(65) 07.03.04

Concetta D'Angeli intervista Fausto Paravidino
Pisa, 18 novembre 2003
di Concetta D'Angeli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.asp#65and7
 
Le voci e i personaggi
Suggestioni teoriche dal «caso Paravidino»
di Concetta D’Angeli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and10
 
Su Genova 01
Note dell’autore al 2003
di Fausto Paravidino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and11
 
Le recensioni di "ateatro": Genova 01 di Fausto Paravidino
Regia di Filippo Dini
di Alessandro Romano

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and12
 
La natura frattale della realtà (e del teatro)
Alcune riflessioni si Copenaghen di Michael Frayn
di Clara Gebbia

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and18
 
Un altro mercato è possibile?
Per non tacere per sempre
di Franco D’Ippolito

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65#65and21
 
Ora o si taccia per sempre
Stato di emergenza
di Massimo Paganelli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and22
 
Le recensioni di "ateatro": Elle! Louise Brooks
con Hanna Schygulla
di Fernando Marchiori

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and31
 
Le recensioni di "ateatro": SuperElioGabbaret (Bestiario romano) di Luca Scarlini e Massimo Verdastro
Laura Angiulli e Massimo Verdastro
di Andrea Balzola

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and32
 
Le recensioni di "ateatro": Metafisico cabaret
di Giorgio Barberio Corsetti
di Federica Fracassi-Teatro Aperto

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and33
 
Le recensioni di "ateatro": La Repubblica di Platone
Regia di Italo Spinelli
di Fernando Marchiori

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Le recensioni di "ateatro": Madre e assassina
del Teatrino Clandestino
di Erica Magris

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and35
 
Le recensioni di "atetro": Medea da Euripide
di Emma Dante
di Clara Gebbia

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and36
 
La ricerca teatrale nelle foto di Riccardo De Antonis
Luce fisicità e spazio del teatro, Titivillus, Corazzano-Pisa
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and40
 
Pisa, isola felice della videoarte
Il volume Le arti del video. Sguardi d’autore tra pittura, fotografia, cinema e nuove tecnologie e altro
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and50
 
Tra "azione" e "contemplazione". I molteplici spazi possibili per le arti interattive
Introduzione al volume Arte tra azione e contemplazione a cura di Silvana Vassallo e Andreina Di Brino
di Silvana Vassallo

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and51
 
Il teatro alla Camera dei Deputati
Il 15 marzo l'incontro Quali politiche per il teatro
di Direzione nazionale DS – Dipartimento cultura

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.htm#65and80
 

 

Concetta D'Angeli intervista Fausto Paravidino
Pisa, 18 novembre 2003
di Concetta D'Angeli

 

Concetta D’Angeli
C’è un aspetto dei tuoi lavori che mi ha colpito tantissimo quando ho cominciato a leggerli: i tuoi sono testi lunghi, che hanno la struttura del testo teatrale tradizionale, o comunque la ereditano. Non sono monologhi, come oggi tendono ad essere molti testi di teatro. Di conseguenza c’è, da parte tua, il bisogno di reimpostare in altri termini, di rifare i conti con problemi che nella scrittura drammatica hanno una tradizione antichissima, risalgono a Aristotele: ad esempio il problema degli spazi e dei tempi. E mi pare anche che tu questi problemi te li ponga fortemente, ed è per risolverli, mi pare, che ci costruisci intorno delle strutture. Alcune delle soluzioni che prospetti le ho trovate molto interessanti. Parlo adesso solo di drammaturgia, cioè di scrittura, a prescindere dalla messinscena. Alcune soluzioni che adotti a proposito del punto di vista o del tempo mi sembrano significative: quando, per esempio, operi degli improvvisi ribaltamenti del punto di vista dominante fino a quel momento, oppure introduci differenti punti di vista, anche contrastanti, che alla fine determinano lo svelamento di intrecci, diciamo così, “difficili” - una sorta di moderno colpo di scena. Oppure quando, come succede in 2 Fratelli, per risolvere il problema del tempo teatrale, ne frazioni la durata, segnalando l’ora e il minuto in cui si collocano i singoli quadri di cui è costituita la “tragedia da camera” (come recita il sottotitolo dell’opera). Per incominciare vorrei che tu mi parlassi di come si pone per te il problema dello spazio e del tempo, che è stato sempre assai spinoso per tutti i drammaturghi.

Fausto Paravidino
In teatro sono arrivate ultimamente delle influenze extra-teatrali molto importanti: il cinema, in particolare, ha rotto tanti tabù. Per esempio, adesso si può partire da un tableau in qualsiasi momento: questo significa, in concreto, che non hai bisogno di aprire e chiudere una porta ogni volta che vuoi partire da zero. Io uso moltissimo questa nuova libertà, proprio perché quello che fa perdere tempo drammatico sono i: “Oh, buongiorno, buonasera; oh, ma chi si vede, ma guarda qua…”, e poi per entrare nel vivo del dramma, tutte le volte, serve una rincorsa, a meno che non si riesca ad avere un ingresso-colpo di scena. A proposito degli ingressi e le uscite dei personaggi però, è importante che ogni personaggio entri al momento opportuno, perché ogni ingresso ha una funzione drammatica fondamentale; sennò far entrare e far uscire i personaggi è una specie di balletto noioso. Nel caso di 2 Fratelli è dichiarato perfino il minuto nel quale avviene l’azione determinata, così che si viene a creare un tableau molto incorniciato. Comunque, anche quando non è incorniciato, io uso moltissimo il tableau, che consente anche di non sconfinare in territori troppo virtuali. Il tableau ha un altro vantaggio, e cioè permette di tagliare via facilmente le parti noiose dell’azione. E’ insomma molto comodo poter decidere: “Voglio che questa scena duri solo un minuto, perché di tutta l’azione possibile solo quel minuto mi interessa: prima c’è un buio, dopo c’è un buio, in mezzo c’è il minuto utile”. Questo per quanto riguarda il tempo, che comunque in genere io gestisco con poco imbarazzo, non avendo regole temporali da seguire: in genere colloco le scene in progressione, però ormai Pinter ha già messo tutte le scene in de-progressione, quindi si può seguire il suo esempio e ribaltare la successione temporale lineare. Lui ha aperto una strada e anch’io la percorro, per esempio usando molti flashes-back. Questa mia predilezione, in teatro, diventa un problema per i registi che mettono in scena i miei testi; ma è un discorso diverso. Un’altra cosa che mi piace e che mi diverto a fare, ma che non è una novità perché si è sempre fatta, sebbene si leghi male con il tableau, è passare dalla situazione con quarta parete a quella senza, portare insomma il tempo a un non-tempo, che poi è un tempo della finzione. Se io oggi entro in scena e dico: “Accidenti quanta neve! Quest’anno gennaio si è fatto sentire!” e invece lo spettacolo avviene in primavera o in estate, risulta palese che io sono da un’altra parte, anche temporalmente; e cioè sono nella dimensione della finzione. Ma se invece mi rivolgo al pubblico direttamente e dico: “Signore e signori! qui sta succedendo un problema!”, cambio le regole e i riferimenti alla temporalità, faccio un salto immediato in un tempo altro da quello teatrale. La compresenza di tempo teatrale e tempo reale si verifica spesso in 2 Fratelli, dove è vero che sono indicati perfino i minuti in cui avvengono le singole azioni, ma per tre volte i personaggi si rivolgono al pubblico direttamente, creando una frattura evidente del tempo e dello spazio.

Concetta D’Angeli
Restiamo ancora un pochino sul tempo. Tu continui a sottolineare che le tue presunte “novità” sono già consuetudini teatrali, ed è vero; però mi colpisce molto l’eleganza e la naturalezza con le quali adotti le soluzioni introdotte in teatro in tempi abbastanza recenti, sebbene non da te. Appunto il tuo modo di adottare le soluzioni altrui non mi pare tanto ovvio. Quando descrivi il tuo lavoro sembra insomma che tu voglia inserirti nel solco di una tradizione moderna: nomini spesso Pinter, oppure, con mia grande soddisfazione, ieri, durante l’incontro con gli studenti, ti ho sentito parlare ammirato di Samuel Beckett, ponendolo in una condizione di assoluto isolamento rispetto agli altri drammaturghi del Teatro dell’Assurdo, compreso Ionesco… Mi fa piacere ritrovare una tale coincidenza di vedute con te…

Fausto Paravidino
Beckett non utilizza il teatro per filosofeggiare, come gli altri...

Concetta D’Angeli
... Oppure per fare dei giochi: che sono anche divertenti, per carità, però sono proprio giochi.

Fausto Paravidino
Lui è un teatrante vero, lui non fa giochetti.

Concetta D’Angeli
Tu dunque ti riferisci ai tuoi “padri di drammaturgia” (Pinter, Beckett), tutti sperimentatori della scrittura drammaturgica, come autori dei quali hai seguito la lezione; però io sono colpita da un fatto, che può darsi sia da mettere in relazione con il dato che sei italiano. Le sperimentazioni drammaturgiche, di cui stiamo parlando, nel teatro italiano recente ci sono state molto poco; perciò il fatto che tu ti senta addosso, con tanta naturalezza, l’eredità di una rottura degli schemi tradizionali, come pure l’acquisizione di prospettive nuove dei fondamenti del linguaggio teatrale, il fatto che tu dica “È ovvio, si è già fatto…”, mi stupisce un po’. Io infatti tenderei a sottolineare come una novità, almeno per l’Italia, l’acquisizione recente di una scrittura drammaturgica molto innovativa, che è d’ambito soprattutto inglese, e per l’Italia è nuova.

Fausto Paravidino
Lo prendo per un complimento e ti ringrazio. Se poi devo dire da dove viene questa che hai chiamato naturalezza, credo che venga proprio dal gioco attoriale, dal momento che abitando con tanti attori, stando a scuola insieme, lavorando insieme, cenando insieme, si gioca moltissimo a fare il teatro; quando sei con una compagnia di persone che hanno un po’ di commedia sulle spalle, la maggior parte delle quali in comune, alla fine, chiacchierando a tavola, usi Shakespeare, usi tutto quello che ti ricordi, tutto quello che ti ha colpito. Non è però solo una questione di contenuti: porti dentro anche la forma, per far ridere, per fare le battutine… Magari a cena fai una conversazione, poi la interrompi con un a-parte rivolto verso la porta, così, perché è una battuta tra attori, perché il linguaggio comune di riferimento è quello teatrale, e influenza, in qualche modo, tutta la tua percezione della realtà. E poi, quando decidi di metterti a scrivere, quel linguaggio te lo ritrovi come tuo patrimonio, e puoi giocare con il teatro - dentro e fuori la realtà, dentro e fuori il teatro...

Concetta D’Angeli
In effetti alcuni tuoi testi, soprattutto quelli d’esordio, prendono spunto dal fatto che ti trovavi a condividere la vita quotidiana con un gruppo di amici che facevano/fanno gli attori: mi interessa molto la relazione che si istituisce fra la tua scrittura e la condivisione della quotidianità spicciola.

Fausto Paravidino
La prima cosa importante che questa condivisione mi ha dato è farmi uscire dalla scrittura autoreferenziale, testimoniata per esempio da Trinciapollo. Nella scrittura autoreferenziale uno scrive di se stesso e di una serie di funzioni sue; invece se ti rapporti con persone diverse da te, con le quali magari litighi di continuo ma che sono anche amici, ti accorgi che nella loro differenza da te portano qualcosa con cui devi fare i conti e venirne a capo. Questo per me è stato un grande arricchimento. In Gabriele i personaggi sono legati alle persone in carne e ossa: è stato con questa commedia che ho fatto il passaggio di utilizzare più punti di vista reali, che entrano in un conflitto reale nel quale io, come scrittore, non sono in grado (per fortuna!) di prendere posizione. Con questo non voglio sconfessare Trinciapollo, che resta per me un testo importante per molti motivi; ma la vera scoperta del teatro è legata a Gabriele. E’ un testo che ho scritto insieme a Giampiero Rappa: né io né lui eravamo consapevoli del fatto che non riuscivamo a prendere posizione per un personaggio o per l’altro, che cioè non riuscivamo a imprimere un senso, una morale alla commedia. E forse, se ce ne fossimo accorti, l’avremmo visto come un limite. Poi dopo, a conti fatti, questo “limite” mi si è rivelato come una ricchezza irrinunciabile.

Concetta D’Angeli
Visto che hai nominato Trinciapollo, ho una curiosità: è l’unico dei tuoi testi teatrali che non compare nella raccolta di Ubulibri. Lo hai escluso per un motivo preciso?

Fausto Paravidino
No, poveretto! Piuttosto direi che non è stato escluso lui, ma sono stati inclusi gli altri. Quando si è pensato al volume, con Franco Quadri, prevedevamo di pubblicare un paio di cose, a cominciare da 2 Fratelli; ma c’erano altri testi che a me piacevano, e allora “perché no questo? perché no quest’altro?...” Alla fine ci siamo accorti che sarebbe venuto un libro troppo grosso e troppo costoso. E ci siamo dovuti fermare; a quel punto ci siamo accorti che Trinciapollo era rimasto fuori. In fondo, potevamo metter dentro anche lui... Vabbe’, vuol dire che mi è rimasto un po’ di materiale già pronto per un altro libro...

Concetta D’Angeli
Hai già altre cose pronte per la pubblicazione?

Fausto Paravidino
Veramente no: a parte quello che ho pubblicato nel volume di Ubulibri e a parte Trinciapollo, c’è solo il radiodramma, Messaggi, e poi c’è una sceneggiatura cinematografica... ma sai, le sceneggiature si firmano ma non si pubblicano... e poi di solito le sceneggiature che si pubblicano sono false perché il regista mon ha certo girato il film sulla base di quella sceneggiatura lì...

Concetta D’Angeli
Torniamo alla tua esperienza di scrivere quello che ti è successo di vivere con i tuoi amici-teatranti: credo che sia una delle esperienze che fanno o scandalizzare o entusiasmare, a seconda dei casi, tutti quelli che stanno da sempre a discutere sul rapporto tra la finzione e la realtà. Sembra che tu istituisca una continuità tra queste due dimensioni, dalle quali entri ed esci con assoluta naturalezza, passando dall’una all’altra come se fossero due dimensioni di vita che si intrecciano strettamente. E poi è molto interessante anche il continuo riferimento all’esperienza della tua vita, che io però non chiamerei propriamente autobiografico.…

Fausto Paravidino
No, non lo trovo autobiografico, lo trovo biografico, nel senso che tratto di…

Concetta D’Angeli
… esperienza di vita...

Fausto Paravidino
Sì, ecco. D’altronde io non sono una persona con una grandissima fantasia: quello che scrivo o lo scrivo perché è capitato a me, o perché qualcuno me lo ha raccontato, o perché l’ho letto da qualche parte, o perché l’ho sentito dire sull’autobus… Così, a un certo punto, mi ritrovo circondato da battute, da situazioni, da storie ecc, che posso comporre e rimontare.

Concetta D’Angeli
Vorrei fermarmi ancora un po’ anche sulla saldatura che istituisci fra la tua scrittura per il teatro, la tradizione della scrittura teatrale che ti precede e la consuetudine verso l’ambiente teatrale, che è anche l’ambiente della tua quotidianità; e intendo, per consuetudine verso l’ambiente teatrale, non soltanto il fatto che tu frequenti il teatro quotidianamente, ma soprattutto il fatto che a quell’ambiente appartengono le persone con cui da molto tempo tu vivi, con cui condividi la casa, il mangiare e tutti i gesti e le contingenze minime della quotidianità. In questo modo il teatro non è un fatto d’eccezione e nemmeno la condizione un po’ strana e poco condivisa di qualche attore o operatore teatrale; ma è un fatto normale, è, diciamo, il tuo mondo…

Fausto Paravidino
Credo che quello che manca alla cultura teatrale italiana sia la normalità del teatro, che, per dire, in Germania o in Gran Bretagna è abbastanza assodata. In Italia invece il teatro è sempre un evento: o è un evento spettacolare, o è un evento culturale, ma è pur sempre un evento. Questo gli mette addosso un carico di ansia, che non gli permette mai di essere considerato un gioco. Stando tra attori, invece, ogni sera è commedia...

Concetta D’Angeli
Passiamo all’altro aspetto difficile da gestire in una drammaturgia “complessa”, quale è quella che tu pratichi, con testi lunghi e strutturati in atti o almeno in scene, con diversi personaggi, con passaggio del tempo, eccetera. Vorrei parlare un po’ dello spazio nel testo di teatro.

Fausto Paravidino
Quando ho cominciato a scrivere, lo spazio mi dava un po’ di problemi. Mi dava problemi anche il numero dei personaggi, che volevo contenere per ragioni economiche, in vista dell’allestimento, ma mi mancava un salto di fantasia verso le forme semplici. La soluzione che ho trovato all’inizio è stata di inserire i personaggi e le storie in un ambiente unico, come ho fatto con Gabriele e 2 Fratelli. Di solito l’ambiente unico era una cucina; sicchè, quando ho capito che stavo diventando “quello delle cucine”, ho cercato di uscire da questo ruolo. Ma il rischio è rimasto, anche ne La malattia della famiglia M., per esempio, a proposito della quale mi ero detto: “Facciamo che non sia una cucina, ma una specie di ingresso”. Più tardi sono riuscito a contaminare l’ambiente unico degli inizi con un paio di altri ambienti al massimo, mentre adesso sto acquisendo un po' più di libertà nei confronti degli spazi. Però lo spazio resta un problema per me. Il fatto è che o la vicenda è semplicemente ambientata in teatro, ma allora non si fa finta di essere da un’altra parte e è abbastanza semplice; oppure m’accorgo che un ambiente unico mi basta. D’altra parte, mi pare che nella mia scrittura sono già molto libero riguardo all’azione, che non sempre è ordinata, visto che mi piace raccontare tante cose. Per quanto riguarda il tempo, mi diverto ad andare su e giù e non rispetto nessun ordine… Se resiste almeno il vincolo spaziale, non mi dispiace: è come una piccola regola esterna. Lo so che non ce ne sarebbe bisogno e che in qualche modo è inutile; però diciamo che mi impongo questa regola per limitare una libertà che rischia di essere eccessiva, e voglio questa autolimitazione perché mi pare che così la creatività si sviluppa meglio.

Concetta D’Angeli
Ti dai questa piccola regola esterna anche per favorire la comprensione del pubblico, perché ti pare che, se gli presenti un contenitore unico, non gli confondi troppo le idee?

Fausto Paravidino
Un po’ sì, dato che anche a me, come spettatore, fa piacere quando i posti sono ben riconoscibili. Ogni spazio lo devi raccontare bene, dato che lo spazio parla molto. In questo senso lo spazio assomiglia ai personaggi: anche i personaggi li devi raccontare bene: e sai, tre personaggi si riesce a raccontarli bene, sette è già più difficile, per raccontarne quindici servono parecchi atti, altrimenti i personaggi finisce che te li perdi per strada. Per lo spazio vale la stessa cosa: lo spazio è, per certi versi, un personaggio ed è un personaggio abbastanza forte, per cui ha bisogno di tempo, va presentato bene; per di più, visto che io credo più nella situazione che nella volontà dei personaggi e la situazione è molto legata allo spazio, spesso le mie commedie sono la storia di uno spazio e la soggettiva è quella del luogo: in particolare questo vale per 2 Fratelli e Gabriele.

Concetta D’Angeli
Che ruolo ha nella tua scrittura la psicologia, la rappresentazione delle identità psichiche dei personaggi? Te lo domando perché i tuoi personaggi hanno indubbiamente un linguaggio che è sempre un segnale forte della loro dimensione psichica, però sono molto incardinati alle situazioni, e quindi riesce difficile pensarli come entità psichiche astratte. Quello che mi piacerebbe sapere è come ti appaiono questi personaggi quando incominci a farne parlare uno, a dare la vita a uno di loro.

Fausto Paravidino
Nascono privi di psicologia: prima parlano, poi pensano. Generalmente io prima scrivo, poi, alla fine, vedo che cosa quel personaggio voleva dire.

Concetta D’Angeli
Ma questi personaggi hanno una loro coerenza per te, nel momento in cui parlano? Voglio dire: ti senti obbligato a farli comportare in relazione al modo in cui parlano? Compiono già delle scelte, fin dal loro primo delinearsi, scelte che poi ti si impongono quando articoli meglio le loro esistenze?

Fausto Paravidino
Principalmente mi si impongono; poi succede che di solito litighiamo, ma alla fine gliela do vinta quasi sempre. Nella maggior parte dei casi inizio a scrivere e non so mai come va a finire la commedia: scrivo una prima scena, poi faccio una scaletta ipotetica delle successive; a quel punto scrivo la seconda, la terza, ma a quel punto m’accorgo che la scrittura va prendendo una direzione autonoma, che non ha niente a che vedere con la scaletta. Allora mi chiedo: "Correggo la scaletta o correggo le scene?" In genere correggo la scaletta, perché di solito sono i personaggi che hanno ragione. Così, rifaccio una scaletta sulle prime tre scene, su come la storia può andare a finire o come può andare avanti rispetto alle prime tre scene. Poi succede che arrivo alla quinta, e la scaletta va rifatta completamente. Molto spesso io non so come andrà a finire la storia fino a quando arrivo alla penultima scena. 2 Fratelli, per esempio, doveva essere un colosso, una commedia in tre atti con nove personaggi.

Concetta D’Angeli
Nella scaletta originaria?

Fausto Paravidino
Sì, nell’idea originaria: nella prima scena pensavo di presentare due personaggi, poi entra Boris, che è il terzo… Pensavo che a ogni scena entrasse un nuovo personaggio, e invece mi sono fermato a tre perché ho visto che il dramma c’era già, che i tre personaggi avevano da macerarsi per i fatti loro; e a quel punto ho detto “Maceratevi!” e non ho fatto entrare nessun altro.

Concetta D’Angeli
Spesso si ha l’impressione, a leggere i testi teatrali, di una conflittualità tra l’autore e i suoi personaggi, quella che, per esempio, Pirandello ha raccontato, fra l’altro, nella Prefazione ai Sei personaggi in cerca d’autore: i personaggi e l’autore si odiano, si cercano, si perseguitano ecc. Adesso anche tu racconti la storia di un conflitto, almeno in parte perché tu dai sempre ragione ai tuoi personaggi e Pirandello no.

Fausto Paravidino
Sì, do sempre ragione ai personaggi, così come non prendo posizione, in linea di massima, sulle storie e sulle ragioni parziali dei personaggi. Il conflitto per me riguarda i personaggi, che sono in tensione fra loro. Penso che senza conflitto non c’è teatro, ma io non entro mai a quel livello nel gioco conflittuale che coinvolge i personaggi: mi limito a prestare pezzetti di me un po’ all’uno e un po’ all’altro personaggio. E questo vale anche per i testi che ho scritto dopo Gabriele, quando ho smesso di pensare, mentre scrivevo, “io e gli altri” e mi sono messo a lavorare su personaggi immaginari. Anche a loro presto parti di me: mi faccio a pezzetti e mi infilo un po’ in tutti loro.

Concetta D’Angeli
E se il conflitto che si crea fra loro va verso direzioni che non ti sembrano interessanti o verso soluzioni che non ti piacciono, in che misura intervieni a orientarlo, al di là delle strategie della scrittura?

Fausto Paravidino
Be’, se succede una cosa di questo genere, è un grosso rischio, che mi impedisce di andare avanti a scrivere la commedia e mi fa proprio fermare. Adesso, per esempio, è un anno e mezzo che sono fermo.

Concetta D’Angeli
Per questo motivo?

Fausto Paravidino
Mi succede che scrivo tantissime prime scene che mi sembrano molto interessanti; però poi mi accorgo che non reggono le scene successive, e allora la scrittura si ferma. In questo senso dicevo che la scrittura teatrale per me è una scommessa. Ma non conosco particolari trucchi per riuscire a pilotare i personaggi. Se loro vanno in una direzione che non mi interessa, devo abbandonare la commedia.

Concetta D’Angeli
Quale è il punto di partenza della tua scrittura?

Fausto Paravidino
Di solito parto da un’immagine...

Concetta D’Angeli
... Che può essere anche un ambiente: nella Malattia della famiglia M, per esempio, è certamente un ambiente...

Fausto Paravidino
Sì, era un ambiente; poi c’era l’immagine di due donne, che però erano avvolte in una specie di nebbia; poi c’era un ragazzo che mi era molto simpatico, e poi c’era un vecchio. Insomma, la prima immagine ne provoca altre. Se sono fortunato, le immagini provocate dalla prima sono per me emotivamente all’altezza della prima; se invece sono sfortunato, sono immagini banali, sempliciotte, che non riescono a trasformarsi in commedia. E’ quello che mi sta succedendo adesso: ho immagini di partenza che mi divertono molto ma non riescono a mettere in moto un meccanismo che mi piaccia.

Concetta D’Angeli
Dunque si tratta di immagini e di personaggi. Il caso di Genova 01 è a sé però...

