedia opera un inganno per cui chi inganna è più giusto di chi non inganna e chi è ingannato è più sapiente di chi non è ingannato" (Gorgia, B 23 DK).
Ma oggi, ormai, il gioco rappresentativo, esautorato ogni stupore, ci appare come una mera finzione che non inganna più nessuno. Seduti comodamente nelle nostre poltrone, abbiamo imparato ad addomesticare ogni qualsivoglia immaginazione. Questa distanza, questa assoluta passività in cui ci troviamo relegati quando andiamo a teatro, mima una più temibile passività che è quella delle nostre vite. Ha scritto Umberto Galimberti: "Istituendoci come spettatori e non come partecipi di un'esperienza o attori di un evento, i media ci consegnano quei messaggi che per diversi che siano gli scopi a cui tendono veicolano eventi che hanno in comune il fatto che noi non vi prendiamo parte, ma ne consumiamo soltanto le immagini".
Ora che la RELAZIONE costituisca oggi un territorio dell'impossibile, la dice lunga su questi tempi oscuri di comunicazioni sfrenate, di telefoni, telefonini, fax, internet, di milioni di solitudini in Rete, in cui a mancare finisce per essere proprio la comunicazione. Siamo sommersi di messaggi i cui contenuti ci sfuggono: mille voci di una Babele ormai sorda alla parola. Una Babele in cui la stessa pratica del teatro si è ridotta a qualcosa di poco più (o di poco meno) di un passatempo.
A noi piace pensare, invece, ad un teatro la cui natura torni ad essere CONTATTO.Ad un Teatro che può contrapporre alle pratiche imperanti il segno della sua differenza, della sua specificità che è quella, appunto, della condivisione di un'esperienza.


La scena trasformista di Lepage
(Annecy, 10 marzo 2001)
di Anna Maria Monteverdi

Il nuovo spettacolo del regista canadese, La face cachée de la lune, ovvero La faccia nascosta della luna, offre lo spunto per una riflessione sul rapporto tra teatro e tecnologia.

Il regista canadese Robert Lepage (nato a Québec City nel 1957) è veramente un "caso" nel teatro contemporaneo di ricerca: la sua biografia è costellata di una serie di successi internazionali infilati uno dietro l 'altro sin dal suo apparire sulla scena, da Vinci (spettacolo dedicato a Leonardo e ai luoghi e ai personaggi della Toscana rinascimentale), a Geometry of miracle (ispirato alla figura dell'architetto Frank Lloyd Wright) a Tectonic Plates a The Needle and the Opium (1992, sulla biografia di Miles Davis e Jean Cocteau).

Consensi unanimi e riconoscimenti per il suo teatro, caratterizzato da una presenza di immagini in forma di proiezione video e filmica e da una narrazione vicina a quella cinematografica, sono arrivati dai maggiori Festival mondiali (dal Festival del Teatro delle Americhe di Montréal al Festival del teatro "off" di Avignone). Lepage è stato, tra l'altro, l' unico artista nordamericano ad aver diretto un'opera shakesperiana per il London Royal Theatre (A Midsummer Night's Dream).
Teatro senza frontiere quello di Lepage nel senso di un teatro finalmente liberato dai confini della lingua e del genere: produzioni internazionali (Le poligraphe in tre versioni: francese, spagnola e italiana), vere e proprie epopee teatrali kolossal (le sei ore de La trilogia dei dragoni presentata in Canada, Europa, Messico, Australia e Stati Uniti), un Romeo and Juliet creato in due lingue a ricordare nuove divisioni linguistico-politiche (francofoni e anglofoni in Canada); vicino al teatro orientale, ha realizzato una regia in giapponese de La tempesta e del Macbeth per il Globe di Tokyo, mentre alterna l'attività teatrale a quella di regista cinematografico (Le confessional, presentato al Festival di Cannes del 1995, No ambientato in Giappone e Possibile Worlds), regista d'opera (allestirà per il Teatro della Bastiglia di Parigi La Damnation de Faust) e regista di concerti rock (ha curato le scenografie del Secret World Tour di Peter Gabriel). Si misura anche lui con un Amleto solo in scena (come Bob Wilson): Elsinore, 1997 ovvero "Lepage's one-man Hamlet". Nell'aprile del 2000 presenta La face cachée de la lune che approda in Europa solo nel marzo 2001 con pochissime date dopo un primo tour in Australia e in Canada.
La questione se il suo teatro sia o no eccessivamente tecnologico (l'" over-use of technologies" è l'accusa che gli è stata rivolta in occasione del suo Elsinore, 1997, in cui i pensieri nascosti di Amleto, solo in scena, venivano letteralmente passati ai raggi X) è a nostro avviso marginale.
L'uso della tecnologia in scena è, indubbiamente, il marchio di fabbrica del teatro di Robert Lepage, anche se forse sarebbe più corretto parlare di un "teatro della visione" (quello che a Franco Quadri fa ricordare "il Bob Wilson degli anni d'oro").
Lepage stesso, infatti, definisce il suo un "image-based work" (come non ricordare la scena di The needle and the opium in cui l'attore Lepage danzava al suono della musica di Satie divorato dentro il vortice dei Rotorelief di Duchamp proiettato su uno schermo-lavagna, unico oggetto scenico).
Il "teatro dell'Età del Nintendo" o delle "chincaglierie tecnologiche" non ha, in realtà, paura di contaminare, rendere impuro o corrotto il Teatro, arte nobile e antica. Al contrario, Lepage risponde alle accuse definendosi provocatoriamente un "formalista": la tecnologia-dice- implica una forma (...) le tecnologie sono oggi la nuova materia a disposizione dell 'artista per creare nuove forme di narrazione a teatro.

