(61) 22.12.03

Diamo i numeri
L'editoriale di ateatro 61
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and1
 
Il gesto di Antigone
Sullo spettacolo del Living Theatre
di Fernando Mastropasqua

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and30
 
Un viaggio nel mare delle nuove tecnologie
Dumb Type con Voyage a Parigi
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and61
 
Carmelo Bene: lo specchio mutante di Narciso
L'Otello televisivo tra Artaud e Deleuze
di Andrea Balzola

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and65
 
Bambini interattivi
Giornate dell'Etica, Castiglioncello, 2-5 dicembre 2003
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and66
 
Le recensioni di "ateatro": La Tempesta di William Shakespeare
Regia di Antonio Latellla
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and70
 
Le recensioni di "ateatro": Questa sera si recita a soggetto di Luigi Pirandello
Regia di Massimo Castri. Produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo - Teatro di Roma
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and71
 
Ma il teatro serve?
Alcune domande a Massimo Castri
di Elisabetta Cosci

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and72
 
Le recensioni di "ateatro": Finale di partita di Samuel Beckett
Regia di Lorenzo Loris. Produzione Out Off
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and73
 
Le recensioni di "ateatro": I refrattari di Marco Martinelli
delle Albe-Ravenna Teatro
di Fernando Marchiori

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and74
 
Sul teatro in televisione
Una lettera aperta al consigliere della Rai Marcello Veneziani
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and80
 
La definzione della satira secondo Mediset
Dal testo della querela a Sabina Guzzanti & soci per Raiot
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and82
 
Le novità di dicembre su dramma.it
Il dramma del mese: A cuore aperto di Patrizio Cigliano
di www.dramma.it

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and83
 
Aprono a Firenze i Cantieri Goldonetta
CAN GO con la direzione artistica di Virglio Sieni
di Compagnia Sieni Danza

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and84
 
Narrare la scena: una nuova collana di teatro per ETS
Monografie dedicate ai più importanti spettacoli teatrali
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and85
 
Biennale di Venezia - Sezione Teatro: l'Annuncio per l'edizione 2005
Direzione: Romeo Castellucci
di Socìetas Raffaello Sanzio

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and86
 
La storia del teatro, Rinascimento e dintorni, la cultura delle riviste teatrali nel nuovo numero di "Culture teatrali"
Il numero 7/8 dedicato a Fabrizio Cruciani
di Redazione Culture Teatrali

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and87
 
Subway-Letteratura 2004
Il bando
di Redazione Subway-Letteratura

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro61.htm#61and88
 

 

Diamo i numeri
L'editoriale di ateatro 61
di Redazione ateatro

 

Siamo alla fine dell’anno, tempo di bilanci, e dunque diamo qualche numero.

# 61 (+1)
: i numeri di ateatro pubblicati nel giro di tre anni. Una scadenza quasi quindicinale, dunque: bella media! In questo ateatro61 come al solito c’è molta roba (fin troppa...), quanto basta per ammorbarvi le vacanze di Natale. Vale la pena di scorrere il sommario con attenzione, ma vi segnaliamo per cominciare il saggio breveassai ma densodenso di Fernando Mastropasqua su un gesto dell’Antigone del Living Theatre – teatro di guerra, se mai ne è esistito uno. Andrea Balzola parla dell’Otello televisivo di Carmelo Bene, perché lui c’era, e il suo ricordo è un ottimo pretesto per riaccendere la riflessione su teatro e televisione. Sempre a propo di teatro e nuovi media, Anna Maria Monteverdi spazia tra Parigi (dove ha visto il nuovo lavoro dei giapponesi Dumb Type – se non sapete chi sono, informatevi!) e Castiglioncello (dove si è visto e commentato, discusso e analizzato il rapporto tra scena e nuove tecnologie – e per di più tra 1000 bellissimi bambini). Ancora, in questo 61 trovate numerose recensioni: Questa sera si recita a soggetto rivisitata da Castri con una pepata intervista al regista, I refrattari delle Albe, La Tempesta 2° Latella, Finale di partita con Pierobon-Genovesi... E notizie notizie notizie (a propo, se diffondete il bando di Subway Letteratura 2004 presso amici, siti, mailing list, porta a porta, non vi costa nulla & ci fate un bel favore).

# 1024
: sono così tanti gli articoli, saggi, interviste, recensioni, notizie presenti nel database di ateatro e in quello del sito «fratello» olivieropdp. Per gli amanti delle statistiche, sono 237 new entries solo nel 2003). Uno degli aspetti più interessanti di questa avventura teatrale sul web è che la consultazione del database riguarda in maniera massiccia anche la backlist, ovvero i materiali pubblicati in un passato più o meno lontano. Da questo punto di vista, il sito rappresenta ormai una vera e propria enciclopedia online, una memoria storica e culturale della parte più viva del teatro italiano. E si tratta di una memoria anch’essa viva e utile (almeno a chi copia per tesi e tesine...).

# 25.000
(circa): le pagine viste in un mese. Ovviamente non sono grandi numeri, ma appaiono confortanti: in primo luogo perché il sito parla di qualcosa che agli altri media interessa assai poco (a essere ottimisti), e dunque secondo l’opinione diffusa non dovrebbe venirci praticamente nessuno, su ateatro; in secondo luogo perché aldilà delle fluttuazioni stagionali le visite sono in costante crescita. Il verbo si diffonde – ma anche voi diffondete il verbo, con tutti i mezzi a vostra disposizione.

# 7: i forum del sito (contando anche quello sulla stupidità...). E’ la sezione più visitata e apprezzata. Chi arriva su ateatro un giretto per i forum se lo fa quasi sempre (lo vediamo dalle statistiche). Il visitatore guarda, legge, pensa, commenta – ma poi raramente dice la sua. Un po’ forse è perché pare difficile (ma è facilissimo, basta un clic!!!). Ma soprattutto perché nel teatro italiano vige una mentalità tanto omertosa quanto pettegola: seduti al tavolino di un bar, con i colleghi-rivali, ci diciamo di tutto e di più, ma guai a dire le stesse cose in pubblico (e oltretutto le informazioni che si ritengono preziose vengono gestite come le ricette più segrete di una qualche Maga Maghella). Ma è mai possibile che abbiate così poco da dire e da raccontare? Niente da spettegolarre? (magari con uno pseudonimo...) Gli argomenti non vi mancherebbero: la crisi dei festival, il ruolo della critica, la degenerazione dell’ETI, i giochetti del FUS, le convulsioni della TEDARCO eccetera eccetera. Ma tutto questo, evidentemente, vi pare ancora sopportabile, ed eventualmente gestibile con trattativa privata... Però ricordate che un sito non è solo un posto dove si vanno a leggere (previa stampata) mappazze teoriche e pallosi editoriali: un sito vive anche e soprattutto del rapporto con i suoi visitatori (e del loro apporto). Se volete che il sito migliori, dovete darci almeno un aiutino...

# 659: i link a realtà legate al teatro presenti nell’apposita sezione. E ci andate spesso, anche lì, perché è uno dei più ampi repertori di questo genere e una ulteriore testimonianza della ricchezza e della vitalità del settore. E anche lì ci frugate in tanti, a cercare dati & info. Ma per favore, segnalateci i link che non funzionano più e se potete ricambiate il favore: se non l’avete ancora fatto, segnalate ateatro tra i link dei vostri siti.

# 43: i collaboratori di questa annata della webzine. Non sono tantissimi, ma per un’impresa nata come una traversata in solitario, vuol dire che accanto al pilota e al co-pilota (Oliviero Ponte di Pino e Anna Maria Monteverdi) sono saliti a bordo numerosi amici. A loro un grande ringraziamento (fanno tutto gratis anche loro...). Però forse è bene a questo punto creare una vera redazione: se ne avete voglia, parliamone.

# 506.629.000,00: gli euro distribuiti quest’anno dal FUS. E su ateatro 59 potete scoprire dove sono andati a finire i fondi destinati alla prosa...

# 0 (zero, meglio scriverlo): il fatturato, il budget, i ricavi pre- e post-tasse di ateatro. Forse emetteremo qualche obbligazione alle Cayman, anche se non raggiungeremo mai i vertici di comicità e fantasia di chi ha battezzato una delle società in cui far sparire qualche spicciolo «Buconero»... E’ un bene, questo zero, perché garantisce una libertà infinita. Per altri aspetti, forse non è la soluzione ideale. Se vi viene qualche idea, parliamone...


 


 

Il gesto di Antigone
Sullo spettacolo del Living Theatre
di Fernando Mastropasqua

 

Nell’Antigone del Living Theatre il gesto di Antigone è il gesto di disobbedienza all’editto di Creonte che stabiliva onori funebri per il corpo di Eteocle e l’abbandono di quello di Polinice, lasciato insepolto, ai cani e agli uccelli con il divieto di rendergli lamentazioni e tomba. Antigone in ginocchio mima, allungando alternamente le braccia verso terra, il gesto di raccogliere polvere per riporla dentro la bocca, e lo accompagna con un singhiozzo. La seconda parte del gesto è quella di versare, con le mani dalla bocca, la polvere raccolta sul corpo di Polinice.



Judith Malina legge l'Antigone (foto di Enrico Amici).

E’ un gesto in due tempi che si completa nella distanza. La prima parte durante il dialogo con Ismene, la seconda mentre Creonte chiede al consiglio degli Anziani di approvare il decreto. L’immagine su cui è costruito il gesto è quella dell’uccello che riempie il becco di cibo per ridistribuirlo ai suoi piccoli. E’ dunque un gesto materno, legato al nutrimento. E’ come se Antigone nutrisse il corpo del morto Polinice del cibo che gli spetta: la terra. La terra nutrimento dei morti. La sepoltura è un atto di nutrizione, dà al morto il cibo che è suo, quella terra che serve a ricoprirlo e ad aprirgli le strade dell’aldilà, il cibo per il mondo ultraterreno. L’immagine trova ispirazione nel testo: infatti è così che Antigone appare agli occhi della sentinella che veglia perché siano rispettati gli ordini di Creonte e nessuno effettui lamenti funebri e seppellisca il cadavere di Polinice. L’immagine è presente sia nella tragedia di Sofocle che nell’adattamento brechtiano:

SENTINELLA …Piangeva; il suono acuto desolato di un uccello che vede il nido spoglio dei suoi piccoli. Così anche lei, quando vide il corpo scoperto, ruppe in pianto e in maledizioni terribili contro gli autori del fatto. Subito porta con le sue mani altra polvere, e onora il morto con triplice offerta di libagioni, versate da una brocca di bronzo. (Sofocle, vv. 422-25, trad. di G. Paduano, Torino 1982)

GUARDIA …E poi ci appare lei, in piedi, che piange con acuta voce, come un uccello si lamenta al veder vuoto il nido, senza i piccoli. Così lei geme scorgendo il cadavere scoperto, e lo ricopre d’altra polvere spargendola tre volte dalla brocca di ferro, e seppellendo il morto." (Brecht, trad. di M. Carpitella, Torino 1996)

