(7) 12.04.01

Un Amleto giapponese
Uno spettacolo (in giapponese) sulla prima messinscena (mancata) del capolavoro di Shakespeare in Giappone
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro7.htm#7and1
 
Nekrosius pedicure
Ovvero l'Otello del grande regista lituano spiegato al popolo
di Isabella Scaramuzzini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro7.htm#7and2
 
Un'opera a fumetti
un'intervista con Filippo Del Corno su Orfeo a fumetti
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro7.htm#7and3
 
Due mail su Faccia di cuoio di Krassner
Un dialogo
di Michela Blasi e Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro7htm#7and4
 

Un Amleto giapponese
Uno spettacolo (in giapponese) sulla prima messinscena (mancata) del capolavoro di Shakespeare in Giappone
di Oliviero Ponte di Pino

Tanto per cominciare, un po' di date.

1600 (?) - Va in scena a Londra l'Amleto di William Shakespeare, il testo più noto (e probabilmente il più rappresentato e e il più riscritto) del teatro occidentale.
1748 - Izumo Takeda, Shourako Miyoshi e Senryu Namiki scrivono quello che diventerà il testo più noto e popolare del teatro giapponese, Kanadehon Chusingura, ispirandosi a un fatto di cronaca avvenuto nel 1702 (ma ambientando l'azione nel XIV secolo). Il signore di Ako, Asano (Enya), dopo essere stato offeso, cerca di uccidere il proprio nemico, Kira (Kono), nei corridoi del castello di Edo. Asano fallisce nell'impresa, gli viene ordinato di uccidersi e il suo clan viene disperso. I samurai che erano al suo servizio si trovano senza padrone; 47 di loro, guidati da Oishi, decidono di vendicare il loro signore. Ci riescono, al termine di varie peripezie. Dopo di che, commettono hara-kiri per dimostrare la loro fedeltà all'antico signore. Il testo ha curiose analogie con Amleto: il tema è lo stesso, la vendetta; Amleto si finge folle, Oboshi nasconde i suoi propositi dandosi al libertinaggio; sia Amleto sia Oboshi moriranno dopo aver compiuto la loro vendetta. Il consigliere di Enya, Ono, che poi tradirà il suo signore, ricorda Polonio, e morirà come lui. E così il destino di Gertude è simile a quello di una donna del clan di Enya, Okaya: suo marito verrà ucciso dal figlio di Ono.
1902 (35° anno dell'era Meiji) - Va in scena al Teatro Asahi di Osaka il primo Amleto giapponese. A recitare il testo (intitolato Il castello d'acero) sono attori dello Shinpa (una nuova scuola di kabuki). Ma l'ispiratore dello spettacolo è Morita Kanya (1846-1897), un impresario che aveva dato un forte impulso alla modernizzazione del teatro giapponese, portando in scena testi occidentali e scrivendo egli stesso drammi ambientati in Europa e negli Stati Uniti.
1992 - Va in scena al Teatro Haiyuza di Tokio Kanadehon Hamlet (Premio Yomiuri)in cui Harue Tsutsumi intreccia i due classici del teatro orintale e occidentale.


Siamo nel 1897, e stiamo assistendo a una prova dell'Amleto nel teatro di Morita Kanya, il Teatro Shintomi. In effetti si tratta - secondo gli usi del teatro giapponese dell'epoca - dell'unica prova dello spettacolo, che dovrà andare in scena la sera successiva, anche per salvare un teatro oppresso dai debiti. A recitare il testo sono attori del kabuki - che però pensavano di essere stati convocati per interpretare Kanadehon Chushingura. Di Amleto non sanno nulla: mai visto, mai sentito nominare. "Regista" dello spettacolo è il nobile e facoltoso Miyauchi Reinojo, che nei suoi soggiorni americani ha avuto l'occasione di vedere l'ultima esibizione del leggendario Edwin Booth alla Brooklyn Academy of Music. La serata è costellata da una serie di incompresioni: molti attori si presentano in scena con i costumi del kabuki, e soprattutto il loro stile di recitazione tutto convenzionale è lontanissimo dal realismo ricercato dal regista. Questo Amleto non andrà in scena: da un lato esplodono le incomprensioni tra il regista e gli attori (malgrado l'intervento di un giornalista che illustra le somiglianze tra i personaggi dei due testi); dall'altro lo sfortunato Morita Kanya muore assediato dai creditori. Le sue ultime parole riecheggiano il monologo finale del pallido principe. Per vedere il primo Amleto giapponese bisognerà aspettare il nuovo secolo.

Kanadehon Hamlet è un testo che ha evidenti sfumature didattico-didascaliche, nel tentativo di ricostruire un episodio poco noto della storia del teatro. E' un momento peraltro molto particolare. Il Giappone è nel pieno dell'era Meiji, quella che segna la modernizzazione dell'arcipelago. In Occidente inizia invece a infuriare la moda del "giapponismo". Mentre gli attori giapponesi si trovano costretti a misurarsi con il "realismo psicologico" occidentale (quello che nasce, per certi versi, proprio nei monologhi di Amleto), gli spettatori occidentali restano affascinati di fronte alle raffinate convenzioni dei primi attori orientali che viaggiano verso gli Stati Uniti e l'Europa: proprio in questo incontro si trovano alcune delle radici delle rivoluzioni teatrali del Novecento.
Seppur confinato in un pomeriggio di prove in un teatro in via di fallimento, lo scontro tra Oriente e Occidente può farsi assai aspro, come dimostra questo brano del dialogo, dove il protagonista dell'Amleto, il volonteroso Naritaya Maziko, si scontra con il produttore e con il regista.