Lepage per questo spettacolo Le face cachée de la lune che prende spunto, proprio nell'anno dell'Odissea kubrickiana, dall'invio delle sonde spaziali, prima sovietiche e poi americane, in esplorazione della faccia nascosta della Luna, costruisce una macchina teatrale che funziona complessivamente, a partire proprio da una perfetta integrazione della tecnologia (che, a dispetto dei detrattori di Lepage, è sempre più prossima alla meccanica) nell'intero apparato drammaturgico, recitativo, sonoro, scenografico e concettuale dello spettacolo.
Una tecnologia poco sofisticata ma molto leggera dà vita, infatti, ad un nuovo ambiente "contrainte" per l'attore e suo doppio elettronico: questa tecnologia ha perso le caratteristiche di mostrum o di macchineria infernale barocca per assumere, invece, la qualità evocativa ed espressiva della luce.
Durante una conversazione ad Annecy al termine dello spettacolo, Lepage ci parla proprio della luce e del suo contrario, l'ombra, come componenti fondamentali e quasi fondanti della sua scena, alla cui definizione è giunto in parte ispirato alla teoria leonardesca dell'arte (a cui ha dedicato anche uno spettacolo, Vinci, 1984), in parte al teatro giapponese: "il video è fatto di luce".
Lepage inventa un fondale metallico di color grigio scuro che nasconde al suo interno, una serie di ambienti tra loro separati a mo' di vani che scorrono silenziosi su binari nascosti. Un'apertura-varco centrale di questo fondale, fa intravedere, nel corso dello spettacolo e come un vero movimento di macchina da presa, oggetti e ambienti sempre diversi: armadio, ascensore, stanze. "Interiors", cose nascoste, svelate appunto. Questo fondale ha anche una corrispondente quarta parete "fisica": una enorme lavagna-specchio dotata di tre movimenti: la scatola scenica si apre una prima volta grazie a un sollevarsi della lavagna-specchio che "scopre" all'attore gli spettatori e agli spettatori l'armamentario scenico della storia; un movimento verso l'interno fa, in seguito, "diventare" la lavagna un oggetto di scena (un lunghissimo bancone da bar); infine, un movimento verso l'alto a 45° a formare un soffitto riflettente, alla fine dello spettacolo, restituisce percettivamente agli spettatori l'impressione di un corpo duplicato sulla scena avente movimenti uguali ma rovesciati dell'attore stesso steso in terra e impegnato in una danza quasi in assenza di gravità.

