(67) 19/04/04

Per le vostre celluline grigie
L'editoriale di "ateatro 67"
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and1
 
Stabili, forse immobili
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 2/2004
di Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and10
 
Torino: Affari sotto le Moli
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 2/2004
di Laura Bevione

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and11
 
Palermo: Cronaca di una stagione perduta
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 2/2004
di Gianni Valle

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and13
 
Come si programma un teatro
Benvenuto Cuminetti organizzatore: il “nuovo” compatibile e il “modello” Teatro Donizetti.
di Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and15
 
Per una lobby trasparente e trasversale
A proposito del convegno sul teatro alla Camera dei Deputati (15 marzo)
di Andrea Rustichelli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and16
 
Autoritratto dell'attore da giovane (5)
con tre foto di Alessandro Genovesi
di Federica Fracassi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and20
 
Disturbi artistici
Genova Hackmeeting 04. Focus on Telestreet e broadcasting autogestito
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and50
 
La Logica della Passione: la conferenza dell’Institutet för Scenkonst
La Spezia, Sabato 8 Maggio 2004 ore 16:00
di Alessandra Giuntoni per Associazione Cut-Up

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and80
 
Cesare Garboli, un maestro
(Viareggio, 1928-Roma, 2004)
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and81
 
Tra arte, video e teatro, un'opera ispirata al massacro del Teatro Dubrovka di Mosca
Ice Floes of Franz Joseph Land di Catherine Sullivan
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and82
 
Debutta a Rennes L'ospite dei Motus da Teorema di Pasolini
dal 20 al 30 aprile al T.N.B. Théâtre National de Bretagne
di Motus

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and83
 
I quarant'anni dell'Odin a Torino
dal 20 al 30 aprile
di Ufficio stampa TST

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and84
 
Concorso di fotografia dello spettacolo Occhi di scena 2004
Il bando della prima edizione
di Centro per la Fotografia dello Spettacolo (San Miniato)

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro67.htm#67and85
 

 

Per le vostre celluline grigie
L'editoriale di "ateatro 67"
di Redazione ateatro

 

Questo ateatro 67 lancia la seconda parte di «Retroscena: il sistema teatrale italiano nell’era di Berlusconi», il dossier curato da Mimma Gallina e pubblicato da «Hystrio», in distribuzione in questi giorni (il sommario completo del nuovo numero della rivista è sul sito di Hystrio... manythanks).
La prima parte dell’inchiesta, anticipata in parte su ateatro 62, ha suscitato un acceso dibattito, di cui ateatro e «Hystrio» stanno rendendo ampiamente conto. Numerosi interventi e polemiche, e persino una giornata di studi alla Camera dei Deputati, approfondiscono un dibattito che prosegue da tempo (vedi per esempio il forum Nuovo teatro vecchie istituzioni). Ne ha parlato anche Andrea Rustichelli su «Affari & Finanza» il 5 aprile, e dunque è con doppio piacere che pubblichiamo il suo contributo in questo ateatro.
I mali delle nostre scene sono noti da tempo: l’approfondito lavoro di Mimma Gallina e della sua équipe, ha però il merito di tracciare un quadro complessivo della situazione. Fornisce da un lato una serie di dati e informazioni, delinea alcune coordinate, e fa anche qualche nome – e, lo ripetiamo, non si tratta di «schedare» o additare al pubblico ludibrio questo e quello, quanto di fornire le informazioni necessarie per un minimo controllo democratico su chi spende il denaro pubblico.
Ovviamente sia sullo schema generale sia sulle singole considerazioni è possibile dissentire. Ovviamente molte informazioni possono essere integrate (o magari rettificate). Ovviamente diverse linee di ricerca (e di polemica) possono essere approfondite. Sarebbe davvero importante riuscire a proseguire questa analisi, e magari individuare qualche correttivo a una involuzione che pare inarrestabile. E’ quello che cercheremo di fare, con il contributo di tutti: ateatro resta uno spazio aperto, sia nei forum sia nelle news sia nella webzine.
In particolare cercheremo di tenere sotto stretta osservazione (ma ci dovete aiutare) il «caso Torino» in questa stagione olimpica. In città succedono molte cose belle – e alcune un po’ meno belle. Per capirle è necessario l’aiuto di tutti. Solo facendo circolare le informazioni è possibile condurre una discussione costruttiva.
A proposito di nomi, dopo tanti j’accuse ogni tanto vale la pena di farne uno «in positivo»: quello di Benvenuto Cuminetti, cui Mimma Gallina dedica una riflessione ricca di spunti e suggerimenti.
Ma in questo ateatro 67 non è solo economia dello spettacolo. C’è anche una nuova puntata del serial narcisistico Autoritratto dell’attore da giovane, inaugurata un paio d’anni fa da Michela Cescon: questa volta tocca a un’altra attrice, Federica Fracassi (con le foto di Alessandro Genovesi).
Per tnm, Anna Maria Monteverdi si è infiltrata nel recente hackmeeting di Genova: se non siete stati invitati, leggere questo testo rischia di farvi venire in testa qualche idea... Ma insomma, questa è la sfida di tutta la nostra webzine: mettere in moto le vostre celluline grigie.


 


 

Stabili, forse immobili
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 2/2004
di Mimma Gallina

 

Anche gli stabili, come l’Eti, sembrano a volte un male ineluttabile: se ne dice sempre più male che bene. Ma mentre l’Eti continua a sembrarmi un organismo obsoleto, anomalo anche rispetto a modelli stranieri confrontabili, nel migliore dei casi da rinventare (e dirlo non è reato di lesa maestà), per gli stabili la questione è diversa. Le funzioni teorizzate da Grassi e Strehler - il teatro d’arte per tutti, per intenderci - e mai in teoria revisionate, corrispondono a un’idea di teatro comune - pur con diversi modelli organizzativi - a tutti i paesi e le culture europee. Questa idea, molto in sintesi, consiste in qualità (buon artigianato, tradizione e ricerca, arte in qualche caso) e contemporaneità (di linguaggi e contenuti, testimonianza/presenza nella società) in una dimensione democratica (accesso/diritto alla cultura), implica una visione dinamica, e presuppone modelli dinamici, ma ha bisogno di strutture solide di riferimento, e farle funzionare è una condizione per preservarla (propugnarla, rilanciarla, o anche solo tenerla in vita nei periodi bui). Personalmente, e in quest’ottica, non riesco a capire fino in fondo la distinzione, pur suggestiva che si è fatta ultimamente (Ronconi per primo, citiamo più avanti), fra ‘valore’ e ‘servizio’, anche alla luce del ruolo minoritario del settore (che vedo come problema da affrontare - ovvero la capacità di comunicare e trovare un pubblico - più che come dato di fatto). Penso che il teatro in quanto valore - accentuazione significativa -, per essere riconosciuto come tale vada anche declinato nel servizio, senza cadere nel rischio che il cosiddetto ‘primato dell’organizzazione’ (Paolo Grassi), diventi ‘dittatura del marketing’. I peggiori nemici - che in questo momento mi sembrano particolarmente agguerriti - dei teatri stabili sono e sono stati quasi sempre dentro gli stabili stessi, e sono le anomalie gravi che li affliggono fin dalla loro nascita e a volte li soffocano fino ad offuscarne quasi totalmente la ragione d’essere: la politicizzazione (intendo l’obbedienza politica che ne guida i vertici e li porta a trasformare istituzioni culturali in giocattoli vuoti, se non in macchine per il consenso), la burocratizzazione (che non di rado impedisce il rinnovamento gestionale), il personalismo delle direzioni (e delle presidenze), lo sperpero (o un certo gigantismo autocelebrativo). Questi difetti storici (o forse malattie genetiche), hanno assunto recentemente sfumature nuove (o forse antiche). La ripresa di controllo delle centrali politiche sui Cda, i presidenti e i direttori, ha portato a forme di clientelismo che non si vedevano da tempo (il caso più appariscente è quello di Luca De Fusco in Veneto e il suo legame con Gianni Letta. Non si pensa certo che una persona capace non possa operare per le sue amicizie o parentele con qualche politico, ma il punto è: quante decine o centinaia di professionisti potrebbero meglio coprire quel ruolo? E quali vantaggi soggettivi - o danni obiettivi - provoca la logica del nepotismo?). Ha inoltre ‘infiltrato’ negli organi di gestione rappresentanti autorevoli della ‘concorrenza’ (in quasi tutti i consigli siedono esponenti di compagnie e teatri privati, come se non fossero portatori di interessi diversi o come se non si potesse collaborare in modo trasparente fra organismi attraverso convenzioni, accordi o semplici contratti, senza bisogno di intrecciare e contaminare le gestioni). » ovvio che in quest’ottica l’obbedienza, o anche solo l’appartenenza politica (per usare una distinzione proprio di De Fusco, che nega la prima e rivendica la seconda), fa passare in secondo piano la discussione sul profilo dei direttori (prevalentemente artistico, critico, organizzativo, l’eventuale recupero dell’accoppiata artista-organizzatore etc.), e il ‘progetto’ (non di rado inesistente). Piccolo inciso: il nostro interesse per ‘chi è chi’ non è pettegolo o ‘stalinista’ (come qualcuno ci ha detto), risponde invece alla logica molto anglosassone secondo la quale chi amministra la cosa pubblica - anche nella cultura - deve rispondere a requisiti di competenza, e la trasparenza in democrazia non è un optional.

Mali antichi e nuovi
Anche se molti direttori di Stabili sono registi - che non di rado (ma non sempre intendiamoci) considerano il teatro un proprio strumento produttivo - un altro vecchio vizio tornato in auge soprattutto a opera dei ‘presidenti’ (il presidente che vuol fare il direttore è un altro revival), è tipicamente organizzativo e lo definirei ‘tendenza al monopolio’: occuparsi di tutto, sostituirsi perfino all’ente locale nel rapporto con gli altri soggetti del sistema (negandone di fatto una funzione autonoma). La politica dei cento fiori è molto lontana e non è difficile spacciare per razionalizzazione, l’occupazione di tutti gli spazi possibili (credo sia la tendenza di Torino, in parte e in prospettiva quella del Veneto), senza per questo progettarli e gestirli meglio. Fra gli obiettivi di fatto dimenticati, o mai seriamente perseguiti (anche se non troverete documento ufficiale che non vi dedichi formalmente qualche riga) è un vero ricambio generazionale (che non si identifica con i corsi o i master per attori: pochissimi danno spazi effettivi a giovani registi, nessuno o quasi ne ha visti nascere al suo interno e non è vero che si cercano giovani organizzatori); una vera compagnia stabile; perfino Ronconi non è riuscito a farne uno strumento o un ‘metodo’ sui tempi medio-lunghi (e intanto la situazione occupazionale degli attori è drammatica sul piano quantitativo e qualitativo); e una vera politica per la scrittura contemporanea (quanti sono gli uffici drammaturgia? Che sanno leggere e scrivere, e non solo in italiano). Questi sono alcuni limiti, pressoché generalizzati, e non è certo solo o tanto questione di soldi.

Pubblici e privati
Ciascuno Stabile meriterebbe un’analisi a sé, ma abbiamo dovuto scegliere e abbiamo così escluso dai nostri approfondimenti le istituzioni che, pur molto diverse fra loro dal punto di vista organizzativo nonché delle caratteristiche e della qualità produttiva (su cui non entriamo qui nel merito), e in presenza, quasi sempre, di alcuni limiti comuni, ci sembra rappresentino modelli discretamente funzionanti: come, ad esempio, il Teatro di Genova, quello più corrispondente all’idea storica di Stabile; o quelli più proiettati all’innovazione di Modena, Prato o Perugia, o la dimensione un po’ familiare ma articolata di Bolzano, o d’’autore’ di Brescia. Ci siamo invece indirizzati verso i casi che presentano, sotto aspetti diversi, anomalie, elementi significativi di novità o di degrado, e abbiamo cercato di analizzarli nel contesto territoriale, da cui ovviamente nessun teatro pubblico può prescindere: Milano, Torino, Roma, Napoli, Palermo e il Veneto, con qualche flash puntato a sud. Ci è sembrato importante anche introdurre il confronto con la stabilità privata. Se l’esistenza di istituzioni pubbliche funzionanti è la condizione di una produzione culturale di qualità, almeno in parte emancipata dai condizionamenti del mercato, anche i limiti costitutivi che abbiamo elencato, rendono indispensabile la presenza di una pluralità di organismi e iniziative indipendenti, che in Italia trovano un modello originale (e il più strutturato), nei teatri stabili privati. Nati dal movimento delle cooperative negli anni Settanta (ne parliamo più diffusamente analizzando la situazione milanese), gli stabili privati rappresentano una risposta alla necessità di una maggiore articolazione dell’offerta e una modalità originale di organizzare la produzione indipendente a livello soprattutto metropolitano. Caratterizzati da vitalità organizzativa - che permane - queste realtà hanno visto spesso declinare il livello artistico e quasi sempre sfumare la funzione propulsiva sul territorio. Il loro ruolo resta complementare a quello degli stabili pubblici e parte costitutiva dei nostri sistemi territoriali (come del resto quello dei centri di ricerca, di cui abbiamo parlato nella prima parte del dossier ), ma il punto è - e non può continuare ad essere eluso - come conciliare la funzione pubblica (e la necessità di adeguate tutele contributive) con l’indipendenza, che è la loro ragione d’essere, trovando un accettabile punto d’incontro fra la continuità del ‘nucleo artistico e organizzativo’ (per usare il ministerialese) e il necessario ricambio artistico-generazionale unitamente al mantenimento di un buon livello qualitativo.