Rispetto al testo, nello spettacolo del Living, l’immagine della madre che nutre si lega a quella della sepoltura. Così l’uccello toglie dalla propria bocca la terra per ricoprire il morto.
Questa ispirazione al testo può far pensare che la forma visiva non sia altro che una traduzione libera, interpretativa del testo, e ricondurrebbe uno spettacolo innovativo nel solco della tradizione, potrebbe addirittura rappresentare una contraddizione all’interno della ragione dello spettacolo.
Ma il rapporto fra testo e realizzazione dello spettacolo è molto più complesso. Nel testo il momento è cruciale: è in questo momento – quello in cui compie l’atto di ribellione alla legge – che Antigone viene arrestata. Nello spettacolo il gesto è separato dalla narrazione, o almeno non vi è così strettamente legato. La contemporeaneità tra seppellimento e richiesta di Creonte di approvazione del decreto sposta la successione cronologica dei fatti. Inoltre, avvenendo in due tempi e costituendo il singhiozzo un modo di dare il tempo all’azione, il gesto viene fortemenete svincolato dal testo, diventa il ritmo stesso di una intera sequenza – dall’incontro con Ismene all’approvazione dell’editto. Il gesto non è traduzione-interpretazione del testo, ma forma in sè, elemento ritmico del movimento, fatto e insieme metafora del tema della disubbidienza. Nello stesso tempo se serve a "caratterizzare la psicologia" di Antigone contemporaneamente non è gesto di caratterizzazione. Non è legato al personaggio in una funzione narrativa, ma emana dal personaggio a investire l’intera azione e quindi la coscienza degli altri (i ruoli impersonati dagli attori ma anche gli spettatori). Non è un gesto interiore del corpo, un segno dell’anima soltanto, ma un gesto che oltrepassa il corpo stesso dell’attore. In genere un gesto chiude l’attore nel suo compito di ruolo, qui infrange ogni ruolo. Non è un gesto in cui l’attore "è", ma un gesto in cui l’attore si perde.
Inoltre aver scelto l’adattamento brechtiano rispetto al testo originale significa che il gesto non è "primo", ma conseguente a "un primo". Nella versione di Brecht la guerra fra Tebe e Argo viene sottratta al ciclo del mito tebano, e si configura come guerra di aggressione di Tebe contro Argo per il possesso delle ricche miniere di ferro; Eteocle e Polinice non guidano eserciti nemici, ma sono generali all’interno dello stesso esercito, quello di Creonte, che è il fautore della guerra di aggressione. Li divide la diversa posizione rispetto alla guerra di Creonte: Eteocle l’appoggia e muore in battaglia, Polinice la diserta e viene ucciso da Creonte in quanto traditore della patria. Se nel testo sofocleo il gesto di Antigone è il primo gesto di ribellione, prima che si ribelli Emone e il popolo tutto, in Brecht è il gesto derivato da quello di Polinice. Antigone ripete un gesto di ribellione contro la guerra. Il primo gesto è quello di Polinice. Il suo è soltanto il secondo. Polinice dunque rappresenta il padre di Antigone, il nido vuoto è l’assenza di un orgoglio, di una volontà di contrapporsi a una ingiusta violenza perpetrata soltanto a fini di conquista. Questo è il lascito di Polinice che Antigone raccoglie. Colei che nutre è colei che è stata nutrita. Ricopre, nutrendolo, quel cadavere che l’ha nutrita con il gesto, che ha pagato con la vita, di una civile coscienza.
La derivazione dalla versione brechtiana fa dunque del gesto il segno di questa coscienza, l’altro, il solo. E in questo senso si ricongiunge alla grecità e alla tragedia (ricordiamo la solitudine di Dikeopoli negli Acarnesi di Aristofane, colui che rifiuta la guerra dichiarata da Atene contro Sparta, che conclude una pace separata con i "nemici", colui che da solo pensa diversamente da tutti gli altri). Si potrebbe dire che tale procedimento, invece di mostrare una cultura o legami tra culture, si fa cultura essa stessa nel patrimonio di conoscenza dell’uomo. Il teatro non è luogo dove si ripete un gesto (antecedente perché compiuto nel passato oppure perché reso icona da un mito o perché inventato da un autore drammatico che costituisce ormai repertorio), ma dove per la prima volta nel gesto vive – nel presente dello spettacolo – la cultura stessa dell’uomo. Di fronte alla moda attuale – anche teatrale – dell’intercultura, della multicultura e altri neologismi, il teatro del Living appare il luogo della cultura, che è unica, al di là delle mode e dei neologismi d’effetto, la cultura dell’uomo. Per questo quel gesto parla al pubblico di antiche conoscenze ma come nuova visione, come contemplazione di ciò che si possiede, il pensiero – il patrimonio di conoscenze ed esperienze – la storia – i poeti, ecc., come se fosse la prima volta. Lo straniamento brechtiano conosce qui una più profonda applicazione: non è il mondo circostante che va guardato con occhi nuovi per assumere nuova coscienza, è dentro di noi, non nel senso psicanalitico, ma in ciò che possediamo e che non sappiamo di possedere, nella scoperta del valore di quanto sappiamo. Così i Greci sono accanto a Brecht, così Sofocle rivive in Hölderlin e ambedue in Brecht, così l’uomo si fa "frankenstein" di se stesso e trova in sè il modo di costruire la "creatura".


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Un viaggio nel mare delle nuove tecnologie
Dumb Type con Voyage a Parigi
di Anna Maria Monteverdi

 

Alla Maison des Arts de Creteil di Parigi Dal 3 al 13 dicembre erano di scena i giapponesi Dumb Type con Voyage, viaggio-incubo all'interno degli "spazi siderali" e della "infinite profondità" della nostra mente. Suoni con frequenze al limite della tollerabilità e immagini ad altissima definizione proiettate su schermo gigantesco e raddoppiate su un pavimento di specchi rimandavano in superficie una storia – senza parole – ad alto voltaggio elettrico.

Storia di un colletivo artistico
Dumb Type nasce a Kyoto nel 1984 come collettivo di artisti provenienti da ambiti disciplinari diversi (video, performance, musica, danza, architettura, informatica). Il gruppo si è da sempre distinto per la spettacolarità delle sue installazioni video e performance multimedia (spesso una collegata – anche solo tematicamente o nominalmente – all'altra). Pleasure life (1988) ma soprattutto Ph (1990-1993) li impone all'attenzione del pubblico europeo e americano: il tema è la metropoli nella sua vita "impersonale e repressiva". Lo spettacolo, ideato da uno dei fondatori del gruppo, Teju Furuhashi, morto di Aids nel 1995, constava di un'enorme scanner che "fotocopiava" i ballerini da una parte all'altra del palco. I corpi erano "esposti alla luce" della tecnica in epoca di riproducibilità infinita Xerox. Con lo spettacolo S/N –acronimo per Signal/Noise (1992-1996) (e relativa installazione Lovers, che fa attualmente parte della collezione permanente del Museo d'Arte Moderna di New York), in collaborazione con il Canon Art Lab – i Dumb Type affrontano il tema dell'Aids. Lo spettacolo lascia il segno nella comunità sia del teatro che delle arti visive. Seguono Or (1997-1999; l'omonima installazione è del 1997) e Memorandum (1999-2001, presentato anche alla Biennale di Venezia nel giugno 2003) che univa danza, elementi multimedia e una forma narrativa frammentata, per flash di immagini e white noise. L'installazione collegata a questo spettacolo è Cascade, commissionata dal Salone del Design di Milano (Rotonda della Besana, 2000; l'opera "conduceva" alle stanze di Peter Greenaway, Emir Kusturica e Robert Wilson). Voyage, ultima loro creazione ha avuto la sua prima a Tolosa, in Francia nell'aprile del 2002; un'installazione sorella dello spettacolo è stata inaugurata il 23 agosto 2003 a Tokyo. Per Lille 2004 capitale europea della cultura, proporranno una nuova versione di Or.
Dumb Type è distribuito in Europa da Epidemic.



Voyage: l'installazione.

Voyage Come recitano le note di sala firmate dai Dumb Type, l'atmosfera che vogliono evocare-provocare nel pubblico è quella di "paralisi": ansietà, paura, angoscia, insicurezza, le condizioni emotive e psichiche dei nostri giorni. Dare forma al concetto di crisi, individuale e collettiva, dare un suono al timore della guerra, della morte, alla mancanza di una direzione, il tutto senza utilizzare – per scelta ideologica – verbal pretext, la parola, perché "words fail us".
La ricerca è piuttosto quella di una risonanza emotiva senza dialogo, senza trama. E' chiara la necessità di una partecipazione non solo visiva ma addirittura immersiva nello spettacolo, che sconvolge i canoni tradizionali dell'ascolto (e della visione) teatrale. Contro il privilegio dell'occhio, un teatro come "spazio psichico" da attraversare e in cui "rispecchiarsi".
Lo spettacolo si compone di diversi quadri, visivi e tematici, a sé stanti. In un crescendo angoscioso emergono paure associate ai diversi elementi: terra, acqua, aria che diventano così il (tecno) paesaggio sintetico metaforico. Ecco avanzare la paura della profondità, degli abissi, dell'altezza, la paura della perdita, che è il gelo della neve; e ancora di volare senza controllo, di nuotare in un mare senza speranza, di perdere la rotta ed essere senza guida in un viaggio che non approda a nulla. Paura che i nostri sogni non si realizzino: "I wish I were..." Ricerca di una verità e di un'identità.
Tutte le situazioni partono significativamente o da viaggi concreti (in aereo, in nave, in una navicella spaziale, in un caccia militare, sotto terra), o immaginati (dentro la psiche, dentro i nostri sogni, dentro la memoria). Ma tutti sono filtrati attraverso una mediazione (e un immaginario) tecnologico, attraverso cioé una "letterarietà" tecnologica – come il cyberpunk insegna. Siamo dunque nel cyberspazio, un'architettura immensa di dati nella "allucinazione vissuta consensualmente" – come scriveva William Gibson – un'avventura di viaggio direttamente collegata al sistema nervoso. Questo permette al gruppo di equiparare con grande naturalità i processi tecnologici a quelli cognitivi, psichici, di trovare analogie tra il segnale elettromagnetico e i recettori visivi.
Il processo mnesico, il sogno, la percezione gestaltica delle forme e dei colori trovano una corrispondenza nel mondo dell'analogico e del digitale. Alessandro Amaducci, in Segnali video, parte proprio da queste corrispondances, dal video quale specchio del nostro cervello: "Ora sappiamo che gran parte del nostro organismo, e soprattutto il nostro cervello, funziona grazie ad un complesso meccanismo di impulsi elettrochimici, e che l'energia elettrica è fondamentale per il funzionamento del nostro cervello e nel processo di comunicazione di impulsi di tutto il nostro corpo. La scoperta del neurone ha introiettato nella visione che noi abbiamo del nostro organismo l'idea della comunicazione (verrebbe da dire della tele-comunicazione) a distanza, tipica della tecnologia televisiva, che affida ai suoi pixel il delicato compito di portare all'esterno, sotto forma di punto luminoso, una parte di una serie complessa di informazioni".



Voyage: lo spettacolo.

Primo quadro. Irrompiamo in un'atmosfera terrificante fatta di enormi sfere di luce – olografie che incombono nel buio totale della sala mentre il suono aumenta spaventosamente quanto a potenza e intensità di bassi. Una danzatrice crea, come stretta dalle forme al centro della scena, una coreografia ad angoli retti, a cercare una direzione, una via d'uscita. Sfera come la Terra che ci contiene ma che non esaurisce l'Universo, sfera come il nostro occhio (o come le Machinevision di Steina Wasulka).

Secondo quadro.
Due ballerini esplorano lo spazio del palco con un casco con lampadina da minatore e corde da speleologi. Siamo in una grotta, la caverna dell'io, in una profondità dove i suoni rimbombano e fanno eco, dove l'acqua erode la roccia, dove le pietre si frantumano all'infinito. Ciò che è verticale è restituito in una dimensione scenica orizzontale (i personaggi cioé non scendono dall'alto ma si muovono lungo il pavimento) e dobbiamo ruotare il capo o guardarli dallo specchio del pavimento per avere l'illusione della discesa. Lo spazio buio restituisce un senso di oppressione, di claustrofobia: uno dei personaggi precipita. La danza finale non è altro che il catturare il corpo del compagno con una corda e salvarlo dall'infinito nulla per riportarlo alla vita, alla luce; il tutto con movimento lento e ieratico che evoca un rito arcaico.

Terzo quadro.
Siamo dentro una nave che ondeggia tra i marosi; in scena solo una lampadina sorretta da un filo appeso in alto che continua a dondolare e un tavolo con macchina da scrivere davanti al quale è seduta una donna che batte sui tasti. Lo schermo restituisce le immagini di date e parole in un movimento orizzontale, da sinistra verso destra e poi a capo: una microcamera è installata nel carrello dei caratteri e riprende la successione di lettere. A queste riprese in diretta, senza soluzione di continuità sono affiancate immagini di oggetti posti su un tavolo di un'ipotetica cabina di nave: libri, strumenti, carte geografiche. Il trascorrere dal tempo reale al registrato è impercettibile. Le ultime immagini sono quelle del mare mosso ma visto da un punto di osservazione a livello della superficie che genera un senso di perdita d'equilibrio e infine, di mancanza di una meta perché al di là della linea d'orizzonte, del limite tra terra e cielo, non c'è niente.

Quarto quadro.
La solitudine. Siamo in una vetta innevata e deserta. Il movimento all'interno delle immagini proiettate è lentissimo e circolare intorno ad un unico asse. L'immagine a 360° e l'alta definizione ci trasportano in un paesaggio che crea vertigine, assenza di ossigeno. Non c'è traccia di chi riprende, il movimento sembra generato da un occhio meccanico o da una sintesi numerica senza la mediazione umana. Un impercettibile zoom avvicina il nostro sguardo alle cime mentre il movimento si mantiene nella sua circolarità. Viene in mente il film La regione centrale di Michael Snow (1970).

Quinto quadro
: I sogni. Una giovane donna è sdraiata su un tappeto verde al centro della scena. E' raddoppiata nello schermo; ma nonostante la somiglianza perfetta e l'aderenza alla posizione della donna in carne ed ossa, l'immagine è registrata. Il verde acceso dalla luce della canicola è un prato, troppo bello per essere vero. Si incrociano stato di veglia e di sonno. La donna dice: "I wish I were..." (ed elenca varie cose: una piccola stella, un animale, un fiore) e come nel REM (che non a caso è una fase di intensa attività cerebrale nel quale si organizzano gli elementi del sogno) vediamo scorrere con improvvisi avvicinamenti e allontanamenti e sfuocature, immagini del prato e degli alberi. Pattern più che immagini definite. Come nel REM si continua a battere rapidamente gli occhi anche se chiusi, sopra l'immagine dello schermo passa ritmicamente la banda nera del disturbo televisivo.



Voyage: lo spettacolo.