In prossimità del boccascena un binario quasi invisibile trattiene due videoproiettori mobili che proiettano alla sinistra e alla destra del fondale, immagini non sincronizzate tra loro di spezzoni di documenti televisivi e fotogrammi di archivio sulla conquista della Luna: gli esperimenti con gli animali, i primi astronauti, l'incontro e la stretta di mano nell'atmosfera extraterrestre di Russi e Americani. Fa da colonna sonora la musica originale di Laurie Anderson.
Lepage in questo spettacolo ha la capacità di sorprenderci con una scena trasformista come forse solo Fregoli è riuscito a concepire con il suo corpo dai mille personaggi e mille facce che si trasformavano l'uno nell' altro a un ritmo così veloce da essere quasi assimilabile al cinematografo.
Come gli screen di Gordon Craig (i pannelli semoventi definiti "le mille scene in una" progettate per l'Amleto di Mosca del 1912) la scena dal volto mobile di Lepage si trasforma continuamente grazie al solo movimento della luce (questa è la caratteristica dell'elettronica): cambia sembianza, diventa tutto quello che la narrazione ha necessità di raccontare sotto gli occhi degli spettatori senza che questi si renda conto di quando avvenga (anche se è, invece, chiaro come avviene). Il problema non è, infatti, tenere nascosto il meccanismo quanto creare un dispositivo-macchina contenitore delle esigenze della narrazione di cui l' artista-autore-attore sia consapevole quanto lo stesso spettatore. Non c'è trucco, non c'è inganno.
Lepage ci parla del suo uso in teatro di una macchina non sofisticata ma ingegnosa e intelligente ("clever") il cui funzionamento è a vista ed è facilmente compreso dal pubblico perché "oggi le persone hanno grande familiarità con telecamere e video. Per me questa tecnologia è interessante per invitare la gente ad andare a teatro, perché ora la gente sa come funziona. Metteresti il pubblico in una posizione di incapacità ("unepowered") se tu non mostrassi i "fili"o non dessi indizi per capire il modo di costruire (la scena)".

Per farci capire meglio questo concetto Lepage ci racconta del teatro giapponese tradizionale di marionette di Osaka (il teatro Bunraku) in cui , il più anziano dei tre manovratori si leva il cappuccio e mostra il proprio volto dando pubblica esibizione della sua magistrale abilità manuale. (Questa particolare maniera di manovrare marionette allo scoperto, introdotta nel 1705 dal famoso burattinaio Tastumatsu Hachirobei, fu chiamata il "de-zukai").
L'esplorazione della luna è la metafora di cui si serve Lepage per parlare di un'altra esplorazione, quella dello spazio interiore, intimo e privato: è la storia di due fratelli, uno metereologo e l'altro venditore di spazi pubblicitari per telefono. Separati da stili di vita e caratteri (anglofoni e francofoni?) viene loro a mancare la madre. Separati si riconciliano (Russi e Americani?).
La loro vita è costellata da domestiche esplorazioni spaziali: una telecamera percorre i diversi spazi familiari (e talvolta l'impressione è quella di stare realmente dietro i movimenti di macchina di un cameraman) mentre la forma circolare del casco degli astronauti diventa un vero tormentone visivo: oblò di un aereo, immagine digitale della Terra e delle sue perturbazioni ad uso del metereologo, vaschetta per i pesci rossi, apertura di una lavatrice; così come la forma allungata della navicelle è presenta nell'asse da stiro in verticale e nei pezzi del thermos impilati. Come la fila o la pila di sedie da cucina di A Midsummer Night's Dream che sono lì a rappresentare un ponte o una piramide, gli oggetti del quotidiano diventano ne La face cachée de la lune quasi immagini universali: fanno appello al potere immaginativo del pubblico richiedendo uno sguardo nuovo, creativo, che non prenda in considerazione solo la funzione ma appunto la loro forma quasi primitiva ed elementare, oppure semplicemente la loro somiglianza a qualcos'altro, come nei Tele-racconto di Giacomo Verde; vale a dire, rappresentare la storia con pochi elementi e oggetti, esattamente come la nostra memoria che trattiene l'essenziale.

Il domestico e la memoria collettiva, formate entrambe a partire da un archivio di immagini, si intrecciano continuamente e si mescolano l'uno con l'altro fino a confondersi come in continue dissolvenze incrociate: l' uomo entra nell'apertura della lavatrice di una lavanderia a gettoni e la telecamera interna collocata nella macchina ad uso domestico, riporta il volto e i movimenti dell'uomo al ralenti che ci ricordano in maniera inequivocabile le immagini dell'interno delle navicelle spaziali e i movimenti degli astronauti in assenza di gravità trasmesse dalle televisioni o dai documentari. Ancora: uno dei due fratelli va in ospedale, fa una tac e viene collocato dentro l'oblò; i raggi x rilevano episodi dell'infanzia in forma di filmino in Super otto.