KANYA Naritaya, sei così bravo a fare lunghi monologhi, non è vero? Non puoi trovare toni un po' più ricchi? MAZIKO Beh, nei testi che recito ho sempre un qualche accompagnamento, musica, o danza, in modo che sembri davvero teatro. MIYAUCHI Non hai ancora capito che cosa sia un vero dramma. Te l'ho detto mille volte, devi esprimere i tuoi sentimenti, le tue emozioni, invece di cercare lo "stile". MAKIZO Ma questi sentimenti, queste emozioni, io non le capisco. Davvero, non riesco a capire perché Amleto si comporti in questo modo. MIYAUCHI Ma perché? MAKIZO Amleto ha appena incontrato lo spettro di suo padre e ha deciso di vendicarlo. Ma allora perché mai sta lì a baloccarsi con questa idea di uccidersi o non uccidersi, e su tutto quello che succede dopo che siamo morti? TOKUJIRO (Claudio) E' vero. In Chushingura Yaranosuke, dopo la morte del suo capo, non si lascia distrarre da nulla, si concentra solo sulla vendetta. Non certo ha tempo per balbettare di essere o non essere, finché non ha compiuto il proprio dovere. MIYAUCHI Amleto non è Yaranosuke. Che sciocchezza è mai questa? Siamo nel trentesimo anno dell'era Meiji, lo shogunato Togukawa è finito da trent'anni! Ma il teatro giapponese non ha speranze, non è ancora arrivata l'alba.

Questo frammento esemplifica uno dei temi del testo, le incomprensioni tra due mondi che s'incontrano per la prima volta. Sono incomprensioni che riguardano due diverse visioni del mondo (solo per fare l'esempio più clamoroso, il diverso significato e valore del suicidio nelle due culture), ma anche due diverse concezioni del teatro. E' una situazione che porta a situazioni a volte esilaranti: per esempio quando gli attori si presentano in scena con abiti e trucco a metà tra i costumi del kabuki e quelli di un uomo d'affari occidentale di fine Ottocento. O quando uno dei comprimari commenta: "Un attore così bravo è sprecato nella parte di Amleto" (mentre poco prima il regista aveva proclamato: "Amleto è il nuovo teatro"). O, ancora, nel tormentone delle scarpe che bisogna assolutamente togliere prima di salire sulla scena...
Quello che per i protagonisti fu, all'epoca, autentico dramma (l'impresario Kanya morirà sulla scena a causa del fallimento dell'impresa), è diventato per noi occasione di divertimento. Come spettatori smaliziati e consapevoli, che hanno visto gli Shakespeare della BBC e il kabuki, studiato gli scritti di Brecht e Mejerchol'd sui teatri orientali, rileggiamo le difficoltà di interpretazione in chiave di parodia. Insomma, ci siamo costruiti un altro punto di vista, che ci permette di de-costruire ironicamente i punti di vista degli interessati. Anche questo spiega il successo del testo di Tsutsumi Harue, portato in scena 4 volte nel giro di pochi anni.

Nota: per ulteriori approfondimenti (e qualche indicazione bibliografica), cfr. Graham Bradshaw e Kaori Ashizu, Reading Hamlet in Japan, in Shakespeare and the Twentieth Century. The Selected Proceedings of the International Shakespeare Association World Congress, Los Angeles, 1996, cur. Jonathan Bate, Jill L. Leverson e Dieter Mehl, University of Delaware Press, 1998. Nello stesso volume, un saggio di Yoshiko Kawachi (Gender, Class, and Race in Japanese Translations of Shakespeare) elenca alcune delle traduzioni del celeberrimo "essere o non essere", che nel primo allestimento giapponese il monologo venne tagliato. Va ricordato che è praticamente impossibile trovare in giapponese un equivalente di "to be": il verbo "aru" significa semplicemente esistere e non comporta tutti i significati di "to be".
 