 


 

Torino: Affari sotto le Moli
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 2/2004
di Laura Bevione

 

Nella primavera del 2002, dopo due anni assai tormentati, Massimo Castri abbandonava la direzione artistica del Teatro Stabile di Torino, adducendo come giustificazione al proprio atto stizzito quegli stessi contrasti «insanabili» che già avevano condotto il suo predecessore, Gabriele Lavia, a lasciare la carica sbattendo rumorosamente la porta. Fra le ragioni addotte dal regista toscano per motivare la propria defezione vi era stato anche il rifiuto di condividere con Gabriele Vacis la direzione artistica del teatro torinese. Il progetto presentato dal consiglio d’amministrazione dello stabile (con una vistosa invasione di campo in una materia chiaramente di competenza del direttore in carica), prevedeva infatti la suddivisione delle varie mansioni proprie del direttore fra tre persone diverse: una che si occupasse degli aspetti amministrativi più pragmatici così da concedere agli altri due «colleghi» il tempo e la libertà mentale necessari per dedicarsi ai contenuti artistici: in particolare Castri si sarebbe dovuto dedicare a produzioni e ospitalità che, semplificando molto, potremmo definire «tradizionali», mentre Vacis avrebbe curato il «settore innovazione» incentrato sulla sperimentazione e sulla ricerca di nuovi linguaggi.
Alla base di questa riorganizzazione della gestione dell’istituzione torinese vi era un altro progetto, concretizzato proprio nel marzo 2002, vale a dire l’accorpamento di Laboratorio Teatro Settimo da parte dello Stabile (che segue di un anno circa l’«acquisto» del Gruppo della Rocca). Per la compagnia di Vacis quell’atto è stato formalmente un mezzo per valorizzare le proprie produzioni, sfruttando il sistema di distribuzione solido e capillare dello Stabile torinese. Che questo sia effettivamente successo o meno, certo i soci e i principali collaboratori hanno trovato, almeno temporaneamente, una qualche tranquillità occupazionale dopo molte difficoltà. Gabriele Vacis, tuttavia, non ha assunto alcuna carica istituzionale ma, sostanzialmente isolato, pare proseguire autonomamente i propri percorsi di ricerca. Alla guida dello Stabile sono invece stati nominati Walter Le Moli (l’uomo di teatro forse più potente dell’era Veltroni-Melandri) e, quale vicedirettore e responsabile della scuola di teatro, Mauro Avogadro. Una scelta non priva di aspetti ambigui, subito evidenziati da osservatori acuti come Marco Travaglio che, sulla «Repubblica» del marzo 2002, rivelò un palese conflitto d’interessi tenuto accuratamente nascosto dalle due parti in causa. Questi i fatti: Agostino Re Rebaudengo, dal 1996 presidente dello Stabile di Torino malgrado il suo dichiarato analfabetismo teatrale, è a capo, insieme alla moglie Patrizia Sandretto, intraprendente promotrice delle arti contemporanee, della Re Rebaudengo & Associati. La società risulta, fra l’altro, principale azionista, insieme alla Fondazione Inda presieduta proprio da Le Moli, di una srl, Inda Sicilia, incaricata di gestire a livello esecutivo l’attività del Teatro Greco di Siracusa. Re Rebaudengo e Le Moli, insomma, erano già soci in affari prima di condividere il tavolo direttivo dell’ente teatrale torinese. Una realtà assai poco cristallina, ma lo «scandalo» e l’indignazione hanno vita breve: il sindaco di Torino Sergio Chiamparino decide di accettare le spiegazioni dell’assessore alla cultura Alfieri e ignorare le osservazioni dell’opposizione e di parte della sua stessa maggioranza.
Lo Stabile di Torino, dunque, ritrova la calma escogitando un insolito e assai precario compromesso fra differenti modi di intendere – non solo artisticamente – il teatro, nel tentativo di soddisfare tutti e di seppellire i possibili motivi di polemica. Il risultato è quello di avere creato un ménage sfavorevole e limitante per le parti in causa (Le Moli escluso) e, più precisamente, Vacis da una parte e Avogadro dall’altra, oltre che le molte compagnie più o meno piccole inserite nel progetto “Convenzioni Teatri” gestito dal Centro Servizi Teatrali. Questo ufficio, emanazione dello Stabile, ma voluto dal Comune di Torino – che delega così all’ente il complesso problema di valutare progetti e distribuire risorse – è un ulteriore tassello della politica di occupazione di tutti i possibili spazi (fisici e non) e funzioni condotta dalla gestione Re Rebaudengo. Ne fa parte da sempre anche il servizio distributivo per il territorio, recentemente «esternalizzato» (in astuta funzione contributiva) nella neonata Fondazione Circuito Teatrale del Piemonte, guidata da quel Bruno Borghi con cui lo stesso Le Moli continua a dirigere (di fatto) il Festival di Parma (principale finanziatore delle ultime produzioni di Ronconi). Le prossime, in compenso, saranno realizzate e ampiamente finanziate (la stampa ha parlato di quindici miliardi di vecchie lire) dagli enti locali torinesi attraverso il comitato olimpico, per le Olimpiadi invernali del 2006.
Nel frattempo, dal punto di vista della qualità delle offerte agli spettatori il cartellone è privo di reali fili conduttori. Tutto ciò è incredibilmente riuscito anche a determinare un nuovo deficit: c’è chi dice per errate previsioni contributive legate all’acquisizione di Settimo e all’esternalizzazione dell’Ufficio territorio, chi per lo scarso controllo sui costi di produzione, chi per il calo degli spettatori e chi sottolinea le consulenze esterne «parmensi» molto ben pagate. Il deficit sarebbe del resto passato inosservato se non avesse suscitato le reazioni di Gipo Farassino – egli stesso uomo di teatro con concretissimi interessi nella gestione della scena torinese – ad assessore all’Identità e all’Immagine del Piemonte con delega per il teatro. Un incarico, quest’ultimo, che lo chansonnier-attore della Lega Nord condividerà con l’assessore alla cultura Giampiero Leo, con il quale potrà spartire i finanziamenti regionali alla prosa. Le compagnie piemontesi, intanto, si affannano a studiare Bersezio e Brofferio e a verificare la propria padronanza del dialetto.


 


 

Palermo: Cronaca di una stagione perduta
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 2/2004
di Gianni Valle

 

Il luogo comune che vuole la Sicilia «laboratorio politico» d’Italia perché là le dinamiche si manifestano con anticipo rispetto al quadro nazionale, nel nostro caso risponde a verità. Infatti l’escursione al Parnaso berlusconiano della vita teatrale a Palermo è cominciata fin dal 1998, quando – nel pieno di quella che veniva definita «la primavera» oppure «nuovo rinascimento» palermitano – la modifica degli equilibri politici nella Provincia Autonoma, segnata dal ritorno alla presidenza di Francesco Musotto detto Ciccio, ha comportato, fra l’altro, una nuova rappresentanza nel consiglio d’amministrazione del Teatro Biondo Stabile di Palermo e la conseguente defenestrazione del direttore Roberto Guicciardini. Sotto la direzione Guicciardini il Biondo aveva ritrovato un rapporto con le voci della città, in sintonia con la politica complessiva di Leoluca Orlando e Francesco Giambrone. Il Biondo patrocinava il progetto pluriennale di Carlo Cecchi al Teatro Garibaldi, era socio del Festival di Palermo sul Novecento, si faceva strumento produttivo – spesso di concerto con le altre due istituzioni palermitane, il Teatro Massimo e l’Orchestra Sinfonica Siciliana – delle iniziative volute dall’assessorato, come la reinterpretazione del Festino di Santa Rosalia o la programmazione della rassegna Palermo di Scena, fino al Festival di Morgana, rassegna di teatro di figura promossa dal Museo delle Marionette. Con le Mille e una notte di Scaparro venne inaugurato lo Spasimo e con L’assalto al cielo di Thierry Salmon vennero riaperti i Cantieri Culturali alla Zisa, due luoghi simbolo del rinascimento palermitano. Nel quinquennio della gestione Giambrone passarono in Sicilia tutti i più bei nomi internazionali del teatro, della danza e della musica oltre che il meglio del nuovo teatro italiano. Furono organizzate mostre, soprattutto fotografiche, rimaste memorabili. Sono stati sostenuti i protagonisti della scena palermitana, da Franco Scaldati a Michele Perriera a Burruano e Sperandeo ma è maturata anche una nuova generazione di musicisti e teatranti che si è imposta a livello nazionale, da Sollima, Betta, Incardona e La Licata a Collovà, Davide Enia, Emma Dante.
Il ritorno di Pietro Carriglio alla direzione del Biondo fu salutato positivamente da chi ribattezzava «il rinascimento» come «l’effimero palermitano» ed entusiasticamente dagli oppositori di Orlando (che pure fu consenziente verso questa nomina) che gli rimproveravano di aver speso risorse provenienti dall’Europa al ritmo di 180 miliardi all’anno in spettacoli e Lsu (lavori socialmente utili, ribattezzati Lsi) mentre in tutto il continente si ridimensionava il welfare a favore degli investimenti strutturali. Non ci voleva grande preveggenza nel capire che il nuovo direttore avrebbe avviato la conclusione di quella stagione progressiva, spegnendo le voci, negando l’unicità dell’esperienza palermitana e riportando il dialogo con la città nei binari routiniers della programmazione e dell’organizzazione. Così suonò come un epitaffio l’intervento di Giovanni Raboni che, quasi a mettere a tacere «polemiche e dicerie» sentì il bisogno di scrivere sul «Corriere della Sera» che «quella del suo ritorno “in pista” era, molto semplicemente, una buona notizia». Il percorso successivo è stato l’inverarsi di un progetto politico.
Le sconfitte di Orlando alle elezioni per l’Europa prima e poi per la presidenza della Regione, hanno affrettato l’ascesa degli uomini di Micciché. Sindaco è stato eletto un avvocato che in campagna elettorale sosteneva, ad esempio, che Moni Ovadia e Vincenzo Consolo senza il sostegno della sinistra erano artisticamente «poca cosa». L’assessorato alla cultura è di fatto retto da un consulente «straniero» che ricopre incarichi importanti in diverse altre città. Francesco Giambrone è tornato a fare il cardiologo e gliel’hanno giurata tanto che una sua nomina a Sovrintendente dell’Opera di Genova è saltata all’ultimo momento. Cecchi ha lasciato il Garibaldi dal 2000. Il Festival sul Novecento è finito nel 2001 («faremo qualcosa di più grande» ha dichiarato il sindaco, ma non sono pervenute notizie in merito). Palermo di scena è stata soppiantata da una rassegna estiva a ricalco delle metropoli continentali e al Festino di Santa Rosalia gli Lsu sono scritturati per applaudire il sindaco. Lo Spasimo è stato «normalizzato» come spazio espositivo e ai Cantieri Culturali non succede più niente. In compenso Carriglio collabora a tutto campo con il Piccolo Teatro di Milano (anche coproducendo spettacoli che a Palermo non hanno messo piede), ha messo in scena un testo di Raboni e quest’anno, dopo aver recuperato Brecht ai valori teatrali fuori da ogni ideologia, si è fatto contemporaneamente nominare Sovrintendente al Teatro Massimo. Sarà il «laboratorio politico»?


 


 

Come si programma un teatro
Benvenuto Cuminetti organizzatore: il “nuovo” compatibile e il “modello” Teatro Donizetti.
di Mimma Gallina

 

Il pezzo che segue è tratto dalla relazione che ho tenuto al convegno “Percorsi attraverso esperienze drammaturgiche e teatrali in ricordo di Benvenuto Cuminetti”, che ha avuto luogo a Bergamo, organizzato dall’Università, il 24 e 25 maggio 2002. Gli atti del convegno saranno pubblicati nella Collana Bergamo University Press, edizioni Sestante, Bergamo.
Persona di grande qualità umane e intellettuali, Cuminetti è stato fra le altre cose e per moltissimi anni “consulente alla programmazione” del Teatro Donizetti di Bergamo, che ha portato a 9 repliche (fate un po’ il calcolo percentuale rispetto agli abitanti!), e per cui ha inventato i cosiddetti “altri percorsi”, esportati poi in tutta la Lombardia. Credo sia interessante, nel quadro del dibattito sulle miserie dell’organizzazione del teatro italiano, riflettere sulla qualità e l’intelligenza del suo lavoro. Anche perchè l’eventuale rinascita passa dalla riqualificazione delle programmazioni e delle gestioni delle sale: la distribuzione è a mio parere il punto più dolente del sistema.