Fausto Paravidino
Be’, sì, quello è un caso particolare. E poi lì non ci sono i personaggi, o meglio i personaggi sono persone reali.

Concetta D’Angeli
All’altezza di Genova 01 tu ti sei interamente distaccato dall’autobiografismo- ammesso che un teatro si possa mai definire autobiografico…

Fausto Paravidino
Può essere vagamente autobiografico: per esempio, può esserci un personaggio autobiografico, ma uno per volta, non più di uno, altrimenti si creerebbe un dibattito finto.

Concetta D’Angeli
Certo: sarebbe un dibattito tutto interno all’autore, per il quale si potrebbe parlare anche di psicosi, di schizofrenia. Però la tua capacità di rappresentare te stesso o quelli che in qualche modo intersecano la tua esperienza, i ragazzi della tua generazione, o quelli che fanno il tuo mestiere, gli attori cioè, e insomma tutti quelli che frequentano il tuo ambiente - ecco, questo è un fatto indiscutibile, e i critici lo registrano con gioia, soprattutto in un autore teatrale emergente ….

Fausto Paravidino
Loro sono tutti felici di inquadrare! I critici fanno i quadri...

Concetta D’Angeli
“Questo autore ci racconta in teatro la sua generazione!” Mi pare che a te questa etichetta dia fastidio.

Fausto Paravidino
Sì, un po’ sì.

Concetta D’Angeli
Ti infastidisce perché la ritieni falsa o in nome di una specificità che ti senti addosso e che non vuoi che sia confusa con le etichette?

Fausto Paravidino
La ritengo per lo meno un limite da sfidare. E’ normale che, quando ho iniziato a scrivere, mi fosse più facile scrivere di maschi ventenni che vivevano negli anni ’90; ma lo fai una volta, lo fai due, e poi ti dici “Non puoi mica essere sempre questo”. Adesso lascio da parte Trinciapollo, che infatti anche nel volume di Ubulibri è lasciato da parte.

Concetta D’Angeli
Trinciapollo è il primo testo che hai scritto. Stai dicendo che lo rinneghi?

Fausto Paravidino
No, non è che lo rinnego, ma gli mancava qualcosa che dopo c’è stato. Trinciapollo era una bella storia, la storia più bella che ho raccontato, però era "a protagonista": al centro c’è un protagonista con un carattere ben preciso, una psicologia molto interessante, e poi una caterva di personaggi che gli girano intorno, ma che sono un po’ sue funzioni, fatti per metterlo in situazioni dove lui possa venire fuori. E’ questo che non mi piace tanto. Gabriele e 2 Fratelli, che sono la seconda e la terza opera che ho scritto, hanno qualcosa di molto simile, sebbene la prima sia palesemente una commedia e la seconda sia palesemente una tragedia; ma li accomuna un denominatore forte, cioè la stessa collocazione in una cucina e lo stesso ambiente umano. Anzi, si potrebbe dire che i personaggi di 2 Fratelli sono un cocktail dei personaggi di Gabriele: di cinque, come erano in Gabriele, ne ho fatti due. Nel testo successivo, La malattia della famiglia M., mi sono dato due compiti in particolare: per prima cosa, uscire dalla cucina (ma in Gabriele e in 2 Fratelli avevo proprio voluto fare una sfida a me stesso), e per seconda cosa, riuscire a descrivere un personaggio anziano, ossia un personaggio di tutt’altra generazione che ovviamente si sarebbe portato dietro, a sua volta, un mondo. Si tratta di Luigi, il vecchio padre rimbambito. Ah, mi ero dato anche un altro compito: introdurre almeno due personaggi femminili e fare in modo che parlassero tra di loro, che cioè riuscissero (cosa difficilissima per me) a parlare tra di loro senza un testimone maschile.

Concetta D’Angeli
Questo mi incuriosisce: a te riesce difficile dare vita a un personaggio femminile perché trovi che ci sia una grande differenza tra il tuo modo di rapportarti a personaggi maschili e a personaggi femminili?

Fausto Paravidino
Più che differenza, c’è imbarazzo; i personaggi maschili possono parlare e ragionare tutti come ragionerei io, anche se con qualche piccolo scarto. Per una donna invece provo imbarazzo, non oso...

Concetta D’Angeli
Ti pare proprio un’alterità?

Fausto Paravidino
Sì, in un certo senso, mi sento troppo esterno. Sai, molte attrici vorrebbero che scrivessi personaggi femminili, c’è molta richiesta in questo senso, e dunque mi immagino che ci sarebbe anche molta indulgenza se io facessi degli errori; però prima non me la sentivo di mettermi a questa prova. Ho finalmente rotto questo muro con la madre di Natura morta in un fosso, ma mi sono dovuto fare violenza per permettermi di scrivere battute del tipo (quando la madre sa che la figlia è morta): "Sento qualcosa rompersi di botto dentro di me, come se improvvisamente mi stessero venendo le mestruazioni”. Su questa battuta la mia fidanzata, quando ha letto la commedia, si è messa a ridere e mi ha detto: “Ma cosa ne sai, tu, di che stai parlando?” Però funziona; mentre facevamo le prove, l’attrice mi ha detto che veramente ha avuto quella sensazione lì, quando è morto suo fratello, o sua madre. Insomma, ho rotto un muretto...

Concetta D’Angeli
Credo che non sia per niente facile dare voce a una madre nel momento in cui apprende la morte della figlia. Sottolineo come un segno di sensibilità gli scrupoli e le difficoltà che tu hai avuto nel farlo, perché in genere invece è consueta la presunzione maschile di esprimere la alterità femminile, senza porsi nessun problema, anzi senza sospettare nemmeno che ci possa essere un problema. Almeno la consapevolezza che un problema ci sia mi sembra altamente significativa, se non altro, di sensibilità e attenzione.

Fausto Paravidino
Io questo problema l’ho anche sofferto in prima persona: ho beccato parecchie accuse di misoginia, per un lungo periodo.

Concetta D’Angeli
Per il fatto che non davi spazio ai personaggi femminili?

Fausto Paravidino
No, per come erano fatti i personaggi femminili di Gabriele e soprattutto di 2 Fratelli.

Concetta D’Angeli
In effetti la ragazza di 2 Fratelli è un po’ cattiva...

Fausto Paravidino
Be’, lei, Erica, li divide, i due fratelli, e li fa diventare matti; e loro non trovano altra soluzione che accopparla. Però la colpa di questa soluzione è la loro, non è la mia! E poi Erica è un personaggio reale: dei tre personaggi di 2 Fratelli solo lei è reale, referenziale, perché, per scrivere una donna, dovevo riferirmi a un personaggio vero. Lei, la Enrica reale, la conosco bene e, grazie a Dio, non l’ho accoppata, anzi l’ho scritta perché le volevo bene. Altro che misoginia!

Concetta D’Angeli
Poco fa tu hai detto che tendi a mettere tra parentesi la dimensione psichica; ma poi i tuoi testi, per esempio 2 Fratelli, configurano delle storie psicologicamente molto definite. In questo caso si tratta di una vicenda di grande sofferenza psichica: due fratelli chiusi dentro un mondo solo loro, che si rispecchiano l’un l’altro...

Fausto Paravidino
In 2 Fratelli, se vogliamo essere schematici, sono presentati tre malati, che hanno malattie diverse, ma sono comunque tre malati.

Concetta D’Angeli
Ieri, durante l’incontro con gli studenti, hai accennato a un discorso che adesso mi piacerebbe riprendere: la vicinanza o la possibilità di integrazione tra il linguaggio teatrale e quello cinematografico. Il discorso mi pare tanto più interessante in quanto tu fai anche cinema e televisione e quindi usi tutti questi linguaggi. Hai voglia di parlarmene un po’ meglio?

Fausto Paravidino
Rispetto al teatro, il cinema ha bisogno di meno parole, perché con le immagini si può raccontare molto. In teatro invece credo che servano parecchie parole in più: al cinema il montaggio integra molto il dialogo, che invece in teatro si manifesta nella sua forma pura.

Concetta D’Angeli
Però anche in teatro puoi fare uno spettacolo senza parole, un teatro d’azioni...

Fausto Paravidino
Puoi fare, sì, un teatro d’azioni, però io non riesco a sottrarmi all’idea di un teatro mimetico, né d’altra parte all’idea di un cinema mimetico. Per me il gioco è rappresentare com’è reale la realtà e non inventarne un’altra; inventarne un’altra non mi interessa, mi piace fare le foto con la miglior messa a fuoco possibile, lavoro su questo. In un certo senso, sono pseudo-documentarista: la priorità è documentaristica, poi il gioco consiste nel montaggio, sia a teatro sia al cinema, consiste nella ricerca mimetica. Il teatro si esprime soprattutto tramite il dialogo. Pensa un po’: quanto può reggere, in teatro, un personaggio solo, che non parla, perché quando siamo soli in genere non parliamo, quanto a lungo può tenere la scena? A un certo punto nessun pubblico resisterebbe più, perché a teatro ci deve essere un dibattito tra le persone per permettere di comunicare qualcosa anche al pubblico; al cinema invece un personaggio può stare in solitudine e in silenzio per un sacco di tempo. Un’altra differenza è che in teatro non basta usare il dialogo, ma gli si deve dare una sfumatura: per esempio, se un personaggio è stato leggermente ferito, in teatro il modo più sintetico per raccontarlo è una battuta che non sia esplicitamente: “Sono ferito” ma, per esempio: “Vado a comprare il latte”, che nello stesso tempo denunci il ferimento. Al cinema il modo più sintetico per raccontare questo fatto è un primo piano.

Concetta D’Angeli
Quindi la differenza consiste in una preferenza per l’immagine, che il cinema consente e il teatro molto meno.

Fausto Paravidino
Diciamo che l’immagine è più espressiva. Però per me si tratta di semplici sfumature: io non trovo enormemente diversi i due linguaggi.

Concetta D’Angeli
Scusa la domanda stupida: perché allora scrivi per il teatro e non per il cinema? Non è economicamente più vantaggioso scrivere per il cinema?

Fausto Paravidino
No, nel complesso scrivere per il cinema è più svantaggioso: se tu scrivi una commedia, il mese dopo cerchi quattro amici e la porti in scena; se scrivi un film, quando ti riesce di realizzarlo?

Concetta D’Angeli
Tu ti pensi sempre anche come colui che, prima o poi, realizzerà le cose che scrive?

Fausto Paravidino
Io nasco come attore e, quando ho cominciato a scrivere commedie, sono stato spinto dalla speranza di poterle mettere in scena insieme ai miei amici: anche perché la ricerca sulla scrittura si accompagna a una ricerca sul linguaggio teatrale in senso più lato. Questo aspetto del mio lavoro non lo voglio perdere: a volte fanno degli allestimenti delle mie commedie che non mi piacciono per niente. D’altra parte, io ho un interesse per un certo tipo di forme che voglio sperimentare su tutti i fronti e in tutti i tipi di possibilità. Comunque ho appena scritto un film.

Concetta D’Angeli
E lo realizzerai, anche?

Fausto Paravidino
Sì, lo faccio, l’anno prossimo.

Concetta D’Angeli
Ed è?

Fausto Paravidino
È un colossal. Il tipo di macchinario che ti offre il cinema è molto utile per partire dalla location e raccontare molto bene un posto, che è, come ti ho detto, il consueto punto di partenza per me. Questo film è appunto il tentativo di raccontare un luogo, che poi è la stessa pseudo-campagna di La malattia della famiglia M. Volevo arricchire l’ambiente che ho descritto nella commedia, mostrarlo insomma, oltre che farci parlare dentro dei personaggi. Così ho un po’ espanso quel concetto, mettendo a fuoco diverse locations significative di quel posto, e quaranta personaggi parlanti.

Concetta D’Angeli
Tantissime storie!

Fausto Paravidino
Il cinema è un contenitore che accetta più elementi rispetto al teatro, non ha lo stesso bisogno di unità d’azione. L’unità d’azione al cinema può essere anche la fotografia, o lo stile di ripresa…

Concetta D’Angeli
E non ha bisogno di tutta la sintesi di cui ha bisogno il teatro.

Fausto Paravidino
Verissimo, non ha bisogno di quella sintesi.

Concetta D’Angeli
Vorrei restare un po’ su questo punto della scrittura. Tu scrivi sempre da solo, a parte l’esperienza di Gabriele?

Fausto Paravidino
Gabriele non è l’unica eccezione. A questo proposito ti vorrei raccontare di una scrittura singolare e molto bella che mi è capitato di fare. Tempo fa ho guidato uno stage a Castrovillari: c’erano i lavoratori del paese, gente molto semplice, parecchi di loro erano proprio analfabeti e per questo erano sempre stati esclusi dai laboratori. Ma loro hanno detto “Quest’anno ci proviamo anche noi!” E’ stata per me un’esperienza molto importante.

Concetta D’Angeli
Avete scritto qualcosa insieme?

Fausto Paravidino
Sì: per motivare lo stanziamento finanziario del Comune bisognava, alla fine, anche fare un piccolo saggio di messinscena, e siamo riusciti persino a fare questo saggetto.

Concetta D’Angeli
E loro hanno anche recitato?

Fausto Paravidino
Sì, hanno scritto e recitato. Ecco, questa è stata una collaborazione di scrittura molto emozionante.

Concetta D’Angeli
Ci sono due punti della nostra conversazione che finora abbiamo toccato molto rapidamente e che mi piacerebbe approfondire: uno riguarda il linguaggio delle tue opere, che appare così naturale, così dinamico e fluido… E’ una caratteristica abbastanza singolare per l’italiano scritto, che è una lingua rigida e sostanzialmente artificiosa. E poi mi piacerebbe parlare del monologo, o meglio della tendenza di molta parte del teatro contemporaneo, almeno qui in Italia, a diventare monologo. Il monologo è una forma legittima e anzi molto interessante di scrittura teatrale, però mi sembra che adesso stia strozzando un po’ il teatro.

Fausto Paravidino
Sono d’accordo: lo sta ammazzando. Tu quali pensi che siano le ragioni?

Concetta D’Angeli
Quella economica mi sembra la più evidente ma credo che non sia la principale e nemmeno la più rilevante. E tu che ragioni trovi?

Fausto Paravidino
L’individualismo. Voglio dire: non solo il narcisismo degli attori, quello c’è sempre stato. Io parlo della cultura dominante, dell’organizzazione della società: è il nostro concetto di realizzazione che ormai è sempre più legato all’io. Oggi non esiste una realizzazione legata alla collettività: non esiste realizzazione nel fare del bene, per esempio, meno che mai nel trionfo politico di una qualche idea, e in genere nella comunità. E’ diventato imperativo essere fuori dal coro. Ma perché, dico io? Se il coro canta bene, stai dentro il coro! Oppure, se lo sai fare, insegna al coro a cantare meglio. Guarda che succede in teatro: se un attore comincia ad avere dei riconoscimenti personali, immediatamente si precipita a liberarsi della compagnia e mettersi da solo. Potrei fare molti esempi, ma non voglio parlar male di nessuno: il meccanismo però è sempre quello. Oggi a uno scrittore di teatro tutti chiedono monologhi...

Concetta D’Angeli
Alcuni monologhi però (pensa a Ascanio Celestini) sono delle storie...

Fausto Paravidino
E’ vero, ma non è un caso che Ascanio non venga dal teatro: lui non è un attore che un giorno ha deciso di mettersi in proprio. Lui è uno studioso che si è messo a raccontare quello che studiava, e così è arrivato al teatro. Per lui sì che sarebbe innaturale fare compagnia.

Concetta D’Angeli
Insomma vuoi dire che la linea epico-narrativa dei monologhi è un’altra cosa rispetto ai monologhi che si vanno affermando nel teatro contemporaneo, e dei quali tu parlavi... In effetti anch’io penso che esistano diversi tipi di monologo, che andrebbero distinti perché sono davvero molto diversi fra loro.

Fausto Paravidino
Be’, certo, bisognerebbe almeno distinguere fra monologo e racconto.

Concetta D’Angeli
Anche perché il monologo come racconto, il monologo narrativo diciamo così, ingloba una pluralità di voci, almeno in molti casi. Mentre il monologo contro il quale tu polemizzi ha l’aria di essere una voce spuria, che nasce sì all’interno del teatro ma poi ne contraffà i caratteri. E’ così?

Fausto Paravidino
Certo. Pensa a quello che è successo, nel tempo, quando si è trattato di adattare un romanzo al teatro, per esempio. Mezzo secolo fa si sarebbe fatta una commedia o un dramma in vari atti, con i personaggi principali e “alcune guardie e alabardieri”; una trentina di anni fa si sarebbero cercate scene del romanzo particolarmente forti da rappresentare ad opera di una grande compagnia. Adesso vengono recitati i brani celebri, affidati a un solo attore, e si tende all’accorpamento dei diversi punti di vista... Succede addirittura che, se viene messa in scena una tragedia greca, il coro viene interpretato da un solo attore, una singola voce! Genova 01, che è un testo senza personaggi, vorrei che fosse recitato da migliaia di persone; e invece tutte le compagnie che lo mettono in scena pretenderebbero di ridurlo a un monologo. Ma allora diventa un comizio!...

Concetta D’Angeli
Invece è vero che in Genova 01 c’è, oltre al ritmo, un ricco movimento di piani: c’è una prospettiva, una pluralità di voci e di punti di vista, e una profondità che nel monologo si perdono. E è vero che, se ne affidi la recitazione a una singola voce, il dinamismo si perde. D’altra parte, non è facile conservarlo. Però non è facile nemmeno conservare la profondità che c’era nel coro della tragedia greca: come rappresentare oggi il coro, se si vuole mettere in scena una tragedia classica, è un rompicapo per moltissimi registi.

Fausto Paravidino
Chi erano ‘sti matti che parlavano tutti insieme? E’ questo, no?, il problema; e è difficile da capire e da risolvere. Ma sono convinto che varrebbe la pena di studiarlo anziché ridurlo alla semplificazione della singola voce recitante. Già Shakespeare aveva fatto l’operazione di ridurre il coro a un singolo interlocutore, ma non è un caso che in Shakespeare venga fatto esprimere come singolo personaggio. Certo, il coro greco è anche, in certi casi, interlocutore, ma parla a nome di, rappresenta una società, non ha sentimenti personali, a parte alcune concezioni religiose e etiche, che sono ampiamente condivise dalla comunità e poi sono diventate anche fede individuale. In ogni caso, il coro greco non è individualista: parla a nome di un popolo e esprime le idee della collettività di cui fa parte e in cui ogni singolo si identifica, mai un punto di vista personale.

Concetta D’Angeli
Insomma, a te pare che oggi il teatro rispecchi con evidenza una condizione di isolamento individualistico che è molto forte nella realtà.

Fausto Paravidino
Sì, rispecchia la trasformazione della cultura in una zona di individualismo spietato. Negli anni ’60-’70, se tu non eri parte di un collettivo, non eri nessuno: dovevi aderire a un collettivo per avere senso come artista. C’erano solo il Living Theatre e gli imitatori; la personalità non esisteva, esisteva il gruppo, e l’espressione del gruppo costituiva anche la personalità individuale. Adesso tutti hanno bisogno di auto-affermarsi. Come ti ho già detto, a me chiedono spessissimo, adesso che sono famoso, gli attori di scrivere per loro dei monologhi, e gli operatori teatrali di andare a recitare monologhi. Ma io non ho nessun monologo da fare! Ti assicuro che mi offrono un sacco di soldi per andare a fare dei recitals, ma quello non è il mio lavoro. Potrei farli, certo, li farei bene o male, non lo so; ma non mi piace, mi annoia, non è un tipo di ricerca che mi interessi. A me piace fare compagnia.

Concetta D’Angeli
Forse nella tendenza individualista che tu individui nel monologo drammatico si manifesta non solo l’individualismo concorrenziale che caratterizza la società, ma anche una tendenza, se non proprio esibizionistica, almeno autobiografica dell’autore. Che ne dici?

Fausto Paravidino
Penso che gli scrittori di teatro ci vadano a nozze con i monologhi. Parlo però dei drammaturghi di basso profilo, perché quelli di alto profilo non se lo pongono neppure il problema se fare un monologo o un testo più articolato: fanno un monologo solo se gli viene. Ma dico che in linea di massima col monologo gli scrittori ci vanno a nozze perché, anche se un monologo è in genere brutto da vedere sul palcoscenico, è però anche la cosa più facile da scrivere. Se scrivi un monologo, in sostanza tu scrivi le tue opinioni, scrivi come pensi e come senti, non hai la seccatura di doverti inventare un personaggio che può darsi anche che si metta a darti contro, con lo scopo di tirarti fuori le idee, in maniera maieutica, oppure di contrastare le tue idee.

Concetta D’Angeli
Tu scrivi per il teatro, scrivi per il cinema… All’inizio accennavi anche a un testo scritto per la radio…

Fausto Paravidino
E’ l’ultima cosa che scritto: un radiodramma che si intitola Messaggi.

Concetta D’Angeli
Nella scrittura che differenza c’è quando si scrive un radiodramma?

Fausto Paravidino
Avrei potuto non fare nessuna differenza e fare quello che si fa di solito, cioè lavorare coi tagli: portare a un’ora una commedia preesistente, per poi registrarla (e mi sarei anche risparmiato del lavoro). Però a me interessava soprattutto giocare con la radio, che, per certi aspetti, ha un sacco di possibilità in meno rispetto al teatro, ma anche tante possibilità in più. Mi sono divertito molto a confondere i piani: per esempio, rispetto al teatro, puoi fare benissimo una confusione tra le soggettive e le oggettive. Gli a-parte in radio, infatti, non comportano problema: un personaggio può parlare con gli altri personaggi e poi mettersi a parlare con gli spettatori, senza stacchi. Anche per quanto riguarda gli ambienti, in radio puoi fare tutto quello che si fa al cinema, soltanto che lo fai in dieci minuti e senza nessun costo aggiunto. Io trasformavo spesso un ambiente in un altro ambiente, in soggettiva; potevo seguire i personaggi e farli spostare di qua e di là, come per magia; mi era possibile inserire tantissimi flashes-back e passare dalla situazione in diretta al flash-back soltanto cambiando l’ambiente, modificando il sottofondo musicale ecc. Anche per gli attori è comodissimo perché recitano il flash-back in diretta, ma rimanendo legati. Per esempio, in un dialogo un personaggio dice: “E poi quella volta è successo che…”, e continua a parlare mentre al microfono si aggiungono gli attori del flash-back. Così si riesce a tenere insieme tutti i piani che si vogliono far interferire: questo al cinema (in teatro poi non ne parliamo!) si realizza con molta fatica, dal momento che c’è continuità di narrazione anche quando ci si riferisce al passato. In radio invece basta che ti limiti a cambiare il sonoro, e il flash-back si fa riconoscere con tutta evidenza - anche se, dal punto di vista tecnico, lo hai fatto in diretta. In genere mi sono divertito molto a trovare le trappolette sonore, anche se è stato un po’ difficile il lavoro con i tecnici, che sono abituati a quella che, in qualche modo, hanno fatto propria come la loro tradizione: io continuavo a chiedere un sacco di cose che per loro erano errori: “No, questo è un errore, non si può fare!”. Ad esempio quella che io chiamavo “dissolvenza in nero” (l’espressione vale per le immagini, in radio equivale ad andare a silenzio) è vietatissima; ma proprio perché sono vietati, i silenzi in radio sono una cosa molto forte ed è perciò che li volevo utilizzare e mi servivano moltissimo. I tecnici però erano terrorizzati e cercavano di riempire i silenzi in tutti i modi: “Magari mettiamo una musichetta”… Ma allora non sarebbe stato più silenzio!

Concetta D’Angeli
Mi dici qualcosa di più delle trappolette tecniche di cui parlavi?

Fausto Paravidino
Mah, cose molto semplici: mettere il silenzio, trasformare un ambiente, passare dal racconto al raccontato in un tempo e in una collocazione che è dichiaratamente poco probabile…Durante la registrazione tutti gli attori avevano una zona dove giocavano, con la consapevolezza di essere attori contemporaneamente e personaggi chiamati a parlare in radio. Questo era molto divertente. Ad esempio c’era uno che insultava i suoi genitori e diceva: “Vorrei chiarire, una volta per tutte, che io con la mia famiglia non ho niente a che fare; l’ho rinnegata e non ne provo nessuna vergogna, anzi approfitto dell’occasione e in particolare approfitto della terza emittente radiofonica di Stato per sottolineare la mia estraneità alla mia famiglia”. Mi divertiva molto l’outing del personaggio.