 
Charles Wirgman (1874) Arimasu, arimasen, are wa nan desuka? C'è; non 'è. Che cosa è?
Shoyo Tsubobuchi Yoni anu, yoni aranu Esistere in questo mondo, o non esistere in questo mondo.
Tsuneari Fukuda Se ka shi ka Vita o morte
Junji Kinoshita Konomamani atte iinoka Mantenere lo status quo o cambiare lo status quo
Matsuoka Ikite todomaruka, kiete nakanaruna Restare vivo o scomparire da questo mondo


 


Nekrosius pedicure
Ovvero l'Otello del grande regista lituano spiegato al popolo
di Isabella Scaramuzzini

E' irriverente.
La prima associazione che ho fatto con il Progetto Otello, quando ho ricominciato a pensare col mio ritmo normale (ero in battello, erano le due di notte, c'era alta marea), è stata con la pedicure Lidia, di Dolo.
E' blasfemo, associare una pedicure di Dolo ad un regista di Vilnius.
Sento che mi sto spiegando malissimo. Non posso spiegarmi.
Quando per la prima volta a 44 anni ho messo piede da una pedicure avevo sempre saputo di avere dei piedi. Anzi: ero ben consapevole di averne due, di averli piccoli e un po' bambini, di averli delicati e con qualche callo, attaccati a caviglie deboli. Adoro camminare scalza, vado pazza per le scarpe, talvolta mi do lo smalto di Dior sulle unghie: trovo che stia bene, soprattutto con gli infradito.
Insomma: pur avendo una discreta consapevolezza dei mie piedi non ero mai andata da una pedicure. Cioè da qualcuno che professionalmente si prende cura dei piedi.
La pedicure Lidia ha tirato fuori i sui strumenti minuti, semplici, ha fatto quello che doveva e ha cambiato la consapevolezza che avevo, di come un piede possa essere considerato, trattato, bencurato.
La stessa cosa fa la compagnia di Nekrosius con un'altra parte del corpo che, per convenzione, chiamerò anima. Io so di averla, saprei descriverla, talvolta me ne occupo. Poi sei qui, al Piccolo Arsenale, di fronte a questo regista della Lituania il quale ti fa capire, grazie alla sua professionalità, che la tua anima è un'altra cosa, si può trattare in un altro modo, può stare così bene, essere talmente manicurata.
Adesso di anni ne ho 45 e non avevo mai portato la mia anima dentro un teatro come questo.
Non è mai troppo tardi.
Nel Progetto Otello si capisce come il teatro possa essere una rivelazione della multisensualità dell'anima, della sua capacità di essere sollecitata a strati, come la curvatura di una trave lamellare: ed è solo la sua risposta coordinata che aumenta all'infinito la capacità di flettersi, di muoversi e cambiare entro un rischio calcolato, trovando sempre nuovi punti di equilibrio.
Il Progetto Otello fa dell'anima un ricettore, sollecitato all'estremo, con una dosatura sapientissima di pause e di improvvise sorprese, di reiterazioni e di assoli, di coralità e di icone, di mania dei particolari e di travolgenti coreografie, di plasticità virtuosistica e di struggimenti vocali, di colori accostati e panni svolazzanti, di smorfie e di sudori, di pianoforte e di taniche piene d'acqua, di tutto, tutto, tutto ciò che può andare in scena, essere recitato, gestito, mostrato. Del teatro.
Il teatro con le scenografie, il movimento, le trovate, gli attori (plurale!), il testo, la storia. Il teatro teatro, con la regia regia, le prove prove (quante, dio solo sa quante), la bravura, il talento, la scuola, il lavoro.
Probabilmente anche i soldi. Sì sicuramente anche i soldi della produzione e non solo adesso, con la Biennale. I soldi dello stato, la cultura di stato, alla faccia di tutti i mercati della cultura e dell'arte.
C'è solo il Berliner che possa competere nel mio album di ricordi, il Cerchio di gesso, forse del 1972. E come dedizione al lavoro teatrale gli andini di Brie e i ballerini del Tanztheater di Dresda. Ma niente eguaglia questo compendio lituano.
Nei primi due tempi di Progetto (3 ore circa) non si capiscono neppure i nomi di Otello e Desdemona: la lingua mi è del tutto incomprensibile. Ciò nonostante l'attenzione è completamente catturata, ciò che la spiega meglio è non sto perdendo nemmeno una parola.
Paradosso.
Prima meraviglia: quando Otello lascia il pianoforte, che stava suonando, per venire alla ribalta con la sua spada e il suo pastrano da Bounty, lo strumento continua imperterrito a mandare musica e ci accorgiamo (solo allora) che c'è un uomo accovacciato sotto di esso le cui mani (anche prima) lavoravano sulla tastiera.
Seconda meraviglia Desdemona con la porta bianca sul dorso. Figura esilissima in un raso verde maggiolino cangiante al nero (Romeo Gigli è nativo di Vilnius?), recita con il volto e le mani, trattenendola in bilico (dio solo sa come) finché arriva Otello, bianco ma con le mani nere di fuliggine. Il gioco che i due fanno con le loro mani sulla porta è un capolavoro di agilità fisica e di metafora: lei (ora dietro la porta bianca) si aggrappa tutto intorno, mostrando solo le dita, che lui si accanisce a picchiare (davanti alla porta) per staccarla: ogni loro lotta lascia un segno di fuliggine sul perimetro della porta che, alla fine, ha un disegno regolare e angoscioso di mani tutt'attorno. Allora Desdemona torna davanti e Otello la colpisce, attraverso la porta (da dietro) con uno straccio bagnato, che procura un rumore terribilmente violento, scuote la povera Desdemona con la sua porta-guscio, schizza sulla scena ondate di gocce che le luci rendono perfette, prima che si abbattano a terra.