Ho scelto di dare questo titolo al mio contributo individuando la preoccupazione di conciliare innovazione e concretezza come un filo conduttore molto preciso nel pensiero di Benvenuto Cuminetti, e come la caratteristica più importante – fra le molte – della sua azione di organizzatore di cultura. Come risulterà chiaro, non considero per niente riduttiva quest’attitudine ad un pragmatismo guidato da forti motivazioni culturali e ideali.
Benvenuto Cuminetti è stato una personalità di riferimento tale che la sua mancanza si sente nel teatro italiano molto al di là di quanto potrebbe far pensare la posizione marginale: quella di programmatore di teatro in città importanti, ma di provincia, come Bergamo e le altre sedi con le quali ha collaborato. Tutto il mondo teatrale identificava il Teatro Donizetti con lui, ma non solo. Era uno di quei pochi, di quelle pochissime personalità (e in via di estinzione), cui compagnie dalle caratteristiche più diverse, dal grande Teatro Stabile al teatro privato di qualità (anche di alta densità commerciale), fino alla compagnia che si era appena affacciata al teatro ufficiale (ed era stata portata a confrontarsi con il pubblico “vero” magari proprio da una sua scelta), una gamma molto articolata di operatori quindi, poteva trovare in lui un interlocutore con cui confrontarsi, sempre competente, da cui ricavare stimoli, o anche – a volte – la franchezza del non incoraggiamento.
Questa disponibilità è una qualità fondamentale in chi si occupa di teatro, non soltanto a livello della produzione (dove è l’assenza di confronto che genera spesso ”autoreferezialità”), ma proprio anche a livello della programmazione dei teatri, funzione non meno rilevante e – vorrei dire – creativa, oltre che di grande responsabilità, in un sistema “di giro” come è tuttora prevalentemente il nostro (sempre naturalmente, che se ne ipotizzi una gestione culturalmente e socialmente consapevole).
Un’ulteriore premessa. Le considerazioni che sto per sviluppare derivano in gran parte dall’analisi dei programmi delle stagioni e dalle frequenti pubblicazioni del Donizetti. Dal complesso di questo materiale si ricava con chiarezza l’importanza attribuita alla formazione degli spettatori, una funzione divulgativa che si concretizzava, anche attraverso questi testi, in un dialogo continuo con il pubblico.
La lezione più autentica e originale di Benvenuto Cuminetti organizzatore, sta proprio nella capacità di dialogo fra un teatro e il suo pubblico e fra produzione e programmazione, associata alla consapevolezza della distinzione precisa delle due funzioni (non è un caso che il Teatro Donizetti non abbia mai realizzato una propria produzione, ma semmai, spesso, e in termini quasi sempre molto motivati, ospitato delle “prime”).
In concreto, si trattava in primo luogo di interpretare i progetti produttivi, conoscere il percorso dei gruppi e degli individui, cogliere elementi di curiosità o magari scoprire guizzi di genialità, e capire le motivazioni reali, la necessità delle scelte (che a volte c’è, ma molto spesso non c’è nel teatro italiano) e la coerenza fra questo livello ideale e la realizzazione materiale (coerenza che spesso è condizione di qualità).
Non sono, quelle di Benvenuto, le modalità del “grande innovatore”, di chi rompe deliberatamente con una tradizione, anzi, nell’illustrazione delle linee programmatiche del teatro, e in tutte le sedi possibili, si sottolinea il collegamento con la tradizione e assieme la necessità di dare spazio a quelle che lui chiama le ragioni del nuovo (che indaga con una curiosità instancabile a livello teorico, ma soprattutto in giro per l’Italia a vedere spettacoli). Non innovazione nel senso di rottura, dunque, ma secondo il modello del Teatro Donizetti, un rinnovamento soft: la capacità, cioè, di introdurre nelle stagioni (caratterizzate da una qualità di base irrinunciabile anche a livello dell’area più tradizionale) quei piccoli, continui spunti che sono stati fondamentali – e sono fondamentali dove altri riescono a interpretare non meccanicamente questa lezione – per innescare dinamiche di ricambio effettive nell’ambiente teatro (e nei gusti del pubblico).
Si è trattato di una linea estremamente consapevole: c’è in tutte le dichiarazioni, si legge tra le righe, la certezza, e anche a volte l’orgoglio di fare delle scelte di rottura (penso che con le precisazioni indicate il termine diventi corretto), e precisamente motivate all’interno del sistema teatrale oltre che per la città di Bergamo.
Tutto questo comportava – ed era questa una delle sue qualità umane principali – una grande capacità di ascolto (delle singole vicende e della loro evoluzione, e dei fenomeni teatrali nel loro complesso) e una sorta di understatement, che si esprime molto bene nella definizione del suo ruolo al Teatro Donizetti, che è, ed è sempre stata mi sembra, “consulente alla programmazione” (quando sappiamo benissimo che basta mettere insieme tre spettacoli per chiamarsi “direttore artistico”, in giro per l’Italia, e io credo che pochi siano stati direttori artistici come lui).
Questo “dettaglio” mi sembra molto significativo della levatura culturale, ma anche di una consapevolezza politica e di una denuncia esplicita dei limiti in cui opera scegliendo, senza nessuna incertezza, il fronte pubblico: nel momento in cui metteva il suo lavoro al servizio dell’Amministrazione comunale, Cuminetti accettava di recepire “indirizzi” e attuare una serie di mediazioni, a volte molto faticose probabilmente. Di queste mediazioni si leggono gli alti e bassi nella stessa composizione dei cartelloni; per tutti l’ultimo, dove si giustifica un po’ forzatamente l’introduzione del musical: ma la scelta politica e anche per certi versi civile (torneremo su questo punto) è quella di ribadire la funzione dell’Amministrazione pubblica.
Tutto questo fa della personalità del nostro “consulente alla programmazione” un caso abbastanza eccezionale di intreccio tra competenze culturali, passione teatrale, pensiero organizzativo e consapevolezza politica.
C’è un percorso ricorrente nelle riflessioni teoriche di Benvenuto, che a mio parere lo motiva intellettualmente ma gli dà anche la forza morale necessaria a svolgere la sua funzione di organizzatore di cultura fra le difficoltà che dicevamo: la consapevolezza della “marginalità” del teatro come elemento di forza, come filo conduttore del teatro del Novecento, come “necessità” dell’innovazione.
(...)
La marginalità, la consapevolezza della marginalità del teatro è però anche, in termini che per certi versi potrebbero sembrare paradossali, la ragione della sua forza, del suo significato nella comunità, ed è fondante della sua potenzialità innovativa.
Su questo vorrei leggervi un pezzo, che appare con alcune varianti in più di una pubblicazione, intitolato “Il teatro e la città”, cui credo abbia dedicato molta cura, perché ricco di significati evidenti, ma anche di sfumature, di riflessioni tra le righe.

Ma alla “marginalità” cui il teatro è stato indubbiamente spinto non corrisponde, automaticamente, una presenza irrilevante o trascurabile nella nostra società. Anzi. La ricerca teatrale più rigorosa e innovativa del Novecento aveva avvertito l’avviarsi di una vicenda che, come accadde, avrebbe eroso il primato di questa antica forma di comunicazione e favorito la sua omologazione a forme di spettacolarità evasiva. Aveva reagito, esplorato altre strade, aveva soprattutto riscoperto le radici e la specificità dell’esperienza teatrale esaltandone perennità e modernità.
Infatti, i grandi riformatori della scena novecentesca si erano resi opposti e avevano combattuto il progressivo prevalere e imporsi della ricerca del facile consenso e del successo commerciale. Ma avevano anche percepito che altre modalità di comunicazione essenzialmente affidate all’immagine, che ora caratterizzano massicciamente la nostra società, avrebbero messo radicalmente in questione e relativizzato, rispetto alle moderne forme, il teatro. Ma questa condizione di inevitabile “marginalità” fu da quei grandi protagonisti della scena novecentesca – da Copeau a Craig – lucidamente assunta e trasformata in una grande sfida con l’invenzione di nuovi processi creativi e di produzione di nuove forme di teatralità. La “marginalità” ha svolto e svolge un ruolo di spinta alla creazione e alla elaborazione di modalità creative qualitativamente diverse da quelle, oggi, dominanti1.


L’innovazione trova quindi radici precise nella storia del teatro del Novecento: il nuovo non è un corpo estraneo, è elemento costitutivo di questa tradizione e funzione. Per contro, questa continuità, questo pensiero, sostiene culturalmente Benvenuto (gli offre buone giustificazioni intendo: questa considerazione è del tutto personale, e deriva da una mia personale lettura delle stagioni), anche quando fa scelte “convenzionali” e di cui certo non era entusiasta ma che – oltre che dai limiti del sistema, come vedremo più avanti – partono dalla necessità (che tutti i direttori di teatro ben conoscono e cui danno diverse gradazioni di importanza), di non perdere, di conquistare anzi, il pubblico “borghese”.
In questo senso è significativa la situazione da cui la città di Bergamo parte, e che, come “consulente alla programmazione” si propone di trasformare. Vale la pena di ricordare2, come il teatro del dopoguerra fosse disastrato: qui a Bergamo negli anni ’50 e ancora negli anni ’60 gli spettacoli facevano una sola rappresentazione (i non giovanissimi sicuramente lo ricordano). C’erano i famosi lunedì del Piccolo Teatro, mitici per il pubblico “borghese” colto di allora, ma che non di rado trovavano platee semivuote (per spettacoli memorabili), e solo in casi eccezionali si rischiava la replica.
Più avanti, dalla fine degli anni ’60 e nel corso degli anni ’70 inizia quella “rimonta” che ha caratterizzato tutto il teatro italiano, ma che a Bergamo è stata particolarmente significativa: con le 9 repliche in abbonamento (su 130.000 abitanti) e un’indiscussa qualità di programmazione, Cuminetti ha fatto della sua città una delle capitali teatrali d’Italia (e “piazza” ambitissima!).

La straordinaria crescita delle presenze dagli anni Settanta ad oggi, l’espandersi delle iniziative, il consolidarsi del consenso nei termini di una risposta ragionata e convinta è testimonianza di una politica che ha avuto la finalità di riportare e fortemente riproporre l’esperienza teatrale al centro della vita della città e, poi, di radicarla sempre di più. La consapevolezza del difficile contesto mediatico con il quale il teatro doveva, inevitabilmente, fare i conti – perdita della sua centralità, imporsi massiccio del cinema, avvento della televisione, prevalere della spettacolarità – è stata alla base della politica teatrale dell’Amministrazione e dell’Assessorato. […]
La conquista, ma soprattutto lo straordinario ampliamento del pubblico avviene per una politica teatrale con la quale l’Amministrazione Comunale risponde alle gravi difficoltà del teatro. Accetta la sfida e punta risolutamente sulla qualità artistica delle proposte, sulla valorizzazione della specificità di questa esperienza, sul promuovere partecipazione e attenzione a programmi nei quali anche la ricerca teatrale trova un suo significativo spazio.
Le scelte dell’Amministrazione e dell’Assessorato furono fondate, perciò, su un elevato senso della sua responsabilità pubblica3.


Da questo documento, che è del ‘94, risulta molto forte e motivato l’orgoglio per questa crescita e per il suo significato politico, ma credo si senta già la necessità di difenderne le ragioni, e a maggior ragione emerge in modo inequivocabile – nelle ultime dichiarazioni – la forte preoccupazione che questa consapevolezza pubblica si stia sfaldando:

…il che significa salvaguardare una forma di incontro essenziale a produrre “socialità”, programmare e operare con maggiore attenzione alle ragioni dell’arte e della cultura che a quelle commerciali o del facile consenso, equilibrare l’attenzione ai classici, alla produzione contemporanea, alla ricerca.

Mi sembra di poter leggere oggi queste parole come un appello, un richiamo a chi avrebbe raccolto, sul fronte dell’amministrazione – e della “consulenza alla programmazione” - la sua eredità.

Ma analizziamole anche facendo un passo indietro. Il punto di riferimento, anche per un teatro di programmazione (non soltanto per un teatro di produzione), era il Piccolo Teatro di Milano, primo Teatro Stabile italiano. Ma ricordando l’assunzione convinta di questo modello sul piano culturale, Cuminetti sottolinea qualche distanza significativa su quello organizzativo.
Dal punto di vista politico culturale il Piccolo rappresentava la ricerca e l’affermazione delle ragioni della presenza e dell’intervento pubblico in un settore delicato come quello della cultura, una programmazione attenta ad equilibrare i classici, il rapporto necessario con la tradizione teatrale, con i moderni e i contemporanei, attenzione e sviluppo di quelle attività che accompagnano la programmazione, come incontri, dibattiti, seminari, pubblicazioni ed altre forme sia d’informazione che occasioni forti di approfondimento e conoscenza.
Sul piano organizzativo, il Teatro Donizetti non ha mai sposato la forma dominante dell’“organizzazione del pubblico”, quel “reclutamento” nelle scuole, nelle fabbriche, ecc. richiamato (con forte significato “militante” e chiaramente storicizzabile), nel manifesto della fondazione del Piccolo: “Un teatro d’arte per tutti”. Sostiene Cuminetti:

Il pubblico del Teatro Donizetti è cresciuto […] per contagio, per aggiunzione spontanea, per il richiamo dell’esperienza teatrale proposta, per il consenso e il giudizio positivo sulla programmazione. L’Assessorato allo Spettacolo, infatti, non ha mai avuto un Ufficio Stampa né un Ufficio Organizzativo (che nel ’93 non c’era e non c’è nemmeno adesso). Soltanto da due anni è stato creato un responsabile, a tempo parziale, del rapporto con i giovani e con le scuole, …4.

Il pubblico quindi non si “recluta”, si crea “per contagio”.
La considerazione citata presenta però aspetti ambivalenti su cui si potrebbe ingaggiare una discussione complessa: ad esempio l’uso del termine “consenso”, la compatibilità di quello che ho definito “nuovo compatibile” con la creazione del consenso, che significa anche “numeri”. Ma anche su questo punto la coerenza è sorprendente: la soddisfazione per i risultati quantitativi raggiunti non cancella mai la consapevolezza della relatività dei numeri. Non ho trovato in un solo documento, ad esempio, l’utilizzo del termine mercato: personalmente sono convinta che intendere il pubblico come mercato (l’abuso e l’estensione meccanica al teatro del concetto di mercato), sia una delle più gravi deformazioni del senso stesso del teatro. Benvenuto sapeva di dover “dare dei numeri”, che il riconoscimento (e il futuro) della sua attività era legato al riscontro quantitativo. Ci sono momenti precisi, nella sua carriera di organizzatore, in cui quest’aspetto è fondamentale: mi riferisco in particolare al passaggio da un assessore all’altro. Ma l’aspetto quantitativo resta sempre relativo. In 15 anni, è tutto proteso, ad esempio, a valorizzare le linee che guidano Altri percorsi, indipendentemente dai risultati quantitativi assoluti, ma proprio per il valore del piccolo numero: i 400 abbonati ad Altri percorsi, di una stagione – non ricordo quale – diventano molto più significativi dei risultati, ben più consistenti, della stagione ordinaria in abbonamento.