La narrazione è piena di episodi divertenti e di gag e situazioni degne della più classica commedia degli equivoci. Dice Lepage che questo serve a "spezzare" la solitudine dell'attore solo in scena e a creare un contrasto al naturale confluire della narrazione teatrale verso l'estrema drammaticità.
Ma a parte il gioco degli oggetti che sono ma che soprattutto diventano altro rispetto alla loro funzione (ma Duchamp non c'entra.), c'è il sovrapporsi di memorie, personali e collettive, ricordi ed esplorazioni di zone buie. Siamo venuti alla luce e al mondo come piccoli astronauti che prendono per la prima volta fiato dopo che il cordone ombelicale-cavo che ci collega alla navicella madre è stato staccato e dopo il preciso colpetto alla schiena dato dalla levatrice al neonato a testa in giù che per questo piange ma contemporaneamente prende per la prima volta l' ossigeno necessario alla vita e impara a respirare autonomamente. Da quel momento in poi la nostra vita è una ricerca della verità nascosta, del progetto interiore da inseguire, del calore che ci riscaldi dopo il gelo del vuoto cosmico.

Una marionetta manovrata nel buio da una mano nascosta, percorre la scena: un piccolo astronauta autonomo impara a camminare.
Riuscirà qualcuno a costruire davvero quell'enorme Torre Eiffel (che a noi ricorda il Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin!) che innalzata fino oltre la stratosfera, come si racconta all'inizio dello spettacolo, dovrebbe essere in grado di captare quello che a noi è ancora segreto: il lato nascosto della Luna?
Quale sonda riuscirà mai a scoprire il lato più misterioso e rimosso del nostro Io?
E ritorna, come nel programma televisivo sugli extraterrestri seguito da uno dei protagonisti, l'interrogativo fondamentale: "Sommes-nous seuls?" Ma sulla Terra.


Un questionario su Santarcangelo
di Oliviero Ponte di Pino

Qualche tempo fa, mi sono state fatte via e-mail alcune domande sul Festival di Santarcangelo, nel corso di un'indagine sulle realtà culturali della riviera romagnola. Mentre il dibattito sul futuro del festival (leggi "budget dell'edizione 2001") è in corso, mi sembra utile offrire questi spunti di riflessione.

E’ a conoscenza dell’evento in questione?
Sì.

In quale occasione è venuto a conoscenza dell'evento?
Lo conosco da quand'ero ragazzino: da decenni è un punto di riferimento per tutti quelli che amano il teatro, da artisti o da spettatori. Lo frequento da una ventina d'anni e ne ho scritto in diverse occasioni.

Che tipo di valutazione dà dell’evento, relativamente ai contenuti, all’organizzazione e gestione, al riscontro del pubblico, alla comunicazione?
E' una manifestazione che ha una propria storia e identità, che ha costruito un'ampia rete di relazioni con gli artisti, con il pubblico, con i volontari che collaborano ogni estate. Non è un festival rivolto alle grandi masse: prende atto che il teatro è, oggi, uno spettacolo per pochi - un'élite per scelta, per affinità, per passione, più che per classe sociale o per origine. Da questo punto di vista, e considerando gli scarsi mezzi di cui dispone a paragone di iniziative analoghe, mi sembra che i risultati siano positivi. Dal punto di vista artistico - se vi interessa - più che una vetrina di megaspettacoli è un laboratorio aperto. Non a caso vi sono passati, in questi anni, molti grandi artisti. E soprattutto molti giovani hanno avuto l'opportunità di farsi conoscere e apprezzare in una cerchia più larga. Negli entusiasmi e nei momenti di stasi, è uno specchio di quello che si muove nel teatro italiano, di quello che è più vivo (e a volte discutibile: ma fa parte del gioco).

Come valuta l’evento relativamente ad altri della medesima tipologia? Può indicare eventi che ritiene similare a questo e perché?
Per certi aspetti è un evento unico: per la sua lunga storia (lunga relativamente ai tempi teatrali), perché è riuscito a conciliare il meglio dell'avanguardia con le più antiche e autentiche tradizioni teatrali. Esistono molti tentativi di imitazione, che però hanno avuto poco respiro. Forse l'esperienza più vicina in Italia è quella di Pontedera e Volterra (non a caso l'animatore di queste realtà, Roberto Bacci, ha lavorato a lungo a Santarcangelo).