Benché non si capisca una parola, ogni espressione degli attori cattura completamente: è l'esatto parallelo dei primi piani del cinema (povero?) dei Balcani.
Però qui parlano e agiscono anche i corpi: ogni parte di essi, come i pugni di Jago che si stringono al punto di sudare, anche il dito di Desdemona con cui Otello scrive e le sue spalle ad angolo retto per portare un vassoio con manici.
Terza meraviglia: tutto il corpo di Otello, sospeso dal pugno stretto attorno alla spada, piantata sul palco, che si flette sotto lo sforzo dell'uomo, quel tanto giusto (QB quanto basta) per comunicarci lo sforzo e l'equilibrio, la tensione e la tenuta, il pathos e la tecnica.
Meraviglie incessanti. I corpi degli attori quando saltano sulle amache dello sfondo; color galletta d'avena, stagliato sullo scuro del teatro e delle burrasche, vele raccolte e letti, tesi da cordami che solcano il nero come un ricamo non lezioso, morbidi quanto basta per evocare dei giacigli e delle alcove, rudi quanto basta per essere metafora del viaggio per mare. Cadono all'improvviso, con tempismo geometrico e, di quando in quando, qualcuno le usa, ci salta sopra con una sforbiciata di qualche metro degna della miglior scuola sovietica o DDR degli atleti olimpici, sparisce accolto nel telame, getta a terra vestiti, lascia vedere solo il capo. Altre volte qualche donna, in abito lungo colore del vino, li drappeggia facendone dei fregi palladiani che le luci tolgono dal mondo delle stoffe per metterli in quelli dei marmi o delle facciate.
Meraviglie minute. Gli attori hanno fatto una lunga scuola per bere: Otello beve come i cani, da enormi bacili di legno russo (ora sono pieni d'acqua e ce ne accorgiamo dalla luce che vi riverbera, ora sono pieni di fuoco acceso, ora sono morte cose rovesciate) tenendosi in bilico sulla spada e fa un rumore da bestia, perfetto. Jago beve dal boccale di latta, quello del chai nelle motonavi del Bosforo, e spruzza la schiuma delicatamente, come bevesse birra, invece è acqua.
Meraviglie travolgenti. La tempesta viene simulata attraverso un telo, meglio un sacco, con un lato molto lungo (tiene il palcoscenico da destra a sinistra) e un lato più corto (tiene un quinto del palcoscenico da avanti indietro), cucito su tre lati. Gli attori lo tengono per i lati corti e corrono, facendo gonfiare questo sacco che ha un lato lungo aperto, su e giù per la scena accompagnati da suoni di mare. Dentro questa elementare tela si creano, perfetti, il senso del gonfio, del rotolante, del violento, della balia. Uomini ( e donne) e vele si muovono al ritmo delle onde. Trascinano lo spettatore in scena e la scena è la tolda del veliero in tempesta.
Penso ai bambini che preferiscono giocare con uno scatolone di lavatrice vuoto piuttosto che con sofisticati bambolotti o sapientini meliconi. Penso alla potenza dei disegni di bambino che Paul Klee ha vanamente ricercato da adulto.
Qualche arguto spettatore, molto adatto alle prime della Biennale, spiega al vicino (nella parte del meno arguto) che il filo conduttore scelto da Nekrosius è l'acqua. Infatti proprio in fondo al palcoscenico ci sono, perennemente, per quasi 4 ore di Progetto, 4 persone sedute che scuotono, a cadenza regolare e monotona, delle taniche da benzina, legate da corde blu come fossero pacchi regalo, e riproducono in modo ineccepibile la risacca di una spiaggia. Il suono simulato più perfetto che io abbia mai sentito: ma a Nekrosius non basta una perfezione, gli piacciono multiple (come l'anima che ne deve essere colpita) e quindi te lo fa vedere il suono, nelle taniche impacchettate, con i loro disciplinati e metodici agitatori, il viso compreso nella parte di chi sta muovendo un mare.
Ci sono ciotole di legno, a forma di piccole slitte, ora rovesciate sul pavimento, funzionano da sassi carsici (come se le avesse posate là Music), gli attori ci passano sopra agilissimi. Ora vengono voltate, rapidamente, sapientemente in un muoversi da operai-ballerini.
Poi Otello, il comandante, le raccoglie tutte attraverso delle funi, corde di nave, che le legano (finora non ce n'eravamo accorti), e le trascina via dalla scena, tutte e sono tante, facendo una reale fatica improba (perché pesano le ciotole di legno). L'immagine del trascinatore di quelle che – ora – sono piccole imbarcazioni rudimentali, canoe tozze, piroghe da laguna, è nuovamente bellissima: una icona struggente del guidatore di navi, più che un ammiraglio di flotta un profeta biblico con il grande fardello del suo popolo nautico.
Lo sa Nekrosius che Otello è, adesso, una figura di Caravaggio, con le stesse ombre e la forza contadina sublimata dal gesto eroico?