Altri percorsi: la genesi e l’affermazione come modello lombardo, meritano una riflessione ad hoc. Di cosa si tratta innanzitutto: di integrare nella stagione ufficiale una selezione di spettacoli.
Il riferimento è all’“altro” teatro: spettacoli che in qualche modo si staccano dalla norma, dal cosiddetto teatro “ufficiale”, e che affermano “le ragioni del nuovo”.
Una delle cose che colpisce percorrendo i cartelloni bergamaschi di Altri percorsi, è però la scelta di non considerare il termine “altro” sinonimo di “nuovo” (e di non sposare conseguentemente una o più tendenze riferite al “nuovo” teatro), ma di restare estremamente curioso ed aperto a scoprire cosa sta succedendo intorno (indipendentemente dal proprio gusto, ma tentando sempre un’interpretazione, una lettura personale dell’evoluzione del teatro italiano). Voglio sottolineare quest’aspetto, che porta a un’innovazione che non è mai aggressiva, non è mai impositiva, rifugge da scelte di tendenza e dal rischio dell’ideologia, ma è, in primo luogo, aperta.
Nell’assumere Altri percorsi (qualcosa di più, come abbiamo visto, di uno slogan felice) come modello per il territorio, la Regione Lombardia ha fatto propria questa scelta (e ha sposato la causa del sostegno del teatro “altro” nelle programmazioni pubbliche) anche se non sempre, e non ovunque mi sembra, ne è stato colto lo spirito.
Certo Altri percorsi in quanto “contenitore” separato del teatro “altro”, costituisce anche un limite (forse necessario, sicuramente utile come chiave politico-amministrativa): sembra quasi che la soglia della “compatibilità del nuovo” stia arretrando. E Benvenuto ne prende atto, inventando, pragmaticamente, una soluzione, certo non da “grande innovatore”: ma si può essere grandi innovatori programmando un teatro Comunale bene? Non so, non lo so davvero.
(...)
Un ulteriore importante aspetto, è la consapevolezza che ci si muove in un sistema e che non è possibile programmare un teatro senza conoscere questo sistema, e senza che le logiche delle scelte siano motivate e dichiarate. E’ uno degli argomenti del dialogo continuo di Benvenuto con gli spettatori: la volontà di far sapere al pubblico che cosa succede nel teatro italiano e di denunciarne i limiti e gli errori, quando occorre.
Qui voglio ancora leggere le sue parole, dal programma della stagione 96/97:

Alla presentazione di ogni stagione si fa, se pur brevemente, un accenno alla situazione del teatro italiano perché ogni programmazione dei teatri è inserita nel sistema teatrale nazionale. Si vuol dire che non si possono giudicare in assoluto le stagioni di Bergamo, Modena, Milano, Genova, Firenze Venezia e di altre importanti città senza la consapevolezza che si è “dentro”, si voglia o non si voglia, un’organizzazione del teatro che incide e condiziona, ancor prima delle scelte, le produzioni e la distribuzione. Un sistema teatrale di cui conosciamo le ragioni del suo formarsi, del suo sviluppo anche imponente e significativo, ma che da anni è andato rivelando limiti preoccupanti e, soprattutto, ha creato ostacoli all’accesso delle novità produttive e creative di tanto giovane teatro. Se non è stato possibile sottrarsi alle pesanti costrizioni di questo sistema che è stato radicato e alimentato dalle grandi compagnie e dai grandi produttori (ma non sono state estranee le istituzioni teatrali pubbliche), si è riusciti ad introdurre modifiche con attenzioni e scelte di spettacoli che, pur meritevoli, erano collocati ai margini del teatro ufficiale. A dire la verità anche oggi molti, troppi teatri perseguono una politica di chiusura verso i mutamenti che pure si sono prodotti nel teatro italiano5.

E’ una critica precisa e pesante che, sottolineata dalla rivendicazione – e dall’orgoglio- per le scelte operate negli anni (quelle possibili), si vena di un pessimismo nuovo, forse un senso di solitudine e di impotenza rispetto a un degrado che non risparmia nessuno.
Non vorrei infine dimenticare una considerazione (anche se mi limito ad accennarlo per motivi di tempo): l’attenzione per il pubblico passa anche dalle riflessioni su un aspetto apparentemente tecnico e di dettaglio, ma fondamentale: gli abbonamenti. Croce e delizia del teatro italiano, sono ben più che un fatto amministrativo: l’abbonamento può essere una gabbia, ma anche un grande strumento di crescita, attraverso su cui si possono costruire – o meno - reali processi d’innovazione. Allora si comprende lo sforzo di spiegare gli incastri di tagliandi, la motivazione di “forzature” apparenti, che forzature non sono, ma scelte precise che si chiede al pubblico di capire (e condividere).
Per chiudere vorrei leggervi un pezzo che ha il pregio di ricondurre i problemi del teatro, al contesto sociale e politico generale e di riassumere il senso e i risultati di un’avventura professionale e umana.
Il tema è “Il ruolo pubblico e la tendenza alla privatizzazione”:

In una stagione politica che accentua la dimensione privatistica e si sta riinterrogando sulle ragioni dell’intervento pubblico la vicenda del Teatro “G. Donizetti”, ripercorsa se pur rapidamente appare per più aspetti esemplare. Il dibattito sulle ragioni dell’intervento pubblico, del resto, ferve non soltanto in Italia e non riguarda soltanto il teatro, ma più sfere ed aree della società.
Deve essere affrontato con la coscienza che sono in questione patrimoni di tradizioni vitali da salvaguardare e difendere perché non vengano meno nella vita associata, pena il suo impoverimento. Dibattito giusto e necessario, perciò, ma da condurre almeno con la coscienza della complessità della questione e dei valori che sono in gioco. L’intervento rilevante e decisivo dell’Amministrazione pubblica nella politica culturale e teatrale della città ha avuto sin dall’inizio la preoccupazione di rendere evidenti ed esplicite le ragioni e il senso della sua presenza. Non è stato sempre facile difendere e mantenere questo orientamento. Ma ci si è riusciti e i risultati sono stati di grande rilievo e difficilmente contestabili. L’impegno pubblico ha, infatti, fatto crescere un imponente e sorprendente consenso – invidiatoci da tanti teatri – attorno a proposte di qualità e di indubbio rilievo culturale e sociale. Ha mantenuto viva la dialettica tra il patrimonio di forme e di testi che la civiltà teatrale ci ha consegnato e le ragioni del nuovo. Ha orientato progressivamente l’attenzione della città e dei giovani verso la ricerca teatrale contemporanea perché non c’è salvaguardia del passato senza che lo si rimetta in gioco con nuove reinterpretazioni e creazioni. Ha soprattutto rimesso al centro della vita della città un’esperienza che se non ha più il primato della partecipazione e dell’attenzione – appartiene, ormai, ad altri strumenti di comunicazione -, è necessaria e insostituibile a produrre nel rapporto “faccia a faccia” e nella compresenza fisica dibattito, riflessione, godimento, e a incrementare la vita di rapporto6.


NOTE

1 BENVENUTO CUMINETTI, Il Teatro e la Città, in Teatro Donizetti – Stagione di Prosa e Altri Percorsi 1994-1995, Comune di Bergamo – Assessorato allo spettacolo e alla Pubblica Istruzione, Bergamo 1994, pp. 9-10.
2 Riassumo da: Il teatro e la città, cit.
3 Ivi, pp. 10-11.
4 BENVENUTO CUMINETTI, Il teatro e la città: Bergamo, in AA. VV., Un teatro a Varese: quale futuro? – Atti Giornate di studio sui problemi organizzativi e gestionali di una struttura teatrale: esperienze a confronto, Comune di Varese, Assessorato alla Cultura, Varese, 25/26 settembre 1993, p.78.
5 BENVENUTO CUMINETTI, (Senza titolo), in BENVENUTO CUMINETTI (a cura di), Teatro Donizetti – Stagione di prosa e altri percorsi 1996-1997, Comune di Bergamo, Assessorato allo Spettacolo, Bergamo 1996, p.7.
6 BENVENUTO CUMINETTI, Il teatro e la città, oggi, in AA VV, Il teatro Donizetti e la città 1990 –1995, Teatro Donizetti – Quaderni dello spettacolo, Comune di Bergamo – Assessorato allo Spettacolo e alla Pubblica Istruzione, Bergamo 1995, pp. 9-10.


 


 

Per una lobby trasparente e trasversale
A proposito del convegno sul teatro alla Camera dei Deputati (15 marzo)
di Andrea Rustichelli

 

Caro Oliviero,
anche io sono stato al convegno Ds del 15 marzo, Quali politiche per il teatro, a proposito del quale sento ripetere spesso e volentieri che è stato un "nulla di fatto". Certamente la sua densità operativa non era particolarmente inebriante: ma credo – e vorrei sottolinearlo – che quell’occasione ha avuto il merito di rilanciare l'importanza di una sinergia tra teatranti e politica (intendo la politica che si svolge in Parlamento). È inutile, mi pare, che la comunità teatrale continui ad affidare i suoi giustificati lamenti al vento. In Francia gli "Intermittents" hanno raggiunto una buona compattezza (ma sarà sufficiente?) anche grazie all’appoggio di un sindacato forte come la CGT e di un certo numero di deputati. Da noi, finora, nulla di tutto questo è successo: la politica e lo spettacolo dal vivo si parlano molto poco e molto male.
Ebbene, come invertire la tendenza per cercare di instaurare un rapporto più proficuo tra i due versanti? Non ho, è evidente, ricette miracolose. Ma mi sembra assai necessario, innanzi tutto, assumere dei punti di riferimento affidabili in Parlamento. Ognuno può ritenere di avere i suoi, naturalmente. Per parte mia e non a caso, propongo il nome di Franca Chiaromonte – responsabile cultura Ds e organizzatrice del convegno -, firmataria con molti altri deputati dell'Ulivo di una proposta di legge sullo spettacolo dal vivo, depositata nel 2002. Lo ho scritto nel mio intervento "postumo" al convegno, chiestomi dalla stessa Chiaromonte, e lo ribadisco qui: sulla base di un’aspettativa generale sempre più pressante (di artisti, operatori e pubblico) che stenta tuttavia a trovare adeguata configurazione, sarebbe assai opportuna l’aggregazione di un vero e proprio gruppo di pressione, una lobby trasparente e trasversale che prenda a cuore la promulgazione di una legge organica sullo spettacolo dal vivo. In tal senso, un sito internet, grazie alla duttilità e alle ampie potenzialità partecipative di una community, potrebbe divenire un ponte e un luogo di dialogo tra i teatranti e i parlamentari implicati (penso pure a Giovanna Grignaffini, capogruppo Ds in Commissione Cultura alla Camera, anche lei firmataria della menzionata proposta di legge).
In conclusione, lamentare l'inutilità del convegno – e, con esso, della politica istituzionale – è un esercizio tanto facile quanto sterile: le istanze protestatarie della piazza, in mancanza di un’aspirazione interna che tenda a organizzarsi in forza politica effettiva (vedi legislativa), sono destinate a rimanere degli inutili e compiaciuti bruciori di stomaco, in cui forse qualcuno prospera (mi pare un vizio molto italiano: e anche molto di sinistra). Sulla base di queste ragioni, io non ho trovato il convegno troppo inutile: può essere, al contrario, il primo di futuri passi possibili, sempre che si abbia voglia di lavorare in vista di un futuro che ora manca. Resistendo, dunque, alle pur suadenti lusinghe retoriche del suicidio o dell’esilio. Assunti sul serio e non in modo fasullo, in effetti, l’esilio e il suicidio producono un frutto naturale e necessario, per cui nutro peraltro grande rispetto: il silenzio definitivo.


 


 

Autoritratto dell'attore da giovane (5)
con tre foto di Alessandro Genovesi
di Federica Fracassi

 

Oliviero Ponte di Pino mi chiede da un po’ di tempo di rispondere al suo quiz attori.
Mentre scrivo ascolto la radio. Adriano Sofri dice dal carcere di Pisa: «Benvenuto allo straniero venuto a descrivere la nostra vita, perché noi non riusciamo più a vederla, o forse non ne abbiamo più voglia».
Non so perché riporto questa frase. Forse mi pare giusto in un momento come questo tenere sempre aperta una finestra sul mondo.




Il teatro. Perché?
Danza + Letteratura = Teatro
Ho scelto il teatro in seguito a un’operazione matematica inventata.
Nella mia vita è accaduto molte volte di compiere simili operazioni e sulle scelte più importanti. C’è sempre un margine di grande visionarietà in queste scelte, dare alle parole i propri significati in modo del tutto autistico. Per poi scoprire che in fondo non sono così distanti da ciò che si chiama comunemente realtà.
A 5 anni ad esempio mi è accaduto con la definizione «scuola di danza». «Scuola» era l’immagine di me dietro un banco con un quaderno aperto davanti. «Danza» era l’immagine di Carla Fracci che avevo visto volare sulle punte in televisione. «Scuola di danza» era: io che sto dietro a un banco con un quaderno aperto e che in virtù di una magia straordinaria divento Carla Fracci.
Per questo ho fatto di tutto per andare a scuola di danza da piccola per poi scoprire che la realtà era un’altra. Una realtà che mi è piaciuta, nella sua diversità dalla mia immagine e che ha contribuito con l’amore per i libri a farmi scegliere il teatro.
Non sono mai stata a teatro da piccola. Da adolescente ci sono andata due volte, portata di forza dalla scuola. Non avevo davvero elementi per poterlo scegliere.
«Danza» era l’eccitazione di salire su un palco
«Letteratura» era la possibilità di vivere in mondi paralleli e inventati
«Teatro» era vivere su un palco in mondi paralleli e inventati, tenersi in bocca strane parole, indossare strani abiti, viaggiare in tempi diversi.
Tutto vero, a parte l’indossare strani abiti. Su questo finora sono rimasta abbastanza nei miei panni.