Ritiene che l’evento abbia una vocazione locale, nazionale o internazionale?
Credo che abbia una vocazione nazionale ma un respiro internazionale. Il fatto che la recente Biennale veneziana di Giorgio Barberio Corsetti si sia mossa in una direzione analoga dimostra l'importanza e le potenzialità di Santarcangelo.

Come si colloca l’evento (se non solo nazionale) nel panorama internazionale?
La forma festival ha vissuto negli ultimi decenni, dopo il boom del dopoguerra (quando nacquero Avignone, Spoleto, Edimburgo, i grandi festival internazionali) alti e bassi. Un autentico, grande festival internazionale, con gli spettacoli dei registi di nome, ha un budget di 10 volte (credo) quello di Santarcangelo: ma ne esistono già, e Santarcangelo non è mai stata una vetrina di "begli spettacoli", è sempre stato qualcosa di diverso. Forse Santarcangelo potrebbe, continuando a restare quello che è sempre stato, investire su una maggiore presenza di spettacoli stranieri - che però rientrino nel progetto complessivo della manifestazione, che non siano insomma fiori all'occhiello o semplici acchiappapubblico.

Ritiene giusta la collocazione nel riminese di un evento del genere? Per quali motivi?
E' una manifestazione che è nata e cresciuta a Santarcangelo, che è ormai stabilmente legata al nome di quel borgo, e non vedo dove potrebbe approdare. Non a caso, forse, molti dei nuovi gruppi più interessanti del teatro italiano hanno profonde radici romagnole, tra Rimini & Ravenna (vi serve l'elenco? Raffaello Sanzio, Valdoca, Ravenna Teatro-Albe, Masque, Motus, Fanny & Alexander...). Piuttosto, il problema sta nel rapporto tra Santarcangelo (e gli altri comuni coinvolti) e Rimini: una grande città dove di fatto la programmazione teatrale (sia nell'arco della stagione teatrale "regolare" sia nell'estate ) lascia molto a desiderare.

Quali ritiene siano i punti di forza dell’evento (organizzazione, gestione, successo di pubblico, contenuti, comunicazione)?
Il punto di forza è senz'altro la passione. L'amore per il teatro, la necessità di salvaguardare e far crescere una rete di rapporti e un nucleo di creatività collettiva. Da molti punti di vista, è un'isola ecologica assai preziosa. Quali ritiene siano i punti di debolezza dell’evento (organizzazione, gestione, riscontro di pubblico, contenuti, comunicazione)? Il punto debole sono da anni le meschine diatribe politiche che rappresentano da sempre una pesante zavorra. Dietro di esse ci sono varie illusioni: quella di trasformare Santarcangelo in qualcos'altro (nessuno osa probabilmente confessarlo, ma di sicuro qualcuno pensa: "Siamo in Romagna in alta stagione, perdio! Si può far di meglio che raccogliere qualche centinaio di teatranti straccioni! Un bel concerto rock!! Uno spettacolone con gli attori della tv!!!"). Oppure quello di immaginare che possa essere (o diventare) un centro di potere. Dopo di che, anche per mancanza di mezzi, l'organizzazione può anche essere a volte sgangherata - ma sono i tipici difetti del volontarismo, e senza di esso Santarcangelo morirebbe.

A suo avviso quali sono gli aspetti che potrebbero essere migliorati?
Investire su progetti di più ampio respiro: questo vuol dire più soldi, e una programmazione su tempi più lunghi, e qualche certezza sui tempi e modi del finanziamento. Questo dovrebbe anche significare un rapporto più organico con Rimini (e con l'inverno riminese, allargando l'attività sull'arco dell'anno). E poi - ma l'ho già detto - si potrebbe pensare di più all'estero. Ma se dare più soldi vuol dire snaturare l'iniziativa, meglio tenersela sgangherata e povera.

Quali ritiene possano essere le prospettive future dell’evento?
Vedi sopra.