Come sempre, negli artisti e nei talenti, non serve sapere precisamente perché a loro basta sentire.
All'inizio del secondo atto c'è una tavola in primo piano con sopra una montagnola di sabbia, grigia. I due fratelli gemelli, vestiti da bottegai inglesi (panciotto su camicia bianca, traversa sui fianchi, papillon), fingono una conversazione stupita mentre fanno elementari castelli di sabbia usando bicchierini di plastica come formine. A loro si unisce la donna bionda (lunghissimi capelli lisci e dorati, carnagione bianchissima da nordica, abito cremisi) che compatta la sabbia con le mani, la disordina, la ammucchia finché, ad un certo punto, trova il fazzoletto di Desdemona.
L'immagine è, ovviamente, perfetta e mi ricorda il film su santa Teresa di non so più chi: una delle fotografie più pulite e penetranti del cinema a colori.
Sabbia, mare, spiaggia.
E Otello, sulla battigia viene travolto dalla risacca: si voltola come accade quando l'onda si abbatte, una due tante volte quante sono necessarie per prenderti in questo ritmo. Che è violento, che è lotta, poi abbandono, stordimento, resa. Un gesto in acqua fatto, qui, sull'asciutto dell'impiantito di scena: come i thanztheater che nuotano o simulano la partita di tennis.
Ancora l'acqua, nella scena della toeletta.
Da un lato della scena (tutto in secondo piano mentre davanti si svolge un dialogo) due maschi, in tenuta da marinai semplici, torso e polpacci nudi, piedi in due tinozze. Da un altro lato (a sinistra per chi guarda) un paravento di legno copre fino alla cintura tre donne che si occupano dei loro capelli, le spalle nude, senza mai farci vedere la faccia o il petto. Lo straordinario della scena sta nei loro movimenti: i maschi ripetono ritmicamente il gesto di raccogliere l'acqua dalle loro tinozze, con un vaso da pianta in coccio, lo elevano oltre il capo e lasciano che dal foro sul fondo il getto riporti l'acqua da dove è stata presa. Lo fanno a tempo sfalsato: quando il getto di uno finisce, inizia quello dell'altro: il rumore e l'immagine della 'doccia' è così perpetuo. I due si comportano come se fossero sotto questo getto che invece non li sfiora neppure, scorre su un piano (immaginario) di fronte a loro (la solita suggestione multistrato).
Allo stesso modo le donne non sono affatto bagnate ma è chiaro che si stanno lavando i capelli per i suoni che emettono (piacere sotto l'acqua) e per un ritmico scuotimento di chiome (tutte le hanno molto molto lunghe e folte e mosse) che le mani scorrono, e aprono, e lisciano emettendo una sorta di polvere di talco, impalpabile e biancastra che forse simula la nebulizzazione dell'acqua, forse la cipria sicuramente qualcosa di intimamente femminile e cosmetico, un'aura da toeletta.
Lo sa Nekrosius che Virginia Woolf descrivendo tre signorine, pettinate e strofinate dopo il bagno, ci dice che ronfavano di piacere e che le loro chiome parevano tre alberi al vento?
Anche se non ha mai letto Le onde è esattamente questo che sta mettendo in scena. Assonanza di genio.
Questo progetto è così, potrebbe continuare per sempre, in una sequenza di creazioni concatenate, curatissime, suggestive che non ti lasciano mai, ti tengono ancorato alla scena, allo svolgersi delle azioni.
Ecco cosa fa Nekrosius, usando i suoi attori, fa di te quello che vuole.
Ti prende dal primo istante e non ti abbandona, non ti posa mai contro lo schienale della tua poltrona, semmai ti tira sempre più forte verso il palcoscenico, ti chiama ad entrarci. Anche se non fa, per niente, un teatro in cui il pubblico deve essere coinvolto.
Paradosso totale: raramente sono stata così coinvolta da qualcuno che mi parlava in una lingua che non capisco affatto.
C'è solo una parola, generale?, che Jago ripete ossessivamente nel suo dialogo con Otello, che viene detta, una dieci mille volte (QB), con tale implorazione e disperazione nella voce (dieci, cento, mille modi di implorare e disperarsi) da rimanermi impressa come unico fonema di tutto il testo shakespeariano. Il suono sicuramente finisce in ja, generalja?, e comincia come il nome di una donna anseatica o finnica, tipo gwenewal, con tante doppie vu: l'effetto è qualcosa di strascicato, dolciastro, che s'appiccica attorno. Forse è la lingua russa, baltica, lituana ad avere questa struttura, questa proprietà fonetica.
E' la scena in cui Jago fa sudare i pugni (semplicemente stringendoli) e parla così rapidamente e nevroticamente, accompagnando le parole con gli occhi da folle e le rughe della fronte, da rendere vane molte classi di Actor Studio e annate intere di aspiranti attori e pretese di espressività di quasi tutti i piccoli emuli sparsi per il mondo. Lo dice una che per il pomo d'adamo e la vena sulla tempia di Paolini nel Vajont ha tenuto il fiato e pensato di essere davanti ad un grande.
Forse non si dovrebbe vedere questo Progetto, così si potrebbe continuare ad andare a teatro anche in Italia, provare le nostre domestiche emozioni, amare i nostri attori.