Sesto quadro.
Paura di volare, paura del vuoto. Siamo in un aereo e le hostess sfilano in una improbabile e decisamente esilarante danza fatta a squadra nei corridoi stretti di un ipotetico aereomobile. Uno steward in mutande porta in mano a tempo di danza, un vassoio con un modellino di aereo che ha sulla punta una microcamera che trasmette allo schermo immagini in macro dello spazio intorno a lui. Il quadro termina con un cosmonauta che danza in assenza di gravità, walkin' on the moon.

Settimo quadro.
paura dei nostri stessi pensieri, delle nostre incertezze, dei propositi mai praticati, dei nostri interrogativi irrisolti si incarna in scritte che dall'alto dello schermo scendono e si proiettano direttamente sul corpo dei performer, provocando reazioni diverse: "forever-never-someday; once-now". Frammenti di pensieri in forma di lettering scannerizzano il corpo, lo attraversano letteralmente.

Ottavo quadro. Paura della morte. Alcuni scalatori in una montagna innevata precipitano lentissimamente. Ancora una volta la discesa in verticale è trasformata in un'azione sul piano orizzontale. Rotolando con addosso tute da alta quota perdono l'orientamento, nel biancore accecante della neve. La morte è un bip di segnalazione sempre più debole, mentre l'amore è il calore che disgela.

Nono quadro.
Siamo nel labirinto della mente, reso come una complessa architettura di un hardware: bit, segnali, informazioni, dati. E ancora, flash intermittenti, ossessioni sonore, interferenze visive. La scena è tutta per lo schermo che sembra un film astratto di Hans Richter. Le immagini e il suono sembrano l'uno il riflesso dell'altro, in una sorta di autogenerazione all'infinito. Questa sequenza trasmette un'angoscia insopportabile da "troppo pieno", da saturazione.

Decimo quadro.
Siamo dentro la cabina di pilotaggio di un caccia aereo da guerra. O in un simulatore di volo. A ricordarci che le applicazioni tecnologiche più sofisticate sono quelle militari. Il nostro occhio è forzatamente diretto verso quel mirino esattamente al centro dello schermo sotto il quale scorrono carte geografiche con le latitudini e le longitudini delle città. Lanceremo la bomba? Il black è la folgorazione finale, i decibel diventano insopportabili.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Carmelo Bene: lo specchio mutante di Narciso
L'Otello televisivo tra Artaud e Deleuze
di Andrea Balzola

 

Premessa artaudiana: l’attore Eliogabalo
In occasione del centenario di Artaud, il Teatro di Roma diretto da Ronconi aveva organizzato un convegno in cui metteva a confronto il Maestro francese con Carmelo Bene, una delle sue più eccellenti "disincarnazioni" teatrali. Tema unificante dell’incontro non poteva non essere la fine, l’infarto definitivo del "teatro di rappresentazione" teorizzato da Artaud e mostrato da Bene. Purtroppo le stagioni teatrali che dominano i cartelloni italiani attuali continuano a ignorare felicemente che Artaud e Bene siano mai esistiti, ma tant’è, i morti e i geni si celebrano, non si studiano e non s’interrogano. Sarebbe troppo scomodo e affaticante. La differenza tra Artaud e Bene è la complementarità tra Pieno e Vuoto, se il primo teorizzava per eccesso, il secondo agiva per difetto, per sottrazione, se Artaud voleva un palcoscenico saturo e un attore posseduto da una trance cosmica, Bene svuotava la scena e riduceva il suo corpo a "macchina attoriale", inefficace e inefficiente, attraversata e scossa da significanti impersonali. Carmelo reclamava "un teatro senza spettacolo", una tragicomica ironia del niente.
Ma dove inizia la fine del teatro? Probabilmente fin dal suo primo vagito, perché la scena è il non luogo per eccellenza, prima spazio sacro dove si celebrava ritualmente il divino, cioè l’invisibile, l’inudibile, l’ineffabile, ciò che – per dirla con Carmelo – ci manca; poi spazio profano dove tutto è possibile e nello stesso tempo impossibile, in quanto nulla a teatro è vero se non la finzione stessa. Lo sappiamo fin da bambini, ciò che accade a teatro appare senza essere. Questo il suo paradosso essenziale, questa mancanza d’essere la sua più profonda ragion d’essere. La scena non ha una natura propria, è e rimane vuota, anche se momentaneamente riempita di oggetti, décor e soggetti. Così l’attore, che è "vanitoso" (cioè, etimologicamente, vuoto), attraversato e/o posseduto dalle maschere e dai personaggi nel teatro classico e borghese, dalle energie e dai significanti nel teatro post-artaudiano. In questo senso il grande attore non rappresenta l’eroe tragico, è egli stesso il vero eroe tragi-comico, in quanto nella sua vanità rivela al mortale suo simile l’illusione dell’io. Un eroe moderno, come suggeriva Lacan, "è colui che compie imprese derisorie in situazioni di smarrimento". E sono proprio queste "imprese" che Carmelo ripeteva allo sfinimento in ogni sua apparizione, derubando come prestanomi illustri, nobili controfigure, gli eroi più emblematici e problematici di Shakespeare, sbranandoli (letteralmente: riducendoli a brani) con feroce crudeltà artaudiana e con lacaniana chirurgia ironico-analitica. Come l’Eliogabalo di Artaud, l’attore Bene si dichiarava contento di essere fatto a pezzi, ed è forse questo il principale anello di congiunzione tra lui e l’autore francese, fare a pezzi la lingua e il testo affinché possa emergere "la parola prima delle parole", la voce di un’energia primaria capace di svellere i generi e i codici per rianimare il corpo imbalsamato e scuotere la mente opaca dell’attore e del pubblico, eliminare le mediazioni interpretative, concettuali ed ideologiche, spogliare il corpo dei suoi organi attraverso l’anarchia del comico e la follia dell’estasi.



Un'immagine dell'Otello o la deficienza della donna di Carmelo Bene nella versione teatrale.

Lo specchio elettronico di Narciso
Quando incontrai Carmelo sul set dell’Otello televisivo, nel 1979, mi fece subito una domanda, mi chiese se avevo letto Differenza e ripetizione di Deleuze, per lui il libro più importante. Superato il test, iniziò il dialogo e potei seguire le riprese dell’Otello. Sicuramente una delle esperienze da spettatore più straordinarie, perché vedevo nascere sotto i miei occhi un linguaggio. Bene azzerava l’uso ordinario del mezzo televisivo e ripartiva da zero. Ripensava da zero anche la versione teatrale che era all’origine della trascrizione televisiva. Agiva per sottrazione, cancellava le scenografie, aboliva campi medi, campi e controcampi, saturava i contrasti cromatici abolendo i toni intermedi, facendo pittura elettronica, riduceva al minimo movimenti e azioni degli attori, incollava l’inquadratura fissa ai primi piani.
Com’è noto, la scena dell’Otello di Bene era un fazzo-letto, su cui si consumava il dissolvimento del protagonista nelle sue ossessioni. C’era una specularità tra il quadrato di quel letto-fazzoletto-prigione e lo schermo video. Il paesaggio del volto dilagava sui resti di una scena smobilitata. Mi impressionava, vedendolo da vicino, sul set e fuori dal set, la metamorfosi costante di un volto che nell’arco di pochi secondi poteva tornare bambino o diventare anziano. Bene usava il monitor di controllo per modulare il suo volto mutante, si specchiava nel monitor per ri-creare l’incantesimo narcisista dell’attore nel personaggio. La voce, spesso in play-back gli serviva come Eco, come una modulazione vocale che trasportava la modulazione mimica. Carmelo era entrato nel recinto televisivo lasciato temporaneamente aperto dalla riforma Rai, come un esploratore nella foresta elettronica.
Dopo aver messo a soqquadro il cinema, e la radio, occupava gli ordinati studi televisivi per dimostrare – prima di tutto ai tecnici che lo assistevano perplessi – che la televisione, oltre ad essere un elettrodomestico, come diceva Eduardo, poteva essere un linguaggio, trasmettere una poetica d’autore. In particolare, la televisione poteva rivelare ciò che a teatro non era visibile e che al cinema era fuori misura: l’estetica del primo e del primissimo piano (assai più tardi lo hanno imparato anche i professionisti della televisione), lo schermo video specchiava in modo inedito il paesaggio mutevole del volto, induceva l’attore stesso a scoprire come una faccia possa sostituire una scena, perché già essa stessa è una scena. Ed è qui che Carmelo, grazie a questa esperienza televisiva, dispiega pienamente la sua ridefinizione poetica del mito di Narciso, non come contenuto dell’opera ma come modalità della macchina attoriale.
Così Carmelo Bene riconduceva al grande attore il mito di Narciso, dichiarandolo in modo esplicito in uno dei suoi scritti teorici più importanti: La voce di Narciso. Cresciuto nell’intramontabile tradizione italiana dell’attore mattatore, Carmelo ne indossa i panni per farlo inciampare in un cortocircuito, ne riproduce l’enfasi del gesto e della re-citazione, per smontarla dall’interno: il grande attore catturato dallo specchio si disfa progressivamente degli organi del corpo e della parola, diventa un unico volto assoluto che vive del suo riflesso. Carmelo diceva sempre che agli incontri televisivi, veri e propri ring del paradosso, lui mandava la sua controfigura, e i suoi primi piani ce lo confermavano: ci facevano vedere il suo volto mutante, ostentatamente truccato e artefatto nelle espressioni, più attore che sulla scena. Non c’era infatti alcuna soluzione di continuità tra la sua "assenza" teatrale e la sua "assenza" pubblica, Narciso non distoglieva mai lo sguardo dallo specchio (Lydia Mancinelli mi ha poi confermato che Carmelo era ossessivamente attratto dagli specchi), e se per un attimo ne era distratto, subito vi ritornava.
L’incantesimo narcisistico presuppone la coazione a ripetere, se Narciso distoglie il volto dallo specchio non può resistere, torna a guardarsi. Ma si rivede ogni volta più limpidamente perché lo sguardo scava ogni dettaglio, si rivede ogni volta diverso perché il volto non cessa di trasformarsi. La ripetizione concentra, pulisce, spoglia, porta all’essenziale, si dice dei grandi poeti che abbiano la vocazione al silenzio, ma per raggiungere, per meritare, quel silenzio devono trascorrere la loro esistenza – come Campana o Hölderlin – nell’ossessione del verso, verso che prima è incantesimo di un suono e poi diventa indice di una direzione: verso il silenzio. Perciò Carmelo insisteva sul rigore e citava Schopenauer: "il talento fa ciò che vuole, il genio solo ciò che può". L’ossessione percorre una linea di necessità, si fonda sulla ripetizione del gesto e dell’emissione e sulle differenze che quella accanita ripetizione produce. Bene ritornava sempre con gli stessi fantasmi, i suoi doppi, Amleto, Otello, Macbeth, Riccardo III, Pinocchio, ogni volta più immobili, afasici, denudati, svogliati, su una scena sempre più vuota. Per questo Bene trovava in Deleuze il suo mentore, Deleuze che in quel meno noto e bellissimo saggio Marcel Proust e i segni (1967), scriveva: " Che altro si può fare dell’essenza, differenza ultima, se non ripeterla, dal momento che non ha surrogati e nulla può venirle sostituito?... Differenza e ripetizione si oppongono soltanto in apparenza. Non vi è grande artista, la cui opera non ci spinga a dire: ‘Lo stesso, eppure altro’... In verità, differenza e ripetizione rappresentano le due potenze dell’essenza, inseparabili e correlative. Un artista non invecchia col ripetersi, perché la ripetizione è potenza della differenza, così come la differenza è potere della ripetizione."
Lo specchio di Narciso non duplica soltanto, moltiplica. Bene pensava al testo stesso come uno specchio dell’autore che si frantuma in una molteplicità di identità, che il drammaturgo chiama personaggi, così l’intera fabula drammaturgica si rivela come una proiezione interiore dei volti dell’autore, e a questi volti si sovrappone quello dell’attore. I personaggi diventano così i doppi incarnati di un doppio protagonista, che è l’autore e l’attore insieme, dove i ruoli maschili e femminili s’invertono o si mescolano, maschere prive di un’identità certa, satelliti di una voce molteplice ed insieme unica che istericamente testimonia la propria afasia. Essendo interiore il testo infatti non può essere detto, diviene irrappresentabile e si dà soltanto per frammenti, indizi, rivelando parodicamente l’irriducibilità di qualsiasi testo profondo alla scena della parola, all’ordine del discorso. Il testo da rappresentare si trasforma in un pretesto per dichiarare l’impossibilità, il fallimento, ironico e patetico, della rappresentazione. Ma questa parola interdetta non è un insensato vicolo cieco, frantumandosi diventa balbuziente od ossessiva, tenta di liberarsi in phoné, verso, suono e canto. Come uno specchio che riflettendone un altro, si moltiplica all’infinito, la finitezza dell’attore portata ossessivamente allo sfinimento dei propri limiti si apre all’infinito. E ricrea il mito, anche a costo della vita. Narciso si addormenta dentro il suo volto e sogna di morire, mentre la scena vuota attende il risveglio del pubblico.