Concetta D’Angeli
Prima di concludere, vorrei chiederti qualcosa a proposito di un punto che finora abbiamo trascurato ma sul quale, come ti dicevo prima, mi piacerebbe sapere il tuo parere: sto parlando del linguaggio dei tuoi testi. La critica dice che tu rappresenti i giovani, e quindi anche il loro linguaggio. Questa etichetta, come hai già dichiarato, ti dà fastidio; però è vero che, quando nei tuoi testi i personaggi parlano, in genere parlano il linguaggio dei giovani. Veramente, se devo dire come pare a me che stiano le cose, io non trovo che i tuoi personaggi teatrali usino il linguaggio mimetico, naturalistico e spontaneo che sembrerebbe ad un primo ascolto...

Fausto Paravidino
In effetti è un linguaggio più letterario di quello che sembra: non ci sono modi di dire desunti dalla televisione, che è quello che rende il linguaggio parlato dai giovani troppo deperibile, esposto a un invecchiamento troppo rapido e troppo soggetto alle mode... Se si scrive attenendosi troppo alle mode, dopo un anno le commedie che scrivi non le capisce più nessuno... Già togliendo la patina televisiva, il linguaggio si scarnifica, perde il suo barocchismo, che è una componente molto forte nel parlato quotidiano, ma è una specie di automatismo linguistico acritico, al quale il linguaggio dei giovani soggiace parecchio. Allora, se io voglio comunque scrivere in modo barocco, bisogna che vada a cercarmi il barocchismo in un’altra dimensione o me lo costruisca in un altro modo. Spesso poi io utilizzo battute di teatro o di cinema che hanno scritto altri e le intreccio con le mie: in Gabriele, per esempio, ci sono parecchie battute di Beckett, “a tradimento”. Oppure cerco di far diventare lessico nazionale un modo di esprimersi nato come lessico ristretto di una compagnia di tre o quattro amici. Se poi quei tre o quattro amici che mi hanno ispirato nella scrittura siamo noi stessi che recitiamo il testo, è più facile che il lessico privato diventi di dominio collettivo; se invece recitano il testo altre compagnie, alcune battute sono per loro indecifrabili, perché sono davvero legate alle nostre vite, sono private...

Concetta D’Angeli
Nel tuo linguaggio io notavo anche un ritmo musicale, che lo struttura: questo è particolarmente avvertibile in Genova 01.

Fausto Paravidino
Io credo molto nella musica, sono convinto di scrivere in versi sciolti. Genova 01 volevo scriverlo tutto in endecasillabi: non l’ho fatto perché non avevo abbastanza tempo, ma comunque ho seguito un ritmo, ho finito per assecondare la musica che sentivo in quel momento. Penso anch’io che, soprattutto in quel testo, il ritmo sia molto percepibile.

Concetta D’Angeli
Sì, è molto percepibile; e anche questo differenzia il tuo linguaggio dal parlato, che non obbedisce di solito alle ragioni musicali del linguaggio.

Fausto Paravidino
Certo! Io invece questa attenzione alla musicalità ce l’ho fortissima, anche come attore. Seguo in questo le indicazioni di Carlo Cecchi, uso anch’io il metronomo... La musicalità è molto evidente anche in Natura morta, e in genere là dove il dialogo interferisce meno, perché succede in genere (ma non necessariamente) che il dialogo tenda a spezzare la musicalità. L’attenzione alla musicalità è presente per me sia quando scrivo sia quando recito; ma devo precisare che io non scrivo mai recitando a voce alta quello che scrivo mentre lo scrivo. Scrivo in silenzio perché, se mi mettessi a dire a voce alta le battute, rischierei di assecondare i miei limiti di attore, di farmi un testo su misura per me. Se una battuta non mi viene, a me come attore voglio dire, rischio di eliminarla nella scrittura; ma la verità non è che quella battuta non è giusta drammaturgicamente ma che cozza contro un mio limite di attore.

Concetta D’Angeli
Un’ultima domanda, stavolta è proprio l’ultima: l’influenza del teatro inglese la consideri molto importante per la tua scrittura?

Fausto Paravidino
Sicuramente, è un’influenza davvero fondamentale. A dire la verità, non so se è direttamente il teatro inglese oppure il cinema americano; ma quest’ultimo, a sua volta, è influenzato dal teatro inglese, perciò non so esattamente quale sia il giro che ha fatto. Comunque l’influenza del mondo anglosassone è indiscutibile e, credo, molto riconoscibile.


 


 

Le voci e i personaggi
Suggestioni teoriche dal «caso Paravidino»
di Concetta D’Angeli

 

I testi di Fausto Paravidino, a prescindere dai loro meriti artistici, contengono numerosi motivi di interesse e di riflessione per chi voglia occuparsi di strategie drammaturgiche, oltre che delle attuali tendenze della scrittura teatrale in Italia.
Una caratteristica che colpisce alla prima lettura è che si tratta di testi con una struttura complessa: pur attraverso la molteplicità delle soluzioni trovate, è evidente che in primo piano stanno sia il problema dell’architettura testuale sia il problema della gestione del tempo, e cioè i nodi coi quali la drammaturgia teatrale ha dovuto fare i conti da Aristotele in giù. Paravidino infatti non sceglie la destrutturazione del testo drammatico né la soluzione epico-narrativa del racconto affidato a una sola voce narrante. Con le sue prime opere, Trinciapollo1 e Gabriele, si mette anzi dentro il solco della tradizione classica, a cominciare dalla scelta di riproporre la divisione in atti. E’ una presa di posizione significativa soprattutto per quanto riguarda l’amministrazione del tempo teatrale, che all’inizio egli sceglie di mostrare secondo una scansione lineare e progressiva, anche in questo caso facendo propria l’eredità della tradizione drammaturgica. La vicenda rappresentata si sviluppa dunque lungo un asse unidirezionale, ed è lo stesso dinamismo temporale a imprimerle un movimento capace di trascinarne l’evoluzione, di farla procedere e produrne lo sviluppo.
Con le opere successive la scrittura di Paravidino manifesta, anche sul piano della organizzazione strutturale, quella tendenza alla sperimentazione che Franco Quadri sottolinea come una proprietà caratteristica del giovane autore: è la volontà di «cimentarsi a ogni nuova prova con un diverso genere, non per una scommessa ma per il bisogno di spaziare tra i molti modi di drammaturgia praticabili».2 E infatti con Due fratelli e La malattia della famiglia M l’organizzazione in atti viene abbandonata e la materia drammaturgica strutturata in tableaux; è a questi ultimi che viene anche affidato il compito di scandire la successione temporale della storia. In Due fratelli, in particolare, il tempo viene misurato in modo perfino pignolo, con una sottolineatura grottesca e assurda dell’ora e del minuto esatto in cui ogni singolo quadro si apre.
Risulta insomma evidente la preoccupazione di governare il grosso problema drammaturgico e strutturale che in teatro è costituito dal tempo. E poiché Paravidino àncora fortemente le vicende al tempo che le contiene e imprime loro una progressione che le fa avanzare proprio sfruttando il dinamismo che la linearità temporale produce, ne consegue che il tempo si impone come nucleo e forza di tensione, e come centralità organizzativa dei suoi primi testi.
La clamorosa variazione strutturale introdotta con Natura morta in un fosso sposta l’asse drammatico sulla vicenda in sé: l’assassinio di una ragazza, il «caso» poliziesco da risolvere, la normalità di una famiglia in apparenza serena che si ribalta in tragedia e svela la corruzione che la corrodeva sono gli argomenti di questo dramma, ma la loro collocazione avviene non più mettendo l’accento sulla dinamica temporale della storia quanto piuttosto costruendo un intreccio di voci, una alternanza e una giustapposizione di parole provenienti da parlanti diversi, che consentono alla vicenda di procedere fino allo scioglimento finale. Con lo stesso principio funziona anche Genova 01, dove però la ricostruzione delle giornate del luglio 2001, in cui si svolse il funesto G8 genovese, abbandona il taglio investigativo che, coerentemente con il genere d’appartenenza, il «giallo» cioè, caratterizzava Natura morta, e assume un andamento epico, attraversato da forti esigenze di musicalità. I personaggi ai quali è affidato il racconto di Natura morta mantengono la proprietà di personaggi anche quando, privi di struttura psichica individuale e definita, risultano dotati solo di generiche caratterizzazioni di parlanti. Ma in Genova 01 scompaiono pure gli indistinti parlanti di Natura morta, e le frasi vengono pronunciate senza alcuna apparente mediazione antropomorfica. D’altra parte si introduce di nuovo la scansione temporale, alla quale, oltre che al ritmo e alla musicalità delle parole, viene affidata la progressione della storia. Anche in questo caso la scrittura drammaturgica rispetta il genere nel quale il testo si colloca: perché di fatto Genova 01 potrebbe abbastanza correttamente definirsi un documento storico drammatizzato.
E’ molto importante anche notare che l’attenzione strutturale dimostrata finora da Paravidino vada controcorrente rispetto alla tendenza al monologo, che pare imporsi da più parti nella drammaturgia contemporanea. Propendo a mettere questa proprietà della scrittura di Paravidino in relazione con la sua pratica teatrale e con la sua formazione professionale. Il fatto è che egli scrive per una compagnia, e non per il singolo attore: una posizione abbastanza singolare nella drammaturgia italiana attuale, e piuttosto arcaica in un panorama, quale è quello del nostro teatro contemporaneo, caratterizzato da forte individualismo. Perciò non mi sembra azzardato, per l’interesse che Paravidino porta alla struttura drammaturgica come riflesso e esito dell’attenzione alla vita collettiva delle compagnie teatrali, trovare riferimenti in un modello di produzione teatrale molto antico, anzi fondante della tradizione drammaturgica italiana: quello di Carlo Goldoni che scrive «su misura» per gli attori della compagnia di Medebach. Questo non significa soltanto che Paravidino non è un drammaturgo che scrive da intellettuale («uomo di libro» direbbe Ferdinando Taviani3), al suo tavolo da lavoro e senza contatti ravvicinati con tutti coloro, attori e tecnici del teatro, ai quali è affidato il compito della messinscena. Da come scrive, si vede bene che Paravidino vive quotidianamente all’interno del teatro, ne pratica la routine, ne sperimenta i problemi concreti, le difficoltà tecniche, le esperienze di tutti i giorni. E’ insomma la socialità e la materialità della vita teatrale quella che sottostà alla sua operazione drammaturgica e spesso anche quella che sostanzia il territorio di riferimento di molti dei suoi testi: per i quali sarebbe certo inesatto parlare di autobiografismo ma che indubbiamente si riferiscono a momenti condivisi d’ambito teatrale, dove l’amicizia e la professione d’attore, la realtà delle esperienze esistenziali e l’ambiguo gioco della finzione teatrale si mescolano in pari misura, diventando frammenti di vita vissuta non meno che elementi di finzione, di spettacolo e di recitazione.

Della complessità costruttiva dei testi di Paravidino fa parte anche il fatto che essi sono multivocali. Le voci che vi si intrecciano appartengono, come succede nelle prime opere, a personaggi veri e propri, dotati di una qualche identità psichica e portatori di una storia; ma sono anche soltanto voci, anonime, ognuna delle quali contribuisce, strutturandosi in una relazione polifonica, a narrare una vicenda e a farne procedere gli eventi. Questo secondo caso potrebbe manifestare confusioni con il monologo, soprattutto se si pensa ai monologhi strutturati sull’esempio della affabulazione popolare. Qui la voce del narratore (e nella messinscena il singolo attore) ingloba le voci di diversi personaggi – ed è adesso secondario valutare se si tratti di voci che esprimono personaggi potenziali, e cioè personaggi che potrebbero trovare un vero e proprio sviluppo in una drammaturgia più articolata, oppure di voci che sono riprodotte soltanto all’interno della voce narrante. Ma mi pare che proprio le ragioni e le caratteristiche del narrare, quelle insomma che sostengono l’andamento del monologo, siano escluse dai testi di Paravidino; i quali, anche quando assumono un apparente andamento monologico, mantengono una forte appartenenza teatrale, fatta di diversi ingredienti: dalla tensione temporale alla efficacia ritmica del dialogo, dalla velocità nella successione delle azioni ai tagli nei quali la storia si frammenta. Tutte queste caratteristiche rendono le opere di Paravidino lontanissime dal procedere narrativo o argomentativo del monologo, e dalla centralità descrittiva che del monologo è caratteristica e proprietà principale.

Ho parlato finora, alternativamente, di voci e di personaggi; ma mi pare il caso di fermarsi e tentare di sciogliere l’ambiguità. E’ vero che i «personaggi» di Paravidino hanno uno statuto ambiguo, fondato sul fatto che sono privi di una spiccata identità psichica che non sia quella referenziale, almeno per quanto riguarda i primi testi: penso soprattutto ai personaggi di Gabriele, che portano i nomi degli attori dai quali sono interpretati e che, con tutta verosimiglianza, li hanno ispirati e dei quali probabilmente conservano le caratteristiche interiori. Ma appunto si tratta di riflessi della realtà, dove la referenzialità ha uno spessore riconoscibile e dominante, e non di creature di finzione che possiedono autonomia e forza psichica. Aggiungo che l’ambiguità dello statuto psichico di questi personaggi così connotati permette l’attivazione di un gioco metateatrale, che trova la sua profonda ragion d’essere non tanto nella volontà sperimentale dell’autore e nemmeno, io credo, in un virtuosistico e divertente gioco di dentro/fuori il teatro, ma proprio nelle caratteristiche culturali, sociali e antropologiche della scrittura di Paravidino, in quel suo attingere dalla quotidianità e dalla materialità della vita teatrale, nelle quali sopra identificavo una forte caratterizzazione della sua scrittura.
Da questo punto di partenza, così fortemente autoreferenziale, si arriva agli ultimi testi, per le cui voci sarebbe improprio parlare di personaggi: si tratta, semmai, di grumi di storie, che trovano una identità riconoscibile e forte nelle istanze verbali da cui sono espresse, come succede in Natura morta; oppure si tratta del rifiuto della convenzionalità che prescrive di ricorrere alla mediazione dei personaggi, come succede in Genova 01, dove la storia è espressa da voci che rinunciano a qualsiasi caratterizzazione psichica.
Anche a proposito dei personaggi, dunque, bisogna riconoscere in Paravidino un atteggiamento sperimentale e sempre pronto all’assunzione di modalità rappresentative nuove; il che non esclude fasi in cui aspetti superati dalla sperimentazione precedente vengono riesumati e riproposti, eventualmente con l’aggiunta di variazioni e modifiche. Così avviene con i personaggi, «normali» in termini di teatralità, e cioè autosufficienti e caratterizzati psicologicamente, di Due fratelli e La malattia della famiglia M: due drammi che sono anche studi d’ambiente e riservano una grande attenzione al contesto in cui i personaggi si collocano. Ne consegue che i personaggi siano anche espressioni del loro ambiente, coerenti con l’ambiente che li produce e li alimenta, e dunque acquistino una autonomia di cui i personaggi autoreferenziali non possono essere dotati. E’ in sostanza l’ambiente, cioè il luogo fisico, che fornisce loro la storia di cui sono portatori: la casa asfittica e assimilabile all’universo concentrazionario di Due fratelli, produttrice di una malattia mentale che cova già nella simbiosi proiettiva e nevrotica che unisce i protagonisti maschili; il paesotto nel quale si svolge la vicenda di La malattia della famiglia M, descritto in una didascalia insolitamente lunga e ricca di particolari.

Anche in Italia, come nel Far West, ci sono piccoli centri abitati che si sviluppano interamente ai lati di importanti strade statali. La caratteristica di questi luoghi è il limite dei 50 all’ora su strada dritta, limitazione inspiegabile per il viaggiatore che consideri tali località solo come un intralcio o un ristoro nella sua primaria esigenza di spostarsi da un posto a un altro posto.
Le principali risorse economiche di siffatti paesi sembrerebbero pertanto il bar del camionista e la pompa di benzina, ma a osservare meglio si scopre che tali risorse sono affiancate anche da agricoltura, allevamento e persone.
In uno di questi luoghi è ambientata la nostra vicenda... 4


L’incardinamento con i luoghi è sia un modo per dare concretezza alle vicende e ai personaggi, sia per definire in termini sociologici e storici le storie rappresentate e collocarle in una cornice che non solo le contenga ma anche fornisca loro prospettiva storica e sociale. I luoghi di Paravidino non sono soltanto l’ambientazione delle vicende, ma sono evocativi di interi panorami socio-antropologici e storici: costituiscono perciò, in qualche modo, anche l’antefatto di ognuna delle vicende rappresentate e le collocano in modo così definito da rendere superfluo qualunque chiarimento, di quelli che di norma la scrittura drammatica affida al prologo o ai dialoghi iniziali dei personaggi.
Proprio perché i luoghi sono tanto esplicitamente caratterizzati è possibile per l’autore adottare, anche a teatro, i tableux di ascendenza cinematografica; ma nel trasferimento teatrale, questi ultimi potrebbero risultare inconsistenti e poco chiari, se i luoghi stessi non fossero significativi di per sé. In tal senso i luoghi di Paravidino risultano molto prossimi al concetto di «situazione» proposto da Jean Paul Sartre: anche questi luoghi infatti predispongono a determinate azioni, orientano le attese del pubblico e favoriscono e in alcuni casi determinano sia la definizione della psicologia dei personaggi (quando esiste) sia la successione dei loro atti.
C’è da notare un progressivo ampliarsi dei luoghi che accolgono le azioni: all’inizio l’ambientazione si limita a una sola stanza, che è prevalentemente la cucina, il consueto ambiente di aggregazione delle case povere oppure delle case in cui convivono giovani amici: qui è normale che tutti i personaggi si incontrino con facilità ed è naturale che tutti entrino e escano frequentemente. L’annoso problema dell’unità di spazio, la difficoltà tecnica di cambiare luogo in relazione alla progressione della storia, viene così felicemente risolto, con una naturalezza che contribuisce non poco alla fluidità e al ritmo agile di questi testi d’esordio. Il rischio della ripetitività e del manierismo genera una apertura spaziale verso l’esterno, che si configura nel «paese del Far West», anch’esso dotato di caratteristiche sociologiche e economiche molto definite e tali da costituire una cornice immediatamente esplicativa e sufficientemente ricca e dinamica da funzionare come «situazione».
Più rischioso è individuare l’ambientazione di Natura morta, perché essa in apparenza manca; ma l’intreccio delle voci non tarda molto a disegnare un luogo che ha molti elementi di contatto con il paese della Malattia della famiglia M, per la violenza di cui è carico, la mancanza di valori degli abitanti, la solitudine e l’impossibilità della comunicazione, il benessere economico come occasione non di maggiore civilizzazione ma anzi di imbarbarimento, l’ipocrisia nascosta dai buoni sentimenti o dalla prevaricazione delle ideologie.
E proseguendo nella slargatura ambientale s’arriva a Genova 01: che è, sì, la grande città e inoltre la sede del forum dei potenti della terra, eco dunque della violenza mondiale e delle grandi discriminazioni sociali e economiche, ma ha ormai acquistato anche una valenza simbolica, che Paravidino definisce con molta efficacia: «Genova era una città e nonostante tutto lo è ancora, ma in più è diventata un luogo della mente».5 Proprio perché è diventato luogo della mente, collocabile in uno spazio ideale che non coincide con nessun luogo fisico definito, esso può coincidere anche con il teatro, che tradizionalmente si identifica con il luogo della finzione: l’azione di Genova 01 infatti, come la didascalia reclama asciuttamente, si svolge in teatro, con personaggi incapaci di assumere lo statuto di personaggi teatrali perché sono ancora troppo persone, e perciò sono semplici voci, evocanti luoghi, storie, personaggi possibili, azioni che non avvengono materialmente ma che vengono soltanto raccontate dalle voci che si intrecciano.
Della ambientazione, e dunque della messa in situazione di personaggi e storie, fa parte anche il linguaggio verbale: la centralità della parola caratterizza la drammaturgia di Paravidino, ed è una parola molto agile, assai poco letteraria perché esemplata sul parlato, soprattutto quello dei ragazzi. Ma sarebbe fare un torto all’autore appiattire tutto il suo linguaggio drammatico sul modello della comunicazione giovanile, anche se essa è indubbiamente il suo punto di partenza e anche la riserva alla quale attingere. Da questa origine la lingua che Paravidino usa nella scrittura teatrale ricava la sua terminologia, le strutture sintattiche sempre approssimative e improprie, incapaci di rendere esatto conto dei pensieri e dei sentimenti che vorrebbero esprimere, l’ampio spazio riservato al turpiloquio e soprattutto il ritmo spezzato e rapido del dialogo. Ma da questo punto di partenza, che resta comunque un dato costante e mai accantonato anche nelle fasi successive, il linguaggio teatrale di Paravidino si arricchisce più tardi di altre proprietà. Con La malattia della famiglia M vengono messi in azione personaggi più maturi (il padre Luigi) e più colti (il Dottore), che reclamano di conseguenza un tipo di espressività più lenta e argomentativa, più sofisticata e insieme più esplicita nell’enunciazione, più capace di articolare il pensiero. Quanto a Genova 01, l’assenza di personificazione e la necessità di sostenere il ritmo epico producono un linguaggio fatto di diverse componenti e che, accanto al mantenimento delle consuete modalità espressive quotidiane e «parlate», assume modi della scrittura colta, che si tratti di stilemi giornalistici o dell’oggettività denotativa propria del racconto storico o delle citazioni pasoliniane, fino ad accogliere alcuni squarci esplicitamente lirici.

Paravidino addita soprattutto due padri per la sua scrittura drammaturgica: Harold Pinter e Samuel Beckett. Sono abbastanza trasparenti, e numerosi, i punti d’influenza che essi esercitano sulla sua opera, ma a me interessa additarne in particolare alcuni, che trovo significativi per la mia analisi: in primo luogo la particolare modalità con la quale il comico e il tragico si contaminano nelle opere teatrali. Le situazioni messe in scena da Paravidino riguardano sempre le dimensioni conflittuali dell’esistenza, sia che raccontino le crisi giovanili davanti al sesso, alle prospettive del futuro esistenziale e del lavoro, alla paternità, sia che rappresentino la violenza di piccoli centri urbani arricchiti economicamente ma poveri di spiritualità, sia che descrivano le grandi tensioni storiche e l’affermarsi prevaricatorio e sanguinoso del potere. Spesso questi racconti sono esplicitamente tragici; e tuttavia ospitano sempre una dimensione comica, che per lo più si annida nel linguaggio, a volte nel voluto impaccio dell’espressione che si affanna, senza riuscirci, a rappresentare adeguatamente la situazione oppure in un umorismo più sofisticato, nell’ironia amara, per esempio, con la quale a tratti prende vita il racconto dei fatti di Genova. La centralità della parola e l’uso aspro del linguaggio, che copre e svela insieme la sostanza tragica che ne è l’oggetto, sono tratti stilistici che i due «padri» sopra citati manifestano diffusamente. A essi mi pare che possa esser fatta risalire anche la sperimentazione formale, con l’uso abilmente disordinato della successione temporale e con dislocazioni stranianti che arrivano, come succede in Beckett, alla completa messa in discussione degli stessi concetti di spazio e di tempo; e così pure la creazione di personaggi che non hanno alcuna sostanza psichica ma che, forse proprio per questa loro particolarità, si prestano a diventare modelli universali.
E’ d’altra parte la propensione alla sperimentazione l’aspetto che forse maggiormente lega Paravidino ai suoi modelli, almeno nelle intenzioni da cui quella sperimentazione è mossa, e cioè la volontà di riconsiderare in termini di drammaturgia le categorie che strutturano il testo e l’universo teatrali: le proprietà dei personaggi, lo spazio, la successione temporale delle azioni. In questa riflessione e nelle proposte del giovane drammaturgo, accanto all esempio dei suoi «padri» culturali, c’è anche la forte suggestione del cinema, nel quale pure Paravidino lavora: le tecniche cinematografiche vengono largamente adottate nell’opera di rivisitazione dei nuclei fondanti della struttura teatrale. L’intelligenza di Paravidino consiste non nell’importarle direttamente nella trasposizione teatrale, ma nel trovarne una specie di traduzione, che in molti casi risulta abile e persuasiva: penso all’operazione di destrutturazione della sequenza temporale in Natura morta, e al suo rimontaggio, che mira a creare un nuovo punto di tensione, al di fuori della direzionalità temporale. Penso all’utilizzo della tecnica del flash-back in La malattia della famiglia M, per portare in primo piano e a livello di azione fruibile nel presente ciò che è avvenuto prima o avviene a lato della vicenda principale, ottenendo così il risultato di scompaginare la successione ordinata e lineare del tempo consuetudinario in teatro.
La conseguenza complessiva è di iniettare linfa vitale nella struttura e nel linguaggio teatrali, di ottenerne insomma una specie di svecchiamento: che non è certo operazione risolutiva, ma è in grado di arricchire le risorse tecniche del teatro e di introdurre mobilità nel suo linguaggio.