 


Un'opera a fumetti
un'intervista con Filippo Del Corno su Orfeo a fumetti
di Oliviero Ponte di Pino

E' andata in scena a Milano (Teatro di Porta Romana, per la rassegna Suoni e visioni") la nuova opera di Filippo Del Corno, Orfeo a fumetti. Qui di seguito l'intervista con l'autore realizzata per il programma di sala del Teatro Regio di Torino, dove l'opera è stata replicata: un ottimo spunto per cominciare a riflettere sulle possibili forme del teatro musicale.
Questa è una domanda un po' provocatoria: perché hai scelto proprio Omar Pedrini? Per l'identità tra finzione e realtà con Orfi? Per i suoi mezzi vocali e il carisma in scena? Oppure è una strategia di marketing per conquistare il pubblico rock?
In Poema a fumetti Buzzati racconta la storia di Orfeo ambientandola ai giorni nostri: Orfeo diventa così Orfi, un cantante rock di grande successo. Mi è sembrato molto importante mantenere questa intuizione di Buzzati: il potere magico e incantatorio del cantore mitico si trasfigura nel carisma quasi sciamanico di una rock-star. Così ho provato a coinvolgere Omar Pedrini, leader dei Timoria, ossia del gruppo più interessante e innovativo della scena del rock italiano. Ma soprattutto quando ho visto un concerto dei Timoria dal vivo, la straordinaria potenza della presenza scenica di Omar mi ha convinto definitivamente: Orfi non poteva che essere lui. D'altra parte nel mio lavoro e nell'esperienza di Sentieri selvaggi abbiamo sempre cercato di lavorare con artisti provenienti da altri campi e linguaggi della musica di oggi. Nel confronto tra stili, idee e pratiche nascono sempre tantissimi nuovi stimoli creativi, e spesso questi stimoli passano anche al pubblico che ascolta, che conosce e sperimenta insieme a noi nuove possibilità espressive. La contaminazione, anziché continuare a parlarne, va fatta, purché dietro non vi sia alcuna strategia di marketing. La contaminazione deve essere un tentativo sempre a un altissimo grado di sperimentazione, con il rischio di fallimento sempre in agguato, e non una scappatoia per cercare di avere un po' di pubblico in più.
Hai cucito la parte di Orfi su misura per lui?
Omar impersonerà Orfi nei tre momenti della storia in cui Orfi imbraccia la chitarra e canta canzoni. Una delle canzoni, quella che Orfi canta per ottenere di incontare Eura, sarà proprio una canzone dei Timoria, in una nuova versione che ho realizzato apposta per l'opera. Sulle altre canzoni invece vorrei mantenere il segreto; soprattutto la prima sarà, spero, una sorpresa. Comunque non posso pensare a Orfeo a fumetti senza Pedrini, anche se tecnicamente si può operare sulle canzoni in modo che siano cantate da un altro.
A Buzzati è sempre piaciuta la musica e ai musicisti è sempre piaciuto il suo modo di scrivere? Come ti è venuto in mente di musicare il Poema a fumetti?
Ho sempre letto Buzzati con grande passione, e lo ritengo uno dei grandissimi scrittori del nostro secolo. In ogni suo libro si trovano suggestioni musicali di notevole interesse; per esempio ne Il grande ritratto il super-calcolatore creato a immagine e somiglianza di una donna si esprime attraverso suoni di vera e propria musica elettronica. Ma sono tantissimi i casi che si potrebbero citare; sicuramente Buzzati era un autore che aveva uno spiccato senso musicale e un orecchio raffinatissimo. Non è quindi un caso che tanti musicisti a lui contemporanei lo scegliessero come librettista e collaboratore. L'idea di fare qualcosa su Poema a fumetti la coltivo da diversi anni; credo che per un musicista fare "qualcosa" su Orfeo sia un richiamo a cui è impossibile sottrarsi... per me Orfeo è diventato con un processo naturale e quasi inspiegabile Orfi, e Euridice nella mia immaginazione ha il bellissimo volto di Eura. Forse a conquistarmi sono state proprio le immagini di Buzzati, la loro grande carica evocativa, la loro capacità di raccontare il mistero della morte e dell'amore con tratti invece semplici e quotidiani, così come Buzzati sapeva fare benissimo con la scrittura. Poi c'è un particolare, alla fine, che ancora una volta scarta rispetto alla storia più tradizionale di Orfeo: anche se Orfi perde Eura per sempre, qualcosa di lei gli rimane, e gli rimarrà per sempre. Ma anche qui non voglio svelare nulla di più.
A Settembre musica, un paio d'anni fa, si è vista una delle prime opere a fumetti della storia (forse la prima in assoluto), The Carbon Copy Building, del trio Lang-Gordon-Wolf. E' lì che hai capito che il matrimonio fumetti-opera si poteva celebrare?
Veramente è una storia lunga da raccontare: ho sempre progettato di fare un'opera su Poema a fumetti, e ovviamente doveva essere un'opera a fumetti. Nell'aprile del 1998, David Lang era in Europa e passò a Milano per lavorare un po' con noi di Sentieri selvaggi che stavamo preparando la prima di un suo pezzo. Una sera, mentre stiamo andando in macchina a Lugano per sentire un concerto, parliamo dei nostri progetti e io racconto "…il mio sogno è riuscire a fare un'opera a fumetti" e lui mi risponde "…ah, io sto proprio lavorando a un'opera a fumetti". Ho sbandato rischiando di finire fuori strada per la sorpresa, e poi ci siamo fatti una grande risata. Questo per chiarire che nessuno ha rubato l'idea all'altro ... In realtà quando poi ho visto la loro opera, tra l'altro bellissima, mi sono molto tranquillizzato. Tra la loro e la mia operazione non c'è quasi nulla in comune. The Carbon Copy Building era un progetto tecnologicamente molto complesso, dove il fumetto, creato apposta, costruiva una scenografia dove agivano personaggi in carne e ossa. Orfeo a fumetti è molto più semplice; sono direttamente le tavole di Buzzati a raccontare la storia, e l'unica personificazione tra interprete e personaggio sul palcoscenico sarà quella Orfi-Omar.
Come hai lavorato con gli altri autori del progetto?
Ho lanciato dei fili che ora inizio a raccogliere e che si concretizzeranno nello spettacolo. Con Manuel Cicchetti e lo Studio DueEffe ho già lavorato un paio di anni fa a Montepulciano e so che realizzeranno con grande inventiva i suggerimenti che gli ho proposto. La parte musicale vedrà impegnati Boccadoro, Sentieri selvaggi e tre cantanti che hanno già collaborato con noi in più occasioni. In pratica si è creata una sorta di repubblica ideale, un gruppo di lavoro dove ciascuno porta la propria autonoma competenza e creatività a formare un progetto comune. E' il grande vantaggio di un teatro musicale così agile: poter scegliere tutti i compagni di strada, uno a uno. Con Pedrini l'avventura contiene un po' più di mistero; di fatto è la prima volta che lavoriamo insieme, e con un musicista come lui so già che il momento più ricco sarà nelle prove, in quello scambio molto pratico di conoscenze e esperienze che si ha quando ci si mette al lavoro con voci e strumenti.
Raccontaci se un artista trentenne come te che decide di vivere scrivendo musica si sente pienamente integrato nella societa in cui vive, se si sente un emarginato di lusso, oppure se deve accettare troppi compromessi per continuare a lavorare in piena libertà...
Non sono un artista; al massimo un artigiano. Gli oggetti che creo, siano lavori teatrali o brani strumentali, non fanno parte di un mercato commercialmente sviluppato e non hanno una diffusione planetaria. Ma hanno un vantaggio: chi li desidera ascoltare, poi li apprezza (o anche li disprezza) veramente, con una propria autonoma scelta di gusto. Sono oggetti che non vengono consumati, ma ascoltati e valutati da un pubblico che sceglie di impegnare il proprio tempo per confrontarsi con un linguaggio magari non immediato, ma che forse li potrà affascinare o emozionare. Non c'è nessuna dinamica commerciale, o diktat estetico, o imposizione editoriale, che sovrintende alle mie scelte. Così devo dire che sono abbastanza soddisfatto della mia situazione: non sono famoso, non sono ricco, non sono potente: sono libero.