Roma, ottobre 2002

Otello di Carmelo Bene (1979-2001, Italia, 70', Betacam SP) è stato girato negli studi Rai di Torino nel 1979 e finalmente montato nel 2001, come produzione RaiEducational, da Marilena Foglietti, aiuto regista d'allora di Bene, in conformità alle indicazioni del Maestro. Dopo la morte di Carmelo Bene, Otello è stato presentato al Teatro Argentina e al Torino Film Festival e trasmesso da RAI 3.

I links
Un frammento dell'Otello di Carmelo Bene in video streaming sul sito Rai.

Speciale Carmelo Bene su Close-Up


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Bambini interattivi
Giornate dell'Etica, Castiglioncello, 2-5 dicembre 2003
di Anna Maria Monteverdi

 

A Castiglioncello-Castello Pasquini Alessio Pizzech per Armunia ha ideato e organizzato le Giornate dell'Etica-Teatro e nuove tecnologie. Quattro giornate aperte alle scuole elementari e medie e agli operatori didattici e culturali del Comune di Livorno che hanno visto la presenza di alcuni tra i più importanti gruppi della Toscana che lavorano con le nuove tecnologie applicate al teatro (Zonegemma-Giacomo Verde; Tpo-Davide Venturini; Roberto Castello-Aldes; Giallo mare minimal teatro-Renzo Boldrini). I gruppi hanno presentato spettacoli creati o ri-creati per un pubblico giovane e giovanissimo

Storie mandaliche 2.0 (nuova versione per ragazzi) di Zonegemma.
Laboratorio con Giacomo Verde.



Laboratorio-spettacolo per la realizzazione definitiva di Storie mandaliche 2.0 in vista della prima nazionale a Prato il 6-7-8 febbraio al Teatro Fabbrichino e per gli adattamenti scenografici e drammaturgici per bambini delle scuole elementari e medie. Sfruttando le potenzialità della scrittura ipertestuale, ogni volta la narrazione è modificata dalle scelte della platea che potrà indicare (dialogando col narratore) quale direzione seguire in corrispondenza di ogni bivio ipertestuale.

CCC (children cheering carpet)
Laboratorio e spettacolo a cura di Francesco Gandi, Davide Venturini, Martin Von Gunten, Paola Beltrame, Rossano Monti.



CCC è un laboratorio in progress per la realizzazione di un ambiente teatrale multimediale e interattivo. Il progetto comprende l'allestimento di uno spazio di gioco composto da un tappeto da danza bianco, un videoproiettore che invia dall'alto immagini sul tappeto e dei sensori che reagiscono ad impulso. Grazie a questa sofisticata tecnologia è possibile emettere suoni, creare composizioni musicali, inviare immagini ed altri eventi complessi, attraverso il movimento di uno o più partecipanti sopra il tappeto.

Sogni. Il migliore dei mondi possibilità (parte V).



Dallo spettacolo di Roberto Castello e del suo gruppo Aldes, vincitore del Premio Ubu 2003, un laboratorio coreografico a partire da una sezione dedicata ai sogni (e agli incubi) degli adolescenti. "Spettacolo come un piccolo trattato di etica applicata" (R.C).

Dg Hamelin di Giallo Mare Minimal Teatro (Renzo Boldrini e Giacomo Verde).
Laboratorio e spettacolo con Renzo Boldrini.



Cyber rilettura della fiaba del pifferaio magico. La visione della città del futuro, tra avidi cyberarchitetti, autostrade informatiche ed eroici piccoli hacker.


Durante le giornate al Castello Pasquini (che ospita sempre più frequentemente eventi teatrali, invernali ed estivi), numerose sono state le scolaresche che hanno aderito all'iniziativa e che sono state coinvolte con le rispettive insegnanti; alunni e docenti hanno partecipato non soltanto allo spettacolo ma anche ai previsti laboratori aperti di discussione con gli autori. Possiamo ricordare alcuni temi e alcune "parole chiave" dei vivaci dibattiti animati dalla presenza del musicologo Carlo Serra, della studiosa di antropologia filosofica Paola Bora, della ricercatrice di drammaturgia contemporanea Concetta D'Angeli e del filosofo Maurizio Iacono. Alessio Pizzech ha fatto in modo che operatori e artisti potessero avere uno scambio fattivo e reale duranti i laboratori per definire nuove espansioni di senso delle diverse operazioni artistiche, permettere correzioni in corso d'opera, suggerire nuove strade percorribili, definire le migliori condizioni di ricezione: gli insegnanti e gli operatrici di Armunia hanno lavorato in maniera intensiva con gli studenti per catturarne le riflessioni, le reazioni, per registrarne le emozioni o individuare eventuali difficoltà di lettura. Queste giornate propongono a mio avviso un modello ideale (e per questa ragione "esportabile") per un nuovo ed efficace approccio all'apprendimento dell'idea di teatro come luogo-laboratorio di sperimentazione di linguaggi (anche tecnologici) attraverso un coinvolgimento reale rispetto ai contenuti proposti, sia essi drammaturgici che scenici e specificatamente tecnici. Non sono state "prove" facili neanche per gli artisti. Per alcuni spettacoli si è trattato di una prima verifica sul campo del lavoro svolto, che ha portato alla necessità, alla luce dell'informazione di ritorno del pubblico, di un ripensamento e adattamento del linguaggio precedentemente scelto per la narrazione, o ancora di un aggiustamento tecnico sulle macchine.
Va rilevato che tra gli spettacoli presentati c'erano sia una creazione che prevedeva una dimensione ambientale/installattiva interattiva (CCC) sia una performance narrativa basata su una scrittura drammaturgica ipertestuale e immagini in animazione (Storie mandaliche): entrambe (a differenza di Sogni e DgHamelin) chiamavano in causa lo spettatore.
Si è parlato della necessità di un'abitudine non banale al tecnologico (pratico e immaginativo), della necessità di sviluppare un "agire comunicativo" (regolato da norme, vedi Habermas) e del rischio di un "troppo pieno" (drammaturgico e tecnologico), che non lasci spazio alla possibilità di un intervento creativo del pubblico e del rischio di un'imposizione di regole (di gioco, di lettura) troppo rigide. Se è vero che le 117.649 storie diverse possibili in Storie mandaliche (il conteggio è di Antonio Caronia!) garantiscono una improbabile ripetitività del racconto, è però sempre il contesto a creare la vera e più interessante variabile, quella che fa rinascere, metamorficamente, ogni volta lo spettacolo. Inevitabile la riflessione sulle modalità più adeguate di coinvolgimento che la natura stessa della performance pone in essere. Se l'interattività è infatti un pre-requisito di certa tecnologia, la sua modalità e relativa risposta non sono affatto scontate o immediate. Sono emerse come caratteristiche principali (almeno delle performance tecnologiche CCC e SM) da un lato l'imprevedibilità dell'"effetto" sul pubblico, dovuto sia alle molteplici incognite interne ai diversi gruppi di partecipanti (le esperienze precedenti, la loro interrelazionalità ovvero la maggiore o minore disponibilità a "fare gruppo") sia al luogo stesso dell'esposizione dell'opera (che influenza non incidentalmente la sua ricezione-interpretazione), sia l'impossibilità (vissuta come un vantaggio!) del controllo totale della "macchina per narrare" (sia esso affabulatore o sensoristica).

Tra i temi che hanno impegnato i gruppi di lavoro:

– la nuova posizione dell'artista che "innesca processi" (creativi, comportamentali, sociali) solo in parte prevedibili. L'opera d'arte diventa un viaggio collettivo di cui non si conosce la destinazione.

– la volontà di creare le condizioni più adatte per un'esperienza, intima e comune, riflessiva e socializzante attraverso la tecnologia che sia da un lato di gioco ma anche di codici, di segni, di spazi, di geometrie, di nuove e immateriali architetture; un'esperienza collettiva di emozione sensoriale, di contemplazione estetica, di concentrazione interiore (Davide Venturini), di interrogazione etica (Roberto Castello) ma anche di azione e competizione (Giacomo Verde, Renzo Boldrini). Si è parlato inoltre, dell'esperienza di interazione giocata su un'attitudine al riconoscimento, alla memorizzazione, dell'importanza del conoscere le regole e dell'essere consapevole dell'ingresso nel gioco, nel quadrato mandalico o nel tappeto interattivo. In fondo l'installazione/proiezione di SM e CCC intrattiene un rapporto privilegiato proprio con lo spazio architettonico che l'accoglie e contemporaneamente designa e afferma – ritualmente – i limiti di un territorio. Sia CCC che Storie mandaliche prevedono significativamente un momento preparatorio, durante il quale alcune guide ci introducono al senso del nostro partecipare al gioco, facendoci scoprire un terzo occhio sotto i nostri piedi o raccontandoci che cos'è un mandala. Ci si prepara, si è istruiti, si "impara a imparare" come nel nartece romanico per catecumeni cristiani, soglia della metamorfosi iniziatica.

– le tipologie di una nuova narrazione: dal linguaggio della fiaba antica a quello del "piccolo informatico" (DGHamelin), una narrazione per immagini (video o icone create dal programma Flash Mx) in cui tra la parola e l'immagine ci sia un rapporto non consequenziale ma dialettico. Iacono ha sottolineato proprio per Dg Hamelin e SM (ma il discorso vale anche per Sogni) la non dipendenza o subordinazione delle immagini alla narrazione: le immagini non raddoppiano la storia, non la illustrano servilmente, non hanno valore accessorio; questa riflessione ci riporta all'efficacia mediata delle immagini del teatro epico di Brecht. Le immagini non sempre immediatamente riconoscibili (è la realtà "tecnologicamente aumentata", vissuta attraverso lo schermo del computer in Dg Hamelin o i simboli-icone dei personaggi di S.M.) richiedono che "il pubblico ci metta un po' del suo" (Verde); oppure il racconto diventa un pretesto, un avviso per gli utenti, una guida un po' invadente o un "libretto di istruzioni per il computer" (Davide Venturini su CCC) o ancora una architettura ipertestuale, complessa e ramificata (gli iper-racconti di Andrea Balzola per Storie mandaliche); storia come somma di tutte le storie o come uno dei tasselli di un'infinità di storie possibili (Concetta D'Angeli citava per CCC e SM il Calvino de Il castello dei destini incrociati).

– una nuova "oralità": in relazione alla modalità di racconto di Storie mandaliche Iacono ha ricordato il tema del nuovo rapsodo in epoca di digitale, in cui il tecnoartista Verde (che si definisce per l'appunto cybercontastorie) si è immediatamente riconosciuto: "La paideia dell'oralità antica – tanto osteggiata da Platone – prevedeva un coinvogimento totale, cioè la fusione partecipativa tra colui che recita e coloro che ascoltano... Il narratore che utilizza le nuove tecnologie appartiene a quel tipo di narrazione dove il narratore si mostra come tale. Se il narratore segue un testo, come in un'opera teatrale, e talvolta diventa attore, cioè si nasconde come narratore, il modo della narrazione mimetica non può prevalere sul modo della narrazione semplice perché il narratore in un certo senso, non si nasconde abbastanza. Anche quando tuttavia il narratore – come il rapsodo temuto da Platone – non segue rigidamente il testo – come Verde – l'elemento mimetico (il modo della narrazione mimetica) non giunge fino a quel tipo di coinvolgimento totale che portava alla fusione di rapsodo e pubblico". Il racconto orale di Verde dunque starebbe in una zona "franca", liminale, dove l'immedesimazione, la metamorfosi nel personaggio da interpretare, non è totale e l'attore è presente con la sua invadenza verbale e "biografica" evitando anche il pericolo di una "partecipazione meccanica" dello spettatore. Il coinvolgimento è quindi, volutamente "disturbato" da momenti più o meno imprevisti di interruzione visiva e sonora, talvolta dettata dalla panne (della memoria e della macchina!) o da commenti che funzionano sia come momenti di pausa per riflettere sul percorso realizzato precedentemente e meditare sulle scelte future, sia da momenti di "straniamento" (come "l'attore-dimostratore" del teatro epico di Brecht), riportando la narrazione sul piano non più dell'illusione o della ripetizione identica di un fatto ma di una sua riproposizione qui e ora, soggetta a uno stato di continua trasformazione. Così terminava Iacono: "Egli attiva con il pubblico un coinvolgimento dove tanto il bambino quanto l'adulto sono perfettamente consapevoli di partecipare a un gioco di verità giocato sull'emozionante confine del credere e del non credere".