Dalla mia analisi è rimasto completamente fuori un testo, fra quelli compresi nel volume di Ubulibri, Noccioline. Si tratta di un’opera molto singolare, difficilmente assimilabile agli altri: a me sembra quasi un testo didattico, in senso brechtiano. Anch’esso legato alla forte emozione umana e politica prodotta dai fatti di Genova del G8, racconta come progressivamente si impone una struttura di potere assoluto, come le timidezze o le prepotenze caratteriali dei singoli si possano tradurre in meccanismi collettivi, trasformando i timidi in oppressi o in servi passivi, e i prepotenti in gestori tirannici del potere. Ma devo precisare, sebbene io abbia accennato al carattere dei personaggi, che questi ultimi sono qui, come in altre opere di Paravidino, del tutto privi di proprietà psichiche: sono piuttosto istanze politico-sociologiche personificate nell’azione teatrale. Le interrelazioni, come pure l’esile vicenda drammatica che dalle loro interrelazioni si sviluppa hanno il sapore di un apologo, con un forte taglio politico: il riferimento all’ultimo Pinter è evidente ma, al di là delle intenzionalità dell’autore, non mi pare fuori luogo nemmeno il richiamo a Brecht, modello attualmente fuorimoda, ma che sarebbe il caso di ripensare e ri-valorizzare, per ragioni sia strettamente teatrali, dal momento che non di tutte le copiose proposte di Brecht il teatro del Novecento si è saputo giovare, sia più latamente politiche.
Se non è infondato il legame, almeno di genere, che io rintraccio fra un grande maestro, messo adesso un po’ in soffitta, e un giovane drammaturgo attualmente molto apprezzato, questo mi appare un titolo di merito da attribuire a Fausto Paravidino. Ed è un merito rafforzato dall’occasione che ha prodotto l’apologo teatrale: l’indignazione politica e la commozione etica che si sono accompagnati ai fatti di Genova. Alcuni prodotti culturali che ne sono stati ispirati, e tra questi certamente i due testi di Paravidino che chiudono il volume di Ubulibri, hanno avuto la capacità sia di recuperare, legandola ai fatti politici, vitalità creativa e intellettuale, sia di corredare tale creatività con una propositività sperimentale che sviluppa in direzioni stimolanti le proposte innovative dei maestri del teatro novecentesco.


NOTE

1 Trinciapollo è la prima opera teatrale di Paravidino, che però non compare nel volume Fausto Paravidino, Teatro, Milano, Ubulibri, 2002, dal quale è stata estromessa, come dichiara l’autore, per ragioni occasionali. Il testo è stato pubblicato in «Sipario»

2 Franco Quadri, Il caso Paravidino ovvero quando il teatro italiano scopre un vero autore a 20 anni, in Fausto Paravidino, op. cit., p. 10.

3 Mi riferisco al volume di Ferdinando Taviani, Uomini di scena, uomini di libro, Bologna, Il Mulino, 1995.

4 Fausto Paravidino, op. cit., p. 101. Questa didascalia appare con evidenza il nucleo del soggetto cinematografico del quale Paravidino parla nell’intervista.

5 Fausto Paravidino, op. cit., p. 222.


 


 

Su Genova 01
Note dell’autore al 2003
di Fausto Paravidino

 

Genova 01 è una interpretazione a puntate della tragedia. La tragedia segue ineluttabilmente il suo corso, questo suo tentativo di interpretazione arriva ora alla sua terza puntata, che potremmo chiamare Genova 03 (Genova aggiornata al 2003).



Da sinistra Simone Gandolfo, Nicola Pannelli, Fausto Paravidino e Antonia Truppo.
Cominciamo da Genova 01. È il 2001, è luglio, non sono a Genova, vengo a sapere, mi stupisco. Di fronte allo stupore inizio lo studio perché non si può restare stupiti senza capire. Scopro tantissime persone che stanno facendo la stessa cosa. Molti percorsi si uniscono. Lo stupore si trasforma in indignazione, l’indignazione in sofferenza, la sofferenza in esigenza di comunicazione, di rappresentazione, di testimonianza. Nasce il piccolo testo Genova 01. è una tragedia di un quarto d’ora in quattro atti. Gli atti corrispondono a quattro unità, quattro blocchi di tempo e di azione: il giovedì con la manifestazione tranquilla dei temi del movimento, il venerdì con la repressione di piazza e la morte di Carlo Giuliani, il sabato con la repressione di piazza e la Diaz (la repressione che entra in casa), la domenica (e giorni seguenti) con la caserma di Bolzaneto (la repressione che fa dei prigionieri). L’oscurità procede di pari passo con l’avanzare della tragedia: di venerdì abbiamo un’overdose di immagini, la Diaz la vediamo da fuori, intravediamo qualcosa dalle finestre, sentiamo le urla. Di Bolzaneto ci sono solo racconti. Genova 01 viene letto in forma di orazione civile tra il 2001 e il 2002 da un gruppo variabile di ‘testimoni’ del proprio stupore, della propria indignazione, del proprio grado di consapevolezza della tragedia. Hanno testimoniato Iris Fusetti, Fausto Paravidino, Simone Gandolfo, Carlo Orlando, Aldo Ottobrino, Donatella Civile, Claudia Coli, Ketty di Porto, Franco Ravera, Nicola Pannelli. Nel 2002 Filippo Dini inizia a lavorare come regista (e attore) su Genova 02. Genova 02 è (ovviamente) diverso da Genova 01. È passato un anno. La testimonianza è sempre il cuore centrale dello spettacolo ma non basta più, è necessaria una nuova interpretazione, politica e artistica, un "senno di poi". Il testo si arricchisce a mano a mano di nuove testimonianze, di nuovi punti di vista, un po’ vengono da fuori, dai nuovi fatti, dalle nuove ‘scoperte’ su Genova, e un po’ vengono da dentro, dalla partecipazione dei testimoni che hanno lavorato in Genova 01. In Genova 02 hanno lavorato Filippo Dini, Antonia Truppo, Simone Gandolfo, Alessia Giuliani, Sara Bertelà, Iris Fusetti, Laura Benzi, Fausto Paravidino.
Genova 03 è all’inizio del suo viaggio. Si è arricchito dell’esperienza di Genova 02 ed ha la responsabilità di ricordare il passato e fare il punto sul presente, sul modo nel quale la repressione continua, sul modo nel quale il movimento reagisce o non reagisce.
Un paio di coordinate estetiche: metafora e tragedia. Il teatro è il luogo della metafora, il palcoscenico è la metafora della terra, gli attori sono la metafora degli uomini, una commedia è una metafora della storia. Di solito un’idea o un sentimento mi si trasformano in una metafora, una storia, che diventa una commedia. In Genova 01 non succede perché il G8 a Genova mi è apparso già in sé come metafora del mondo in questo momento. È stato un momento di compressione temporale che è avvenuto in un luogo preciso. Si sono scontrati dei mondi, le persone che erano lì erano "rappresentanti", rappresentanti del Capitalismo, rappresentanti della contestazione, rappresentanti della tobin tax, rappresentanti dello Stato, rappresentanti di se stessi. Ognuno di coloro che si trovavano lì, non si trovava lì come si trova di solito nei posti: per caso. Si trovava lì per rappresentare qualcosa. Quindi era una metafora coi suoi personaggi, i suoi attori, la sua azione. Non si può inventare la metafora della metafora o il personaggio del personaggio, quindi tutto ciò è ‘riferito’, non ‘interpretato’. Quella di Genova 01 non è una scrittura ma una trascrizione. Tragedia. Genova è la fine del melodramma e l’inizio della tragedia. Non nella realtà, nella percezione della realtà. Non di tutti, ma di molti. C’è chi percepiva la tragedia da prima, c’è che vive ancora in un melodramma, noi siamo tra quelli che hanno percepito la tragedia con Genova. Percepire la tragedia vuol dire farla finita con le cazzate, mettersi nell’ottica di farla finita. Non vuol dire diventare migliori, ma volerlo sì. La differenza tra la tragedia e il melodramma è che alla fine della tragedia non cambi canale perché la tragedia sei tu. Continua dentro di te. Noi facciamo apologia di tragedia, proselitismo tragico, non so se è reato, spero di no. Se fosse non mi stupirei, si cerca di diventare grandi.

Roma, 13 dicembre 2002


 


 

Le recensioni di "ateatro": Genova 01 di Fausto Paravidino
Regia di Filippo Dini
di Alessandro Romano

 

Il teatro di Monfalcone ha ospitato, nell’ambito della stagione di prosa ContrAZIONI, nuovi percorsi scenici, l’ultima versione del lavoro teatrale di Fausto Paravidino sui fatti di Genova 01. Una produzione dell’Associazione Teatrale Pistoiese, del Teatro del Tempo Presente e del Teatro Stabile di Pistoia, diretta da Filippo Dini e interpretata da Simone Gandolfo, Nicola Pannelli e Antonia Truppo.
Si alza il sipario su un brutto e oscuro episodio della storia sociale e civile del nostro paese. Dinnanzi ai nostri occhi una mappa della città ligure pronta raccogliere e isolare le migliaia di persone venute a manifestare contro il G8: si vede tracciata una zona rossa che nessuno potrà valicare. Lì dentro avrà luogo l’incontro dei rappresentanti delle otto grandi potenze mondiali, riunitisi per decidere sulle sorti dell’umanità. Subito fuori, nello spazio delimitato da una linea verde, si consumeranno quegli orribili fatti che continuano a tormentare le coscienze di molti colpevoli, rimasti incomprensibilmente impuniti, e di altrettanti innocenti, che hanno subito, vissuto con incredulità e impotenza il perpetrarsi della tragedia.



Il testo di Paravidino è una forma di teatro civile, come sottolinea anche il regista, un doveroso atto di giustizia, di verità, senza l’ausilio della retorica, senza alcun orpello formale o stilistico. I fatti riportati nella loro cruda essenza.
Un prologo presenta la situazione, fornisce allo spettatore le informazioni necessarie per seguire lo svolgimento dell’inchiesta che sta per avere inizio, lo aiuta a ritornare indietro nel tempo, a rinfrescare la memoria su quei terribili misfatti che oltretutto rischiano, a due anni e mezzo di distanza, di venire dimenticati. "La gente non deve dimenticare", sembra volerci dire Paravidino; ha il diritto di sapere come sono andate le cose, ricacciare fuori sentimenti che il tempo ha assopito, prendere posizione sugli accadimenti che ora le verranno chirurgicamente e cronologicamente narrati.
I tre attori drammatizzano gli eventi più eclatanti di quel lungo fine settimana di luglio, ispettori di giustizia, iene assoldate per svelare le nefandezze compiute dalle forze dell’ordine, raffigurano l’omertà di chi si nasconde dietro a giustificazioni palesemente ridicole. Smascherano, sviscerano, scandagliano: la descrizione dei fatti è infarcita di testimonianze, immagini proiettate su uno schermo composto da travi di compensato, suoni e rumori registrati e dal vivo, interrogatori in forma di dialogo in cui gli interpreti si incarnano in alcuni protagonisti degli episodi incriminati. La morte di Carlo Giuliani e il massacro perpetrato dalle forze dell’ordine alla scuola Diaz sono sicuramente gli episodi più cruenti e allo stesso tempo più inspiegabili, anche perché nessuno ha pagato per la vita di un ventitreenne incensurato e per un centinaio di corpi martoriati a suon di bastonate.



È incalzante l’incedere della narrazione, sostenuto il tono e il ritmo della recitazione. Lo spettatore è in apnea, schiacciato, annichilito, non sa se sta assistendo ad uno spettacolo teatrale o a un documentario sociale. Ma tutto questo poco importa. La scelta di Paravidino di usare il teatro per smascherare la realtà non è questionabile: in questo spettacolo non c’è un briciolo di finzione; tutto ciò che ci viene raccontato è insindacabile e accuratamente dimostrato. Registrazioni, testimonianze, interrogatori, deposizioni: in cinque atti e un prologo riviviamo nei minimi particolari i fatti di Genova 01. Sembra di assistere al notiziario televisivo del giorno dopo. Quegli avvenimenti ci appaiono così vicini da smuovere nuovamente le nostre coscienze; il ricordo si ravviva, la rabbia si riaccende, cresce l’indignazione, si riacutizza un senso di nausea; il tutto, nonostante l’azione drammatica, motore abituale di ogni rappresentazione teatrale, sia quasi del tutto assente.
Il pubblico alla fine applaude, lo fa spontaneamente, prolunga il suo sonoro gesto d’approvazione dimostrando di gradire il recupero del teatro come veicolo d’indagine sociale, il palcoscenico come scenario di sensazioni, pulsioni, emozioni finalmente non costruite, finalmente reali, come dovrebbe essere la vita, anche quella che ora, e ancor più dopo quello che abbiamo appena visto, ci appare distorta, fasulla: una magnifica fiaba del terrore per la massa di creduloni, una grande presa in giro per i meno sprovveduti.


 


 

La natura frattale della realtà (e del teatro)
Alcune riflessioni si Copenaghen di Michael Frayn
di Clara Gebbia

 

Copenaghendi Michael Frayn è un testo denso e complesso, con numerose implicazioni filosofiche e scientifiche. Ma mi è capitato sempre più spesso di imbattermi un commento ricorrente (riferito alla bellissima messa in scena di Mauro Avogadro, con Massimo Popolizio, Umberto Orsini e Giuliana Lo Jodice, davvero eccellenti) ossia: "Lo spettacolo è bello… ma non mi ha emozionato", che allude (credo) al fatto che l’argomento di fondo trattato nel testo di Frayne è scientifico, e quindi, inadatto a dire qualcosa che attenga alla sfera delle emozioni.
Il testo racconta dell’incontro tra Bohr e Heisenberg, entrambi fisici, a Copenaghen, nel settembre del 1941.
O piuttosto dell’impossibilità di comprendere le motivazioni di quell’ incontro, in primo luogo da parte dei due scienziati.
Il "fatto" da cui prende spunto Frayn è realmente accaduto: effettivamente Werner Heisenberg si recò a trovare il suo maestro Niels Bohr a Copenaghen, nel settembre 1941.
O era ottobre?
"Curiosa specie di diario, la memoria", dirà Heisenberg in una battuta del testo, costretta a cambiare per adeguarsi ai mutamenti percettivi di un cosiddetto "fatto".
L’importante è ricordare che è il 1941, è in atto la seconda guerra mondiale, che Heisenberg è un tedesco e Borh è danese, che entrambi sono due fisici e che si cerca di costruire la bomba atomica! Se nella memoria dei due scienziati si confondono particolari come il luogo, il tempo, e le modalità dell’incontro diventa impossibile stabilirne il perché. Il relativismo del ricordo, certo, è funzionale al meccanismo narrativo, così come la questione del tempo dell’azione, che non è né il passato, né il presente: per loro stessa ammissione i tre protagonisti sono tutti morti.
E certamente anche la paura di essere ascoltato dai microfoni nemici fa fare ad Heisenberg omissioni e giri di parole sul perché della sua visita, e tocca alla moglie di Bohr, Margrethe porre più volte la domanda diretta, sicura che ci sia una risposta univoca: perchè Heisenberg si è recato a trovare i Bohr, nell’autunno del 1941?
Ma la risposta univoca non c’è e se Margrethe fosse un fisico lo saprebbe… la natura delle cose è duale, onda e particella: la banale questione dell’incontro tra due esseri umani diventa una questione di fisica e metafisica.



Le ipotesi si snodano nel dialogo, una dopo l’altra, tutte plausibili: Heisenberg si è recato dai Bohr per chiedergli di collaborare con la Germania Nazista? Per chiedere in prestito il ciclotrone, indispensabile per la fissione? Per problemi accademici?Per sapere se esiste un programma Americano capace di costruire la bomba? Per tradire il programma tedesco? Per avere informazioni? Per aiutare i Bohr a fuggire in Germania?
Per fare e rifare i calcoli sulla fissione, ed individuare adesso, finalmente, dopo morti, che la massa critica di Uranio 235 era una questione di una cinquantina di chili e non di tonnellate ?
E Heisenberg sta lavorando ad una bomba micidiale o a un reattore?
L’altra ipotesi e che ci sia andato per caso… ("Ci sono un milione di cose che possiamo fare o non fare ogni giorno"dirà Heisenberg).
Oppure per fermare tutto.
Tutti insieme, fisici ebrei e tedeschi, alleati e non. Se questo fosse successo, ci troveremmo probabilmente in un universo simile, ma diverso.

Forse Heisenberg non aveva nessuno scopo, ma semplicemente il contesto, la guerra, la bomba, lo trasformano automaticamente in nemico, e lo stesso fatto che si sia recato a trovare Bohr pone una questione etica: può la fisica teorica essere uno strumento di morte?
Che è ancora più ampia: può il pensiero umano essere al servizio della propria autodistruzione? Il problema etico diventa di proporzioni colossali e ci tocca profondamente.



La questione – etica ed estetica – è che questo incontro narrato da Frayn provoca esso stesso una esplosione a catena nelle nostre teste, una girandola di implicazioni che ci portano fino dentro al significato stesso dell’esistenza.
Ogni questione è sfaccettata e inafferrabile, e porta la complessità stessa dell’animo umano. Come umano è il dolore dei Bohr, quando ricordano i figli perduti, quando intravediamo Christian sfuggire per un pelo in mare, sotto gli occhi atterriti del padre; dopo il duello dialettico, il silenzio: di certe cose non si può parlare, si può solo pensare.
Multiforme è anche il modo in cui i due scienziati si rapportano reciprocamente: come allievo e maestro, nemico e amico, padre e figlio, collega e rivale: mentre cercano di addossarsi la macula originalis dell’invenzione della bomba atomica, si legge anche lo smacco di ognuno dei due per non essere stato il primo ad esserci arrivato.
Bizzarrie dell’animo umano!, in parte giustificate: la fissione nucleare, nonché la bomba atomica hanno fatto diventare realtà il mito per eccellenza degli alchimisti: la pietra filosofale,capace di cambiare un elemento in un altro elemento... E’ il mito eterno di Ulisse, dell’uomo che supera i confini del conoscibile… solo che il mito è diventato realtà, ha coordinate spazio-temporali precise, un nome e una data, e una lista interminabile di morti e una minaccia che ha cambiato le nostre menti, il nostro modo di stare al mondo e di percepirlo, per sempre.

E’ proprio il passaggio tra gli elementi la materia di cui è fatto Copenaghen, della natura duale anzi frattale di tutte le cose.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg ne è invece la struttura narrativa: più si conosce una variabile, meno precisa è la misura della variabile corrispondente. E ogni volta che si tenta semplicemente di guardare qualcosa, la si illumina con la luce del proprio punto di vista, deviandone il percorso, bombardandola dei propri fotoni.
E’ il principio di indeterminazione a livello umano, etico, oltre che scientifico, che rende tutte le ipotesi sull’incontro fatale veritiere ma mai esaustive. Non a caso Rumori fuori scena, altro famosissimo testo di Frayn, oltre ad essere un meccanismo esilarante, non fa altro che ribaltare prospettive, facendoci vedere una pièce teatrale frontalmente e da dietro le quinte. Così, anche in Copenagheni protagonisti bombardano di fotoni percettivi il "fatto" mutandone la rotta. Per tutta la prima parte del primo atto, è il punto di vista di Margarethe a fare da contrappunto e a correggere la rotta delle ipotesi di Bohr, sempre in negativo.
Mai come adesso l’Homo è diventato Mensura.
Tutto questo ha a che fare con il teatro, in maniera sostanziale e per vari motivi, tanto da farci sospettare che Copenaghensia un testo metateatrale.
Il primo di questi motivi è che Copenaghenci dice che ognuno di noi è capace di dare una propria versione del grumo di confusione, aspettative, desideri, rabbie, gelosia, distruzione, amore che è la vita. Possiamo narrarla come un episodio, abbiamo la capacità di ricondurre i "fatti" di per sé insensati ad una storia, di infilarli uno ad uno come le perle di una collana.
Il secondo è che ci dice che questa versione della storia è unica e irripetibile.
Il palcoscenico che non solo racconta, ma rende esistenti le nostre storie, ha regole spazio-temporali reali autoreferenziali, ma non per questo meno "esistenti", e Frayn ce lo dimostra. E’ come se il teatro, nella sua forma più alta, fosse un concentrato di esistenza, di ciò che è unicamente "umano": la capacità di narrare, che dà luogo, sempre e comunque, ad autobiografia; di qualunque cosa si parli non possiamo fare altro che vedere attraverso i nostri occhi e ricordare con la nostra mente, e non c’è niente di meno oggettivo della memoria, che non fotografa, ma sceglie. Lo spazio del teatro non è un luogo (con tutte le caratteristiche di fissità che ha un luogo), ma è la somma di tutti i palcoscenici del mondo e il tempo è quello assoluto ma estremamente relativo all’interno di ogni singola rappresentazione. Il problema della realtà e dei diversi gradi dell’esistenza si fa sempre più complesso.

Copenaghendunque attiene all’esistenza del teatro, di noi stessi, di uno dei frammenti più oscuri della storia, all’alchimia, al mito, ai rapporti umani…La visita di Heisenberg a Bohr è, in fondo, un fatto banalissimo: l’ incontro da due essere umani finiti, contingenti, un episodio abbastanza ordinario… Il risultato dell’incontro di uomini come loro, come noi, portò alla creazione di una colossale macchina distruttiva. Che avrebbe la capacità, tutt’ora, di cancellare l’umanità dalla faccia della terra e portare con sé tutti gli uomini, il loro presente, il passato, i ricordi, ma soprattutto la possibilità di raccontare, la Storia, e ogni cosa sia capace di fare un singolo essere umano, quell’ "unica anima padrona dell’universo" che è ciascuno di noi, e di trascinarlo nel buio senza fine, "sepolti da tutta la polvere che abbiamo sollevato".
Di questo, con infinita emozione, ci parla Copenaghen.