 


Due mail su Faccia di cuoio di Krassner
Un dialogo
di Michela Blasi e Oliviero Ponte di Pino

Ciao Oliviero,
Andrea mi ha riferito della vostra telefonata a proposito di Faccia di cuoio. Mi piacerebbe conoscere più nel dettaglio cosa ne pensi.
Per noi è stata un'esperienza molto positiva fino al momento di entrare al Portaromana. Siamo entrati in teatro tre giorni prima del debutto e da lì in poi la situazione ci è sfuggita di mano per grossi problemi tecnici che non ti sto a dire, ma soprattutto ai miei occhi lo spettacolo ha cambiato sapore. E' già la seconda volta che mi capita (lo stesso era stato con Hamletmaschine) e credo proprio che le dimensioni e l'"aria" del Portaromana poco si addicano al nostro lavoro. La replica che hai visto tu era già molto più soddisfacente, giorno per giorno abbiamo rimessa mani a tutto.
E' un onore per noi essere nel cartellone di Teatridithalia, ma sono sicura che il nostro lavoro in  luoghi così è penalizzato, a meno che non nasca lì, ma questo non sarà mai possibile.
Dobbiamo riflettere molto bene per scelte future. Io amo spazi dove il rapporto con il pubblico è più ravvicinato, dove tutto sia più gestibile, visto che non abbiamo una squadra di tecnici a disposizione.
Andrea mi ha riferito i tuoi dubbi rispetto all'età degli attori. E' un dubbio che all'inizio ho avuto anch'io, ma rileggendo il testo mi è poi sembrato poco probabile che un ventenne possa fare ragionamenti sulla vita come quelli che fa "lui", discorsi che presumono un'esperienza di vita molto profonda e a tanti livelli, una maturità. Anche i conflitti di coppia su problemi economici e altro sono tipici di persone non giovanissime. Mi sembra interessante, invece, mettere in scena persone adulte che si giocano tutto in modo irrazionale, perchè non sono ancora riusciti a dare valore e solidità alla propria esistenza, per assaporare un momento di gloria, consci dell'inutilità delle proprie convinzioni al cospetto degli altri.
In fondo è la condizione di tanti miei "nostri" coetanei, che non accettano certe regole, che sanno di avere una testa che funziona, ma che subiscono molte frustrazioni, che non hanno molto da perdere, che hanno voglia di brividi veri. Tanta pigrizia, ma anche tanta rabbia, poi a un certo punto, qualcosa esplode.
Tieni anche conto che i testi interessanti (e soprattutto rappresentabili per noi per i diritti) che ci passano fra le mani sono pochissimi: quando abbiamo letto questo non avevamo tante alternative... in ogni caso è stata una scelta convinta.
Comunque se hai qualcosa da suggerirci, volentieri, non aspettiamo altro!
Mi hanno detto che le mail devono essere brevi, questa non lo è. Chiudo qui.
Grazie per interessarti sempre a Extramondo.
Michela