– dispositivi di coinvolgimento: sia nell'esplorazione "immersiva" del corpo nell'isola-giardino del tappeto interattivo CCC, e quindi nella percezione (e godimento estetico) e nell'atmosfera di un'armonia rassicurante dei colori, pietre, acqua che nell'ascolto del tecnoracconto mitico di Storie mandaliche si è cercato di favorire una diversa e più profonda "qualità dell'attenzione": sulle piccole cose, "sull'intima percezione delle cose" (Concetta D'Angeli) come da filosofia orientale; gli autori hanno privilegiato una capacità di concentrazione, un'abilità mnemotecnica, di riconoscimento di tracce (stringhe) di racconto, di suoni e di immagini disseminati in una trama invisibile (intesa sia come intreccio che come tela!). Se la dimensione orizzontale a livello del terreno in CCC ci costringe a una visione verso il basso, questa si tramuta in un desiderio di immergerci in quella bellezza dai colori accesi, che vorremo appunto toccare, e con la quale vorremmo mimetizzarci.

– vita (infinita) dello spettacolo: è emersa la volontà di favorire l'immaginazione, stimolare la creatività e la progettualità artistica oltre lo spettacolo: per esempio farlo rivivere in forma di disegni (a matita o col paint box!), o nuovi racconti a partire dalle storie; oppure suggerire un nuovo utilizzo creativo di quella tecnologia primaria che abbiamo in casa: la televisione, non più limitandoci a guardarla rovesciando appunto le regole (monodirezionali) televisive. Anche la grande rete del web può essere uno spazio di gioco condiviso: sia Storie mandaliche sia soprattutto Dg Hamelin prevedevano un'ideale continuazione del momento di gioco con un sito web, ri-generando la creazione teatrale e innescando nuovi contesti di partecipazione.

– tecnologia e politica: in Sogni l'ironia nei confronti della vita "troppo bella per essere vera" distrugge il fragile castello di carte di un mondo che abbiamo disegnato a nostra misura sui tempi televisivi: le tecnologie in scena (video e immagini in 2D e 3D) sono quello specchio "deformante" che ci riporta (socraticamente!) alla realtà, che ci costringe a interrogativi cui non siamo più abituati. Lo spettacolo ci ricorda di tenere sempre carica la sveglia altrimenti questo mondo ci apparirà come quello che ci propone la televisione: il migliore dei mondi possibili! Paola Bora ha parlato della tematica politica in Dg Hamelin: il codice a barre, ossessiva immagine-simbolo della nuova Hamelin digitale immette subito nell'argomento: il segno è talmente immediato che evidente è l'equivalenza e l'associazione – chiara anche ai bambini – con un luogo dove tutto è mercificato, tutto ha un prezzo e dove i protagonisti non sono gli essere viventi ma il valore commerciale delle cose mentre gli scambi sono soltanto "transazioni economiche". Questo appropriarsi dei saperi (e del linguaggio) tecnologico è alla base della filosofia di Dg Hamelin: i bimbi svegli della storia sono i cowboy del cyberspace di Gibson o piccoli hacker. Isole nella rete, il romanzo di Sterling (che Iacono ha puntualmente citato come riferimento-fonte letteraria dello spettacolo) non a caso è anche il nome di una comunità di nettativisti (il sito è www.ecn.org) che riunisce i "disturbatori elettronici" e i "resistenti digitali". In Dg Hamelin c'è un'esplicito appello a non adeguarsi alle regole dei media, ma ad abituarsi a sovvertirle sin da bambini! Con DgHamelin, Storie mandaliche e in Sogni abbiamo un continuo gioco di détournement, di disincanto – della vita e delle tecnologie. Un invito a "fare mondo" e a non limitarsi a "seguire le istruzioni".
Un invito insomma, a "metterci mano".


 


 

Le recensioni di "ateatro": La Tempesta di William Shakespeare
Regia di Antonio Latellla
di Oliviero Ponte di Pino

 

Antonio Latella costruisce la regia del suo ennesimo Shakespeare, La Tempesta su una intuizione acuta, anche se non nuovissima, e sulla sua immediata critica. L’intuizione – che riprende la celeberrima interpretazione «in soggettiva» dell’Amleto da parte di Gordon Craig – consiste nel filtrare il testo attraverso le fantasie del protagonista, il mago Prospero, impersonato da una interprete del calibro di Anna Maria Guarnieri. Nelle intenzioni registiche, Prospero è un’attrice che regala il suo addio al teatro e alle sue innocue magie, e non un doppio del regista-demiurgo come nella storica messinscena strehleriana. Romanticamente, l’isola fantastica dove si ritrova esiliato il Duca di Milano con i suoi Ariele (Fabio Pasquini) e i suoi Calibano (Danilo Nigrelli) diventa una fantasticheria che nasce – come i deliri cavallereschi di Don Chisciotte – da un eccesso di letture: i troppi libri che la stizzita protagonista getta disordinatamente dal proscenio in platea all’inizio dello spettacolo hanno infiammato la sua immaginazione fino al punto di trasformare la sua vita in un gioco solitario, nella regressione verso l'infanzia.
La critica è una immediata conseguenza di questa impostazione, una risposta alla gratuità di questa deriva fantastica. Perché l’isola selvaggia e incantata non è altro che la camera dei giochi di un bambino annoiato, e Prospero si rivela una sorta di Alice costretta a inventarsi il proprio paese delle meraviglie, una stanza tutta per sé dove trastullarsi con i suoi balocchi. Ecco dunque con una serie di godibili trovate Miranda (Silvia Ajelli) diventare una graziosa bambolina, la statuetta che gira su se stessa come quelle che sovrastano i carillon. E poi, nella fantasiosa e colorata scena e nei costumi inventivi di Emanuela Pischedda, un gigantesco orso di pezza, due soldatini di piombo, un improbabile bambolone con salvagente rosso e sorrisone, due mascheroni gialli e rossi, un drago da capodanno cinese, e il pavimento della scena trasformato nel bersaglio di un gigantesco gioco di freccette...
Una lettura di questo genere, che ridicolizza le pretese dell'Io creatore, spingendo il delirio di onnipotenza registico verso la regressione infantile dell'attore, non può ovviamente rendere conto della ricchezza del testo e delle stratificazioni del suo mondo. Sono diversi (e troppo numerosi) gli elementi del testo shakespeariano che recalcitrano a rientrare in questo adattamento, malgrado i tagli e il ritmo impresso allo spettacolo dalla regia e da un cast atleticamente volonteroso. Operata questa radicale riduzione del testo a un’ora e mezzo di spettacolo, poi, resta difficile comprendere perché sia oggi davvero necessario riprendere un’opera vecchia di qualche secolo, solo per costruire un divertissement che il pubblico mostra di apprezzare per le invenzioni giocose, la sorpresa e i mille colori, ma che Shakespeare alla fine lo sfiora appena. La stessa Anna Maria Guarnieri, che si offre con grande disponibilità e la consueta padronanza di mezzi tecnici, non riesce a immettere nel suo Prospero un’energia che vada oltre la fredda perfezione di una marionetta, anche lei intrappolata nel suo teatro di burattini.

La Tempesta
da William Shakespeare
Adattamento e regia di Antonio Latella
Produzione Teatro Stabile dell’Umbria
Roma, Teatro Eliseo


 


 

Le recensioni di "ateatro": Questa sera si recita a soggetto di Luigi Pirandello
Regia di Massimo Castri. Produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo - Teatro di Roma
di Oliviero Ponte di Pino

 

Nella sua lunga carriera di regista, Massimo Castri aveva affrontato il Pirandello borghese, per smascherarne i taciti presupposti ideologici e psicologici, con letture di illuminante acume critico. Con Questa sera si recita a soggetti il regista toscano affronta per la prima volta il Pirandello «penultimo», quello della rivelazione del teatro nel teatro, ma con il testo che – concludendo dopo i Sei personaggi e Ciascuno a suo modo la sua trilogia metateatrale – questa scoperta l’ha ormai metabolizzata e ora la esplora in tutte le sue possibilità.
Il testo ruota intorno a Hinkfuss (che ha la bonarietà con retrogusto feroce di Vittorio Franceschi), ovvero il direttore di scena – la figura che in quei decenni si sta affermando nel teatro europeo – che vuole scalzare l’autore e dunque chiede ai suoi attori di abbandonare la rigida fedeltà al testo per improvvisare, per restituire loro la propria autonoma creatività. Ci sono poi gli attori che si ribellano al regista, prima perché si rifiutano di perdere le certezze offerte dal testo e poi perché, una volta superato il disorientamento, vogliono godere appieno di questa nuova libertà, oltre che rispettare la parte in cui devono immedesimarsi. Lo spettacolo avrebbe un autore, ovvero lo stesso Luigi Pirandello, al quale Hinkfuss ha rubato la traccia di un racconto, una vicenda di gelosia e di morte, per adattarlo alle proprie esigenze. Anche se poi questo autore programmaticamente tradito dal regista e dagli attori in realtà ha paradossalmente scritto tutto quello che accade sulla scena e sui suoi contorni, fino all’ultima virgola, eliminando dunque ogni reale possibilità di improvvisazione. Di più, per farlo Questa sera si recita a soggetto esplora una gamma quasi enciclopedica di forme teatrali, dal melodramma (Il Trovatore che torna come un leit motiva punteggiare la trama) al cabaret, dalla recita casalinga alla narrazione, dal son et lumière scenografico al naturalismo. E sperimenta una serie altrettanto nutrita di meccanismi metateatrali, attraverso continui slittamenti tra realtà e finzione, con battibecchi tra (finti) spettatori e regista, tra regista e attori, tra attore e personaggio...
Nella bella scena di Maurizio Balò, Castri segue tutti questi passaggi con intelligente e rigorosa attenzione e con la ricchezza di mezzi offerta dalla co-produzione tra il palermitano Teatro Biondo e il Teatro di Roma. Si avverte un piacere affettuosamente ironico, nei mille giochi di teatro nel teatro resi con puntigliosa fedeltà (e un’attenzione agli espressionistici anni Venti in cui fu scritto il testo). E tuttavia risultano lontani e freddi come esercizi anatomici. La nota di fondo, nella prima parte, è una malinconia disincantata e quasi rocciosa, che contagia gli interpreti: la generalessa Ignazia (una Valeria Moriconi divertita e divertente), il suo lagnoso marito Sampognetta (Alarico Salaroli), il geloso Nico Verri (Sergio Romano), e soprattutto l’impressionante Mommina di Manuela Mandracchia, che trasforma via via la propria malinconia in autentica disperazione, in un assolo di rigorosa incisività, mentre lo spettacolo si fa via via più livido e spoglio.
Al termine di questa attenta ricostruzione, Castri tradisce radicalmente il testo, stravolgendo il finale. Mommina, al termine del proprio racconto, non muore ma trascina i due figlioletti giù dal palcoscenico, attraverso la platea, fuori dal teatro. E subito dopo il ritorno finale di Hinkfuss (che nel testo di Pirandello, dopo essere stato cacciato, torna a ribadire le ragioni dell’arte) viene sostituito da un gesto interpretativo e critico di forte impatto: il sipario si apre all’improvviso sul gran finale di uno spettacolo d’opera. Una conclusione «aperta», di illuminante inventiva, in cui Castri-Hinkfuss accetta la provocazione pirandelliana e si assume le proprie responsabilità registiche: se il vecchio teatro non funziona più, le vie d’uscita possono essere la dissoluzione nella realtà, l’identificazione assoluta tra interprete e personaggio; o, in alternativa, la più convenzionale e stereotipata delle forme della rappresentazione.

Questa sera si recita a soggetto di Luigi Pirandello
Regia di Massimo Castri
Scene e costumi di Maurizio Balò
Produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo - Teatro di Roma
Milano, Teatro Strehler


 


 

Ma il teatro serve?
Alcune domande a Massimo Castri
di Elisabetta Cosci

 

Di che cosa si potrebbe parlare?

C’è ormai una noia a parlare di queste cose... Perché, a cosa serve?

Ma il teatro serve?

Così no. E non serve neanche parlare di teatro se non abbiamo chiaro a chi parliamo di teatro. Le parole hanno senso se hanno la possibilità anche remota di diventare prassi, altrimenti diventa perversione, vizio.

L’emozione che un regista come te riesce a dare testimonia la necessità del teatro.

La necessità del teatro nessuno la mette in dubbio, almeno spero, perché ultimamente in questo paese sembra che nessuno abbia più bisogno del teatro. Tant’è vero che in questi ultimi 50, 60 anni non siamo riusciti a far niente a livello di riforme o di strutture. Quando constati con mano, per esperienza, che ormai non hai più interlocutori anche nell’ambito della sinistra – gli assessori di sinistra, per esempio, che sono i tuoi maggiori interlocutori, sono assolutamente inconsapevoli di che cosa sia il teatro e a cosa serva – allora significa che non c’è più speranza per il teatro. Non siamo riusciti a fare una legge sul teatro e questo per me assume il valore di una soglia simbolica. Il teatro è come un malato terminale: se non siamo riusciti a intervenire quando potevamo tanto vale che gli stacchiamo definitivamente il cannello e lo lasciamo morire in pace.

Tra poco diventerai direttore della Biennale di Venezia. Che cosa farai? Quali sono i tuoi progetti?

Alla Biennale andrò a far finta di fare le cose serie, perché la Biennale ha settori importanti quali per esempio quello del cinema, o quella delle arti visive, ma il tentativo di far crescere, all’interno della Biennale, anche il settore delle arti dal vivo non è riuscito.