 


 

Un altro mercato è possibile?
Per non tacere per sempre
di Franco D’Ippolito

 

Era il 4 maggio del 2002 e ci incontrammo al Teatro Manzoni di Pistoia, dove Cristina (Pezzoli) stava lavorando al suo progetto di stabile privato per la nuova drammaturgia italiana. Ci eravamo visti qualche settimana prima a Bologna ad un incontro organizzato dal Teatro delle Moline e lì le avevo proposto di discutere insieme ad altri “complici” la sua idea di un mercato equo e solidale della distribuzione teatrale. Perché “non è il nuovo teatro che non va bene per il mercato, ma è questo tipo di mercato che non va bene per il nuovo teatro”.
Eravamo in sei: Paolo (Aniello), Carlo (Bruni), Ruggero (Sintoni), Cristina, io ed un economista Domenico De Simone. Si parlò anche di un sistema di finanziamento dei teatri attraverso titoli a tasso negativo, partendo da una teoria nata fra il Seicento ed il Settecento, del denaro deperibile che perde valore con il passar del tempo. Ma si provò a discutere soprattutto di una nuova possibilità di distribuire i nostri spettacoli, consapevoli già allora dello stato asfittico (ed in procinto di divenire anche antagonista) del mercato italiano. Convenimmo su un eccesso di offerta che stava annacquando ogni discorso artistico soltanto per riuscire a star dietro a parametri di valutazione esclusivamente quantitativi (ed era ancora da venire la normativa Urbani!) e sul fatto che al mercato si chiedeva sempre più di coprire costi per beni e servizi connessi alla tournée. Ci chiedemmo se gli spettacoli per vivere dovessero per forza girare e rispondendoci di sì spostammo l’attenzione allora su “quanto” e sul “come” devono girare, quasi a definire una specie di ecologia della distribuzione. E ci si trovò d’accordo su molto, su quasi tutto, dalla necessità di condividere un nuovo modello di distribuzione solidale capace di cambiare anche i modi di produzione, alla opportunità di costituire una rete di persone, di idee e di modi prima che di luoghi teatrali. E si individuarono anche alcune possibilità concrete di mettere insieme queste idee, questi bisogni, questi valori per migliorare il nostro mercato di riferimento: la qualità dell’offerta al pubblico in grado di stimolare curiosità e aprirsi a nuovi utenti/consumatori di tempo libero; i servizi alla produzione in tournèe per abbattere drasticamente i costi di beni e servizi connessi al giro; la condivisione del valore del rinnovamento costante della scena e del riferimento continuo alle giovani istanze; la messa in discussione dei modi di produzione e di una logica della stabilità priva della necessità di fare teatro.
Da allora non ci siamo più incontrati, ognuno ha dovuto risolvere le proprie vicende professionali e non ne abbiamo più parlato. Almeno tra noi, come quel giorno, con la stessa passione. L’ATP non ha avuto il riconoscimento di Stabile Privato, io ho prestato consulenze varie su e giù per l’Italia, Paolo ha dovuto gestire da Presidente Tedarco uno degli attacchi più violenti al nuovo teatro provenienti dall’interno e dall’esterno, Carlo ha gradatamente lasciato la direzione del Kismet, Ruggero difende con intelligenza i preziosi risultati del lavoro di Accademia Perduta sul territorio romagnolo.
Mimma (Gallina) una sera a Milano mi chiese “ma perché, secondo te, importanti professionalità organizzative ed artistiche (e so che non si riferiva precisamente agli artisti) sono fuori dei teatri e, al massimo, fanno i consulenti o insegnano a giovani ciò che sanno accontentandosi di simulare in un’aula quello che vorrebbero fare in un teatro, in un festival, in una compagnia?”. La ragione più evidente è che da qualche anno nessun teatro, nessun festival, nessuna compagnia ha rimesso in discussione la propria direzione, ma anzi ha chiuso ancor di più ogni possibilità di relazione con il cambiamento al suo interno. Poi posso azzardare che quelle professionalità a cui Mimma si riferiva probabilmente non sono addomesticabili, hanno, come si dice, un brutto carattere e difficilmente accondiscendono, passionalmente difendono l’autonomia del fare teatro rispetto alla politica degli assessori, dei presidenti e dei consigli di amministrazione. Sta di fatto che il tempo della difesa dei risultati conseguiti si è trasformato nel tempo della sconfitta e fa male riconoscerlo.
Un altro mercato è possibile, un’altra stabilità (aldilà delle definizioni e dei parametri normativi statali e regionali) è necessaria, una nuova generazione (non soltanto anagraficamente parlando) deve avere lo spazio per esprimersi. Noi organizzatori dobbiamo ricostruire le condizioni perché i nostri artisti possano riprendere ad occuparsi del palcoscenico. Abbiamo parlato per anni di crisi finanziarie, di mercato asfittico, di regole e parametri e non siamo riusciti ad evitare il corso revanchista dell’Eti, la deriva distributiva dei circuiti, che i conflitti d’interesse governassero i teatro italiano, ma nemmeno che sui nostri palcoscenici si vedesse sempre lo stesso spettacolo mediocre e privo di necessità. Il nuovo teatro italiano c’è, i nuovi registi, attori ed attrici, drammaturghi ci sono, a volte lavorano all’estero, a volte fanno mille altre cose per riuscire a fare uno spettacolo che vedono in trecento e che dovrebbero vedere in trentamila.
Mi ritrovo quasi interamente nell’intervento di Adriano (Gallina), nella sua teoria del “rito di passaggio” tra il rischio del nuovo e l’affermazione consolidata. Un sistema teatro che funziona non può fare a meno di punti forti, ben strutturati e ben finanziati, intorno a cui lavorano diverse costellazioni più o meno concorrenti fra loro, ma non ha futuro se dietro ad ognuna di quella costellazioni non si formano, si frantumano o esplodono sempre nuove stelle che si integrano alle altre o si sostituiscono a quelle che si spengono. E’ questo credo il senso più vero del fare teatro per chi non ha accettato di integrarsi in stabili pubblici mercantili o conservatori, in circuiti che distribuiscono borderò a tutti senza futuro, in stabili d’innovazione immobili sui propri artisti e sulla propria direzione, in compagnie e gruppi vittime e carnefici dello stesso mercato. Non so se, provocatoriamente, vale la pena di sostare “en attendant Cofferati”, ma per non ragionare più come Nanni ha ragione Silvio (Castiglioni) bisogna riprendere a “considerare il teatro alla stregua della coltivazione del radicchio, che preferisce la cura quotidiana agli avvenimenti epocali. Insomma te ne devi occupare ogni giorno”. Da domani dovremo avere la forza, il coraggio e la convinzione di non accettare più compromessi, né prebende (come i vergognosi spiccioli che quasi tutto il teatro d’innovazione ha accettato dall’Eti per il 2003) e, pur rischiando ferite più gravi, costruire un futuro di autonomia, di contenuti d’arte, di nuovi soggetti. Chi non lo farà taccia…. per sempre.


 


 

Ora o si taccia per sempre
Stato di emergenza
di Massimo Paganelli

 

Avrei voluto scrivere d’altro. Provare a portare un contributo, da tecnico di provincia, al dibattito in corso attorno alle questioni, da sempre aperte, che riguardano il teatro ed il suo farsi e la sua non necessaria "necessità", che da oltre due anni appaiono ancora più gravi di quanto non lo fossero nel recente passato e che in molti sostengono essere giunte al punto del non ritorno; scrivere attorno al tentativo, ormai sempre più palesemente concreto, di cancellare quel non poco, anche se non organizzato e sistematico, che pure questo strano paese, l’Italia, ha saputo esprimere nel campo della produzione artistica e, nella fattispecie teatrale; scrivere attorno a questo scenario di vita quotidiana, da cui se ne potrebbe desumere che il teatro è allo spasimo, perché "quel" teatro non serve più, se mai a qualcosa è servito. Di tutto ciò avrei voluto scrivere. Provando, come tanti altri amici e colleghi hanno fatto, ad indicare terapie, percorsi normativi e regolamentari che potessero, in qualche modo, arginare intanto l’esondazione della cattiva politica, e lavorare quindi, più o meno carsicamente, alla costruzione di scenari futuri. Meno inquietanti, confusi e disastrosi. Non solo per il teatro. Ma per la tenuta di un paese che per definirsi "civile", non può rinunciare alla poesia, al "sentimento". Di conseguenza al teatro che è il luogo, per antonomasia, della poesia e del sentimento.
Sullo stato dell’arte attorno ai regolamenti, alle normative, a ciò che è ed a ciò che avrebbe potuto essere, ne hanno scritto in molti, più di me a conoscenza dei fatti, e tutti, fino alle ultime considerazioni di Franco D’Ippolito, declinano pensieri, tra loro anche diversi, che testimoniano la necessità di radicali innovazioni. Ciò mi esime da ulteriori considerazioni sul tema, anche perché non posso non esser d’accordo con quanto è gia stato detto. Anche se con gli inevitabili distinguo, che mi appaiono però meno urgenti rispetto ad altre considerazioni che ritengo più utili.
E’, infatti, il fil rouge che ha segnato fino ad ora il dibattito («Hystrio», ateatro) che mi interessa approfondire. Resistere, citando Adriano Gallina, en attendant Cofferati. E nell’attesa, appunto, per quanto e se sarà possibile, RESISTERE. Resistere provando nel concreto a far sì che la prassi comportamentale di "quel" teatro sappia, tra simili anche se non uguali, riconoscersi, e provi, pur rimanendo dentro gli schemi ed i regolamenti di riferimento, poiché con questi, qui e ora, si gioca, ad inventarsi percorsi che più attengono alla poesia e meno alle "chiacchiere ed al distintivo". En attendant, appunto, un qualche Cofferati che sappia poi cogliere e praticare le istanze del "sentimento". Quel sentimento che Silvio Castiglioni riassumeva nelle "ragioni del radicchio".
E’ esprimere una opinione, sul radicchio e sulle sue ragioni, la mia urgenza.
A partire dalla prima delle considerazioni che non può prescindere dall’occasione perduta: cinque anni di governo del centro sinistra e non è accaduto niente; al contrario, la situazione, già precaria, si è ulteriormente degradata. Il radicchio, per rimanere nella metafora di Silvio, si è bruciato, e la terra di coltura rischia di non essere più fertile. Errori, sottovalutazioni e incapacità. Da una parte il teatro non ha saputo, né voluto avanzare in maniera unitaria ed a prescindere dalle poetiche, una proposta sistematica, che desse luogo alle istanze di rinnovamento e che ponesse la "questione" teatro (non si possono avere tentennamenti e false pudicizie) tra le priorità in un paese, il nostro, che lo ha lasciato vivere in stato perennemente emergenziale; d’altra parte, il Centro Sinistra al governo non ha incentivato il dibattito, dimostrando di non conoscere i reali bisogni cui occorreva dare risposte, ha agito come ritenesse marginale il ruolo dell’arte, ha assunto atteggiamenti spesso supponenti, quando non arroganti. Non ha saputo ascoltare ed ha privilegiato l’interesse verso l’evento piuttosto che verso una politica di reale radicamento del teatro nel tessuto, non tanto urbano, quanto in quello dell’immaginazione e della creatività. Personalmente ho da sempre creduto in un teatro che sapesse emozionare ed inventare e non intrattenere, né tanto meno educare, che ponesse domande anziché proporre rassicuranti conferme, che favorisse la naturale evoluzione di processi in atto, cercando di privilegiare la vitalità di un percorso artistico piuttosto che perseguire la riuscita di un singolo evento: ho da sempre creduto a flussi di idee più che a tesi precostituite. Così come ritengo fondamentale ed imprescindibile ragionare, anche quando si parla di teatro, in termini di progetto anziché di programmazione, stagione o festival che sia. Progettare per il teatro significa, questa la mia opinione, progettare anche per la città e per il suo governo. Credo che il teatro, il fare teatro, l’organizzarlo non debba essere pensato come la somma dei lavori compiuti, né per il numero degli spettacoli che possono essere proposti, né, paradossalmente, per misurarne la qualità contando il numero dei biglietti strappati a fine serata. Non penso ci si debba accontentare di contare il numero dei presenti, che è comunque un gran bel viatico e rimane tra i principali traguardi che "quel" teatro deve tagliare, l’interesse di un progetto attiene alla partecipazione consapevole di coloro i quali scelgono di contribuire alla costruzione del percorso progettuale medesimo che ha necessariamente bisogno di un tempo che non si lega all’immediatezza di un evento. Quindi la somma è data da un’idea centrale che attiene alla civiltà che una comunità deve saper esprimere, per mescolarsi, senza confondersi, ad altre occasioni che possano contribuire a tenere alto il tono del dibattito attorno alla cultura, al suo farsi e alla necessità di essere "altri" e più vicini all’obiettivo di restituirci cittadini della polis, senza vergogna. Di un progetto possiamo conoscerne i luoghi di partenza ma abbiamo altrettanta certezza sull’impossibilità di calpestare "tratturi" conoscibili a priori, ed ancor meno abbiamo consapevolezza dei possibili approdi. Dovremmo abituarci alla pratica di una dimensione spesso negletta, quella che riguarda "il di là dal conosciuto": questo ci appare essere il primo tra i compiti cui è chiamato qualsiasi ambito che attiene la ricerca, la sperimentazione, l’organizzazione della cultura. Il cittadino di una qualsiasi città, luogo, che voglia, con la dignità che compete all’uomo, definirsi "cittadino", non può rinunciare alle emozioni, non può prescindere dalla meraviglia e dallo stupore, dall’esser consapevolmente disponibile al confronto, sapendo affrontare il dubbio, la contraddizione, con la semplicità del ragionamento unito al cuore, al sentimento, alla coscienza ed ai suoi flussi. Certo, mi si dirà che tutto questo non può esser lasciato al teatro; altri obietteranno che il teatro, tutte le componenti necessarie al suo farsi, rappresentano una, quasi irrilevante, parte dei bisogni dell’uomo contemporaneo. E’ vero. E’ senza dubbio così. Il teatro non può esser considerato un bene primario. Ma è pur vero che il teatro è: emozione, meraviglia stupore, dubbio, contraddizione, ragionamento e cuore, sentimento e coscienza. E’, in definitiva, la declinazione di un alfabeto di cui il mondo, questo che oggi viviamo, ha un bisogno estremo. Un alfabeto facile da apprendere se solo si riesca a rompere il velo della vergogna e la pigrizia intellettuale. Come tutti i processi di apprendimento, ha l’urgenza del "sostegno", mancando il quale, nemmeno ha inizio, e quando lo ha può, se non convenientemente sostenuto, deperire e morire. Per quel che mi riguarda ritengo che il sostegno non può che essere pubblico. Danaro pubblico e molto di più di quanto sino ad oggi non sia stato investito. Parlo di INVESTIMENTI e non di spese. E già sarebbe una piccola rivoluzione se la politica cominciasse a praticare nel concreto questa parola. Ritenere la cultura, nella fattispecie il teatro, non una spesa, al contrario, una necessità. Più necessaria degli immondi spettacoli cui siamo costretti, nostro malgrado, ad assistere ed a subire quotidianamente, peggiori degli spettacoli di giro, dove comunque vige la stessa regola, lo scambio. Io do una cosa a te, tu dai una cosa a me dove troppo spesso le merci che vengono scambiate sono così tanto marce da ammorbare l’aria. Ecco perché il teatro, quando riesce ad esser vero, è necessario oltre il teatro. Qui poco ci "azzeccano" il FUS, il decentramento, la devolution, l’ETI, l’AGIS, gli Stabili e l’innovazione, i circuiti, più o meno organizzati, il mercato. Si tratta di ripensarlo, il teatro. Ripensarlo mentre proviamo a concimare tanti piccoli campi, tra i quali quello che deve appartenere al teatro, nuovi che si ritagliano comunque sui vecchi, dei quali è fondamentale mantenere l’humus, la saggia pazienza della terra, la sua storia, le sue tradizioni. Forse allora il "radicchio" potrà crescere rigoglioso! Occorre scrivere nuove regole, occorre saper distinguere la qualità dell’arte, dall’artigianato e dal dilettantismo. Sarà più facile se sapremo tornare ad esser "partigiani", scegliere una parte e per quella batterci. Forse avremo ancora bisogno di un qualche Cofferati, ma avremo l’imbarazzo della scelta.

«……forse proprio per costoro (i seri) sarà in genere scandaloso veder preso tanto sul serio un problema estetico, nel caso cioè che essi non siano in grado di vedere nell’arte più di un piacevole accessorio, di un tintinnio di sonagli di fronte alla "serietà dell’esistenza", di cui certo si potrebbe fare a meno: come se nessuno sapesse che cosa voglia dire questa contrapposizione a una tale "serietà dell’esistenza". A questi seri serva da ammaestramento il considerare che io sono convinto dell’arte come del compito più alto e della vera attività metafisica di questa vita, nel senso dell’uomo a cui io qui, come al sublime combattente che mi precede su questa strada, voglio che questo scritto sia dedicato.»
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Prefazione a Richard Wagner.


 


 

Le recensioni di "ateatro": Elle! Louise Brooks
con Hanna Schygulla
di Fernando Marchiori

 

Uno strano cortocircuito di immagini e voci dev’essersi verificato nella mente di molti degli spettatori accorsi al Teatro Civico di Schio (Vicenza) per l’unica data italiana di Hanna Schygulla e del suo Elle! Louise Brooks. Sullo schermo scorrono le immagini di Das Tagebuch einer Verlorenen di Georg Wilhelm Pabst (Diario di una donna perduta, o anche traviata, come suonava in italiano raddoppiando il fuorviante richiamo alle convenzioni rassicuranti del melodramma cui lo stesso regista finse di attenersi), mentre un ensemble di nove musicisti esegue l’efficace partitura di Roberto Tricarri, cui si deve anche la direzione artistica di questo "cinema-concerto per voce e orchestra" prodotto dalla Maison de la Culture d’Amiens e da un folto gruppo di teatri francesi.



Il volto pulito di Louise Brooks, occhi grandi e capelli neri a caschetto, sprigiona tutto il suo fascino conturbante. E in scena c’è lei, Hanna Schygulla, o meglio la sua voce, perché l’attrice tedesca, icona vivente del cinema di Fassbinder, fa di tutto per stare solo in quella voce: penombra, leggio in disparte, volto allo schermo, tono mai sopra le righe. Accompagna le immagini eppure il suo intervento non è mai didascalico, sembra piuttosto duettare e a volte perfino duellare con le splendide scene del film. Il capolavoro di Pabst è del 1929, e bisogna ripeterselo ogni tanto, perché il realismo con cui governa le deformazioni espressioniste, le antitesi estreme, e la precisione del suo sguardo – che svuota dall’interno il genere melò, mostrando in Thymian una vittima innocente della società borghese ormai in decomposizione e contemporaneamente una femminista ante litteram, un oggetto di violenza e un soggetto che assume coscienza e spregiudicatezza senza perdere in umanità – lo fanno idealmente slittare a un’altezza cronologica ravvicinata. Tanto più che, inevitabilmente, frammenti fassbinderiani emergono dalla memoria iconica dello spettatore a complicare l’anacronismo. Per esempio l’ambigua casa-farmacia in cui cresce la protagonista fa pensare alla casa-clinica di Veronika Voss; lo sfondo della crisi della Repubblica di Weimar rimanda agli scenari fassbinderiani sul crollo del Terzo Reich; mentre le inquadrature (complice un bianco e nero che il restauro della pellicola ci consegna in tutta la sua luminosità) distanziano spesso il soggetto creando quell’effetto di osservazione che Fassbinder cercava quasi di condividere con lo spettatore. E bisogna ripetersi anche che quello che stiamo guardando è un film muto, tale è la coesione di immagini, musica e voce. Eppure, nello stesso tempo, si coglie anche l’autonomia di quella voce, che vive delle sfasature con le immagini, che non si preoccupa di rincorrerle o doppiarle, ma cresce e risuona dentro gli spettatori come una voce interiore, con esiti contrastanti di coinvolgimento, di allontanamento, di tensione, di rinuncia La Schygulla non "recita": parla, canta (suoi i testi, in francese, tedesco, un po’ anche tradotti in italiano per l’occasione), dà voce a Louise Brooks e Louise Brooks dà corpo alla sua voce, e insieme ai fantasmi di altre antieroine incarnate dall’attrice preferita di Fassbinder: Maria Braun, Effi Briest, Wilkie Butenberg (Lili Marleen)… Uno strabismo interpretativo, il nostro, giustificato dalla premessa estetica dello spettacolo: "il cinema muto è come le grandi opere classiche, un supporto senza tempo di creazioni contemporanee dove si può ripetere liberamente la relazione amorosa tra musica e immagine". Bellezza e anticonformismo, erotismo e ribellione, grazia e perversione sono del resto gli elementi sia delle provocazioni di tanto "nuovo cinema" tedesco, sia della scandalosa opera di Pabst, contro cui si accanirono le censure tagliando le scene più schoccanti, ora in gran parte reintegrate. Schygulla rimette in circolo queste potenti suggestioni con misura e naturalezza. Jean-Claude Carrière ha scritto che in lei continua il percorso artistico di Fassbinder, e ciò è tanto più vero quanto più ci si allontana dalla nostalgia per una stagione irripetibile e dal gusto dell’eccesso del regista maledetto. Schygulla ha rinunciato al mito che circonda il suo nome per mettersi, con umiltà, al servizio di un altro mito, quello di Louise Brooks, la quale a sua volta risulta così demitizzata e più vera. La donna, l’attrice Louise Brooks, più che le sue proiezioni mitiche (da Lulu a Valentina), è diventata la musa della Schygulla in una ricerca personale, prima ancora che artistica, di umanità nell’arte. Sembrano confermarlo i modi semplici con cui alla fine l’attrice viene ripetutamente alla ribalta per rispondere alle chiamate del pubblico. Con gli spettatori tutti in piedi, l’omaggio a Louise Brooks si trasforma in un omaggio affettuoso a Hanna Schygulla. Ma tra gli applausi qualcuno canticchia allegramente Lili Marleen, e il cortocircuito ricomincia.


 


 

Le recensioni di "ateatro": SuperElioGabbaret (Bestiario romano) di Luca Scarlini e Massimo Verdastro
Laura Angiulli e Massimo Verdastro
di Andrea Balzola

 

Roma è innanzitutto una capitale dell’immaginario. Immaginiamo Roma (non è difficile) come una grande, unica scena, dove il tempo stratifica architetture, letterature, echi visivi e sonori, in un declino cominciato con la fine dell’impero romano e mai compiuto, perciò più vitale di altri trionfi; cercando in essa e per essa una guida ideale, non la troveremmo nei ciceroni di professione e nemmeno nei personaggi illustri che l’hanno raccontata, ma in un "clown metafisico", un portavoce teatrale di memorie private e collettive, un Virgilio novecentesco con lo smoking e il cilindro di Petrolini. Con le sue movenze da burattino vivente, la sua ironia astuta e paradossale, la sua ambiguità androgina, la sua poesia terrena e il suo spirito surreale.

Questa è l’ottima idea che l’attore (Premio Ubu 2002) e regista Massimo Verdastro ha scritto, in collaborazione con Luca Scarlini, messo in scena, in collaborazione con la regista Laura Angiulli, e interpretato, da solo, accompagnato dal raffinato arazzo musicale tessuto da Francesca Della Monica (storica e coltissima collaboratrice musicale di Tiezzi-Lombardi). Lo spettacolo è stato presentato in una prima versione al Festival di Benevento del 2003 ed è poi stato elaborato nell’ambito del gruppo napoletano di Galleria Toledo.
Il gioco di parole del titolo dello spettacolo – SuperElioGabbaret – già fornisce la password poetica di un "montage" drammaturgico originale e sofisticato. Eliogabalo, l’imperatore bambino, tiranno folle, eretico e anarchico, rievocato da Artaud come simbolo dei paradossi del potere e della sua vocazione autodistruttiva, risorto-rivisitato dalla scrittura di Arbasino (con il SuperEliogabalo, inizialmente concepito per un film di e con Carmelo Bene), giunge sulla scena di Galleria Toledo, nella sua ultima contro-figura, nella sua ultima clownesca metamorfosi: l’attore di cabaret e varietà Elio Gabbalo (nome d’arte).
E’ come un lungo percorso dal tragico al comico, dal teatro della storia alla storia del cabaret, luogo novecentesco della mescolanza e della promiscuità di talenti mancati o scovati, di generi e linguaggi, perché il cabaret è asilo di infiniti comici sconosciuti e smarriti, ma anche palestra di formazione dei grandi attori, covo delle rivoluzioni artistiche novecentesche come il Cabaret Voltaire dadaista o i locali-trincea delle serate futuriste. Regno di anarchici e autarchici imperatori della scena come Petrolini e Totò, i grandi clown metafisici del Novecento italiano.
Il cabaret è anche il luogo dove le memorie personali dell’attore possono infiltrarsi tra le sue maschere, affacciandosi nella passerella dei suoi personaggi. E’ infatti con sapiente intensità che Verdastro si fa medium di un’incalzante sequenza di apparizioni e sparizioni di fantasmi personali e collettivi. La memoria di un attore che ricorda di aver partecipato ai funerali di Anna Magnani o i suoi incontri con controfigure di attrici famose, come Scilla Gabel, s’intreccia con la Storia (alla Elsa Morante) rievocata attraverso le storie, cioè i racconti di famiglia, in un passaggio impercettibile tra mito e cronaca, fra memoria e immaginazione. E poi, soprattutto, le voci famigliari dei poeti amati che raccontano in frammenti, non sempre noti, una Roma appassionatamente vissuta, in tutte le sue vitali sfaccettature e contraddizioni: Roma meretrice e reduce della storia (Arbasino), ferita a morte dalla guerra (il bombardamento di San Lorenzo descritto da Palazzeschi), o dalla tragica farsa della dittatura fascista (nell’insuperabile sintesi di Gadda), marginale, violenta e assetata di vita (Pasolini), troppo satura di fantasmi (nella poesia di Giorgio Vigolo), fatta parola con il nobile e corrosivo vernacolo del Belli, o teatro, con i surreali funerali di Maria Stuarda riscritti da Petrolini. I due autori del montaggio testuale hanno cercato e raccolto come segugi poetici un materiale immenso e avvincente di frammenti che non era facile scegliere e ricomporre in un quadro drammaturgico unitario, e che potrebbero generare altre versioni inedite dello stesso spettacolo. Lo spettacolo è metamorfosi "eliocentrica", dove l’attore, illusionista del gesto e della parola, si spoglia progressivamente dei panni sia simbolici sia fisici dei suoi personaggi (e della sua stessa "divisa" da Cabaret), mettendosi a nudo come pura presenza vocale e corporea, diapason emotivo di un percorso sempre più interiore, fatto di corrispondenze talvolta evidenti, altrove celate, sempre intime, tra le voci poetiche e i brani musicali scelti con grande sensibilità da Della Monica. Anche il lavoro di regia dello stesso Verdastro e di Laura Angiulli, coadiuvato dalle scene essenziali di Rosario Squillace e dalle luci espressive di Cesare Accetta, è minuzioso, sottile e minimalista, veste l’attore su misura di ogni verso e di ogni gesto, e Verdastro è davvero bravissimo nell’interpretare una partitura così ricca ma anche così diversa di registri stilistici e di cadenze ritmiche, di stati d’animo, di valori affettivi ed etici.

SuperElioGabbaret – bestiario romano di Luca Scarlini e Massimo Verdastro con Massimo Verdastro Regia di Laura Angiulli e Massimo Verdastro Scene di Rosario Squillace Costumi di Salvatore Forisno Luci di Cesare Accetta Progetto musicale di Francesca Della Monica Direzione tecnica di Antonio Pennarella Anteprima presso Galleria Toledo di Napoli


 


 

Le recensioni di "ateatro": Metafisico cabaret
di Giorgio Barberio Corsetti
di Federica Fracassi-Teatro Aperto

 

Metafisico cabaret, in scena al Teatro dell¹Arte di Milano, è uno spettacolo diretto da Giorgio Barberio Corsetti, ideato insieme alla sua compagnia Fattore K.