Formazione
Asilo e scuole Medie dalle suore.
Un giorno Cesare Lievi ha fatto questa distinzione tra la cultura tedesca e quella italiana, di cui spero di rendere conto in modo esatto e che comunque io ho interpretato così. Il cittadino tedesco ha una formazione luterana, deve capire il testo, deve interpretarlo con le sue forze, attraverso il suo intelletto. Il cittadino italiano invece si abbandona al miracolo. C’è qualcosa di imperscrutabile nel destino, per cui non vale neppure la pena che l’italiano si applichi. Qualcosa, nel cattolicesimo, che cade dall’alto: suoni, visioni, potere, sfighe, la madonna che piange lacrime di sangue, Padre Pio. Non mi dilungo sugli effetti devastanti che tutto questo ha sulla nostra coscienza politica.
Credo di poter affermare che il mondo cattolico e i suoi miracoli abbiano invece effetti sublimi sul fronte dell’arte. Con le suore si vivono delle esperienze al limite del kitsch come ho potuto verificare personalmente. Da un lato si è immerse (eravamo tutte donne) in una continua rappresentazione: stucchi, accostamenti arditi, profumo di incenso, paramenti, trecce lunghe di capelli di seta nascoste sotto il velo. Dall’altro si entra a far parte di riti assurdi che scandiscono la giornata: una sorta di training pre-terzo teatro. Tra gli altri il rito della mensa, della preghiera, la pratica zen di passare la cera nell’aula con le pattine ai piedi o, per punizione, chinate sotto il banco con le ginocchia sbucciate. Una perversione geniale!
Per non parlare delle recite scolastiche dirette da Suor Maria, una regista con i controcoglioni che ci faceva sputare sangue. L’immagine più bella è legata alla mia elezione ad angioletto sul carro della chiesa. Accanto alla statua d’oro della Madonna ho attraversato tutto il paese. Sotto di me una folla adorante in processione.

Adolescenza nera
Per reazione ho passato un’adolescenza luterana. Sola sui libri a cercare di capire, chiusa nella mia stanzetta, con un broncio abbastanza irritante e pochi amici. In un’epoca piena di paninari arroganti ed esteticamente orrendi che litigavano con i dark votati al suicidio, io ho preferito sottrarmi alla società. Unica illuminazione il mio professore di filosofia, Massimo Recalcati, che oggi ancora ringrazio e che mi ha aperto mente e cuore alle possibilità della cultura.
Troppe passioni?
A 19 anni mi sono iscritta al corso di laurea in Filosofia dell’Università degli Studi di Milano e parallelamente ho fatto il provino alla Scuola d’Arte drammatica Paolo Grassi. Mi hanno presa.
Da questa doppia passione, da questa doppia via è iniziata la mia battaglia contro il tempo, che continua tuttora e che penso non mi abbandonerà mai.
Sono sempre stata affascinata da troppe discipline e mi sono gettata a capofitto in tanti amori contemporanei. Ho studiato danza e canto. Ho fatto la modella in un atelier di pittura. Ho scritto e continuo a scrivere. Sono prossima alla laurea in filosofia teoretica. Insegno recitazione. Faccio soprattutto l’attrice e il mio destino finora è stato fortemente intrecciato al destino del mio gruppo, all’interno del quale penso, di tanto in tanto organizzo, e so far di conto. Sono una perfezionista e pretendo da me stessa pari dedizione per tutti questi amori. Questo a volte mi mette in crisi, perdo la bussola, mi stanco, non concludo. Sarà per questo che sono un’attrice un po’ atipica, che ha però la fortuna di partecipare a progetti nei quali crede ciecamente, e di parteciparvi mettendo in gioco tutta se stessa.
Ho passato tre anni alla Paolo Grassi accumulando belle e brutte esperienze e due bocciature che mi hanno messo alla prova, anche se oggi me ne vanto e le porto come trofei. Gli insegnamenti più importanti di quegli anni si sono illuminati nel tempo e mi accompagnano ancora oggi. Tra tutti, le indicazioni preziose, la stima e le parole sagge, che mi ha trasmesso Kuniaki Ida in un italiano/giapponese incomprensibile: «Mezodelcaminnostralabita..». («Nel mezzo del cammin di nostra vita», Dante), «Tu fa lu!» («Fai la ruota!»), «Chercosa c’è!!!» («Qualcosa c’è», il massimo dei complimenti che un allievo potesse ricevere) di solito contrapposto ai più frequenti: «Tu actore cazzo!», «Tu va lava faccia!» o «Tu prende treno per Pontedera!» (quest’ultimo nel suo gergo è il peggiore degli insulti).
Tra i vari seminari che ho seguito e che continuo a seguire, in un percorso di autoformazione che cerco di mantenere vivo, è stato molto importante il corso europeo «Parole in azione», ideato da Renata Molinari, dove ho lavorato come attrice con Marco Martinelli e Giorgio Barberio Corsetti.
E’ in questi anni di scuola che ho conosciuto molti degli attori con cui ho collaborato e con cui collaboro ancora oggi.



Teatro Aperto
Parallelamente a tutto questo ho iniziato a lavorare con Renzo Martinelli.
Quella è stata la vera palestra per la mia formazione e ha permesso la nascita di Teatro Aperto, il nostro gruppo ancora vivo e vegeto nonostante le difficoltà del mondo del teatro.
E’ impossibile mettere su questa pagina tutto quello che mi ha insegnato Renzo. Andando in ordine confuso: la dedizione per le proprie scelte, l’amore per quello che si fa e uno stakanovismo esagerato. Un’etica che non è scritta e che è praticata da pochi. La noncuranza per il potere, le scelte impopolari. Il fatto di rimettersi in gioco continuamente, di non dare mai niente per assodato, il rischio continuo. La lentezza (in questo ho ancora molte difficoltà!), la verticalità e la concentrazione. Soprattutto la radicalità delle proprie idee, il saper dire «io invece». Come regista ha sempre messo me, attrice, in situazioni difficili. Ha sempre preteso di più di quello che riuscivo a dare nei primi tentativi. Mi ha fatto abitare spazi freddi e testi difficili con pochissime indicazioni, pretendendo spesso che fossi in grado di salvarmi da sola. Ha permesso alla mia parte «intelligente» di essere coltivata e alla mia parte «manuale» di non demordere.
Abbiamo provato i nostri spettacoli in tutti i climi e a tutte le ore del giorno e della notte, animati da un’insana passione e da una fortunata incoscienza. Ora che stiamo ristrutturando un piccolo spazio teatrale non mi sembra vero che arriverà il momento di provare lì, con luci, impianto sonoro, caldo e tutto il resto. Ma penso che quando ci arriveremo ce lo saremo meritati.

Maestri
Per parlare dei miei altri maestri vi racconto un sogno che ho fatto.
«La sua casa di Otranto è un castello che si raggiunge attraversando prati di fiori e erbe verdissime.
C’è un suono molto acuto sotto, ma non dà noia.
Io, sola, e i miei passi tra le viole.
La casa è fatata e ogni cosa disposta per cancellarti la rotta. E’ come se dopo ogni stanza ti facessero quel gioco dove con gli occhi tappati ti fanno girare e non sai più dove sei.
Io cammino e corro come Alice, come una visitatrice curiosa e folle.
In una stanza c’è un Benigni buffone che si sbellica dalle risate con ragazzi down.
In una stanza di litania un gruppo di donne tutte nere come in un funerale del sud. Dicono poesie di Mariangela Gualtieri.
In una stanza ci sono attrezzi che tagliano canne di bambù per farne armi.
Thierry Salmon mi saluta e mi strizza un occhio.
Una stanza la vedo da una balaustra, poi da un buco, poi sdraiata, poi dall’alto. C’è Danio Manfredini lì in mezzo che balla il flamenco.
Ho la sensazione che qualcuno davanti mi apra le porte, ma solo se io ho la forza di andare avanti, solo se trovo da sola il coraggio di lasciarmi le altre stanze alle spalle.
In una stanza c’è una folla di figure inventate e moltiplicate. Pinocchi, mangiafuochi, fatine. Ma a guardar bene è sempre lui: Carmelo millepinocchi, millefate e ogni Carmelo cambia in un particolare, in un minuscolo particolare si discosta da sé, come nel gioco della «Settimana enigmistica» dove paragonando due immagini quasi identiche devi scovare ciò che le rende uniche.
Carmelo è tutti i Pinocchi pensati e anche quelli non pensati. E’ il mio sogno di incarnarmi negli infiniti mondi. Di perdermi. E vorrei non andarmene mai.
Invece nell’ultima stanza c’è un armadietto stretto in cui mi mettono e da cui non posso uscire. Soffro lì dentro, prigioniera trattengo il fiato, per poi scoprire che nessuno aveva chiuso a chiave. Posso aprirlo quando voglio l’armadio e continuare ....»



Il mio ruolo all'interno del teatro italiano
Ecco appunto: sono chiusa nell’armadio di un ambiente stupendo, ma un po’ asfittico, il teatro italiano, che spesso implode, ma posso aprirlo quando voglio questo armadio e continuare. Non so bene quale sia il mio ruolo in tutto questo e neanche bene come sono arrivata fin qui. Non credo di essere così famosa in verità da poter ricoprire chissà quale ruolo. Certo il lavoro di Teatro Aperto è stato riconosciuto, ci sono pubblicazioni, premi etc. Forse per comodità di etichetta si pensa a me come fondatrice di un gruppo, piuttosto che come attrice, e comunque sempre e solo nel piccolo mondo della ricerca. Mi piacerebbe poter colmare questa lacuna in futuro.
Vorrei avere la possibilità di parlare a più persone, di stare più tempo sul palcoscenico e la lucidità, non riuscendoci, di ritirarmi a fare la cuoca, ambito in cui ottengo risultati eccellenti.

La nuova drammaturgia made in Italy
Un po’ come la generazione dei cinquantenni non sono immediatamente partita dalla parola, ma da una ricerca poliedrica intorno a diversi linguaggi. Da un punto di vista testuale il mio lavoro di questi anni si è basato proprio sulla nuova drammaturgia italiana. Ho scritto io stessa dei testi come Legittima difesa, in collaborazione con Renzo Martinelli o Sinfonia per corpi soli/omaggio a Sarah Kane. In altre occasioni ho curato l’elaborazione drammaturgica degli spettacoli di Teatro Aperto. In particolare a partire dal 2000, con la produzione del suo testo La Santa, è cominciata la nostra collaborazione con Antonio Moresco. Questo incontro è stato eccezionale sotto tanti punti di vista. Antonio è una persona unica e un intellettuale straordinario, con cui si può discutere di tutto da pari a pari. Attraverso queste occasioni e grazie alla collaborazione al sito collettivo www.nazioneindiana.com, si è aperto per noi un confronto costante con la parola contemporanea, che avrà di sicuro futuri sviluppi. E’ giusto sottolineare che i nostri incontri avvengono quasi sempre a partire dal testo letterario: autori quindi e non necessariamente autori per il teatro.

Le precedenti puntate di questa serie sono state dedicate a Michela Cescon, Paolo Pierobon, Alessandro Genovesi, Elena Russo Arman.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Disturbi artistici
Genova Hackmeeting 04. Focus on Telestreet e broadcasting autogestito
di Anna Maria Monteverdi

 

A Genova, in uno spazio autogestito, il Laboratorio sociale occupato Buridda, ha avuto luogo i primi giorni di aprile, l’edizione 2004 dell’Hackmeeting. Come le edizioni precedenti anche questo meeting è totalmente autogestito e autofinanziato. Sabato 2 aprile era protagonista la telestreet. Fenomeno ormai dilagato a macchia d’olio e su cui sono stati già scritti libri (uno a firma di Franco "Bifo" Berardi) oltre che una quantità straordinaria di opuscoli autoprodotti dalle associazioni, numeri speciali di riviste ("Derive e Approdi"). L’incontro nazionale delle telestreet si è tenuto a Senigallia a marzo grazie all’organizzazione di Eterea TV. Il coordinamento generale della giornata dell’Hackmeeting sulle Telestreet a Genova era di Tommaso Tozzi, autore insieme con Arturo di Corinto del volume Hacktivism (il manifestolibri) e direttore della sezione "Multimedia" dell’Accademia di Belle Arti di Carrara. Tozzi ha invitato alcuni dei protagonisti delle televisioni di strada, giornalisti e videomaker. Presenti alcuni rappresentanti di Orfeo Tv che hanno raccontato oltre all’esperienza di apertura della prima telestreet italiana a Bologna, la loro partecipazione a Transmediale a Berlino (di cui parla diffusamente Tatiana Bazzichelli nell’ultimo numero di "Exit"), Telefermento, Rosaghetto Tv di Genova (questi ultimi autori di un documentario molto intenso di denuncia sociale legato al decadimento, e impoverimento di una zona storica della vecchia Genova, il quartiere dell’ex ghetto ebraico) e alcuni giornalisti ed esperti di media tra cui Arturo di Corinto e Alessandro Ludovico di cui riportiamo in sintesi, gli interventi.
Per le informazioni sull'hackmeeting rimandiamo a telestreet rimandiamo ovviamente al sito ufficiale.