Perché?

I budget sono risibili, mancano i teatri e le strutture. Per spirito civico si fa finta di fare cose serie, si inventano cose per tentare di dare dei segnali, non possiamo fare di più. Tutto ormai rasenta il tragicomico. C’è un nome roboante che è quello della Biennale ma dietro non c’è niente.

Segni di vitalità artistica ci sono?

No, neanche quelli, e come potrebbero esserci?

E il pubblico?

Parlare del pubblico in questa situazione fa un po’ ridere. Il pubblico si sta allontanando progressivamente.

Questo è imputabile ad una scarsa qualità artistica o a che altro?

Scarsa qualità globale: di contenuti, di interessi tematici, artistici, estetici. Ci sono delle punte altissime che qualcuno raggiunge ma in genere è la scarsità che prevale. E poi direi anche scarsa qualità artigianale, che è quello che allontana il pubblico dal teatro. La qualità artigianale, o la grande capacità attoriale, è infatti quello che caratterizza il teatro e che lo differenzia dal cinema o dalla televisione. A livello subliminale si comunica un senso di povertà, di incapacità di invenzione di immagine, di fascinazione. Il pubblico così va ad esaurimento come la città di Venezia. La situazione non sarebbe terribile come è perché le inversioni di tendenza potrebbero essere attuate con relativa facilità, basterebbe volerlo senza fare miracoli. Prendi il caso di Torino, dove il teatro è ridotto allo stremo, asfissiato dopo la crisi strutturale in cui è caduto in seguito allo storico abbandono di Guazzotti, negli anni ’80, rappresentante di una visione di teatro pubblico storicamente forte su modello del Piccolo di Milano. Dopo 15 anni di traversie per questo teatro, con la mia direzione ero riuscito a prendere in mano la situazione (nonostante l’opposizione di tutti) e nel giro di un anno e mezzo ero riuscito ad aumentare di 1500 presenze gli abbonamenti in campo giovanile e ad aprire due spazi nuovi. La città iniziava a capire e il teatro iniziava di nuovo a diventare una presenza a Torino, con la gente che mi fermava per strada per dirmi che se restavo io il teatro avrebbe contato. Queste sono le cose che contano, questo significa che le inversioni di tendenza si possono operare, basta fare alcune cose semplici.

Come fare, appunto, il teatro per esempio?

Il livello del teatro è importante. Se il teatro non porta con sé questa qualità di poesia forte, di poesia di comunicazione, di poesia corporea... Ma sono importanti tutte le cose che si fanno per il teatro, come aprire spazi diversi, penetrare nei luoghi, offrire forme di teatro diverso per diversificare l’offerta e le fasce di utenza, passare dal circo e così via. Non si inventa niente, si presenta un progetto di rapporto e di funzione: di rapporto con la città e di funzione nei confronti della città. Si può fare, ma occorre fare.
Perché stanno distruggendo il Piccolo di Milano? Non per motivi teatrali sia ben inteso, ma per altri motivi. Non ci vuole molto a sperperare un patrimonio culturale come quello. Bastano cinque anni, una serie di fattori concomitanti, le città cambiano in fretta e noi siamo un popolo che non ama la memoria. La crisi della drammaturgia italiana dopo Pirandello in fondo è tutta qui nel nostro non voler ricordare.

Massimo Castri (Cortona 1943) è considerato uno dei principali esponenti del teatro di regia novecentesco; la sua ricerca si è concentrata soprattutto sulla crisi del dramma borghese, con la realizzazione di spettacoli che hanno segnato gli anni Settanta e Ottanta (dal ciclo di drammi pirandelliani a Ibsen) e che hanno più volte ottenuto i premi Ubu della critica italiana. Successivamente ha lavorato su Goldoni e sul mito, attraverso la tragedia greca. Laureato in lettere con una tesi sul teatro politico, che è servita da base al volume pubblicato da Einaudi nel 1973.Vincitore del Premio del Consiglio d’Europa, è stato direttore del Teatro Metastasio di Prato - Teatro Stabile della Toscana e del Teatro Stabile di Torino. Nel 2004 assumerà la direzione della Biennale di Venezia Teatro: il tema attorno a cui si svolgerà l’attività di Massimo Castri è la regia, intesa come l’innovazione principale del Novecento teatrale, vista un secolo dopo la sua introduzione e all’inizio di un nuovo secolo.


 


 

Le recensioni di "ateatro": Finale di partita di Samuel Beckett
Regia di Lorenzo Loris. Produzione Out Off
di Oliviero Ponte di Pino

 

L’opera di Samuel Beckett – così vicina alla percezione del disastro e alla necessità del silenzio – è stata per decenni la porta stretta attraverso la quale doveva passare ogni tentativo di espressione autentica. Ora che viviamo consapevolmente nel disastro (e nell’imminenza di una catastrofe insensata che può colpirci ovunque e in qualunque momento), mentre nel contempo la moltiplicazione dei racconti sembra indizio di un inarrestabile principio vitale, la nostra percezione del teatro di Beckett cambia inevitabilmente.
Un sintomo di questo mutato atteggiamento è la messinscena di Finale di partita a opera di Lorenzo Loris al Teatro Out Off di Milano. Cancellata la tentazione del silenzio nella chiacchiera generale, dissolta con la metafisica ogni angoscia metafisica, resta la nuda realtà del testo. E restano, ma solo come flebile memoria di un’epoca ormai conclusa e quasi dimenticata, l’etica del silenzio, la morsa dell’angoscia.
Finale di partita si riduce così a una lunga gag, a uno sberleffo, a una farsa di clown che di quell’epoca ormai finita possono quasi farsi beffe. Anche perché a incarnare Hamm e Clov sono due giovani attori di grande classe come Alessandro Genovesi e Paolo Pierobon. Il primo fervidamente attivo, a trotterellare in una scatola scenica nera e lucida ma polverosa, il secondo inchiodato alla sua sedia a rotelle, incattivito e strafottente come un vecchio gangster. Il primo ilare e svagato, l’altro ostinatamente livoroso, due clown persi nel nulla – o forse solo intrappolati nell’eterno gioco del teatro.
E’ una recita in apparenza inarrestabile ma ormai in fondo gratuita, e forse inutile, come se delle nostre angosce oggi potessimo anche ridere. O meglio, come se in questo orizzonte dominato dall’insensatezza ridere della nostra precaria precisione di marionette fosse l’unica possibilità che ci resta, senza neppure la nostalgia di una totalità perduta.

Finale di partita
di Samuel Beckett
regia di Lorenzo Loris
Milano, Teatro Out Off


 


 

Le recensioni di "ateatro": I refrattari di Marco Martinelli
delle Albe-Ravenna Teatro
di Fernando Marchiori

 

Trapiantando l’antenato-totem Aristofane nella Bassa Romagna, Marco Martinelli trovò all’inizio degli anni Novanta la chiave drammaturgica per innescare il meccanismo teatrale de I Refrattari. Gli ateniesi degli Uccelli, emigrati nel cielo a fondare una città migliore, divennero i padani chiusi a riccio nel proprio egoismo un po’ sentimentale e molto intollerante, disposti a tutto, anche a fuggire sulla Luna, pur di sottrarsi alle insidie dell’immigrazione e della criminalità. Pisetero e Evelpide s’incarnarono in Daura e Arterio, la madre e il figlio già protagonisti di quella Bonifica che nell’89 aveva trovato la soluzione finale per l’inquinamento in Adriatico: una bella colata, «un sarcofago di cemento da Trieste a Tirana, e non se ne parli più». I due spettacoli formarono un dittico politico insieme coerente con la ricerca del gruppo ravennate (almeno da Ruh, prima apertura al dialetto, a Siamo asini o pedanti?) ma anche enigmatico, poiché celava uno strato di significato e potenzialità ulteriori che i successivi lavori (soprattutto I Polacchi) avrebbero rivelato e forse solo oggi, con il riallestimento dei Refrattari, appare finalmente chiaro.
Nato da una paginetta scritta in tranvai a Lisbona nel ‘90, giunto al debutto al Rasi di Ravenna nel febbraio ‘92 dopo un anno di ripensamenti, il "drammetto edificante" ingabbiava l’azzardo di una scena dialettale romagnola in un inquietante interno domestico scuro e sanguinolento, le luci e i colori incupiti come «a riflettere», scriverà poi il regista, «lo stato d’animo dei personaggi, il cieco furore dei refrattari». L’intuizione scenografica era di Ermanna Montanari, ispirata all’espressionismo, a Kokoshka, Kirchner, soprattutto a Rouault. Il nuovo allestimento ha solo ridotto le dimensioni del muro, squadrando ancor più nettamente il molocale-loculo. Tra quelle pareti domestiche per nulla rassicuranti si consuma l’intero dramma. Due atti perfettamente simmetrici, il primo ambientato sulla Terra, il secondo sulla Luna. Daura (la Montanari) e Arterio (Luigi Dadina) sono come radici strappate a una terra violata dalla modernità, brandelli incongrui di una civiltà contadina letteralmente snaturata. Difendono come possono la loro monade chiusa al mondo esterno diventato incomprensibile, ma le intrusioni si susseguono. Dalla porta al centro della scena entrano prima un mafioso indigeno (Maurizio Lupinelli) che reclama il pizzo e minaccia ritorsioni, poi un prodotto della più avanzata ingegneria genetica, una lucciola-pianta-topo fuggita dal laboratorio (Roberto Magnani), che legge la Blixen e segue una sua partitura squinternata di gesti, frasi e pensieri. Arterio li farà fuori entrambi, ma intanto matura la decisione di andarsene, di «prender su la Daura» e volare sulla Luna. Barattato un pentolone di passatelli preparati dalla madre con un razzo russo in svendita, Arterio accetta infine di portare con loro anche un senegalese, Mustafà (Mandiaye N’Diaye), perché lo aiuti a ricostruire la casa («Due contro uno: la maggioranza è salva», si ripete per tranquillizzarsi). Ma l’africano fa salire sul razzo anche tutti i suoi fratelli, e il Mare della tranquillità su cui si apre il secondo atto è ormai diventato il quartiere musulmano di una Luna affollata e caotica quanto la Terra («Cuaioni, la Luna!», sbotta Daura, «piena di gente. Mo mo mo, quanta gente. Un viavai di razze, ad tot i culur: nìgar, zel, ros!»). Nella casa ricostruita «uguale uguale», Mustafà cucina («come il cuoco della Blissen») per un Arterio sempre più nero e autistico, preda di incubi nei quali ritornano il mafioso e il mostro, mentre Daura è misteriosamente levitata sopra la porta. Per tutto il secondo atto Ermanna Montanari rimane sospesa lì in alto, come una Madonna contadina, col velo in testa e una posa di mistico dormiveglia. Ma vede tutto, e descrive la Luna come «una grande palude dove tutte le forme di vita sono rovesciate. Dove […] i ladri vegliano mentre i magistrati dormono, […] le prostitute fanno politica e i politici adescano per le strade, gli artisti pensano al conto in banca e i mercanti si occupano di arte, i figli fanno a pezzi i genitori e ricevono in carcere lettere dagli ammiratori, gli eruditi fanno i buffoni e i comici scrivono tragedie». Non resta che murare la porta. Mentre Arterio prepara i mattoni e la malta a sigillare il loculo e insieme il «drammetto» realmente edificante, Daura impartisce la sua benedizione: «Sìra la pùrta, sìra la pùrta". Se tutti gli interpreti sono bravissimi, Ermanna Montanari ci è sembrata perfetta in una parte che ha saputo sviluppare, specie nel secondo atto, come una cantata. Le sue continue striature vocali, le ruvide modulazioni, il lavoro di risonanze fin dentro le singole consonanti, fanno di questa mesta madre levitata, ancor più mater pietosa di un tempo, una figura centrale di quella straordinaria galleria di corpi-voci cui l’attrice ha dato vita in spettacoli indimenticati, da Rosvita a Lus ad Alcina.
Rivedere, risentire I Refrattari dieci anni dopo procura uno strano effetto di straniamento. Verso noi stessi, anzitutto. Eravamo così nel 1992, anzi no: siamo così oggi. Siamo come era prevedibile saremmo diventati: peggiori. La Lega, gli immigrati, la puzza di dittatura incombente, il regime telematico, la giustizia fai-da-te, i traffici oscuri, la tecnologia impazzita, la grettezza e il risentimento elevati a identità nazionale. Ce li mostrava già lo spettacolo di allora e in quella pre-visione – non in un tentativo di mimesi sociologica con un presente sempre ineffabile – stava paradossalmente tutta la sua attualità. Ma oggi? Oggi la farsa nera dei Refrattari, senza muoversi di un passo (Martinelli non ha cambiato né aggiunto una virgola), ha il respiro di un «classico» della drammaturgia contemporanea. La sua forma è così nettamente definita da esser pronta a parlare anche al più grigio tra i pubblici degli abbonati. Non perché sia esaurita la sua carica provocatoria, ma perché ciò che si vede non sembra più esagerato. Dovrebbe farci paura. Ma non più di ciò che vediamo ogni giorno allo specchio, alla finestra o sugli schermi. – semplicemente «vero» ma perché è già stato, e ci costringe a uno sguardo letteralmente anacronistico e proprio perciò fermo, a un riconoscimento postumo e perciò più amaro. Insomma: i refrattari siamo inequivocabilmente noi, e quel che è peggio è che lo eravamo già. Da questa sfasatura straniante, da questo cortocircuito deriva il differente spessore drammatico e la nuova moralità edificante del lavoro delle Albe. Se ogni battuta, anche la più compromessa con la cronaca, un decennio fa suonava inspiegabilmente tragica, oggi che la deriva prefigurata si è compiuta, la sinistra ironia di questa parabola si ascolta con la consapevolezza dell’inevitabilità. E questa è la tragedia. Se la scena e i personaggi mettevano addosso, scriveva Martinelli, «una crudele allegria, come la vista di un vulcano», ebbene quel vulcano non ha più smesso di eruttare. La sua lava ha isterilito il terreno sotto i nostri piedi e non c’è nessun razzo che ci porterà via. Rimane la leopardiana speranza di veder nascere una qualche ginestra. E forse è quella che le Albe sono andate a cercare dopo i Refrattari incontrando il fiore di un’altra generazione per rinverdire il giardino del loro teatro.