E’ una smorfia, una carezza, un tentennamento, un urlo, una lapide, un ghigno, un sogno, un altare, un totem, un rutto, un volo, un precipitare con un peso sghembo, una sostanza, una forma, una bestemmia, un niente, un così niente che ti fa piangere e ridere per quanto di vuoto lo riguarda e insieme riguarda te che lo guardi guardare e impaurire.
Cos’è uno spettacolo? Cos’è un attore? Cosa dovrebbe essere un attore se non questo?
Filippo Timi è un attore di teatro, come tutti gli attori dovrebbero essere.
E’ un semplice attore. Ma credo anche di poter aggiungere con assoluta fermezza: Filippo è un genio.
Vi giuro che di solito, essendo attrice io per prima, sono invidiosa e stronza fino al midollo e, prima di celebrare un altro essere che mi rubi un po’ di luce, mi taglierei le vene.
Ma questo Filippo buffone triste l’ho conosciuto tanti anni fa ormai, quando lavoravamo con il Teatro della Valdoca, quando solo ancora balbettava e mi faceva fare i voli da rockstar in aria, perché era una mossa che aveva imparato pattinando sul ghiaccio.
Questo Filippo massiccio e glorioso l’ho visto a teatro più e più volte in questi anni. Ed è stato sempre emozionante e da pelle d’oca verificarlo presente a tutto, sempre presente, mentre noi scappiamo al tempo, alla nostra vita, agli appuntamenti, pensando che poi... poi forse succederà qualcosa, e poi è fatalmente troppo tardi. Lui invece l’ho trovato sempre lì, presente a se stesso e agli altri sulla scena, tramite di brividi e domande, sprezzante e indagatore e divino.
Pensate che tutto ciò non vi riguardi? Sì che vi riguarda. E’ l’essenza del teatro.
Anche Giorgio Barberio Corsetti conosco da tanto tempo, una conoscenza più distante che è quella che si deve al regista che ammiri, anche se non lo prendi troppo sul serio con la sua aria da eterno ragazzo. Conservo ancora le locandine dei suoi spettacoli, i primi che andavo a vedere quando diciottenne mi avvicinavo al teatro e mi è anche capitato di essere sua allieva a Modena. Lo facevano ridere le mie calze a quadri.
Giorgio e Filippo si sono incontrati da un po’ di tempo ormai e io credo che sia stato un incontro molto fortunato. Così come Federica Santoro, in scena anche lei e sempre bravissima, Filippo dà carne e sangue alle metafisiche buffe storture di Giorgio, sporca i disegni che Giorgio ha in testa, incarna il disequilibrio rendendo lo spettacolo divino, perché troppo umano, così ironico da essere commovente e lieve fino alle lacrime.

(A proposito di lacrime. Quando arrivi a teatro trovi una banda scalcagnata che suona e pensi che sia una trovata registica: lo spettacolo in fondo tratta di cabaret, di evoluzioni circensi come hai letto dal giornale. Poi capisci che non è così. Sono gli ex-dipendenti del teatro che protestano. Aspettano la loro paga da nove mesi, inascoltati. Tristezza. Angoscia. Incazzatura. Siamo alle solite, al solito Crt che prende i soldi dagli enti pubblici e poi umilia gli artisti, i dipendenti. Sta per uscirmi un urlo: perché il teatro fa così schifo? Perché deve essere lordato da questa mancanza di rispetto? E poi stasera è come uno schiaffo sulla mia faccia. E’ da due anni che boicotto da spettatrice questa sala, per protesta contro questo trattamento che era stato ovviamente riservato anche alla mia compagnia, Teatro Aperto. E mentre sono lì che tentenno la banda scalcagnata mi picchia forte e dice: «Perché stai entrando vigliacca, perché?». La domanda è pertinente. Ma stasera ho bisogno di entrare. Lo so. «Infrango il mio voto per la banda che sta là dentro», rispondo. E la banda fuori capisce e mi dà la sua benedizione.)

«Ed ora?», chiederete curiosi «dopo tutte queste introduzioni parlaci dello spettacolo».
No, non sono un critico.
Invece di descrivervi quel che ho visto, in questo mondo stitico di complimenti, voglio solo ringraziare Filippo e gli altri per gli istanti di ieri, celebrarli così come faceva Ginsberg «Holy, Holy, Holy...».
E’ così il genio: qualcosa che va celebrato; qualcosa che sta esattamente dove deve stare e per questo è più forte di noi, più testardo e forte e dissacrante di tutti, più fragile della nostra fragilità, più bastardo della nostra cattiveria, più animale di noi uomini e più generoso. Più generoso di umori di quanto lo siamo noi, perché ci dà il respiro, e la saliva, e il piscio mischiato alla poesia: tutto ci dà il genio, si risucchia tutto e si sputa fuori per noi, non può fare a meno di vuotarsi ogni giorno un po’ per noi spettatori, e questo almeno vale un grazie.
Questo è Filippo. Che a tavola parla e fa improvvisare forchette e tovaglioli, che legge i diari di Nijinsky e ti parte con una tesi filosofica, che quando hai la febbre ti si butta sul letto e ti fa un monologo, che gira con i tacchi per i festival, che rimane muto e triste con gli occhi spalancati che vedono poco, che si distrae continuamente e non puoi farci un discorso, che passa dal comico al tragico, dal canto alla danza, dal vomito al cielo. Che lo pensi creato per il mondo intero, ma ora, non domani, ora.

pubblicato il 27-02-04 su www.nazioneindiana.com in vasicomunicanti


 


 

Le recensioni di "ateatro": La Repubblica di Platone
Regia di Italo Spinelli
di Fernando Marchiori

 

Se la città ideale che Platone pianifica nella Repubblica è una sorta di rappresentazione a rovescio dell’Atene del suo tempo, la riscrittura del testo platonico che il regista Italo Spinelli mette in scena al Piccolo di Milano, dopo il debutto senese dell’anno scorso, rivela i tratti inquietanti dell’Italia berlusconiana. Prodotto dal Centro Warburg Italia, lo spettacolo porta un Socrate in dolcevita nero e i suoi giovani interlocutori incravattati a discutere, in un elegante salotto borghese, tra bottiglie, sigarette e stacchi jazz, del marciume statale e dei rimedi possibili. Per risanare la città serve qualcuno che abbia autorità, ed ecco allora apparire l’uomo del destino a ripristinare la scala sociale, "e lasciatelo governare a colpi di decreti legge, lasciatelo modificare la costituzione".
Omettendo forse i passaggi più famosi e più scolastici, e invece includendo alcuni altri brani socratici particolarmente scabrosi, la drammaturgia firmata da Luca Malavasi, Patrizia Pinotti, Andrea Rodighiero, Massimo Stella e Martina Treu mette così a fuoco il concitato prevalere di una nuova classe dirigente nella polis del V secolo a.C. e la sua rapida degenerazione. Il miraggio della città giusta è coltivato mentre infuria la guerra civile conseguente al governo dei Trenta Tiranni e nel lungo dialogo centrale sono anzitutto le diverse concezioni della giustizia a scontrarsi. Per Glaucone (Francesco Pennacchia) "la giustizia è il porco comodo di chi comanda". "Forse – risponde Socrate (Paolo Graziosi) – in una città di porci". E al vecchio fabbricante d’armi, il meteco Cefalo (Elia Mario Schilton), che sostiene una giustizia legata all’indipendenza di chi è ricco, il filosofo contrappone una giustizia collaborativa per raggiungere il bene di tutti. Ma a quale prezzo? Sempre più istrionico e ispirato, Socrate conduce ormai senza quasi resistenze il dialogo con gli ex discepoli sbracati sui divani bianchi e si lascia prendere la mano: espone piani di rieducazione, progetti eugenetici, i metodi di costruzione del consenso, "perché se non li convinci a obbedirti spontaneamente poi ti tocca fare il macellaio".
Il mito della caverna, che è il cuore della Repubblica platonica, è solo evocato nello spettacolo quando le geometrie del salotto si proiettano su uno schermo roteando in un teatro d’ombre. E tuttavia il mito rimane, in molti sensi, al centro anche della messa in scena. Da una parte il presente rappresentato - che è il nostro - vive più che mai in una dimensione di irrealtà, di imbonimento, di dominio dell’immaginario. Nell’imminente città perfetta non vi sarà più distanza tra pubblico e spettacolo, tra finzione e realtà, e non perché il popolo potrà finalmente vivere anziché guardare e consumare "finché infarto non lo colga", ma al contrario perché la realtà stessa diventerà definitivamente una nobile finzione. Dall’altra, la stessa Atene della Tirannide viene evocata come luogo notturno, equivoco, torbido, rispetto alla quale l’oleografica polis consacrata nella propaganda periclea sembra un doppio fallace che si proietterà a lungo anche sulla storiografia posteriore. E soprattutto è il movimento finale del mito, il ‘ritorno del filosofo’ alla caverna dopo la liberazione dalle catene dell’apparenza e la visione della verità a porsi come il vero motore dello spettacolo. Socrate potrebbe fare a meno di tornare e di mettersi in discussione, e per tutto il tempo il personaggio di Graziosi è infatti scocciato, sbrigativo, evasivo. Beve whisky, fuma, accarezza Polemarco (Andrea Carnevale), lancia battute velenose contro la politica culturale e volta le spalle alle provocazioni di Crizia, il reazionazio pragmatico, il politico di professione.» come trascinato controvoglia a prender parte alla disputa. «Ma tu questo programma l’hai scritto?» gli chiede l’avvocato Lisia (Giorgio Crisafi). «Uffa, questa mania di scrivere!» Ma il suo tornare nella caverna assume qui anche i toni di una mozione degli affetti: prima di morire bacerà Alcibiade, la sua testa mozzata ancora calda. A noi che quasi abbiamo finito per credere che le ombre virtuali al fondo della caverna mediatica siano l’unica vera realtà, a noi pacificati prigionieri di elettronici ceppi torna dunque un Socrate ben poco filologico ma rigenerato dall’attualizzazione. Certo ci è lontana la concezione della politica come arte che "cura l’anima" e dello stato come gigantografia della psiche. Vale tuttavia ancora – e ci sembra questo il messaggio aldilà della cinica condanna del potere come inevitabile ingiustizia - la conclusione implicita nella Repubblica platonica: ognuno ha lo stato che si merita.


 


 

Le recensioni di "ateatro": Madre e assassina
del Teatrino Clandestino
di Erica Magris

 

Lo spettacolo, presentato in prima assoluta a Modena, è la tappa conclusiva di un progetto di ampio respiro su "le madri assassine". Da un anno Teatrino Clandestino snoda il suo percorso di ricerca su questo tema, presentando spettacoli-studio fra cui ricordiamo in particolare La bestemmiatrice portato al Festival di Santarcangelo nel 2003. Dietro l'argomento del progetto si staglia il mito di Medea, sottolineato nelle serate modenesi dall'allestimento nel foyer del Teatro delle Passioni di uno spazio musicale e visivo curato da Luca Scarlini e intitolato Medea: immagini e suoni per un mito. Musiche di opere dedicate alla maga della Colchide accompagnano lo spettatore in un percorso espositivo attraverso la sua tradizione iconografica dall'antichità ai giorni nostri. Nella creazione di Teatrino Clandestino, però, la storia di Medea viene traslata alla dimensione della cronaca, per trasformarsi nella vicenda di "una donna più che normale" - come cita il programma - nella provincia italiana degli anni Cinquanta. Lo scandaglio della complessità del mito non si concretizza né in un approfondimento degli elementi psicologici né in una concentrazione sul compiersi del gesto tragico dell'assassinio, ma si traduce in una "ricerca più che formale" - sempre dal programma - sulla presenza dell'attore e sulla composizione dell'evento teatrale. Pietro Babina e Fiorenza Menni, in coerenza con i lavori precedenti sul tema, hanno messo a punto un dispositivo in cui l'attore diventa una presenza fantasmatica, lontana dallo spettatore e visibile solamente attraverso un doppio elettronico che emerge dalla totale oscurità. Pietro Babina ha affermato a questo proposito:"Ho sempre trovato più visioni nell'oscurità, nel buio, è al buio che mi si illuminano i soggetti che ho cominciato a portare con me a teatro".



Il dispositivo è allo stesso tempo sofisticato ed artigianale, fonte per lo spettatore di indubbia fascinazione e di ambiguità percettiva. Davanti alla platea, piuttosto raccolta, uno spazio libero di un paio di metri chiuso da uno schermo semitrasparente collocato alla classica altezza del palcoscenico o dello schermo cinematografico, e che occupa totalmente il quadro scenico. Di fronte ad esso, a modi proscenio, si trova una stretta passerella unita alla sala da una scaletta. A circa tre/quattro metri di distanza dal primo schermo se ne trova un altro. Al centro in basso, invisibili agli spettatori, sono collocati due proiettori su binari, da cui vengono inviate sullo schermo posteriore delle immagini, che, grazie alla semi-trasparenza del telo, sembrano acquistare profondità e consistenza. Quasi impercettibile, ma altrettanto importante, è il raffinato sistema di diffusione del suono, particolarmente funzionale al suggestivo insieme sonoro composto dallo stesso Babina. Un particolare che ho notato a questo proposito è la presenza di una cassa collocata in verticale proprio sopra il pubblico. Dietro la duplice barriera degli schermi si trovano gli attori, che sono dunque ben distanziati e completamente invisibili agli spettatori. Il loro ruolo è di dialogare e produrre rumori in diretta in sintonia con le azioni compiute dalle loro immagini pre-registrate inviate sulle superfici di proiezione. Solo un'attrice compare davanti al pubblico nella seconda parte dello spettacolo, sulla sottile striscia di proscenio davanti allo schermo anteriore. Lo spettacolo instaura quindi un rapporto ambiguo e problematico della platea con la scena, creando una compresenza dialettica di distanza e immersione. Se da un lato infatti gli spettatori sono lontani dagli attori nascosti, e quindi distanziati dall'azione, che giunge attraverso il filtro dello schermo e dell'immagine elettronica, dall'altro, grazie alla totale oscurità e al sistema audio essi tendono ad essere inglobati percettivamente nell'universo scenico, in una strana e angosciante intimità con gli spettri del palcoscenico. Inoltre nella seconda parte, l'attrice sul proscenio menzionata precedentemente si rivolge direttamente al pubblico, mettendo in opera un ulteriore complicazione dei rapporti di distanza e prossimità.



La prima parte dello spettacolo consiste nella presentazione della storia di Maddalena Sacer, esempio di "casalinga perfetta" inserita nel corso di una vita apparentemente piana e serena, che improvvisamente un mattino uccide i suoi due bambini. Sullo schermo posteriore vengono proiettati delle brevi sequenze girate in un set cinematografico appositamente costruito dalla compagnia, in cui gli attori e gli oggetti a colori si stagliano su un fondo nero uniforme, con un effetto che ricorda vagamente le atmosfere cinematografiche di Dogville (2003) di Lars Von Trier e di Wittgenstein (1993)di Derek Jarman. A queste immagini se ne accompagnano a volte in contemporanea a volte in alternanza altre proiettate sullo schermo anteriore. L'inizio dello spettacolo esplica bene le possibilità di relazione che sono instaurate tra i due livelli di proiezioni: inizia una musica ritmata e ossessiva, mentre sullo schermo anteriore iniziano a scorrere delle immagini di palazzi e strade in bianco e nero riprese da un auto in movimento dal basso verso l'alto. Dopo qualche tempo appaiono sul retro le immagini di pannelli bianchi di silhouette stilizzate e antirealistiche di edifici ( che inizialmente crediamo essere dei veri pannelli), sui quali sono scritti in calligrafia infantile "chiesa", "municipio", "fabbrica", "maternità". Ogni pannello viene come issato per poi cadere con un tonfo prodotto in diretta dagli attori e lasciare lo spazio a quello successivo. Lentamente le immagini anteriori sfumano, e quando cade l'ultimo entriamo nel reparto maternità e assistiamo al parto del secondo figlio di Maddalena. La famiglia felice, torna poi a casa su una bella macchina grigia.



Per tutto lo spettacolo il rapporto fra realtà/bianco e nero/davanti, e fiction/colori/dietro viene mantenuto, se pur con significativi scarti e slittamenti dall'uno all'altro: dietro viene proiettata la fiction con i suoi pannelli e i suoi ambienti rarefatti e pur ricostruiti minuziosamente nella fattura degli oggetti, fra i quali assume un particolare rilievo estetico e simbolico l'automobile grigia della famiglia Sacer; davanti troveranno posto le strade, le fabbriche e, in un momento molto intenso nella sua enigmaticità, il volto della "madre", ripreso con taglio divistico in primi piani alternati a destra o a sinistra dello schermo, che sembrano suggerirne i travagli e la complessità interiore, evocando al tempo stesso un riferimento ai film hollywoodiani dell'epoca. Il modello della famiglia borghese, così presente nella cinematografia degli anni '50, è infatti per Teatrino Clandestino un universo stilistico di riferimento e al tempo stesso l'obiettivo di una critica di tipo sociale, con un'operazione che per certi aspetti ricorda la pellicola di Todd Haynes Lontano dal paradiso (2002).



Le scene si snodano senza un'apparente progressione drammatica: i quadri domestici tratteggiano il ritratto di una famiglia senza problemi la cui routine è interrotta solamente dalla visita di un'amica d'infanzia di Maddalena, la cui vita emancipata si scontra con la visione ingenua e appagata della protagonista. Le ansie e le inquietudini di Maddalena sono abbozzate, suggerite: forse è la predizione di un’apocalisse che distruggerà le nuove generazioni lanciata con noncuranza dall'amica, forse l'intima insoddisfazione per una vita troppo perfetta, o forse un raptus di follia immotivata a portare al gesto tragico e irrimediabile. La scena dell'infanticidio è costruita in maniera molto efficace e risulta di grande impatto emozionale: durante una colazione come tante altre, la protagonista si avventa sui figli e li uccide a coltellate. L’imminenza della catastrofe è preannunciata dal racconto del bambino, che durante la notte ha sognato proprio che la madre uccideva lui e la sorella trasformandosi in un diavolo. Repentinamente la fantasia del sogno si trasforma in atto reale. Allo scattare della violenza, le immagini posteriori scompaiono, e sullo schermo anteriore viene proiettata una silhouette che si avvicina brandendo un coltello stagliata su un fondo rosso fuoco e che viene inghiottita da fiamme elettroniche, mentre un bombardamento sonoro di frequenze molto intense avvolge lo spettatore, ponendolo in uno stato fisiologico di ansia ed eccitazione. Questo insieme visivo e sonoro fortemente aggressivo è mantenuto forse troppo a lungo: superato lo shock iniziale, la tensione si allenta e il pubblico entra in uno stato di impazienza, chiedendosi quale potrà mai essere il seguito della storia e dello spettacolo…



La risposta arriva e stupisce ulteriormente. La frattura fra il "prima" e il "dopo" è netta, e forse la seconda parte non risulta pienamente risolta dal punto di vista drammaturgico e contenutistico. Sullo schermo scorrono dei titoli da trasmissione televisiva, entra sul proscenio da dietro la platea un'attrice in pantaloni di pelle e bustino di pizzo, la sala è investita di luci verde-azzurre a effetto stroboscopico. Il brusco cambiamento del tono e del registro di presenza dell’attore produce un forte spiazzamento: improvvisamente il pubblico è sbalzato all'interno di un reality-show televisivo dei giorni nostri, accusato di voyeurismo, calato in una situazione scomoda. L'attrice è la conduttrice cinica e sensazionalista della trasmissione e si rivolge direttamente agli spettatori: dopo che tanti anni sono trascorsi dall'efferato delitto, afferma la necessità di investigare sulle ragioni che hanno spinto Maddalena al gesto insensato, annunciando un'intervista esclusiva con la protagonista. Alla critica alla famiglia borghese che emerge, forse in maniera un po' generica, nella prima parte si affianca quella della società dell'immagine. La conduttrice intervista con crudeltà lo spettro elettronico di Maddalena, che riappare sul fondo con i vestiti insanguinati. Di fronte alle domande incalzanti la donna rifiuta di spiegare la sua azione e mostra di aver rimosso l'accaduto. La conduttrice allora sfodera "il pezzo forte", una registrazione acustica dell'omicidio. Il dramma viene rivissuto nella fusione delle urla atroci dei bambini (registrate) e di quelle della madre (in diretta). Il trauma viene rivissuto dal pubblico e dalla protagonista, che però rifiuta la soluzione psicanalitica e scompare dicendo "sono uscita dalla mia vita e non so come rientrarci". Cala l'oscurità, la conduttrice esce ed il fantasma della Sacer si insinua nella sala, in carne e ossa ma invisibile. L'inquietudine degli spettatori è molto alta. La protagonista rivendica il diritto di non dover spiegare il perché del suo gesto ed esce. Arriva poi la conclusione dello spettacolo, molto intensa ed efficace, che manifesta in maniera esplicita l'interesse prioritario del Teatrino Clandestino verso la ricerca di un nuovo linguaggio teatrale. Il dispositivo tecnologico viene svelato agli spettatori e in questo modo ne viene evidenziata l’artigianalità tutta teatrale: vengono alzati i teli degli schermi, emergono le strutture in legno e la pedana di fondo con gli attori e gli oggetti utilizzati per produrre i rumori. Viene così alla ribalta l'elemento umano negato dal dispositivo ed il lavoro materiale e concreto del teatro. All'interrogativo sulla volontà di conoscere a tutti i costi di un gesto assassino incomprensibile e quasi "incommensurabile", con questa scelta dello svelamento se ne sembra aggiungere un altro sulla volontà di fare teatro e sulla necessità "formale" di esplorare nuove possibilità legate alle peculiarità tecnologiche del nostro presente.



Madre e Assassina
Di Teatrino Clandestino
Modena, Teatro delle Passioni da 10 al 29 febbraio

Ulteriori Date Previste:
3-6 marzo Théâtre Garonne Toulouse
16-18 marzo ICA London
23-28 marzo Nuovo Teatro Nuovo Napoli

Ideazione: Fiorenza Menni e Pietro Babina

Con: Fiorenza Menni, Angela Presepi,
Barbara Folchitto, Biagio Forestieri
regia, drammaturgia e musiche: Pietro Babina
Capocomicato: Fiorenza Menni
Consulente Letterario: Luca Scarlini
Curatore video: Pierpaolo Ferlaino
Direttore tecnico: Giovanni Brunetto
Macchinista – elettricista: Luca Piga

N.B.: Le immagini qui presentate sono fotografie delle immagini video trasmesse sugli schermi.


 


 

Le recensioni di "atetro": Medea da Euripide
di Emma Dante
di Clara Gebbia

 

Il coro delle Donne di Corinto, nella Medea di Emma Dante tratta da Euripide - in scena al Teatro India - è composto da donne siciliane, donne della Vucciria.
Si chiamano Mimma, Caterina, Pupella, Rosetta, Giuseppina.
Nella realtà Gaetano Colella, Luigi di Gangi, Alessio Piazza, Stefano Miglio, Antonio Puccia, sono uomini, tutti molto bravi, uniti in scena da complicità, grande ritmo, vis comica.



Questo coro di donne sgraziate fa da cornice alla Medea di Iaia Forte, una popolana sempre gravida dotata di animalesca ed efficace potenza espressiva. Lontana da Giasone (Tommaso Ragno) e dalla reggia, Medea vive nei vicoli. Le scene mobili di Fabrizio Lupo, evocative e duttili, di volta in volta si chiudono e si aprono allo sguardo, facendoci intravedere un interno dalle luci soffuse e merletti alle finestre, dove in un atmosfera intima ha luogo il parto plurigemellare di Medea. Diventano in altri momenti un cortile da cui affacciarsi per comunicare e litigare tra vicine, o porte chiuse e sorde al picchiare doloroso e disperato di Giasone dopo l’infanticidio da parte di Medea. Giasone, è un uomo dai modi decisamente poco signorili: si disseta con l’acqua del pediluvio di una delle popolane, si asciuga con le tende di merletto, picchia le donne del coro, cerca di comprare la complicità di Medea, e Tommaso Ragno è efficace sia nel ruolo dell’uomo insensibile e gretto, sia nel dolore per la morte dei figli.
Entrambi i protagonisti ci commuovono nella scena finale, con Medea che porta in una culla/bara i vestitini grondanti acqua (segno della morte per annegamento), che vengono appesi pazientemente dalle Donne di Corinto, mentre il gioco di vendette reciproche non ci dà più la possibilità di distinguere tra ferito e feritore: "il mio dolore è gioia", dirà Medea.



Il tutto è immerso nelle azzeccatissime sonorità dei Fratelli Mancuso, presenti in scena, che sono allo stesso tempo pianto neonatale, muggito e musica. Una pecca è sicuramente rappresentata da una drammaturgia a tratti sacrificata, in cui c’è poco spazio per affondare il coltello nella carne viva della tragedia, anche quando ce ne sarebbe l’occasione, o addirittura la necessità. Così, più che ad una rilettura di uno dei più grandi classici della drammaturgia antica, sembra di assistere a una storia di cronaca che non riesce a reinterpretare il mito. Lo spettacolo, ampiamente discusso dalla critica (a differenza dei primi due lavori della regista palermitana), è stato comunque applaudito a lungo e con entusiasmo dal pubblico per la sua godibilità.