Alessandro Ludovico
Alessandro Ludovico, giornalista, esperto di media ed autore del volume Suoni futuri digitali ed editore ed ideatore di "Neural" una delle più importanti riviste su new media art ed e-music (anche on line aggiornata quotidianamente www.neural.it), ha aperto il pomeriggio con spunti di indagine culturale. Ha portato alcuni esempi di artisti che hanno messo in discussione il paradigma del broadcasting e hanno proposto non solo una diffusione capillare di questo tipo di strumenti di trasmissione video e televisiva ma hanno posto l’accento sul linguaggio e sui nuovi possibili contenuti. Ridefinizione del mezzo, nuove regole della composizione televisiva che vadano non solo nella direzione di creare paradossi sarcastici ma anche a costruire una narrativa completamente nuova ed eversiva rispetto a quella imposta dalla tv pubblica generalista. Di tutti gli esempi che citiamo è possibile trovare approfondimenti sul data base del sito di Alessandro Ludovico.
Molti artisti hanno puntato sull’accesso massiccio agli strumenti televisivi e video e hanno proposto anche una rielaborazione dei contenuti che vanno a stravolgere quelli della televisione commerciale. Tra gli esperimenti non poteva mancare l’americano Dan Graham di cui viene data testimonianza dell’installazione (proposta anche a Genova nel 1971) dal titolo Yesterday/Today. Trentatré anni fa Graham riprendeva e registrava con una telecamera fissa quello che accadeva al bar e il giorno dopo riproponeva tutto integralmente in forma di installazione nello stesso bar dove aveva registrato, spiazzando gli avventori sul meccanismo del tempo registrato e della diretta, sul presente e sulla memoria e inserendo queste nozioni di tempo spazializzato all’interno del tessuto (e del vissuto) urbano. Graham ha pubblicato un importante saggio Video in Relation to Architecture, pubblicato nel volume antologico curato da D. Hall, S. J. Fifer, Illuminating video. An Essential Guide to Video Art (ora in Le pratiche del video a cura di V. Valentini, Bulzoni, 2004).
Altri hanno riflettuto su come far riacquistare al mezzo televisivo il carattere della fruizione pubblica di trasmissione dei grandi eventi. Alcuni artisti brasiliani hanno lavorato su enormi schermi a display a New York che trasmettevano messaggi personali in diretta nelle grandi piazze.
Un altro fattore sottoposto a tentativi di rovesciamento da parte degli artisti è il linguaggio della televisione. Si è tentato di violare la televisione in quanto broadcasting, mettendone cioè in discussione la serialità, i tempi lineari di trasmissione e di visione. Ciò che viene trasmesso in quel momento ha normalmente una continuità impossibile da spezzare e questo restituisce un senso di ineluttabilità. Alcuni artisti hanno lavorato proprio sulla decostruzione di questa linearità, intervenendo con video che rompevano il flusso seriale di programmi come Discovery Channel. Altri hanno creato un tipo particolare di videohacking consistente nel modificare i film noleggiati magari da Blockbuster per poi restituirli e farli circolare nuovamente dopo essere intervenuti su alcuni passaggi chiave.
Ci sono casi poi di détournement pubblicitario: il gruppo di artisti digitali Pleix.net ha realizzato alcuni divertenti video tra cui Beauty Kit, una sarcastica serie di spot in cui di chirurgia estetica fa-da-te vengono proposti per un pubblico femminile di età infantile. La questione era che lo spot per quanto assurdo, aveva un tale livello tecnico – in animazione flash – che riusciva davvero a risultare un vero advertisement.
Tra le operazioni di hacker art, Ludovico ha giustamente ricordato oltre al Critical Art Ensemble, Ricardo Dominguez. Fondatore dell’Electronic Disturbance Theatre (EDT) e per un breve periodo anche componente del Critical Art Ensemble (CAE), ispirandosi al Teatro degli Oppressi di Augusto Boal, al Living Theatre, al Teatro Campesino, ha dato vita a net strike e a virtual sit in e al Digital Zapatismo in collaborazione con il movimento zapatista in Chiapas (EZLN). Le azioni in rete dell’EDT sono passate attraverso il server (e insieme sito) The thing, un luogo di comunicazione e di diffusione di idee e progetti di attivismo sociale e artistico. Un’intervista completa a Dominguez realizzata da Coco Fusco è on line al sito www.thehacktivist.com. Ci piace proporre per ateatro l’intervista a Dominguez realizzata da CandidaTv ora nel video Reality Hacking (scaricabile su www.ngvision.org).

Il Cae fece un gesto retorico molto specifico e severo. Noi dicemmo: "Le strade sono morte. Sono capitale morto". Prendemmo ispirazione dal cap. IV di Neuromante di Gibson dove un hacker e una donna cyber devono entrare nel bunker dell’informazione. Allora chiamano in aiuto un altro gruppo The Panthers Modern e ciò che loro fanno è di iniettare nel bunker dell’informazione nuovi livelli di realtà, multiple realtà a tal punto che il bunker non è più in grado di definire ciò che è vero e ciò che è falso. In qualche modo noi possiamo diventare i Panthers Modern e possiamo iniettare nel sistema queste realtà multiple nel senso di sviluppare un gesto simbolico che possa affermare più di ogni gesto distruttivo. Il disturbo crea veramente uno spazio, una situazione, un teatro invisibile che permette al potere di salire improvvisamente in scena e agire…Tu non devi dire nulla. E’ irrazionale, incomprensibile per i networks, per la polizia. E’ un microgesto che in sé e dal di fuori risulta quasi invisibile ma l’effetto che sortisce è quello di creare questo grande dramma sociologico. Cominciammo pensare cosa potesse essere la disobbedienza civile elettronica, chi l’avrebbe potuta creare e quale sarebbe stata la sua risposta. Principalmente decidemmo che azioni dirette, non violente e on line sarebbero state il prodotto di piccole cellule. Diventammo un teatro, il Teatro del disturbo elettronico. Avremmo fatto una performance lunga un anno e due azioni ogni mese: "Perché non andiamo sul sito del presidente Zedillo o su quello della borsa messicana e poi clikkiamo sul pulsante del reload tra l’una e le quattro della zona oraria di Città del Messico?" Questo creerà un disturbo. Quello che vogliamo fare non è tirare giù il server ma disturbarlo. Io e Stephen siamo quasi pronti ad attivare il Floodnet quando un gruppo di hacker denominato Heart ci circonda e ci dice "Guardate che state occupando banda" – che loro considerano il puro male peggiore. "Se lo fate vi buttiamo giù". E’ stata la prima volta che ho incontrato qualcuno che crede che l’ampiezza di banda sia al di sopra dei diritti umani. Anche se l’azione non riesce, crea comunque una simbolica distribuzione dell’informazione. Improvvisamente dopo due ore e tre azioni notiamo che lo Zapatista floodnet non stava più funzionando, stava crashando. Il Pentagono stava usando un’arma da guerra dell’informazione chiamata Ostile Applet Java. Il potere risponde in modo imponente, ci rendiamo conto che è come sedersi e giocare davanti a un negozio della Disney. Gli zapatisti hanno creato questo gesto potente tra le reti perché hanno capito che è una questione di linguaggio, una questione di poesia, di simulazione, una simulazione trasparente, la possibilità di costruire un mondo che renda possibile più mondi possibili.

Tra gli esempi che possiamo personalmente aggiungere alla lista i Gorilla Tapes con il loro originalissimo procedimento di scratch video che a metà anni Ottanta attingeva ai vari programmi televisivi e li mescolava (con un montaggio musicale tipo "hip hop") con ironia e gusto della distruzione dell’icona mediatica e politica in Death Valley Days. Il video è disponibile nella antologia video PostModern/Post Script British Video, Program II, distribuito da Electronic Art Intermix (www.eai.org).



Arturo di Corinto
Di Corinto ha sottolineato come alcuni fattori abbiano contribuito fortemente allo sviluppo di un’idea di appropriazione personale dei media: la diffusione capillare dei mezzi di comunicazione, la miniaturizzazione degli strumenti, la digitalizzazione dei contenuti ovvero la convergenza multimediale digitale. Quest’ultima ha fatto sì che qualsiasi evento, fatto, racconto potesse viaggiare attraverso una comune infrastruttura di comunicazione che è Internet. Un altro fattore è stato la diffusione e lo sviluppo autonomo e indipendente del software che è l’elemento di mediazione di queste pratiche. La diffusione di tali mezzi ha messo in crisi il ruolo mediatore dei professionisti della comunicazione laddove scompare il confine tra l’agente del racconto e il consumatore. E’ nata così anche una generazione di mediattivisti. Moltitudini digitali è un termine che non piace a molti ma serve a indicare un movimento spontaneo di massa, di gruppi di persone, di soggettività che si mettono insieme a partire da un uso originale dei mezzi di comunicazione. Il carattere decentrato, spontaneo, non gerarchico del fenomeno di autoappropriazione dei mezzi e dell’informazione relativa si inizia a intravedere da partire da Seattle, novembre 99. In Italia la battaglia mediatica è iniziata invece, con Genova 2001 che ha rappresentato il passaggio più significativo verso questa nuova sensibilità, inaugurando in Italia una vera politica delle comunicazioni, sentite non più patrimonio di avanguardie ma patrimonio comune. L’informazione va portata dove la gente c’è, e i mediattivisti hanno portato in piazza quello che accadeva a Genova attraverso maxi schermi o attraverso Internet.
Nei processi di ipermediazione cioè di convergenza mediologia c’è una tendenza a usare musica teatro pittura danza, per raccontare elaborare, discutere della propria attività, messaggi che vengono riproposti attraverso le arti del digitali perché questa porta alla contaminazione dei codici e intreccia estetiche e linguaggi. E’ la sfida dell’autogestione dei format. Di Corinto sottolinea un aspetto chiave: il momento attuale è centrale, nodale per andare oltre alla critica dei media, un momento in cui usare strumenti per sperimentare nuove forme di comunicazione che non siano solo "una rappresentazione delle cose", secondo un’ottica e un’etica televisiva commerciale ma che inneschino una dimensione di crescita, politica, estetica, sociale. C’è in generale una scarsa attenzione alla necessità del ribaltamento dei linguaggi abituali, ma la vera forza del movimento mediattivista dovrebbe essere proprio quello di abbattere modelli, forme comunicazionali, decostruire il linguaggio.
Si deve inoltre spingere sulla critica allo scarso pluralismo che c’è in Italia, così come è importante diffondere tecnologie in Paesi dove non ci sono, portare reti wireless. Si deve alzare cioè una critica forte, radicale, multipla contro l’attuale sistema delle informazioni. Otto milioni di persone ricevono le informazioni solo dalla televisione.Questo è un dato che fa riflettere. Bisogna quindi rivendicare la proprietà pubblica dell’etere, come bene inalienabile, come bene comunitario. Non è possibile impostare la vita di una nuova idea di televisione soltanto sui coni d’ombra. La rivendicazione futura deve essere la concessione del 10% dell’etere alle tv comunitarie per vivere tranquillamente e legalmente e permettere loro di svolgere a pieno la loro azione sociale.


 


 

La Logica della Passione: la conferenza dell’Institutet för Scenkonst
La Spezia, Sabato 8 Maggio 2004 ore 16:00
di Alessandra Giuntoni per Associazione Cut-Up

 

Auditorium Centro Dialma Ruggero
Via Monteverdi La Spezia

"La creazione è l’espressione suprema dell’essere umano. La ricerca sull’arte dell’attore, cioè nel campo dell’espressione artistica dove l’artista e la sua opera sono inseparabili, va oltre lo studio dei segreti del mestiere. Essa abbraccia la problematica della condizione umana, la conoscenza e la meditazione dell’essere uomo. Una ricerca di una possibile comunità al di là delle frontiere della propria ignoranza e della propria mediocrità. Una ricerca che segue una sola logica: la Logica della Passione".

Quando nel 1991 Magdalena Pietruska scriveva queste parole l’Institutet för Scenkonst si era da poco trasferito in Italia, presso il Teatro della Rosa di Pontremoli, dopo un periodo nomade che lo aveva portato a lavorare in tutta Europa. Nato in Svezia nel 1971 ad opera del direttore artistico Ingemar Lindh, l’Institutet för Scenkonst appartiene al panorama del teatro di ricerca che a partire dagli anni sessanta ebbe il merito di rinnovare un teatro ormai sclerotizzato nella forme della tradizione. Di questa ricerca e sperimentazione verso nuovi moduli linguistici e pedagogici, l’Institutet för Scenkonst rappresenta una delle vette più alte, sicuramente quella che meno di altre si è prestata a strumentalizzazioni o a facili operazioni commerciali. Dopo la giovanile formazione presso L’Ecole de Mime di Etienne Decroux, le collaborazioni con il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski a Wroclaw e con l’Odin Teatret a Holstebro, le ricerche di Lindh si concentrarono sui principi dell’improvvisazione collettiva e sullo spettacolo inteso come processo in cui l’attore autonomo, disinteressato, in grado di autogestirsi, è il maggiore responsabile dell’avvenimento teatrale. Per allenare il suo strumento, ovvero il corpo e la voce, l’attore dell’Institutet för Scenkonst si sottopone a un duro allenamento quotidiano basato su tecniche codificate quali mimo, Kung-Fu, Tai-Chi, calligrafia, esercizi di educazione musicale, ma anche su esercizi fisici, acrobatici, plastici, biomeccanici. Ciò gli permette di concentrasi sulla precisione dell’atto mentale che accompagna l’azione fisica, applicando i principi dell’isometria, dell’alternanza, dell’intenzione individuati nel corso della ricerca. Grazie a questa perfezione tecnica l’attore riesce raggiungere una presenza fisica vibrante che fa dello spettacolo un atto vitale, un momento d’incontro autentico con lo spettatore.
Nella conferenza che avrà luogo alla Spezia, Magdalena Pietruska e Roger Rolin, gli attuali direttori dell’Institutet för Scenkonst, ci daranno, oltre ad un resoconto del proprio metodo e del proprio percorso, una dimostrazione pratica di questi principi, rendendoci partecipi di quella "Logica della Passione" che da sempre anima l’attività di un gruppo considerato un punto di riferimento fondamentale per il teatro contemporaneo e per la pedagogia teatrale.

Per leggere l'intervista di Alessandra Giuntoni a Roger Rolin e Magdalena Pietruska, clicca qui.