Le citazioni di Marco Martinelli sono tratte da un intervento del regista-autore intitolato I Refrattari, in F. Marchiori e S. Raccampo (a cura di), Partecipazione e solitudine nell’arte, Sestante, Ascoli Piceno 1993, e dal testo dello spettacolo: M. Martinelli, I Refrattari, introduzione di N. Garrone, Sestante, Ascoli Piceno, 1992.

Sugli inizi delle Albe, vedi anche in questo sito
# interetnico. il teatro delle albe di Oliviero Ponte di Pino
# Conversazione con Ermanna Montanari (1997).


 


 

Sul teatro in televisione
Una lettera aperta al consigliere della Rai Marcello Veneziani
di Redazione ateatro

 

Il rapporto tra teatro e televisione è da sempre un tema su cui ateatro riflette e discute. Una dichiarazione di Marcello Veneziani, consiglere di amministrazione della Rai, ha aperto un minidibattito sui forum del sito.
Nel forum si può leggere anche la lettera aperta di Massimo Puliani sul tema, uno stimolo a ulteriori riflessioni. (n.d.r.)


 


 

La definzione della satira secondo Mediset
Dal testo della querela a Sabina Guzzanti & soci per Raiot
di Redazione ateatro

 

Raiot, la trasmissione televisiva di Sabina Guzzanti su Raitre, ha suscitato reazioni furibonde. Dopo la prima puntata la trasmissione è stata immediatamente sospesa e Mediaset ha querelato Sabina Guzzanti, Marco Travaglio, Studio Uno s.r.l. (la società produttrice) e la Rai, chiedendo 20 milioni di euro di danni.
Tra varie amenità, la querela redatta dagli avvocati Stefano Previti e Pieremilio Sammanco contiene una pregevole definizione della satira, sulla quale è oppurtuno riflettere:

E' noto, in verità, che la satira sorge per l'innato bisogno di irridere personaggi noti e potenti e non risponde, a differenza della cronaca e della critica, a finalità informative. La giurisprundenza più volte sul punto ha infatti espresso che "il diritto di satira a differenza del diritto di cronaca non assume l'informazione come proprio obiettivo (primario o anche solo concorrente)" (Dir. Inform., 1989, 520).
Non può dunque fondamentalmente affermarsi che la satira contrubuisca alla formazione della pubblica opinione e questo perché il mezzo espressivo prescelto è intrinsecamente connotato dall'intento dissacratorio. Ragion per cui, se una funzione si deve assegnare alla satira, essa va individuata nell'esercizio di un controllo sociale verso il potere; la satira, in definitiva, attraverso l'arma incruenta del sorriso assolve la funzione di "moderare i potenti", di smitizzare ed umanizzare i personaggi famosi, di umiliare i protervi, favorendo la diffusione di un clima di tolleranza che attenuerebbe le tensioni sociali.
E' allora evidente quindi la diversità di funzione rispetto alle altre manifestazioni del pensiero, atteso che la satira non può, per sua natura, perseguire il fine di contribuire alla formazione della pubblica opinione".


Insomma, gli avvocati di Mediaset danno la loro definizione di satira (come vaselina del potere...) e in base a essa chiedono la condanna ai satiri che non rispondono a questa bizzarra definizione.
Al di là della palese fragilità di questa impostazione, rende l'idea del ruolo che alla satira affida Mediaset...


 


 

Le novità di dicembre su dramma.it
Il dramma del mese: A cuore aperto di Patrizio Cigliano
di www.dramma.it

 

Sono aperte le iscrizioni alla II sessione del Corso base di drammaturgia che partirà il prossimo 4 marzo 2004. I posti sono limitati.
Il dramma del mese è A cuore aperto di Patrizio Cigliano, in scena fino al 21 dicembre al Teatro dell'Orologio di Roma per la regia di Patrizio Cigliano prodotto da Doppia Effe Compagnia di Prosa Mariano Rigillo e La Compagnia Arcadinoè. Con Alessandra Fallucchi, Patrizio Cigliano e la partecipazione straordinaria "in voce" di Arnoldo Foà e Maria Rosaria Omaggio nella versione a monologo e con Marta Paglioni, Veronica Milaneschi e Alessandro Loi nella versione a dialogo.
Inauguriamo la nuova rubrica il libro del mese con Edoardo Sanguineti e il teatro - La poetica del travestimento di Maria Dolores Pesce.
Vi segnaliamo l'ultimo appuntamento con Spiriti! venerdì 12 dicembre al Teatro delle Moline/TNE e l'iniziativa "A teatro con 1 Euro".
Ultimo appuntamento del 2003 con la drammaturgia contemporanea a Pistoia con "l dio di Roserio (Saletta Gramsci, da giovedì 18 a domenica 21 dicembre), tratto da un romanzo di Giovanni Testori, riscritto da Valerio Binasco (anche regista) e Maurizio Donadoni (interprete assoluto) per una produzione dell'Associazione Teatrale Pistoiese.
Attendiamo i vostri interventi nel forum, in particolare nella stanza di discussione dedicata al Premio Riccione dove si possono leggere anche gli interventi di alcuni dei finalisti.Scaricabili dalla home page i bandi di prossima scadenza.

Ecco gli ultimi arrivi della libreria virtuale.
Nella sezione Drammaturgie :
Un articolo su "Bernard Marie Koltes" di Anna Maffei.
Molte le nuove recensioni (a cura di Maria Dolores Pesce, Tiziano Fratus, Vincenzo Morvillo e Maurizio Giordano) tra cui vi segnaliamo: Ambleto di Giovanni Testori, Ragazze sole con qualche esperienza di Enzo Moscato, Inverno di Jon Fosse, Parlamento chimico, storie di plastica di Marco Paolini, Pupa Regina Opere di fango di Franco Scaldati e Doppio legame di Maria Piera Rigoli.
Nello spazio dedicato alle Tesi di laurea e saggi l'aggiornamento al saggio I drammaturghi italiani nati negli anni settanta di Tiziano Fratus e Pizzoferrato - Trilogia della memoria di Stefano Angelucci Marino.


 


 

Aprono a Firenze i Cantieri Goldonetta
CAN GO con la direzione artistica di Virglio Sieni
di Compagnia Sieni Danza

 

Italia, Firenze, Oltrarno, quartiere di Santo Spirito, via Santa Maria, Cantieri Goldonetta. Qui nasce CAN GO, centro dedito ai linguaggi del corpo, crocevia per artisti provenienti da discipline diverse, la danza innanzitutto, ma anche il teatro, l’arte visiva, la musica...
Frutto di un percorso di avvicinamento scandito, nell’arco di tre anni, da tappe mirate a ottenere la massima funzionalità nel restauro dei Cantieri, ma anche a individuare una geografia di spazi con cui porsi in relazione, CAN GO si inserisce in un preciso tessuto urbano configurando uno spazio duttile in cui mettere a punto strategie d’interazione con circoli, gallerie, scuole, musei, laboratori artigianali, negozi, piazze, teatri e istituti situati in Oltrarno.
Luogo di residenza e ospitalità, di ricerca e produzione, di studio e documentazione, CAN GO è un osservatorio sui processi di elaborazione artistica aperto agli sguardi del pubblico, una radura in cui far confluire e interagire riflessioni ed esperienze, in cui nutrire progetti e aprirsi al confronto, in cui sperimentare quotidianamente inedite connessioni mettendo in rapporto, mutevole e costante, interno e esterno, tradizione e contemporaneità.

LA DEMOCRAZIA DEL CORPO
CAN GO CANTIERI GOLDONETTA FIRENZE

27 dicembre 2003>4 gennaio 2004

La democrazia del corpo è una prima apertura verso e attraverso la città, un momento che intreccia simbolicamente la festa e il passaggio al nuovo.
Il programma propone interventi di artisti e gruppi - operanti in ambiti diversi e migranti in territori che sfuggono alle consuete classificazioni di genere - invitati per l’occasione a frequentare i Cantieri non come semplice contenitore in cui depositare opere e azioni, ma come spazio dai confini mobili, laboratorio aperto in stretto rapporto con la storia e la realtà odierna dell’Oltrarno. Non a caso è previsto un itinerario scandito da visite, incontri, camminate nel quartiere, interferenze con laboratori artigianali, percorsi per l'infanzia, visioni di eventi dal vivo e installazioni. Un primo passo verso una fruizione dilatata e consapevole di uno spazio offerto al pubblico nella sua nudità per far emergere tutte le potenzialità degli ambienti che lo compongono: struttura flessibile pronta ad articolarsi in sempre nuove combinazioni.

Direzione artistica
Virgilio Sieni

Équipe progettuale: Silvia Fanti, Francesco Giomi, Andrea Nanni, Arabella Natalini, Neri Torrigiani
Cura: Monica Cerretelli, Marco Di Bari, Roberto Mansi, Laura Montanari, Paolo Rodighiero


CAN GO
via Santa Maria, 25 - 50125 Firenze
Info: Compagnia Virgilio Sieni Danza tel. 055.697883

SEZIONI TEMATICHE E FUNZIONI DI CAN GO

FORMAZIONE
Il lavoro degli artisti invitati sarà materiale di studio sui linguaggi della danza, della composizione coreografica e delle arti performative legate al corpo in stretto contatto coi linguaggi delle altre arti contemporanee, in particolare le arti visive e la musica. Sono previsti percorsi di studio rivolti a varie fasce di soggetti, dai giovanissimi a professionisti con una formazione già consolidata.

PRODUZIONE RESIDENZE OSPITALITÀ
Can Go prevede residenze e ospitalità di artisti, produzione di opere, spettacoli e installazioni nei propri spazi e in altri luoghi dell’Oltrarno. Per periodi di diversa durata compagnie e coreografi avranno l’opportunità di interagire con artisti di altre discipline, dando vita a una pratica di confronto assai poco frequentata in ambito nazionale.

EVENTI
Saranno presentati spettacoli, performance e installazioni di artisti contemporanei, chiamati a realizzare anche interventi inediti, segnati dall’intersecarsi di diversi linguaggi e posti in stretto contatto con i luoghi dell’Oltrarno. I materiali utilizzati per lo studio e la progettazione delle opere saranno custoditi in un archivio permanente aperto alla consultazione.

INFANZIA
Dedicato espressamente all’infanzia, Young Gallery è uno spazio in cui prenderanno corpo percorsi didattici articolati in modo da permettere ai giovanissimi di avere esperienza diretta delle potenzialità espressive del corpo. Gli artisti coinvolgeranno i bambini nel processo creativo ponendoli in relazione con i linguaggi contemporanei attraverso laboratori, visioni e installazioni.

DESTINAZIONI
Can Go e gli abitanti dell’Oltrarno impegnati a tracciare insieme una mappatura di luoghi da riscoprire e riutilizzare, magari ipotizzando anche nuove destinazioni d’uso. Luoghi famosi e sconosciuti: spazi d’arte (chiese e palazzi), ma anche di lavoro (botteghe artigiane), di attraversamento (strade e piazze) o di frequentazione quotidiana (giardini, circoli, palestre).

FLY OLTRARNO#DISLOCAZIONI
Fly Oltrarno è una manifestazione che ha lo scopo di animare i luoghi di Santo Spirito, San Frediano, Porta Romana e San Niccolò individuati grazie alla nuova mappatura. I frequentatori di Can Go, i cittadini escono dagli spazi dei Cantieri per riscoprire, rivedere e ripensare il tessuto urbano in cui vivono e operano.

BOTTEGA INSIDE
I laboratori presenti in Oltrarno si aprono per un incontro tra il mestiere dell’artigiano e le pratiche dell’artista. Un festival che è soprattutto un crocevia tra artigiani, danzatori, musicisti e artisti visivi: un intreccio di sguardi ai quali si aggiunge quello fondamentale del pubblico.