Medea da Euripide
adattamento, regia e costumi Emma Dante
con Iaia Forte e Tommaso Ragno
musiche composte ed eseguite dal vivo da Fratelli Mancuso
Produzione Teatro Stabile di Napoli in collaborazione con Amat


 


 

La ricerca teatrale nelle foto di Riccardo De Antonis
Luce fisicità e spazio del teatro, Titivillus, Corazzano-Pisa
di Anna Maria Monteverdi

 





Titivillus ha appena pubblicato Luce fisicità e spazio del teatro. Le punte più avanzate del teatro di ricerca internazionale tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta.
Si tratta di un libro fotografico (collegato anche alla relativa mostra a cura del Civico Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, ora visitabile al Teatro Quaranthana di San Miniato diretto dal regista Andrea Mancini) con gli scatti di Riccardo De Antonis da alcuni degli spettacoli e alcuni dei protagonisti – attori e danzatori – della seconda avanguardia teatrale e della postavanguardia. Carmelo Bene, Caroline Carlson, Peter Brook, Richard Foreman, Squat theatre, Pina Bausch, Laurie Anderson, fino ad arrivare agli italiani Memé Perlini, Falso Movimento, Magazzini Criminali.
Riccardo De Antonis è figlio d’arte: il padre era uno dei ritrattisti più famosi di Roma e fotografo di fiducia di Luchino Visconti. Riccardo, come si legge nel testo introduttivo scritto da Alessandro Tinterri, viene attratto dal teatro di ricerca e individua subito una propria e originalissima idea di fotografia teatrale: "Mio padre fotografava per documentare lo spettacolo, su richiesta della compagnia. Io ho portato avanti una mia ricerca sulla fotografia che considero come un prodotto artistico autonomo, non subordinato all’uso che ne deve fare la compagnia, con cui in teoria non devo avere necessariamente un contatto. Fotografo durante lo svolgimento degli spettacoli, con il pubblico in sala, a volte senza neppure alzarmi dalla poltrona, se non ho troppe persone davanti. La mia ricerca consiste nel riportare sulla fotografia la sensazione che il teatro dà nella sua interezza, colta nel rapporto tra luce, fisicità e spazio".
Oltre 400 sono gli spettacoli documentati da De Antonis per un totale di 5000 scatti tra il 1978 e il 1985. Il nostro occhio è rimasto impressionato dal rosso brillante delle vesti cardinalizie del Cricotage di Kantor, dalle mille proiezioni del Circo magico di Svoboda, dalla Carlson vestita di bianco con i lunghi capelli argentati che in 11 onde sembra galleggiare sulla scena buia, dall’espressione di Beck-Creonte in Antigone davanti al cadavere del figlio Polinice steso a terra, dall’architettura fatta di veneziane di Crollo nervoso dei Magazzini.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Pisa, isola felice della videoarte
Il volume Le arti del video. Sguardi d’autore tra pittura, fotografia, cinema e nuove tecnologie e altro
di Anna Maria Monteverdi

 

Da anni la videoarte ha un riconoscimento e spazi adeguati per la presentazione di artisti e opere a Pisa. Sandra Lischi e la sua ultradecennale attività legata all’associazione Onda video con il relativo festival di video e "cinema espanso", il suo insegnamento pionieristico di Teoria e tecnica del video all’interno del Dipartimento di Storia delle Arti fondato da Carlo Ludovico Ragghianti, che è stato di fatto, il primo riconoscimento accademico italiano all’"impura" arte elettronica, ha gettato basi molto solide per la formazione tecnico-critica, e lo studio delle nuove tecnologie. A questo da alcuni anni si affianca un nuovo Corso di Laurea specializzato in Cinema Musica e Teatro e i Corsi professionalizzanti nati per volontà e sotto la direzione di Lorenzo Cuccu e Sandra Lischi. Sono chiamati a tenere lezioni e seminari registi televisivi come Andrea Soldani, videomaker come Cristiane Boustani, Gianni Toti, Daniele Segre, musicisti come Michel Chion, nuovi autori teatrali come Fausto Paravidino. Le migliori tesi di laurea di argomento video sono state raccolte e ordinate da Simonetta Cargioli che svolge proprio all’interno del Corso di laurea attività di ricerca e di didattica legata alle videoinstallazioni interattive.
Il libro antologico si intitola Le arti del video. Sguardi d’autore tra pittura, fotografia, cinema e nuove tecnologie ed è edito da Ets, collana «Scritture della visione» diretta da Lorenzo Cuccu. Il tema comune individuato da Cargioli è l’intersezione dei linguaggi. Video e pittura in Boustani, con i video intarsi di Sienne e Brugge nel saggio di Sabrina Caponi, e in Bill Viola con le videoinstallazioni che richiamano a pale d’altare, predelle e trittici, forme della rappresentazione pittorica occidentale nei testi di Chiara Agnello e Andreina di Brino. Video e musica (Michel Chion nel saggio di Elena Mosti); video, cinema, computer animation (su Rybczynski di Paola Hilda Melcher e su Chris Marker di Gianluca Paoletti); video e sistemi di sorveglianza (Michel Klier nella riflessione di Anna Lagorio); video, parola e scultura (su Ura Aru di Gary Hill scritto da Elena Marcheschi).
Si tratta di un’importante strumento di studio che all’analisi visiva delle singole opere affianca un solido apparato storico-critico e iconografico. (info www.edizioniets.com)


Sul versante di attraversamento delle arti con la multimedialità si colloca il volume appena pubblicato e curato da Silvana Vassallo e Andreina Di Brino Arte tra azione e contemplazione. L’interattività nelle ricerche artistiche (ETS). Il saggio riprende le fila dell’omonimo convegno che faceva parte delle numerose iniziative artistiche – installazioni interattive, spettacoli, concerti – intitolate Mediamorfosi dislocate in vari spazi della città di Pisa (Abbazia San Zeno, Corte San Domenico, Centro San Paolo All’Orto) realizzate diversi anni fa grazie al concorso di varie associazioni (L’Occhio, Onda video) con la partecipazione della Provincia e che aveva decretato l’inizio di un ragionamento teorico-filosofico (grazie alla presenza di Sandra Lischi, Remo Bodei, Alfonso Iacono e Mario Costa) sulle nuove tecnologie e i nuovi sistemi di interattività (con gli interventi tra gli altri di Leonello Taraballa e Massimo Bergamasco). Un nutrito gruppo di artisti italiani tra cui Paolo Rosa, Giacomo Verde, Antonio Camurri, Piero Gilardi, Mario Canali – come ricordo tirando fuori i miei vecchi appunti! – aveva animato le lunghe giornate con dibattiti accesi sull’eterna questione della rottura / continuità del tecnologico e sul tema dell’interattività. Fu una delle prime occasione per Camurri di presentare il programma Eyesweb, e per Verde di mostrare i materiali di lavoro della tecnonarrazione Storie mandaliche; fu inoltre la prima presentazione pubblica del Rapporto confidenziale sull’interattività di Paolo Rosa Bill Viola che aveva accettato l’invito, non riuscì invece a venire in Italia ma la sua opera era stata brillantemente esposta dalla studiosa americana Deidre Boyle. Le curatrici si sono preoccupate di aggiornare all’oggi i numerosi interventi. Il libro è suddiviso in: monografie d’artista; riflessioni estetiche; ricerche sull’interattività.

Inaugura il 9 marzo ore 15 a Pisa all’interno del Laboratorio Percro-Scuola Superiore Sant’anna l’importante seminario internazionale Ambienti Virtuali e Arte Digitale – Corso di Percezione Aptica del prof. Massimo Bergamasco. Partendo dalle origini storiche degli ambienti virtuali e dell’arte digitale, il corso si propone di presentare a studenti appartenenti a diversi corsi di laurea, ad artisti e persone interessate, una rassegna delle tecnologie di Ambienti Virtuali in campo artistico. Saranno relatori alle giornate di studio: Massimo Bergamasco, Antonio Camurri, Simonetta Cargioli, Ida Gerosa, Alfonso Iacono, Sandra Lischi, Armando Menicacci, Emanuele Quinz, Silvana Vassallo. (info: 050 883287).

PERCROScuola Superiore Sant'Anna
Simultaneous Presence, Telepresence and Virtual Presence
Marzo - Maggio 2004
Anno Accademico 2003-2004

Ambienti Virtuali e Arte Digitale
Corso di Percezione Aptica - Prof. Massimo Bergamasco
Anno Accademico 2003-2004

Il mondo dell’arte è sempre stato molto ricettivo nell’utilizzare e integrare
la cultura e le
tecnologie offerte dallo specifico periodo storico. Oggi le diverse tecnologie
digitali hanno raggiunto un livello di sviluppo tale da permettere nuove
possibilità per la sperimentazione e creazione di forme d’arte. Un esempio
in questo senso Ë offerto dalle
tecnologie di Ambienti Virtuali ormai affermatesi come nuovo strumento di
ricerc non solo in diverse discipline scientifiche ma anche nel campo dell’arte. Partendo
dalle origini storiche degli Ambienti Virtuali e dell’Arte Digitale, il corso
si propone di presentare a studenti appartenenti a diversi corsi di laurea
(delle facoltà di Lettere e Filosofia, Informatica, Ingegneria, ecc.), ad
artisti e persone interessate, una rassegna delle tecnologie di Ambienti
Virtuali in campo artistico. I temi di carattere tecnologico saranno integrati
da dimostrazioni ed esempi di forme ed espressioni artistiche presentati
da alcuni autori del panorama contemporaneo italiano.
Sulla base dei contenuti del corso, agli studenti verrà offerta la possibilità
di partecipare ad attività di ricerca e di tesi nell’ambito del Laboratorio
PERCRO della Scuola Superiore Sant’Anna.
Al corso si potrà accedere gratuitamente iscrivendosi all’indirizzo email
info@percro.org
oppure direttamente onsite.

Programma

9 Marzo, ore 15:00
Aula Magna, Scuola Superiore Sant’Anna
Introduzione al Corso. Tecnologie e
forme di arte digitali
Prof. Massimo Bergamasco

16 Marzo, ore 15:00
Aula Magna, Scuola Superiore Sant’Anna
Arte e New Media I
Dr. Silvana Vassallo

22 Marzo, ore 15:00
Aula Magna, Scuola Superiore Sant’Anna
Presenza Virtuale
Prof. Massimo Bergamasco
Computer Art
Dr. Ida Gerosa

6 Aprile, ore 15:00
Aula Magna, Scuola Superiore Sant’Anna
Arte e New Media II
Dr. Silvana Vassallo

21 Aprile, ore 15:00
Aula Magna, Scuola Superiore Sant’Anna
Partecipazione visiva ed acustica in
Ambienti Virtuali
Prof. Massimo Bergamasco

27 Aprile, ore 15:00
Aula Magna, Scuola Superiore Sant’Anna
Videoarte ed Ambienti Sensibili
Prof. Sandra Lischi
Dr. Simonetta Cargioli

4 Maggio, ore 15:00
Aula Magna, Scuola Superiore Sant’Anna
Interazione aumentata con oggetti
d’arte reali e virtuali
Prof. Massimo Bergamasco
Interazione uomo-macchina e sistemi
multimediali per l’arte
Prof. Antonio Camurri

11 Maggio, ore 15:00
Aula Magna, Scuola Superiore Sant’Anna
La finestra Albertiana e il punto di
vista dell’osservatore
Prof. Alfonso Iacono

20 Maggio, ore 15:00
Auditorium Museo dell’Opera del Duomo
Esplorazione di oggetti invisibili
Prof. Massimo Bergamasco

24 Maggio, ore 15:00
Auditorium Museo dell’Opera del Duomo
L’evoluzione degli Ambienti Virtuali
nell’arte: dal web alla presenza
simultanea
Prof. Massimo Bergamasco
Dal movimento al gesto: danza e
interattività
Dr. Emanuele Quinz
Dr. Armando Menicacci


Prof. Massimo Bergamasco - bergamasco@sssup.it
Dr. Marco Radesca - radesca@sssup.it
PERCRO
Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa
tel. 050 883287 fax. 050 883333


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Tra "azione" e "contemplazione". I molteplici spazi possibili per le arti interattive
Introduzione al volume Arte tra azione e contemplazione a cura di Silvana Vassallo e Andreina Di Brino
di Silvana Vassallo

 





Tra la sferza del richiamo "non restare senza reagire" e la scusante a posteriori "non ho fatto che reagire" mi si aprono grandi spazi.
Jean Starobinski, Azione e reazione. Vita di una coppia

Ora l’interattività, arte dell’agire e dell’esserci, può rivalutare la possibilità di uno sguardo da più lontano, uno sguardo sospeso nelle profondità del senso. Un doppio modo di vivere le cose, di percepirle, di abitarle.
Paolo Rosa, Rapporto confidenziale su un’esperienza interattiva


Il presente volume raccoglie e approfondisce le tematiche affrontate in occasione del convegno Arte tra azione e contemplazione, tenutosi a Pisa nell’ottobre del 1998. L’intento del convegno era stato di proporre una riflessione sul tema dell’interattività nelle ricerche artistiche (prendendo in esame soprattutto, ma non esclusivamente, le installazioni interattive1) a partire da un approccio interdisciplinare, particolarmente adatto ad affrontare un argomento che chiama in causa diverse discipline2, un argomento di grande attualità ma scarsamente investigato – soprattutto in Italia – nelle sue implicazioni critiche e teoriche. Si è trattato di un’occasione rara di confronto e scambio tra saperi e pratiche artistiche, da cui è emersa la ricchezza delle problematiche sollevate dall’arte interattiva, riguardanti in prima istanza il rapporto tra arte e tecnologia e le modificazioni profonde che l’interattività comporta sia a livello di un’estetica della creazione sia di un’estetica della fruizione. La tecnologia svolge infatti un ruolo determinante in quella che comunemente viene definita "arte interattiva", generando una situazione creativa nuova, in cui una serie di dispositivi, di sistemi informatici e tecnologici, diventano parte integrante dell’opera, concepita dall’artista con l’intento di rendere lo spettatore attivamente partecipe al suo farsi, e non più, o non solo, come un oggetto da affidare alla contemplazione.
Il passaggio da un’arte della "contemplazione" ad un’arte dell’"azione", in cui il pubblico svolge un ruolo decisivo ai fini dell’esistenza dell’opera stessa, e una riflessione sull’interattività come fenomeno complesso della condizione sociale ed esistenziale contemporanea, legato allo sviluppo delle nuove tecnologie, sono dunque stati i temi attorno a cui si è strutturato il convegno. Il quale ha attinto importanti elementi di stimolo, sia per la sua ideazione che articolazione, da un saggio dell’artista Paolo Rosa, di Studio Azzurro, intitolato Rapporto confidenziale su un’esperienza interattiva3, e da ripetute conversazioni avute con lui durante l’allestimento della mostra Il Soffio sull’angelo, svoltasi a Pisa nel maggio del 19974. Nel saggio l’autore fa il punto sulla pluriennale esperienza di ricerca artistica di Studio Azzurro sull’interattività, proponendo una serie di considerazioni e suggestioni in forma volutamente aperta e interlocutoria, al fine di suscitare ulteriori discussioni e approfondimenti. "Azione" e "contemplazione", secondo Paolo Rosa, rimandano a due dimensioni esperienziali complementari, entrambe necessarie per attivare processualità artistiche e configurazioni di senso che tengano conto della complessità della condizione contemporanea, in cui "inevitabilmente e assai rapidamente ci stiamo spostando, in tutti i settori, dalla fruizione passiva a una dimensione partecipativa, senza fasi intermedie, così di colpo. Dall’essere investiti dall’interrotto flusso televisivo all’essere costretti a rispondere ad ogni sollecitazione"5. Contemplazione non è sinonimo di passività, ma al contrario di una modalità consapevole del vedere, che va recuperata proprio per contrastare l’inerzia, la passività indotta dal flusso ininterrotto di immagini cui siamo sottoposti e di cui la televisione è il simbolo massimo. Allo stesso tempo, nell’ambito dell’orizzonte interattivo che si sta delineando ad opera delle nuove tecnologie, spesso caratterizzato da forme di interazione "deboli", non autenticamente partecipative, la ricerca artistica può aprire nuovi scenari, ancora in gran parte da esplorare, in cui "l’essere proiettati dentro la rappresentazione", "l’emozione di perdersi nel caos", si accompagni alla possibilità di "uno sguardo da più lontano, uno sguardo sospeso nelle profondità del senso"6.
Su questa duplicità di registri – l’essere proiettati dentro la rappresentazione, agirla dal di dentro con il rischio di perdersi, e al contempo preservare dei nuclei di consapevolezza – si è modulata la poetica interattiva di Studio Azzurro, ancorandosi attorno ad alcuni criteri compositivi fondamentali: la creazione di spazi di "fruizione collettivi", di "ambienti sensibili", dove la relazione uomo-dispositivo viene utilizzata per favorire quella tra uomo e uomo; l’utilizzo di "interfacce naturali", non mediate da protesi tecnologiche (tastiera, mouse, ecc.), in cui vengono privilegiate modalità comunicative familiari, quali il toccare, il calpestare, o l’emettere suoni; infine, la suggestione di "percorsi narrativi" derivanti dal montaggio e dall’articolazione tra spazi, oggetti, immagini, suoni e comportamenti, vale a dire di tutti quegli elementi che compongono la dimensione complessa delle installazioni interattive7.

Poetiche, estetiche, sperimentazioni tra scienza e arte
Essendo l’arte interattiva un’arte in divenire, di cui mancano apparati critici consolidati, ci è sembrato significativo mettere a confronto le poetiche degli artisti con interpretazioni di carattere più teorico. Interventi di filosofi, artisti, scienziati, di esperti d’arte e nuovi media si sono alternati nel corso del convegno. Questo libro li ripropone – dopo un’attenta revisione da parte degli autori, che in certi casi ha rappresentato una vera e propria riscrittura – secondo una suddivisione per aree tematiche e di competenze specifiche8.

La prima parte è suddivisa in due sezioni, di cui la prima, Interattività e contemplazione nelle ricerche artistiche, raccoglie saggi critici, mentre la seconda, Monografie d’Artista, affida agli artisti il racconto dei loro percorsi interattivi.
Alcune riflessioni di Paolo Rosa, scritte appositamente per questo volume, inaugurano la prima sezione, riflessioni che ribadiscono l’urgenza sociale da cui scaturisce l’interesse artistico per l’interattività. In L’arte fuori di sé. Pensieri ancora sommari sull’estetica delle relazioni, Paolo Rosa contestualizza scelte estetiche in uno scenario dominato sempre più dal peso e dalla diffusione che i dispositivi interattivi hanno nella società, enucleandone in maniera puntuale gli elementi innovativi rispetto a vecchie forme di interazione.
Ad un’analisi del contesto all’interno del quale si è sviluppata l’arte interattiva – in particolar modo nella forma di installazioni interattive –, ad una formulazione delle sue principali caratteristiche e modalità di esistenza, nonché ad una messa in evidenza di alcuni nuclei problematici ad essa connessi, sono dedicati i saggi di Silvia Bordini Più che un’immagine. Considerazioni sull’arte interattiva e di Simonetta Cargioli L’arte del visitatore. Spunti di riflessione su installazioni e ambienti interattivi9.
Molte delle premesse dell’arte interattiva vanno ricondotte alla rivoluzione in campo artistico verificatasi negli anni ’60 ad opera di movimenti quali Fluxus, il Minimalismo, la Land art, la Body art, che hanno modificato radicalmente lo statuto dell’arte e le sue condizioni di fruizione. Pur nelle diversità specifiche, tali movimenti si sono mossi in direzione di un rifiuto della dimensione statica, unica e immodificabile dell’opera d’arte, privilegiando processualità artistiche sotto forma di happening, performance e installazioni, che hanno portato a nuove situazioni di incontro del fruitore con l’opera "principalmente attraverso una riscoperta della partecipazione fisica e lo sviluppo di occasioni di interazione che lo hanno reso consapevole della propria attività percettiva e del proprio ruolo" (Cargioli). Nel solco di queste sperimentazioni si sono infine inserite negli anni ’80 le potenzialità interattive delle nuove tecnologie, che hanno impresso un’ulteriore svolta alle forme di partecipazione e ai modi di produzione e comunicazione, proponendo "forme d’arte in cui – sul denominatore comune della reciprocità degli scambi – si intrecciano artificialità e natura, immaterialità e alta definizione, la macchina e il corpo. Dalla sostituzione di realtà (incorporante, immersiva) della realtà virtuale, come nelle flessibilità dinamiche dell’arte in rete" (Bordini).
All’artista che opera con le tecnologie interattive sono richieste nuove competenze, in particolare una padronanza nell’uso di sofisticate strumentazioni tecnologiche, se non altro per evitare che siano le macchine a suggerire contenuti precostituiti, ad imporre la loro "intelligenza programmata"10; ciò favorisce il lavoro di équipe e la collaborazione creativa tra artisti, scienziati e tecnici. Inoltre, sempre più il ruolo dell’artista si configura quale progettista di esperienze altrui e l’opera si presenta come opera aperta, costituita da un’insieme di co-varianti che il pubblico può attivare.
Nelle forme d’arte interattiva le interfacce, i dispositivi informatici che consentono l’interazione tra pubblico ed opera, assumono un ruolo determinante, costituendo, come nota Anne-Marie Duguet "il luogo di un lavoro metaforico e concettuale"11. Attraverso le interfacce, immagini e mondi virtuali vengono attivati secondo combinazioni inedite, inattese, in grado di creare nuove costellazioni di senso, nuove esperienze percettive, mobilitando nello spettatore una sensorialità diffusa, allargata ad altri organi sensoriali oltre la vista. Mouse, caschi e datagloves per accedere alla realtà virtuale, oppure interfacce più sofisticate – che magari simulano forme di interazione più naturali tra uomo e ambiente – costituiscono vie d’accesso a spazi complessi, architettati per una fruizione singola o collettiva, a seconda delle esigenze comunicative, delle strategie compositive e delle poetiche dei singoli artisti, come viene illustrato ampiamente nei saggi di Silvia Bordini e di Simonetta Cargioli.
Il fatto che l’azione di un potenziale pubblico sia inscritta nei parametri compositivi delle opere interattive comporta un radicale mutamento delle condizioni di fruizione: allo spettatore viene richiesto di assumere il ruolo di performer o co-autore, di immergersi in un’esperienza partecipativa e sinestetica, al contempo psichica e fisica, secondo modalità associate frequentemente ad una dimensione ludica. Attorno a questo mutamento di paradigmi nelle situazioni d’incontro del pubblico con l’opera, si addensano una serie di nodi problematici. In primo luogo il ruolo di performer assunto dallo spettatore innesca una dialettica complessa tra "contemplazione" e "azione", tra un atteggiamento di "distanza critica" e un atteggiamento di "coinvolgimento attivo", carico di potenzialità ancora in gran parte da esplorare, ma che talvolta rischia di trasformarsi in mera operatività, in una reattività automatica in risposta ad uno stimolo, come molti critici dell’arte interattiva non mancano di sottolineare12. Trovare un equilibrio tra distanza e partecipazione ci sembra che sia una delle maggiori poste in gioco con cui l’arte interattiva debba confrontarsi. Anche la dimensione "co-autoriale" attribuita allo spettatore, se da un lato può risultare mistificante, poiché, comunque, è l’artista che rimane responsabile dell’ideazione e della tenuta estetica dell’opera, dall’altro può dare accesso a stimolanti forme partecipative. Come nota Lucilla Meloni, infatti, "certo che ogni lavoro […] nasce dall’idea dell’artista e questi, in ogni caso, ne resta unico ideatore; certo che l’osservatore o coautore partecipa ad un gioco disegnato dall’artista, certo che la sua libertà non è concepibile che all’interno di alcune ipotesi da questi fornite e, pertanto, si tratterebbe di una libertà fittizia. Ciononostante, una volta chiarito il problema della libertà, l’opera partecipata ha il merito di responsabilizzare l’osservatore per le ragioni suddette, e mi sembra che nasca da un atto di generosità, da un invito alla partecipazione di un’idea"13. È tuttavia importante tener presente che le tematiche connesse con l’entrata dello spettatore nella rappresentazione e il suo slittamento da osservatore ad attore sono antiche e complesse, come fa notare Sandra Lischi nel suo saggio Fatica e meraviglia: strategie dello spett-autore fra cinema e video14, ricco di spunti e di riflessioni teoriche stimolanti, e costellato di riferimenti suggestivi ad opere d’arte che spaziano dal passato al presente, dalla pittura al cinema, dal teatro alle videoinstallazioni. Come sostiene giustamente l’autrice "cercare gli antecedenti [storici e teorici] del lavoro dello spettatore – una ricerca difficile di senso che dialoga con un’altra ricerca difficile, quella proposta dall’opera – […] può risultare illuminante, aiutarci a ritrovare un filo che ci conduce sul versante della complessità invece che su quello di una "tattilità" primaria e di un attivismo ludico di scarso spessore".
La dimensione ludica è un ulteriore elemento caratterizzante l’arte interattiva e rimanda ad una relazione tra gioco e arte che, come ci ricorda Silvia Bordini, ha radici profonde e diramazioni diverse nella tradizione artistica. Di nuovo ci troviamo di fronte a tematiche che andrebbero approfondite, per non cadere in facili entusiasmi sulle potenzialità innovative dell’arte interattiva15. Le opere d’arte, come i giochi, aprono spazi all’immaginazione e alla creatività, aiutano a pensare oltre le convenzioni, a superare il conformismo, sono una spinta potente per il rinnovamento. È in questa direzione che si muovono le sperimentazioni più significative nell’ambito dell’arte interattiva, in contrasto con le logiche aggressive, distruttive, competitive che sottendono molti attuali videogames, anche se, talvolta, proprio ad essi questa forma d’arte è associata, soprattutto quando vi è un eccessivo sbilanciamento sull’aspetto ludico rispetto ad altre componenti16.
Vi sono artisti, come Bill Viola, che pur non usando generalmente dispositivi interattivi17, utilizzano tecnologie sofisticate per creare opere (video ma soprattutto videoinstallazioni), che richiedono un forte coinvolgimento del pubblico. In La parola silenziosa. Contemplazione e l’arte di Bill Viola, Deirdre Boyle analizza in maniera puntuale, e al contempo emotivamente partecipe, alcuni lavori di Bill Viola dai profondi significati spirituali, che innescano nello spettatore esperienze contemplative, attraverso l’immersione sensoriale e mentale in spazi simbolicamente densi e le suggestioni evocate da immagini di grande potenza espressiva. Anche Tullio Brunone, in Pisanello e l’immagine sporca, muovendo da considerazioni di carattere generale, sottolinea come l’incontro creativo tra le tecnologie informatiche e le arti visive possa fornire nuove chiavi d’accesso agli strati profondi dell’essere, ed aprire nuovi scenari, non soltanto sotto l’aspetto estetico formale, ma anche riguardo la dimensione del relazionamento, e quindi della "partecipazione" all’evento.
Un atteggiamento più critico nei confronti delle tecnologie elettroniche ed informatiche applicate alla musica è invece presente nel saggio di Luciana Galliano Contr(-)azioni, in cui l’autrice analizza le problematiche relative allo sviluppo della musica elettronica, centrando la sua indagine soprattutto su un tipo di interattività interna alla composizione musicale – quella che si stabilisce, attraverso l’uso di strumenti informatici, tra compositore e programma e fra interprete e programma – senza tuttavia tralasciare l’impatto che tali sperimentazioni comportano a livello di fruizione e di un’estetica dell’ascolto. Il saggio, estremamente articolato, affronta in maniera interlocutoria una serie di questioni cruciali: se in questi ultimi decenni di sperimentazione musicale con le nuove tecnologie vi sia stata una reale "espansione del campo compositivo, della percettività, dell’intelligenza oppure una contrazione", se non si stia assistendo ad uno "scivolamento dalla rappresentazione alla manipolazione, dall’apprezzamento all’intrattenimento", ponendo infine, in maniera un po’ provocatoria, un quesito, sul perché "un pubblico avvertito reagisca con maggior emozione all’ascolto di due pigmei, che suonano con due strumentini minuscoli una musica che non arriva all’ambito di un’ottava, che non all’ascolto delle più recenti opere prodotte nei maggiori centri di ricerca, con l’ausilio dei calcolatori più avanzati, delle procedure più raffinate e degli interpreti migliori".