 


 

Cesare Garboli, un maestro
(Viareggio, 1928-Roma, 2004)
di Redazione ateatro

 

Cesare Garboli, scomparso ieri a Roma, è stato uno degli ultimi maestri, l’unico abbastanza libero (e autoironico) da poter intitolare uno delle sue raccolte saggistiche Scritti servili (1989). Critico e scrittore – anzi, «critico scrittore» di straordinario spessore – nel corso della sua carriera ha spesso incrociato il teatro: basti ricordare le sue recensioni per il «Mondo» e il «Corriere della Sera», raccolte da Ferdinando Taviani nel volume Un po’ prima del piombo (1998), le traduzioni shakespeariane per Carlo Cecchi (che sono al tempo stesso autentici saggi critici, ricchi di soluzioni geniali, e al tempo stesso invenzione di una lingua naturalmente teatrale), o ancora la sua lunga frequentazione molièriana, dal volume Molière. Saggi e traduzioni (1986) alla più recente curatela de La famosa attrice, pamphlet seicentesco contro la moglie dell'attore-autore.

Leggi su ateatro una riflessione sui Ricordi tristi e civili, lo sconsolato testamento politico di Cesare Garboli.

Leggi la recensione di Ferdinando Taviani al Tartufo di Molière nella traduzione di Cesare Garboli.


 


 

Tra arte, video e teatro, un'opera ispirata al massacro del Teatro Dubrovka di Mosca
Ice Floes of Franz Joseph Land di Catherine Sullivan
di Redazione ateatro

 

Arriva a Milano, alla Galleria Giò Marconi dal 5 maggio la nuova opera dell’artista americana Catherine Sullivan, Ice Floes of Franz Joseph Land, ispirata all’assalto del commando di guerriglieri ceceni, con cinture imbottite di esplosivo, contro il Teatro Dubrovka di Mosca nell’ottobre del 2002. Vennero prese in ostaggio circa 700 persone, tra spettatori e interpreti del musical Nord Ost; dopo 56 ore un blitz delle teste di cuoio russe neutralizzò i guerriglieri ceceni riempiendo l’edificio di gas.



L’artista americana ha isolato alcuni frammenti del musical (una vicenda d’amore e d’avventura tratta dalla novella I due capitani e ambientato tra la rivoluzione bolscevica e la Seconda guerra mondiale) per creare circa brevi 50 pantomime, riprese in video (e proiettate su 5 schermi) e in una serie di immagini fotografiche. La sua è dunque una riflessione sulla guerra, sul terrorismo e sul progresso.
Catherine Sullivan ha già presentato la sua opera a Chicago, New York (alla Biennale Witney) e alla Biennale di Lione.

Catherine Sullivan (Los Angeles, 1968), dopo aver conseguito un BFA in recitazione all’Istituto d’Arte della California partecipa a diverse produzioni teatrali, tra cui al Teatro Trapdoor di Chicago. Nel 1997 consegue un Master in Belle Arti presso l’Art Center College of Design di Los Angeles.
Raggiunta una completa formazione professionale grazie ai suoi studi a livello artistico ed apprendistati in recitazione, la Sullivan lavora simultaneamente nel teatro e nello spazio della galleria. Da una parte, forte degli studi di recitazione, crea delle vere e proprie piecés teatrali che scrive, progetta e dirige; dall’altra, gli studi d’arte la portano a realizzare e ad incorporare video e fotografia. Gli influssi della sua militanza nell’ambiente teatrale si riconoscono nelle performances che spesso accompagnano le sue mostre in gallerie e musei.
Nonostante abbia lavorato interagendo con svariati mezzi di comunicazione l’interesse primario della Sullivan è sempre stato quello di dar vita a dei lavori originali focalizzando la sua attenzione in particolare sulla sinergia teatro-video mettendo a nudo quelle che sono le convenzioni drammaturgiche e le tecniche di espressione. I suoi veri media sono i performers, siano essi attori, ballerini, musicisti.
La affascina l’idea di investigare l’essenza formale del teatro: cosa rende il teatro teatrale? Sceglie di presentare il teatro rigorosamente come una forma d’arte conferendogli quella stessa criticità ed auto-riflessività attribuite alla pittura e alla scultura moderna.


 


 

Debutta a Rennes L'ospite dei Motus da Teorema di Pasolini
dal 20 al 30 aprile al T.N.B. Théâtre National de Bretagne
di Motus

 

Debutta a Rennes il nuovo lavoro dei Motus, L’ospite, liberamente tratto da Teorema di Pier Paolo Pasolini. Qui di seguito, la scheda di presentazione dello spettacolo realizzata dal gruppo riminese. (n.d.r.)

‘Contro tutto questo non dovete fare altro che continuare semplicemente ad essere voi stessi: il che significa ad essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi con il diverso, a scandalizzare, a bestemmiare.’
Pier Paolo Pasolini 1975


Siamo stati in Tunisia con telecamere e super 8, dentro il Sahara, sullo straordinario lago salato Chott El Jerid: 200 chilometri di vuoto, solo la linea dell’orizzonte. Bianco e cielo. Nulla.
Era necessario andare, stare un po’ nel deserto, veramente, prima di immergerci nell’ultima fase di questo lungo percorso di lavoro che ci ha assorbito per più di un anno.
Ogni nostro spettacolo è sempre preceduto da un viaggio: Los Angeles ed i deserti americani per Rooms ed ora il Sahara e le periferie tunisine, dopo quelle napoletane e romane, e la nebbia della bassa Pianura Padana per L’Ospite... Un viaggio in automobile, con tre telecamere che registrano in sincrono il paesaggio in movimento dal cruscotto, ricomponendolo poi in grande trittico-cinetico-documentario, che invade il palco di quel ‘Fuori’ che ha sempre ossessionato il nostro fare scenico.
Come un viaggio del resto è andare fra le parole, i Dati e gli ‘appunti per’ di quel ‘poeta di cose’ che è Pier Paolo Pasolini: occorre lasciarsi trasportare, lasciarsi in qualche modo possedere.
E ciò lentamente è avvenuto: Pasolini, il vero Ospite, ci ha invaso.

Scegliamo di dar voce alla sua voce, di ospitare nuovamente le sue grida d’allarme, amplificandole anche, con una peculiare commistione di mezzi che, forse, ai tempi delle sue esperienze teatrali, non erano concepibili.

La sollecitazione originaria proviene dal misterioso personaggio-protagonista di Teorema, il film e soprattutto l’omonimo romanzo del ‘68, che forse più amiamo nella sua vasta e varia produzione artistica. Ci ha colpito l’atmosfera provocatoria e profetica del testo, così terribilmente attuale per il continuo interrogarsi sull’inconsistenza, anche spirituale, della vita borghese, assunta oramai a schema di relazione totalizzante, a tutti i livelli sociali. ‘Mai l’Italia fu più odiosa./ (...) si, anche il comunista è borghese. / Questa è ormai la forma razziale dell’umanità. (da Il poeta delle ceneri, 1966)
E’ di quei giorni la scelta radicale di iniziare a scrivere di situazioni borghesi, personaggi per lui odiosi, (‘ripugnanti’, li definisce nella lettera a Moravia in appendice a Petrolio...). Ma non era la borghesia nella sua attualità che poteva descrivere, aveva bisogno di un trauma che spogliasse i personaggi delle loro inossidabili certezze: questo ‘scandalo’ lo provoca mettendo il borghese a confronto con il senso del sacro, anzi creando un corto circuito fra santità ed attualità.
Il tema della crisi e della ‘banalità del male’ nel quotidiano, dentro il ‘nuovo totalitarismo consumistico’, è stato fulcro di tutto il progetto Rooms, dove nelle analisi della borghesia attuate in chiave cinico-ironica da De Lillo, ( ed in altra forma da Jean Genet), l’elemento traumatico era il compiere un atto estremo, come l’omicidio, o la devianza, per ‘guadagnare credito vitale’, per superare la paura della morte... In Pasolini la prospettiva si rovescia: è l’avvento di un fatto scandaloso esterno, quale l’irruzione dell’ospite, o una visitazione angelica, come in Petrolio, a provocare lo svelamento, la frattura, la perdita di controllo.
Teorema era nato come testo teatrale, poi ‘...ho rinunciato a fare Teorema in teatro perché il silenzio, cioè quel vuoto, era infinitamente più adatto al cinema; se lo avessi fatto in teatro questo dio avrebbe parlato, e che cosa avrebbe detto? Cose assurde. Invece adesso parla attraverso gli altri, attraverso la presenza fisica pura e semplice, cioè il massimo della cinematografia.’
Da una intervista rilasciata ad Adriano Aprà - ‘ Per il cinema’,
I Meridiani, Mondadori, 2001.



Confessiamo invece che quello che più ci affascina è proprio il tentativo di trasporre questo desolato silenzio in teatro, così come la presenza fisica pura e semplice degli attori, anche se comprendiamo le perplessità di Pasolini, che nelle sue esperienze teatrali partiva comunque da una essenziale priorità della parola. In realtà Teorema ha una natura anfibia, su cui scrive egli stesso: «Teorema è nato, come su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra lavoravo ad affrescare una grande parete ( il film)».
Ed è proprio questa duplicità, fra cinema e letteratura, che ci ha coinvolto.
Abbiamo tentato un percorso trasversale, che si estende anche a quelle opere in cui, si manifesta questo elemento sacrale-distruttivo, come Porcile, San Paolo e Petrolio... e l’interrogazione sui meccanismi di narrazione è insistente. Opere in cui tutto è in movimento ed il continuo vagare, sempre in cerca, senza sapere dove - perché sempre manca qualcosa - è stranamente vicino al continuo vagabondare artistico di Motus che già nel nome racchiude questa natura nomade e poco incline alla sedentarietà di un certo teatro ‘di regime’.
La soglia della città è il punto di partenza da cui hanno inizio le ricognizioni pasoliniane alla ricerca di agognata unitarietà nella irrimediabile frammentazione di realtà contigue. E dai margini, dalle periferie estreme si intravede il deserto, che compare ossessivamente, come metafora.
E’ simbolo di solitudine e negazione della storia, cui l’uomo ricorre non per cercare il vuoto, ma quando scopre il vuoto dentro ed intorno a sé: ci corre in mezzo il cannibale Pierre Clementi in Porcile, solitario, contro il fondo nero del vulcano; e ci corre anche Massimo Girotti in Teorema, disperato, come se da quella situazione di nudità, dove i pregiudizi, i classismi sono caduti, Pasolini volesse (ri)cominciare.
‘Africa, mia unica alternativa!’
Ma nei deserti dell’Oriente ci va anche in spedizione Carlo, il protagonista di Petrolio, alla ricerca del nuovo ‘vello d’oro’, il petrolio, l’oro nero...ed è proprio nel deserto che oggi si disputa la guerra criminale per il controllo dell’intero pianeta, è nel deserto che corrono i carrarmati statunitensi, che vanno in putrefazione i corpi atterrati dai bombardamenti, che bruciano i pozzi petroliferi per mesi ...Tutto viene dal deserto e tutto pare risolversi in esso, fra la sabbia ed il vento caldo. Il maggior grado di presenza è l’assenza.

‘Ah miei piedi nudi, che camminate sulla sabbia del deserto...’
Abbiamo tentato un viaggio che parte da Teorema e giunge a Petrolio. In cerca.
Un viaggio che termina, che viene interrotto dalla morte, la sola in grado di compiere il definitivo, scioccante montaggio ‘sull’inarrestabile piano sequenza della vita’.
Del resto se in Teorema i rapporti sessuali intrattenuti con l’ospite hanno per tutti un forte valore rivelatorio, in Petrolio l’allegoria assume un connotato decisamente pessimistico. L’eccesso, il disordine sessuale, la rottura del tabù dell’incesto, non hanno più nulla di liberatorio. La sessualità acquista un segno inequivocabilmente sadiano, il Sade di una smania fredda, scientifica, ripetitiva che fa tutt’uno con la razionalità e l’ordine, inglobato nell’orrore nazista - e stragista-. E’ il Sade di Salò, di quella razionalità strumentale, sostanzialmente irrazionale, tesa esclusivamente al dominio, al possesso. La visione pasoliniana si fa assolutamente disperata, di riflesso alle oscure manovre politiche che hanno cambiato il corso della storia italiana, e mondiale, negli anni settanta, a partire dall’omicidio di Kennedy...
E’ un viaggio che termina, dunque, preceduto da un grido:

(...) E’ un urlo che vuol far sapere,
in questo luogo disabitato,
che io esisto,
oppure, che non soltanto esisto,

ma che so.
E’ un urlo
in cui in fondo all’ansia
si sente qualche vile accento di speranza;
oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda,
dentro a cui risuona, pura, la disperazione.

Ad ogni modo questo è certo: qualunque cosa
Questo mio urlo voglia significare,
esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine.’


... fine che dunque non è mai fine, ma ancora e ancora inizio perché è all’eco di questo urlo di Pasolini assassinato da ben altri moventi del ‘delitto sessuale’ che vogliamo dare voce, quest’urlo che ancora risuona all’idroscalo di Ostia, (anche se nessuno pare averlo udito...), rimbomba assordante in tutte le periferie del mondo, e non si quieta, e non si può acquietare.