WALK
Itinerari da compiere a piedi nei luoghi dell’Oltrarno seguendo la mappatura delineata in collaborazione con gli abitanti e magari arricchendola di sempre nuovi tracciati, recuperando il senso del frequentare, dello spostarsi, ridefinendo col movimento l’urbanistica, portando il corpo altrove, riconquistando il senso di presenza.


 


 

Narrare la scena: una nuova collana di teatro per ETS
Monografie dedicate ai più importanti spettacoli teatrali
di Redazione ateatro

 

La casa edtrice ETS di Pisa inaugura NARRARE LA SCENA. Esercizi di analisi dello spettacolo diretta da Anna Barsotti.
Sono già in libreria: LA LOCANDIERA di GOLDONI per LUCHINO VISCONTI di Federica Mazzocchi (pp. 226, 13 euro)
LA TEMPESTA di SHAKESPEARE per GIORGIO STREHLER di Stefano Bajma Griga (pp. 148, 13 euro)

E' una collana di agili monografie su spettacoli teatrali di particolare rilievo. Affianca celebri nomi della regia e fondamentali figure della ricerca, nella prospettiva che superando steccati fra tradizione e avanguardia si restituisca la complessa ricchezza della scena. L'obiettivo è di offrire un racconto dettagliato e godibile dello spettacolo che illumini le varie tappe della sua creazione. Ogni volume comprende un'introduzione alle ragioni poetiche, stilistiche e produttive della performance; un'analisi basata - a seconda dei casi - sul rapporto col testo, sull'esame del copione, sulla vodeoregistrazione, sulle testimonianze esistenti. Apparato iconografico, antologia di documenti, cronologia della vita e delle opere del regista o del gruppo, e una bibliografia essenziale completano la monografia, offrendo l'opportunità di autonomi approfondimenti.

Informazioni e ordini al sito www.edizioniets.com


 


 

Biennale di Venezia - Sezione Teatro: l'Annuncio per l'edizione 2005
Direzione: Romeo Castellucci
di Socìetas Raffaello Sanzio

 

La Biennale di Venezia Teatro inaugura, per l'edizione del 2005, una Sezione dedicata agli artisti e alle compagnie di tutto il mondo che non hanno ancora esposto il proprio lavoro e che nascondono al proprio interno le linee del futuro.
Questa Sezione vuole essere segno di contraddizione del teatro; accogliere tutte le forme che si pongono il problema radicale della rappresentazione; verificare l'esistenza di una linfa che possa spingere il teatro a reggere la portata di questa epoca.
Questa Biennale abbandonerà lo spirito della terraferma e si rivolgerà al mare, che accoglie la dimensione dell'aperto e del pericolo.
Questa Biennale vuole rompere lo schema radicato della tradizione e costruire forme di radicale invenzione.
L'apertura a tutti i luoghi della terra non vuole essere un censimento anagrafico del teatro mondiale.
Si tratta di manifestare forze localizzate dell'espressione, al di fuori di ogni spirito ecumenico.
Saranno prese in considerazione tutte le forme possibili di teatro, eccetto quelle legate al solco tradizionale, alla ripetizione testuale e alla linea dell'improvvisazione.
La forma di partecipazione sarà perciò libera da limiti legati al tema, al modo, alla durata.
Si raccolgono proposte di partecipazione formate esclusivamente da una relazione scritta di ciò che si intende rappresentare a Venezia e da una documentazione video del proprio recente lavoro.
Non verranno presi in considerazione curriculum, referenze di scuole, stage, workshops, articoli, ma soltanto il progetto e la modalità operativa di ogni artista o di ogni compagnia.
La selezione avrà come unico criterio quello dettato dal riconoscimento di una forma autonoma di espressione compiuta e di una idea di teatro.
L'esito di tale selezione sarà reso noto in tutti i casi. Se favorevole, si richiederà di poter assistere a una rappresentazione dal vivo di uno spettacolo dell'artista o della compagnia, condizione indispensabile, questa, che precede l'eventuale invitazione alla Biennale Venezia Teatro dell'anno 2005.
Tutte le proposte dovranno pervenire presso il

Teatro Comandini
via Serraglio 22
47023 Cesena, Italia,

entro il 31 marzo 2004. Il materiale inviato non sarà restituito.
Non si danno altre spiegazioni oltre a quanto è scritto qui.


 


 

La storia del teatro, Rinascimento e dintorni, la cultura delle riviste teatrali nel nuovo numero di "Culture teatrali"
Il numero 7/8 dedicato a Fabrizio Cruciani
di Redazione Culture Teatrali

 

CULTURE TEATRALI studi, interventi e scritture sullo spettacolo
rivista diretta da Marco De Marinis

E' disponibile il n° 7/8, autunno 2002 - primavera 2003
STORIA E STORIOGRAFIA DEL TEATRO, OGGI.
Per Fabrizio Cruciani

SOMMARIO
Fabrizio Cruciani (1941-1992)
Eugenio Barba
La casa delle origini e del ritorno

FABRIZIO CRUCIANI E GLI STUDI TEATRALI, OGGI
a cura di Francesca Bortoletti
IL MAGISTERO DI CRUCIANI
Ferdinando Taviani
Ovvietà per Cruciani
Claudio Meldolesi
Il teatro di Cruciani
Mara Nerbano
La lezione di Fabrizio Cruciani. Pedagogia, metodo, epistemologia
Anna Rita Ciamarra
La rifondazione della storiografia teatrale. Studi e vocazione pedagogica di Fabrizio Cruciani
Monica Ziosi
Per una introduzione allo studio della storiografia teatrale di Fabrizio Cruciani

NOVECENTO
Marco De Marinis
Cruciani e gli studi teatrali sul Novecento
Georges Banu
Di schiena e di fronte
Monique Borie
Atto magico e atto teatrale
Maria Ines Aliverti
Il cielo sopra il teatro. Percorsi dello spazio teatrale ricordando Fabrizio Cruciani
Eugenia Casini Ropa
Note sulla nuova storiografia della danza

RINASCIMENTO E DINTORNI
Raimondo Guarino
Dentro la città rinascimentale
Clelia Falletti
Le ciambelle di Santafiore
Paola Ventrone
La scena prospettica rinascimentale: genesi e sviluppo
Francesca Bortoletti
Uomini, ambienti e culture
Gerardo Guccini
Intorno alla prima Pazzia d'Isabella. Fonti - Intersezioni - Tecniche

ICONOGRAFIA TEATRALE
Renzo Guardenti
Appunti d'iconografia bernhardtiana
Stefano Mazzoni
Studiare i teatri

LE CULTURE DELLE RIVISTE
a cura di Marco Consolini e Roberta Gandolfi
Presentazione
Daniele Seragnoli
Riviste di teatro e storiografia: uno studio in (ricorrente) divenire. Quasi un racconto
Marco Consolini
Le riviste del Novecento fra processi di creazione e processi di ricezione
Béatrice Picon-Vallin
La rivista di un praticante-ricercatore: "L'Amore delle tre melarance" (Pietroburgo, 1913-1916)
Roberta Gandolfi
Linguaggio critico e nuovo teatro: "Sipario" negli anni Sessanta
Jean-Pierre Sarrazac
"Travail théatral": una rivista di teatro all'epoca della frammentazione
Alfredo Barbina
"Ariel"
Raimondo Guarino
"Teatro e Storia"
Siro Ferrone
"Drammaturgia"
Gerardo Guccini
"Prove di Drammaturgia"
Emilio Pozzi
"Teatri delle diversità"
Marco De Marinis
"Culture Teatrali"

PROGETTI
Elvira Garbero Zorzi
Archivio dati in storia del teatro: periodici di interesse teatrale (Istituto Ludovico Zorzi per le arti dello spettacolo)
Alfredo Barbina
La stampa periodica teatrale dal Settecento ad oggi
Marco Consolini - Roberta Gandolfi
Le officine del pensiero teatrale: le riviste teatrali del Novecento
Matteo Pederzoli - Giorgio Poletti
Lo studio dei periodici teatrali in rete: il progetto "OT" (Officine Teatrali)

Il prezzo di ogni numero è di Euro 15,50 (IVA assolta). Abbonamento a due numeri Euro 25,82 (IVA assolta) da versare sul conto corrente postale n. 31378508 intestato a Carattere - Via Passarotti 9/a - 40128 Bologna.


 


 

Subway-Letteratura 2004
Il bando
di Redazione Subway-Letteratura

 

Subway Letteratura
Subway Letteratura è una iniziativa dell’Associazione Laboratorio-E20, svolta con il patrocinio e il contributo del Settore Giovani del Comune di Milano, che ha per obiettivo la produzione e il consumo di testi letterari di qualità, in particolare presso i giovani, attraverso i Juke-Box Letterari e altri strumenti e occasioni di diffusione della scrittura e della lettura. Partner di Laboratorio E-20 per questa iniziativa è ATM.

I Juke-Box Letterari
Nella primavera del 2004 verranno installati nei mezzanini delle più frequentate stazioni della Metropolitana di Milano numerosi Juke-Box Letterari. Sono contenitori-distributori dai quali i passeggeri della metropolitana potranno scegliere e prelevare (gratuitamente) un volumetto a firma di un giovane scrittore. Nelle stazioni della metropolitana milanese è prevista la distribuzione di circa 12 titoli per una tiratura complessiva di circa 400.000 copie. Quest’anno uno dei 13 volumetti sarà dedicato ai poeti, secondo le modalità riportate nella pagina a fianco.

Vuoi partecipare?
Intanto devi avere un'idea per un racconto in prosa: prenderemo in considerazione testi inediti lunghi al massimo 12 cartelle, cioè 24.000 battute compresi gli spazi bianchi.
Devi avere anche un titolo e indicare il genere del tuo testo (per esempio "Storia d'amore", "Thriller", "Racconto per bambini", ma sono ammesse etichette più fantasiose) nonché il numero di fermate della metropolitana necessarie, secondo te, per completare la lettura.
Poi devi inviare il tutto entro e non oltre il 1° marzo 2004 (fa fede il timbro postale!) a Associazione Laboratorio E-20, via C. Crivelli 10, 20122 Milano (tel. 02/8054324).
Insomma, nella busta (chiusa) devi mettere: il testo del racconto (in italiano) stampato su carta e salvato su dischetto (in formato compatibile MS-Word 2.0 e superiori), completo delle indicazioni di autore, titolo, genere, numero di fermate e accompagnato da un breve curriculum dell'autore (lunghezza massima mezza cartella, cioè 1000 battute, con chiara indicazione di nome, cognome, titolo del racconto inviato, data di nascita, indirizzo e recapito telefonico).
Ah, dimenticavamo: devi avere meno di 35 anni, cioè essere nato dopo il 1° gennaio 1969.

Selezione dei racconti
Il Comune di Milano Settore Giovani si riserva, nell'ambito delle proprie attività, la facoltà di utilizzare i lavori selezionati nell'ambito di tutte le iniziative editoriali, o di altro genere non commerciale, senza che per ciò nulla sia dovuto agli autori.

Una nuova iniziativa letteraria 2004: Subway-Poesia
Le modalità di partecipazione sono analoghe a quelle già descritte per il concorso dedicato ai racconti.
Manda 3 poesie dedicate alla "città sotto l'apparenza". E' un tema vasto, che provoca la tua capacità di attenzione e di visione. Del resto la poesia, diceva già il grande Dante, poeta sempre in viaggio, è una questione di ascolto, di attenzione. Le migliori verranno edite in uno dei Volumetti in distribuzione nel metrò. Il vincitore avrà le sue tre poesie pubblicate, degli altri che saranno segnalati verà pubblicata una poesia. Sarà la prima antologia di subway poesia. Manda le poesie per posta a Associazione Laboratorio E-20, via C. Crivelli 10, 20122 Milano, entro il 1° marzo 2004 (stampate su carta e registrate su dischetto in formato compatibile MS-Word 2.0 e superiori) insieme al tuo nome, indirizzo e recapiti postali e telefonici, e una dichiarazione in cui dici di essere l'autore e di avere meno di 35 anni.
La giuria sarà composta da Davide Rondoni (poeta e direttore della rivista clanDestino), Milo de Angelis (poeta e insegnante) e Daniele Piccini (poeta e critico letterario)

Utilizzo delle opere selezionate
L’Associazione Laboratorio E-20 si riserva, nell'ambito delle proprie attività, la facoltà di utilizzare i lavori selezionati nell'ambito di tutte le iniziative editoriali, o di altro genere non commerciale, senza che per ciò nulla sia dovuto agli autori.

Originalità
I candidati si fanno garanti dell'originalità della loro Opera. Partecipando all'iniziativa i candidati accettano implicitamente le norme del presente bando.

Ulteriori informazioni:
# www.subway-letteratura.org
# Associazione Laboratorio-E20 tel. 02/8054324 Fax 02/865572


 



Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
copyright Oliviero Ponte di Pino 2001, 2002