I Ricordi tristi e civili di Cesare Garboli
di Oliviero Ponte di Pino

E’ arrivata da poco in libreria una raccolta di articoli di Cesare Garboli (Ricordi tristi e civili, Einaudi, 100 pagine, 22.000 lire), che nel loro insieme offrono una tra le più interessanti riflessioni sugli ultimi trent'anni di storia italiana. In queste pagine, il teatro viene spesso usato come chiave per comprendere alcuni snodi drammatici e oscuri della nostra storia. Questa chiave di lettura non può certo essere una sorpresa, considerata l'attività di critico teatrale (vedi gli scritti raccolti in Un po' prima del piombo, con prefazione di Ferdinando Taviani, Sansoni, 1998) e di traduttore di Garboli, e tuttavia alcuni squarci restano memorabili: come il parallelo tra Verdiglione e Tartuffe (che all'epoca suscitò un acceso dibattito), o il passaggio dedicato all'orazione funebre di Paolo VI per Aldo Moro: "lo spettacolo di Paolo VI in Laterano era più terribile di uno Shakespeare che varcasse il gusto dei secoli borghesi e si ripresentasse nella sua corrusca barbarie elisabettiana; un papa vinto, un papa folgorato che balbettava oppresso dai paramenti le ultime e confuse battute della propria sconfitta" (p. 23).
La pubblicazione del volume è stata salutata da Eugenio Scalfari con un articolo assai lungo (inevitabilmente) e affettuoso (Garboli è collaboratore di "Repubblica"), e che però aveva come obiettivo principale quello di rendere sostanzialmente inoffensiva la fortissima provocazione di questi Ricordi.
Garboli, a partire in sostanza dal sequesto e assassinio di Aldo Moro (1978), s'accorge di soffrire di "un'afflizione rimossa e sgradevole (...): l'incapacità, o l'impossibilità, di sentirmi un cittadino del mio paese". Si sente "un esule in patria", "separato dal vasto e cespuglioso continete politico in cui vivono, impraticabile per chi ne ignori le strade e le leggi", perché "non è facile sentirsi cittadini di uno Stato diviso dalla politica in due metà, quelli che la praticano e quelli che la disprezzano".
Scalfari attribuisce questa estraneità al fatto che Garboli abbia assunto la posa del grande moralista. Insomma, il vizio starebbe in un atteggiamento sostanzialmente "filosofico" e non "politico" di fronte alla realtà. Eppure la prefazione e gli articoli di Garboli sono pieni di episodi, nomi e date tratti dalla recente storia italiana: dal caso Tortora alla vicenda di Serana Cruz, dalla strage di Bologna a Ustica, da Alessandrini e Dalla Chiesa a Falcone e Borsellino, da Sindona alla SIR, da Mani pulite (anzi, "la rivoluzione di Mani pulite") ai suicidi di Cagliari e Gardini... Insomma, questi ricordi non sono opera di un filosofo o di un moralista, ma di uno storico e di un cittadino che valuta gli orrori e i misteri di cui è stato testimone e misura le proprie responsabilità e possibilità d'azione (come intellettuale ma ancora prima come cittadino) di fronte a questi eventi. Questa estraneità alla politica non nasce in astratto, dedotta da un qualche principio metafisico, o da una ipotizzata "natura umana", ma ha una data d'origine ben determinata (e per certi aspetti discutibile): il 1978, il punto di non ritorno, lo spettro che continua a angosciarci.
Il bilancio è catastrofico, seppur condiviso da molti: l'Italia non è stata - e non è ancora - un "paese normale". Chi vuol farcelo credere, allestisce una farsa destinata a evolvere - inevitabilmente - in tragedia.
Certo, scandali e obbrobri ne succedono ovunque, anche nelle nazioni "civili". Certo, questo "paese anormale" è pesantemente reale, e dunque è l'unico orizzonte con cui possiamo confrontarci. Tuttavia ritenere che la diagnosi sia determinata da astratti furori (e non da dati di fatto) è far torto all'intelligenza di Garboli e dei suoi lettori, e alla lunga porta a rendersi complici di un sistema perverso. Servirebbe invece una discussione sugli snodi evidenziati da Garboli: solo comprendendo le cause reali dell'"anomalia italiana", solo cogliendo qualche brandello di verità sulla nostra storia recente sarà possibile emanciparsi e diventare forse un paese "normale". Ma il recente dibattito sul revisionismo (solo per fare un esempio) lascia poche speranze.


Appuntamento al prossimo numero.

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