Nella sezione Monografie d’Artista, Piero Gilardi, Giacomo Verde e Mario Canali, tre autori particolarmente significativi per le loro sperimentazioni con l’interattività, illustrano i loro percorsi artistici e le loro poetiche, segnate, al di là delle specificità, da profonde istanze cognitive ed etiche. Emerge dagli interventi la molteplicità di spazi di sperimentazione che l’interattività apre: dalla possibilità di nuove vie d’accesso all’inconscio collettivo e all’interiorità, anche attraverso l’intercettazione, per mezzo di sensori, di stati emotivi e corporei (ritmo cardiaco, onde cerebrali) che possono essere visualizzati e condivisi (Mario Canali); ad un uso dell’interattività per sviluppare forme di autocoscienza critiche e collettive nei confronti di una società caratterizzata sempre più da identità multiple e dalla pervasività dell’universo informatico (Piero Gilardi); oppure l’interattività come strumento per restituire l’arte agli spettatori, per smitizzare la tecnologia ed attivare contesti fondati su relazioni empatiche, socialmente ed eticamente significative tra artista e pubblico (Giacomo Verde).

Nella seconda parte del volume, Arte e nuove tecnologie nelle riflessioni estetiche, il tema dell’interattività viene affrontato da varie angolazioni e prospettive teoriche. In un intervento che non lascia spazio né a facili entusiasmi né ad altrettanto facili atteggiamenti liquidatori, Remo Bodei, in Considerazioni su alcune premesse dell’arte interattiva, ne evidenzia elementi di novità e limiti: se da una parte l’arte interattiva comporta per il fruitore un’accresciuta e più tangibile consapevolezza del suo contributo al completamento del senso dell’opera, d’altro canto un eccessivo sbilanciamento in direzione dell’arbitrio soggettivo e del gusto semplicemente ludico, può inibire i "possibili sensi che l’opera stessa potrebbe sprigionare posta davanti a una interrogazione più stringente e articolata"; importante è anche storicizzare il concetto di contemplazione, evitando eccessive semplificazioni ed un suo appiattimento su un modello di passività ereditato soprattutto da una concezione museale dell’arte. Il tema di una dialettica "produttiva" tra azione e contemplazione è affrontato da Alfonso M. Iacono in Questo è un gioco? Metacomunicazione e attraversamento dei linguaggi. Partendo da una serie di riflessioni ispirate al pensiero di Gregory Bateson, l’autore analizza alcuni meccanismi alla base sia del gioco sia dei processi di immedesimazione del pubblico nell’esperienza estetica, consistenti essenzialmente in una condizione di "coinvolgimento/non coinvolgimento", per cui sappiamo di essere all’interno di una dimensione illusoria, eppure proviamo emozioni e/o agiamo come se non lo sapessimo. Ciò deriva dalla facoltà dell’uomo di dominare contesti e universi di significato differenti, dando "un senso ai confini" e padroneggiando "le molteplici cornici che ci fronteggiano e ci circondano", facoltà che pertiene all’uomo in quanto essere duplice, e che richiede, per essere esplicata al meglio, l’acquisizione di una consapevolezza critica. In questa prospettiva, il rapporto tra azione e contemplazione diventa interessante se la contemplazione non si riduce ad una "condizione totale di distanza" ma ci permette un’operazione, quella cioè del "trarci fuori" e del saper guardare "con altri occhi, come dall’esterno, quel che facciamo come attori".
Dai saggi di Mario Costa, Appunti per l’estetica a venire, e di Giuseppe O. Longo, Corpo narrazione estetica, emergono due diversi sguardi sull’impatto delle nuove tecnologie in ambito estetico-artistico, epistemologico ed esperienziale. Mario Costa affronta l’argomento in un’ottica prevalentemente estetologica, enucleando alcuni fondamentali mutamenti verificatisi per effetto di una tecnologia sempre più invadente, che oramai fa parte della nostra realtà. In primo luogo, la produzione e la fruizione artistica si risolvono sempre più in fatti sostanzialmente sensoriali, poiché nelle nuove produzioni – o almeno in quelle che secondo Costa sono più significative – "prevale la volontà di produrre un’esperienza dei sensi, scombussolandoli, sollecitandoli, estendendoli e stravolgendoli", un’esperienza che non fa presa sul livello dei contenuti e del simbolico o delle narrazioni ma soprattutto "sull’attivazione estetica dei nuovi significanti tecnologici". Sempre più l’artista si trasforma in "soggetto epistemico ad intenzionalità estetica", e la sua indagine assume dei caratteri di tipo epistemologico all’incrocio tra arte, scienza e tecnologia. Un altro mutamento fondamentale consiste nel processo di indebolimento del soggetto, avviato già da tempo, ma che adesso, per effetto dell’accelerazione tecnologica, arretra nella direzione di un "iper-soggetto" di cui l’interattività, le reti, non rappresentano che una prima emergenza, di cui gli esiti e gli sviluppi ci sono ancora in gran parte sconosciuti. La formazione di questo iper-soggetto tecnologico è motivo di preoccupazione per Giuseppe O. Longo, che nel suo intervento pone l’accento sui disagi e le disarmonie dovute ad alcuni aspetti di incompatibilità tra uomo e macchina. Longo teme gli "effetti semplificanti" di una tecnologia che confligge con alcuni valori fondamentali dell’uomo, etici, estetici e culturali, attraverso cui meglio si esprime la sua complessità costitutiva, fatta di un’unione inscindibile di anima e corpo. L’homo technologicus che si sta formando, in parte come risultato di macchine programmabili, "dotate di una loro capacità autonoma di elaborazione, per quanto embrionale e rudimentale" si configura come "creatura planetaria" frutto dell’intelligenza connettiva delle reti, come un essere "acefalo, disseminato e inconsapevole" che "sa e sa fare cose che nessuno di noi sa fare". Ciò apre interrogativi inquietanti, che il saggio di Longo pone in maniera interlocutoria e aperta.

Nelle opere interattive, come abbiamo visto, le interfacce assumono costellazioni di senso complesse, alla cui origine vi è spesso un lavoro di collaborazione creativa tra artisti, scienziati e tecnici. La terza parte del libro, Le ricerche sull’interattività tra scienza e arte, è dedicata alla presentazione dell’attività di alcuni importanti centri universitari, in cui si sono stabilite sinergie feconde tra ambiti di ricerca artistici e scientifico-tecnologici, situazione piuttosto rara nel panorama italiano. In Interazione e gestualità, Leonello Tarabella, oltre a tracciare un interessante resoconto dello sviluppo della musica informatica a partire dagli anni ’60, descrive la pionieristica attività svolta in questa direzione dal CNUCE di Pisa, attività attualmente confluita nelle ricerche condotte dal ComputerART Lab del CNR, dove negli ultimi anni sono stati realizzati una serie di sistemi e dispositivi di riconoscimento gestuale, utilizzati per la composizione e l’esecuzione di opere multimediali, e nati dalla collaborazione tra ingegneri, informatici musicisti e artisti visivi. Anche il Laboratorio di Informatica musicale InfoMus del Dist (Dipartimento di Informatica Sistemistica e Telematica), della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Genova svolge ricerche multimediali, volte allo sviluppo di interfacce multisensoriali per l’analisi e la sintesi di gesti espressivi nella musica, nel movimento e nei visual media, coinvolgendo discipline che vanno dall’informatica alla psicologia, dalla biomeccanica allo studio di varie forme di espressione artistica (coreografia, montaggio audiovisivo nel cinema, composizione e prassi esecutiva in musica). La sperimentazione sul versante artistico è parte integrante dell’attività del Laboratorio InfoMus e contribuisce in maniera determinante a connotarne la fisionomia e i percorsi di ricerca18.
Il laboratorio PERCRO (PERCeptual RObotics), della Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento Sant’Anna di Pisa, ha maturato una considerevole esperienza nel campo delle tecnologie di Ambienti Virtuali ed interfacce aptiche applicate ai beni culturali. Dalle attività di ricerca del laboratorio PERCRO è scaturita l’idea innovativa del Museo delle Pure Forme, progetto illustrato nel saggio di Massimo Bergamasco, Antonio Frisoli e Marco Radesca. Il Museo delle Pure Forme nasce con l’intento di esplorare e fornire nuovi e diversi paradigmi d’interazione per la fruizione delle opere scultoree e, in generale, di tutte le opere d’arte tridimensionali, attivando la percezione aptica (dal greco "apthestai", toccare). Se da un lato ciò consente di abbattere "virtualmente" uno dei maggiori tabù legati alla fruizione museale di opere d’arte (il toccare statue e altri manufatti), d’altro canto permette anche di avvicinarsi "notevolmente all’esperienza vissuta dall’artista all’atto di creazione della sua opera". Oltre a prefigurare inesplorate modalità di fruizione dei beni culturali, la tecnologia innovativa impiegata nel progetto Museo delle Pure Forme apre nuovi filoni di ricerca nei campi della psicologia cognitiva e dell’interazione uomo-computer.

Emerge, dai contributi a questo volume, un quadro estremamente composito, che riflette a pieno lo scopo del convegno, vale a dire fornire sollecitazioni per ulteriori riflessioni. Un dato rilevante, che ricorre come un filo rosso, è che comunque i termini interazione e interattività, quando non vengono banalizzati, rimandano a fenomeni complessi della contemporaneità, in particolare ad una perdita di centralità del soggetto che si confronta con un bisogno di agire, di intervenire, di assumersi delle responsabilità. Come nota Starobinski, che all’analisi della coppia verbale "azione e reazione" ha dedicato uno studio approfondito: "Questo fenomeno di diffusione lessicale [del termine reazione], coniugato al favore di cui gode il termine più recente di interazione, è di per sé sintomatico. Riguarda uno "stato della lingua" quasi mondiale e permette di parlare di un iperattivismo contemporaneo. Sotterraneamente o allo scoperto interviene in molti sistemi […]. E la domanda che i nostri contemporanei più responsabili si pongono di fronte alle sfide attuali è comunemente formulata nei termini di un "come reagire?" non privo di un accento ansioso, già segno della consapevolezza che ogni reazione sarà solo un evento parziale in un’interazione più ampia che nessuno può dominare"19.

NOTE

1 Per approfondimenti sul tema cfr. A.M. Duguet, Installazioni video e interattive. Definizioni e condizioni di esistenza, in Valentina Valentini (a cura di), Visibilità Zero, Graffiti, Roma, 1997; A.M. Duguet, Dispositivi, in A. Amaducci e P. Gobetti (a cura di), Video Imago, n. speciale de "Il nuovo spettatore", anno XIII, n. 15, Franco Angeli, Milano, 1993; S. Cargioli, Sensi che vedono, Nistri-Lischi, Pisa, 2002; P.L. Capucci, Arte e tecnologie, Edizioni dell’ortica, Bologna, 1996; V. Valentini, Conservare l’inconservabile. Il ruolo dello spettatore nelle installazioni multimedia, in V. Valentini, Dirottamenti, Progetto giovani, Comune di Milano, Milano, 1997.
2 P. Rosa, intervento intitolato L’opera fuori di sé - l’estetica della interazione, presentato al workshop Percezione e Rappresentazione fra Arte e Scienza, tenutosi a Pisa presso la Scuola Normale Superiore (Pisa, 12-13 giugno 2003). Cfr. anche F. Cirifino, P. Rosa, S. Roveda, L. Sangiorgi (a cura di), Studio Azzurro. Ambienti sensibili. Esperienze tra interattività e narrazione, catalogo della mostra, Electa, Milano, 1999; P. Rosa, Tra azione e contemplazione, in S. Lischi (a cura di), Le forme dello sguardo. Video d’arte e ricerca, Charta, Milano, 1997; P. Rosa, Immagini sensibili (dal villaggio globale all’uomo totale?), in D. De Gaetano (a cura di), Mutazioni elettroniche. Le immagini di Studio Azzurro, Lindau, Torino, 1995.
3 J.J. Wunenburger, Philosophie des images, Universitaires de France, Paris, 1977 (tr. it. S. Arecco, Filosofia delle immagini, Torino, Einaudi, 1999), p. 20.
4 P. Rosa, workshop cit.; P. Rosa, intervento durante il dibattito sull’interattività Arte, tecnologia e interattività, Spazio Oberdan 14 gennaio 2003, Milano, in occasione della mostra Techne 02. Tra arte e tecnologia. Viaggio nel mondo dell’interattività, Spazio Oberdan 30 ottobre 2002 - 2 febbraio 2003, Milano.
5 "Le installazioni […] Non hanno un solo modo di esistenza ma almeno due. In effetti quello che un collezionista acquista è un argomento, una descrizione tecnica, a volte delle immagini, degli elementi, un materiale, ma si tratta in realtà innanzitutto di un insieme di istruzioni e di un diritto di esposizione. A questo stadio si può dire che l’opera è compatibile con una partitura musicale o un progetto architettonico". A.M. Duguet, Installazioni video e interattive… cit., p. 13.
6 C. Metz, Essais sur la signification au cinéma, Klincksieck, Paris, 1968 (tr. it. di A. Aprà e F. Ferrini, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano, 1972), p. 47.
7 G. Genette, Figure III, Paris, Seuil, 1972 (tr. it. di L. Zecchi, Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1976), p. 59.
8 A seguire saranno prese in considerazione le installazioni allestite in occasione di Mediamorfosi ’98, e in mostra per un tempo prolungato, dal 15 al 30 ottobre 1998 (nel caso di R. Cahen, dal 27 ottobre al 10 novembre 1998). Il Soffio sull’angelo di Studio Azzurro, pur non essendo stata esposta durante Mediamorfosi ’98, ma l’anno prima, è oggetto di questo testo perché è stata, assieme al saggio di P. Rosa Rapporto confidenziale su un’esperienza interattiva, motivo propulsore del convegno Arte tra azione e contemplazione. Cfr. in proposito l’introduzione di S. Vassallo, p. 14.
9 Adesso sede universitaria: Il Soffio sull’angelo di Studio Azzurro è stata presentata a Pisa, dall’Associazione culturale L’Occhio, nel 1997, ed allestita presso il Polo Didattico Fibonacci, sede dei Dipartimenti Scientifici dell’Università degli Studi di Pisa. Per una descrizione più dettagliata cfr. Studio Azzurro, Il Soffio sull’angelo, primo naufragio del pensiero, in S. Vassallo (a cura di), Studio Azzurro. Il Soffio sull’angelo, catalogo della mostra, Associazione Culturale L’Occhio, Pisa, 1997, p. 6; si rimanda inoltre al saggio di S. Bordini, presente in questo volume a p. 47.
10 Il Soffio sull’angelo è stata allestita in modo diverso a: Roma, Ambienti sensibili, Palazzo delle Esposizioni, 1999; New York, Aristocratic Artisans, Ace Gallery, 2000; Ferrara, L’arte elettronica. Metamorfosi e metafore, Palazzo dei Diamanti, 2001.
11 "Sono sottoposti ad una continua e lenta trasformazione: ruotano si allungano e allargano […] con una lentezza ossessiva" Studio Azzurro, Il Soffio sull’angelo, in S. Vassallo (a cura di), op. cit., p. 6.
12 S. Lischi, Atterrare stanca, in S. Vassallo (a cura di), op. cit., p. 16.
13 R. Cahen, Suaire, 1997, video installazione, video, B/N. Produzione: Agence culturelle d’Alsace/Departement audiovisuel (Sélestat), in collaborazione con Saint Gervais Genève Images. Suaire è stata presentata a Pisa, dall’Associazione culturale Ondavideo (Pisa), in prima italiana ed è stata visibile dal 27 ottobre al 10 novembre 1998 all’Abbazia di San Zeno. "Suaire (Sudario) si basa sulla doppia proiezione di immagini labili e incerte (dei volti umani) su un telo bianco di seta sospeso a mezz’aria e leggermente fluttuante. L’ambiente è semibuio e silenzioso, e il visitatore cammina su uno strato di ghiaia. Le immagini e le sparizioni lente dei volti creano uno stato di sospensione contemplativa e inquietante, accresciuto dal rumore cadenzato dei passi sulla ghiaia". S. Lischi, scheda di presentazione dell’opera distribuita durante il periodo espositivo.
14 Robert Cahen s’installe, FRAC Alsace à Sélestat, 23 novembre 1997 – 26 aprile 1998.
15 General Intellect, P. Gilardi in collaborazione con E. Bertrand, 1997, installazione interattiva, sonoro e realtà virtuale. Supervisione alla produzione: Ines Rossi.
General Intellect è stata presentata a Pisa dal 15 al 30 ottobre 1998, in uno spazio della Corte San Domenico. La mostra è stata curata da I. Mariotti e S. Vassallo (Associazione Culturale L’Occhio). "Il pubblico trova all’esterno della installazione sei postazioni sonore […]. Ogni partecipante è invitato a selezionare e scegliere uno dei 6 suoni […] [corrispondenti a] sei diverse culture etniche: africana, araba, indocinese, latino americana, slava ed europea. […] I partecipanti possono identificare la propria posizione nel paesaggio virtuale individuando il proprio cursore. […] I cursori, toccando determinati punti della spianata virtuale, producono la nascita di edifici la cui architettura corrisponde alla cultura etnica di cui ogni partecipante è portatore. […] Dopo 2 minuti di questo gioco collettivo di costruzione, il paesaggio virtuale appare costituito da un quartiere multietnico. I partecipanti possono allora iniziare la fase di ibridazione degli edifici. […] L’esplorazione-ibridazione del quartiere multietnico si conclude con un evento predeterminato. […] In quest’ultima fase l’interazione si sposta dallo spazio virtuale all’ambiente fisico dell’installazione. […] I partecipanti, muovendosi nello spazio buio, intersecano casualmente dei punti di rilevamento provocando in quel punto il seguente evento: l’accensione di un raggio di luce colorata sul proprio corpo e l’emissione di una musica vocale molto intensa, corrispondente a una delle sei culture etniche in gioco". Descrizione di General Intellect contenuta nella cartella stampa, a cura dell’Associazione Culturale L’Occhio, presentata in occasione di Mediamorfosi ’98. Il tra parentesi è mio.
16Ibidem.
17 G. Perretta, Piero Gilardi. Dalle macchine del futuro alla drammaturgia virtuale del dolore, in G. Perretta (a cura di), Techne 02. Tra arte e tecnologia. Viaggio nel mondo dell’interattività, A+G Edizioni, Milano, 2002, p. 25.
18 Cartella stampa a cura dell’Associazione Culturale L’Occhio, Mediamorfosi ’98… cit.
19 Le opere di T. Oursler qui citate sono state presentate dalla Fondazione Teseco per l’Arte ed esposte, presso la propria sede di via Sant’Andrea, 50 (Pisa), dal 15 al 30 ottobre 1998. "Messa in scena in maniera violenta, frammentata o ridotta allo stato di fantoccio, la figura umana è catturata in tutta la sua fragilità, si dibatte in un’atmosfera di catastrofe e dissoluzione. Anche in quest’occasione si vedono opere realizzate proiettando immagini a cristalli liquidi di corpi, bocche e teste parlanti, su pupazzi e bambole di stoffa ambientati in situazioni domestiche. Ne risultano così figure e frammenti di figure che si lamentano, piangono, ripetono mormorii convulsivi, che tremano incessantemente senza riposo, indifferenti all’assenza o alla presenza di chiunque". R. Selvaggio, in scheda di presentazione della mostra distribuita durante il periodo espositivo.


 


 

Il teatro alla Camera dei Deputati
Il 15 marzo l'incontro Quali politiche per il teatro
di Direzione nazionale DS – Dipartimento cultura

 

Quali politiche per il teatro
Sostegno - Promozione - Diffusione
tra Enti Locali, Regioni e Stato


Roma, 15 marzo 2004 ore 9,30 – 14,30
Sala del Refettorio
Via del Seminario, 76

Ore 9,30 – 12,00
Prima sessione: Gli indirizzi e le strategie per il sostegno e lo sviluppo delle attività teatrali


Introduzione di Franca Chiaromonte
Intervengono:
Teresa Armato, Eristeo Banali, Gianni Borgna, Massimo Cestaro, Silvano Conti, Rachele Furfaro, Enzo Gentile, Angela La Rotella, Giovanna Marinelli, Renato Pasqualetti, Michele Trimarchi, Ennio Triggiani, Vincenzo Vita, Mariella Zoppi


Ore 12,00 – 14,30
Seconda Sessione: La funzione pubblica del teatro: quali soggetti, quali istituzioni?

Introduzione di Giovanna Grignaffini
Intervengono:
Paolo Aniello, Maria Grazia Bonanno, Carlo Bruni, Fioravante Cozzaglio, Oberdan Forlenza, Luigi Fuiano, Domenico Galdieri, Alfredo Garzi, Fiorenzo Grassi, Luciana Libero, Fabio Nagi, Velia Papa, Mariano Paturzo, Carlo Repetti, Rossana Rummo, Maurizio Roi, Franco Scaglia, Maurizio Scaparro, Renzo Tian

Partecipano alla discussione: Chiara Acciarini, Andrea Colasio, Giampaolo D’Andrea, Titti De Simone, Giovanna Melandri, Gabriella Pistone


 



Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
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