MOTUS
L’ OSPITE


di
Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
Liberamente ispirato al romanzo Teorema di Pier Paolo Pasolini

Con: Catia Dalla Muta, Dany Greggio, Franck Provvedi, Daniele Quadrelli, Caterina Silva, Emanuela Villagrossi

Cura delle parole:
Daniela Nicolò
Cura dei suoni: Enrico Casagrande

Riprese e montaggio video: Simona Diacci
Motion Graphic: p-bart.com
Video Contribution engineering: Giovanni Ghirelli

Scenografie
: Fabio Ferrini
Costruzione scenografica: Plastikart di Istvan Zimmermann & Amoroso
Responsabile tecnico: Michele Altana
Fonica:
Carlo Bottos
Progettazione luci: Gwendal Malard


Costumi: Ennio Capasa per Costume National
Fotografie: Federica Giorgetti

Consulenza letteraria:
Luca Scarlini


Ufficio stampa e promozione:
Sandra Angelini in collaborazione con Giorgio Andriani
Direzione della produzione e amministrazione: Marco Galluzzi in collaborazione con Cronopios
Logistica: Roberta Celati

Una produzione
Motus e Thé‚tre National de Bretagne, Rennes, (Francia)
in collaborazione con
Festival di Santarcangelo, La Ferme du Buisson - Scène National de Marne-La-Vallée, Teatro Sanzio di Urbino, Teatro Lauro Rossi di Macerata e A.M.A.T
e il sostegno di Provincia di Rimini, Regione Emilia Romagna


 


 

I quarant'anni dell'Odin a Torino
dal 20 al 30 aprile
di Ufficio stampa TST

 

C.S.D. Compagnia Sperimentale Drammatica
CRUT (nell’ambito delle attività del DAMS e del Centro Studi per lo Spettacolo Nordico della Facoltà di Scienze della Formazione di Torino), l’Espace
in collaborazione con il Teatro Stabile di Torino

presentano
ODIN TEATRET
40 ANNI DI TEATRO INTERNAZIONALE A TORINO
Spettacoli, seminari, proiezioni video e conferenze
dal 20 al 30 aprile 2004

Il prossimo ottobre il gruppo italo-scandinavo Odin Teatret, una delle formazioni più prestigiose del teatro d’avanguardia internazionale, fondato da Eugenio Barba nel 1964, compirà 40 anni. Torino dedica un articolato progetto a questo anniversario, organizzato da C.S.D. Compagnia Sperimentale Drammatica, CRUT (nell’ambito delle attività del DAMS e del Centro Studi per lo Spettacolo Nordico della Facoltà di Scienze della Formazione di Torino), l’Espace, in collaborazione con il Teatro Stabile di Torino.

Dal 20 al 24 aprile 2004 l’Espace (via Mantova, 38) e l’Università degli Studi di Torino (Palazzo Nuovo) ospiteranno l’ormai mitico Odin Teatret che presenterà seminari, conferenze, dimostrazioni-spettacolo, proiezioni cinematografiche e alcuni dei suoi più significativi spettacoli (tutti recitati in lingua italiana).

Il cartellone, fittissimo ed articolato, propone i due seminari condotti da Torgeir Wethal e Augusto Omolu’: Lancia la freccia dietro l’angolo e La danza degli Orixá e presenta, nell’arco di dieci giorni, alcuni degli allestimenti che hanno fatto la storia dell’Odin, come gli assoli JUDITH e LE FARFALLE DI DONA MUSICA, il tormentato ITSI BITSI e l’introspettivo BIANCA COME IL GELSOMINO e ancora IL CASTELLO DI HOLSTEBRO II, ODE AL PROGRESSO – BARATTO e SALT.

La conferenza Un grido ripetuto da mille sentinelle, darà la possibilità di incontrare Eugenio Barba, considerato una delle figure più importanti del teatro contemporaneo, anima di allestimenti rappresentati nei più prestigiosi teatri del mondo e nelle rassegne teatrali e culturali più importanti.

Gli spettacoli e i seminari saranno ospitati in un luogo particolare: l’Espace (Residenza Multidisciplinare Teatro Europeo e Internazionale), diretto da Ulla Alasjarvi e Beppe Bergamasco, un edificio di importanza storica - sede della Arturo Ambrosio film, che ne fece uno dei templi produttivi del cinema muto - ora completamente ristrutturato per divenire una cittadella della cultura e della creatività.

INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI: CRUT (Università di Torino) telefono 011 8173421
Espace, Via Mantova, 38 - Torino
telefono 011 2386067 – Fax 011 1903521 - e-mail: info@salaespace.it
PROGRAMMA DETTAGLIATO sul sito www.salaespace.it

PROGRAMMA

ODIN TEATRET
dal 20 al 30 aprile 2004 a Torino


CALENDARIO DEGLI SPETTACOLI

LE FARFALLE DI DONA MUSICA

Teatro Espace - via Mantova 38
martedì 20 aprile 2004, ore 19.45
mercoledì 21 aprile 2004, ore 19.45

con: Julia Varley
regia: Eugenio Barba
testo e scenografia: Julia Varley


JUDITH

Teatro Espace - via Mantova 38
martedì 20 aprile 2004, ore 17.45
mercoledì 21 aprile 2004, ore 17.45

con: Roberta Carreri
testo: Roberta Carreri e Eugenio Barba
regia: Eugenio Barba


ITSI-BITSI

Teatro Espace - via Mantova 38
martedì 20 aprile 2004, ore 21.45
mercoledì 21 aprile 2004, ore 21.45

con: Iben Nagel Rasmussen, Jan Ferslev, Kai Bredholt
regia: Eugenio Barba
testo: Iben Nagel Rasmussen
arrangiamento musicale: Jan Ferslev, Kai Bredholt


BIANCA COME UN GELSOMINO

Teatro Espace - via Mantova 38
Giovedì 22 aprile 2004, ore 17.45
Venerdì 23 aprile 2004, ore 19.45

con: Iben Nagel Rasmussen


ODE AL PROGRESSO

Magazzini Caos – Piazza Montale – Le Vallette
Sabato 24 aprile 2004, ore 15.00

drammaturgia e regia: Eugenio Barba
attori e musicisti: Kai Bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Tage Larsen, Augusto Omulù, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley, Torgeir Wethal, Frans Winther


SALT


Teatro Espace – via Mantova 38
Giovedì 22 e Venerdì 23 aprile 2004, ore 21.45
e dal 27 al 30 aprile 2004, ore 20.45

con: Roberta Carreri, Jan Ferslev
scenografia: Antonella Diana e Odin Teatret
musica originale: Jan Ferslev
illuminazione: Jesper Kongshaug
consigliere letterario: Nando Taviani
assistente alla regia: Raul Iaiza adattamento scenico e regia: Eugenio Barba


IL CASTELLO DI HOLSTEBRO II

Teatro Espace – via Mantova 38
Giovedì 22 aprile 2004, ore 19.45
Venerdì 23 aprile2004, ore 17.45

con: Julia Varley
testo: Julia Varley e Eugenio Barba
regia: Eugenio Barba

CONFERENZA

UN GRIDO RIPETUTO DA MILLE SENTINELLE
Conferenza di Eugenio Barba
Presentano Roberto Alonge e Franco Perrelli

Aula Magna del Rettorato dell’Università di Torino – via Verdi, 8
Venerdì 23 aprile 2004 dalle ore 15.00 alle ore 17.00

SEMINARI

La danza degli Orixá

Laboratorio tenuto da Augusto Omolú per attori e danzatori
Teatro Espace - dal 20 al 23 aprile, dalle 9.00 alle 13.00.

Omolù ha sviluppato una particolare tecnica di allenamento per attori e ballerini sulla base della danza degli Orixà, usata nella tradizione brasiliana del Candomblè. La tecnica sviluppa differenti forme di energia che possono essere successivamente usate in modo indipendente dalla forma originale. "L’energia guerriera di Ogun può dialogare con l’energia soave e delicata di Oxun, la forza del vento e della tempesta di Iansà è complementare ai passi del vecchio Oxalà".

Augusto Omolú, originario del Salvador, è cresciuto nel mondo religioso del Candomblé, dove è ogan (assistente ai cerimoniali). La sua carriera di danzatore inizia nel 1976 con il gruppo Viva Bahia, diretto da Emília Biancardi. Omolù studia poi alla scuola del teatro di Castro Alves e si unisce al Castro Alves Ballet nel 1981, partecipando a tutte le produzioni del gruppo, spesso come solista. Dal 1982 è responsabile di un corso di "tecnica Afro-Brasiliana" presso la scuola del teatro di Castro Alves. Durante gli anni 1983-1985, crea e dirige la compagnia "Chama", in cui egli è sia danzatore che coreografo. Collabora con la scuola internazionale dell'ISTA dal 1994. Con l’Odin, di cui è membro effettivo, ha partecipato allo spettacolo Ode al progresso.


Lancia la freccia dietro l’angolo
Laboratorio tenuto da Torgeir Wethal
Teatro Espace - dal 20 al 22 aprile, dalle 9.00 alle 13.00.

Il seminario, tenuto in inglese ma con la presenza di un traduttore, verterà sullo sviluppo di un training fisico personalizzato dell’attore; sullo specifico della presenza scenica, attraverso lavori sull’intenzionalità e sulla contrapposizione; su improvvisazioni con alcuni elementi ed azioni precedentemente "fissati"; su come rendere azioni fisiche "di grande presa" in un linguaggio scenico "naturalistico".

Torgeir Wethal è originario di Oslo. È uno dei fondatori dell'Odin Teatret ed ha partecipato a tutti gli spettacoli del gruppo, sin dal suo esordio nel 1964. I suoi studi sono pubblicati in "The Actor’s Way". È il responsabile dell’archivio cinematografico e della produzione filmica dell'Odin Teatret, ha inoltre diretto diverse pellicole su spettacoli del gruppo, così come filmati sul lavoro di Decroux, di Cieslak e di vari attori dell'Odin Teatret.


 


 

Concorso di fotografia dello spettacolo Occhi di scena 2004
Il bando della prima edizione
di Centro per la Fotografia dello Spettacolo (San Miniato)

 

In occasione della prima edizione di ‘Occhi di Scena‘, Festival della Fotografia di Spettacolo, che si terrà a San Miniato di Pisa nel mese di luglio 2004, il Centro per la Fotografia dello Spettacolo, in collaborazione con il Comune di San Miniato e con l’associazione ‘Teatrino dei Fondi’ bandisce un concorso fotografico nazionale.
Il concorso è rivolto a tutti coloro che usano il mezzo fotografico per la documentazione e la rappresentazione dello spettacolo nelle sue diverse forme (teatro, danza, musica, performance, cinema, ecc.).
Lo scopo principale del concorso è volto ad individuare, valorizzare e promuovere quei progetti fotografici che meglio sappiano esplorare nuovi modelli creativi e favorire una rappresentazione dello spettacolo che evidenzi la particolare sensibilità degli autori senza rinunciare alla necessaria funzione documentaria della fotografia di scena.
Per questo motivo le opere presentate dovranno avere una coerenza interna e una unità progettuale definita che dovrà essere esplicitata in un breve testo di presentazione.

Criteri di partecipazione
Al concorso possono partecipare tutti i fotografi professionisti, i fotoamatori e gli studenti di scuole di fotografia, italiani e stranieri.
Ad ogni partecipante viene richiesto un lavoro fotografico organico realizzato sul tema del concorso ed una descrizione scritta del lavoro presentato.
La giuria, composta da operatori del mondo fotografico e teatrale italiano ed europeo, designerà il vincitore e potrà segnalare fino ad altri 3 autori particolarmente meritevoli.
I lavori del vincitore e dei segnalati saranno presentati in una speciale mostra in occasione del festival Occhi di Scena 2004 e saranno inoltre inseriti nel catalogo della manifestazione.


Regolamento
Per partecipare è necessario inviare la seguente documentazione:
- modulo d’iscrizione compilato in ogni sua parte;
-breve curriculum vitae;
-descrizione del progetto di lavoro (massimo una cartella);
-minimo 5 massimo 10 stampe fotografiche bianco e nero o colore sul tema del concorso (non sono ammesse diapositive);
-le fotografie dovranno avere un formato massimo di cm. 30x40 e devono contenere sul retro: titolo e numerazione (se previsto), nome, cognome e indirizzo dell’autore;
- copia delle fotografia in digitale su CD adatte alla visione su monitor.
-potranno essere valutati eccezionalmente anche lavori con caratteristiche differenti da quelle sopra enunciate nel caso esse siano determinate da una precisa esigenza progettuale.
Nel caso di presentazione di una documentazione non completa il lavoro non verrà preso in considerazione.
Il materiale dovrà pervenire, in porto franco, dal 1 maggio al 12 giugno 2004, alla segreteria del premio presso
Centro per la Fotografia dello Spettacolo
C/o Teatrino dei Fondi
Via Zara, 58
56020 Corazzano - San Miniato (PI)
Tel. & fax +39- 0571 462825 - fax 462700
e- mail: centrofotospettacolo@tiscali.it

La premiazione avverrà a San Miniato sabato 26 giugno 2004.
Al termine del concorso i materiali pervenuti entreranno a far parte dell’archivio del Centro per la Fotografia dello Spettacolo. Il Centro si impegna a concordare con gli autori ogni eventuale utilizzo successivo delle immagini. A richiesta dell’autore è prevista la restituzione a carico del destinatario.
L’organizzazione declina ogni responsabilità per la perdita o il danneggiamento delle fotografie inviate, pur garantendo la massima attenzione e cura.
Le decisioni della giuria sono inappellabili.
Iniziativa realizzata con il contributo di: Comune di San Miniato, Teatrino dei Fondi/Titivillus Mostre Editoria.





CONCORSO INTERNAZIONALE DI FOTOGRAFIA DELLO SPETTACOLO

OCCHI DI SCENA 2004




MODULO DI ISCRIZIONE





Nome ...................................................... Cognome....................................................
Indirizzo ........................................................................................................................
Città .......................................... C.A.P. .................. Stato ................................................
Tel. ................................. Fax .......................... e-mail ....................................................
Nazionalità .....................................................................................................................
Professione .....................................................................................................................
Titolo del lavoro presentato ..............................................................................................
Fotografie spedite nr. ........................................................................................................

L’accettazione del regolamento implica la cessione dei diritti di riproduzione per l’eventuale pubblicazione e per altre iniziative inerenti la diffusione e la promozione del premio stesso.

Dichiaro di conoscere ed accettare integralmente il regolamento del premio.



Firma per accettazione data

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Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
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