cara michela, cerco di riassumere.
il testo mi è sembrato curioso e interessante, e mi sembra anche che il lavoro di regia che hai fatto fosse funzionale ed efficace e valorizzasse il testo.
Avevo invece delle perplessità perché mi sembra che dua attori (o meglio due persone) come Andrea e Bruna Rossi abbiano un'età tale per cui in quei ruoli non sono naturalmente credibili, e dunque devono fare un gran lavoro (che svolgono con grande impegno) per "adolescentizzarsi" - ma lasciando sempre qualcosa d'irrisolto.
E' un problema di realismo, o meglio di credibilità. Non sarò certo io a dire che Amleto dev'essere un pallido spilungone in calzamaglia nera, o Otello un negro. Ma i protagonisti di Faccia di cuoio sono con tutta evidenza due ragazzi inesperti della vita e pieni di slanci. Chi abbia vissuto un po', o è completamente fuori di melone, oppure ha imparato (magari a sue spese) che su certe cose è meglio non scherzare. Di più: l'intera logica del testo mi sembra basata sul fatto di raccontare una storia apparentemente assurda e vagamente surreale, per poi dire alla fine: "Guardate, è successo davvero". Insomma, l'effetto sorpresa e l'efficacia del testo (il pugno nello stomaco) dipendono proprio dalla credibilità del tutto.
Per calarsi nei panni dei due ragazzi, Andrea e Bruna devono invece fare una serie di deformazioni vagamente grottesche. La camminata tutta sghemba di Bruna, che hanno solo certe ragazzine che cercano di fare le timide e qui diventa un tic distorto è la più clamorosa: è una bella soluzione registica e attorale, ma è una caricatura. Anche i "discorsi" dei ragazzi: se li fanno due adolescenti, a caldo, come dettati da circostanze che li portano a esseer più saggi, è un conto; se li fanno due adulti per i quali rappresentano il distillato di decenni d'esperienza, è un altro (e non sono i monologhi di Amleto).
Ecco questa è la mia perplessità, per certi analoga a quella che mi ha suscitato Arturo Cirillo che sceglie di fare La notte è madre del giorno interpretando un adolescente che dovrebbe avere la metà dei suoi anni (e che anche lui si sente costretto a fare "qualcosa di fisico" e bello - ma che in qualche modo porta la pièce su un terreno che non è il suo).
Dopo di che, sia Krassner sia Norèn hanno scritto testi in apparenza realistici (uno ispirato a un fatto di cronaca, l'altro alle proprie vicende familiari) che poi raccontano tutt'altro. Ma se questa forzatura del realismo è il dato di partenza, credo che poi l'impatto dei testi (di testi peraltro poco conosciuti in Italia) rischi di perdersi.
Un altro problema di cui abbiamo parlato con Andrea riguarda i suoi possibili ruoli. Per certi aspetti è un attore anomalo: ha una tecnica costruita con l'energia, ed è nato come "monologante". Credo che non sia facile stargli accanto in scena, è necessario costruire un equilibrio e una fiducia reciproca, e in questo caso ci siete riusciti. Mi sembra la strada giusta (dopo gli squilibri di Hamletmaschine, quand'era circondato dagli allievi della vostra scuola).
Il problema, lo dici anche tu, è il repertorio, e non è di facile soluzione (anche pensando al fatto che non vi potete permettere grandi compagnie). Faccia di cuoio è certo un testo interessante - e non ce ne sono molti di quel livello.
Infine, il teatro di Porta Romana. Non credo sia un vero problema (al di là dei tempi di prova): quando ho visto lo spettacolo (all'ultima replica, è vero) mi sembrava ormai messo a punto, con una serie di soluzioni tecniche interessanti (e non semplicissime: il filmato, le luci, eccetera). Certo che nell'intimità di uno spazio più raccolto certe cose hanno maggior impatto - o un impatto diverso. Ma insomma, Faccia di cuoio sul palcoscenico regge più che bene.
Cia-o.


 


Appuntamento al prossimo numero.
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