(70) 15/06/04
speciale expanded theatre

Videoteatro, stabili e Olimpiadi
L'editoriale di ateatro 70
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and1
 
Luca De Fusco guida gli stabili
E Angela Spocci va all'INDA? Ma allora all'ETI chi ci va?
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and2
 
Abbiamo toccato il fondo?
Le nuove nomine del direttivo degli stabili pubblici
di Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and3
 
Lettera aperta a Luca Ronconi
A proposito degli spettacoli per le Olimpiadi di Torino 2006
di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and5
 
Riccione TTV premi e polemiche
Su tnm uno spazio di discussione su videoteatro & expanded theatre
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and41
 
Conclusa la 17° edizione di TTV Festival
Il comunicato stampa finale
di Riccione TTV

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and42
 
Concorso Italia 123
Dal catalogo di Riccione TTV 2004
di Fabio Acca, Daniele Del Pozzo, Erica Magris, Andrea Nanni

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and43
 
Il verbale della giuria
Premio Riccione TTV-Concorso Italia
di Ciro Giorgini, Carlo Antonelli, Gioia Costa, Sandra Lischi, Giacomo Verde, Valentina Pellitteri

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and44
 
A proposito di TTV Concorso Italia
Una lettera
di Fabio Bruschi Direttore di Riccione TTV Festival

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and45
 
Sono stato io! It was all my fault!
Lettera aperta ai collaboratori di TTV Festival, ai componenti della commissione e della giuria del Concorso Italia 2004
di Fabio Bruschi (Direttore di TTV Festival)

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and46
 
Teatro e tecnologia tra Eco o Narciso
Recensione a Te@atri nella rete di Maia Borrelli e Nicola Savarese
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and59
 
Il teatro nella staffetta dei media
Da Te@tri nella rete di Maia Borelli e Nicola Savarese, Carocci, Roma, 2004
di Nicola Savarese

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and60
 
Il corpo tra oriente e occidente
Danza di Confine. 2° Festival di Assoli Butoh
di Alessandra Giuntoni

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and65
 
Le recensioni di "ateatro": Bersaglio su Molly Bloom
Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and69
 
Le recensioni di "ateatro": TRIO PARTY – Marcido in Beckett’s love
Un spettacolo di Marco Isidori dall’opera di Samuel Beckett
di Andrea Balzola

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and70
 
Le recensioni di "ateatro": Rebus per Ada
di Fanny & Alexander-A. Zapruder Filmakersgroup per Riccione TTV expanded theatre
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and71
 
Le recensioni di "ateatro": 1968
Progetto e regia di Serena Sinigaglia
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and72
 
Le recensioni di "ateatro": Quando l’uomo principale è una donna
di Jan Fabre con Lisbeth Gruwez
di Pietro Gaglianò

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and73
 
Le recensioni di "ateatro": Il cielo degli altri
Regia di César Brie, Teatro del Setaccio
di Fernando Marchiori

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and74
 
I Premi della Critica Teatrale 2004
Consegnati a Napoli il 29 maggio
di Associazione Nazionale dei Critici di Teatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and80
 
Perché un artista può essere preso per un terrorista dall'FBI?
L'arresto di Steve Kurtz del Critical Art Ensemble
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and82
 
L’Orestea di Gibellina (Capitta sulle Orestiadi 2004)
L'edizione 2004
di Gianfranco Capitta

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and83
 
Per un pugno di applausi? (Calbi su Teatri dello Sport 2004)
Teatri dello Sport 2004
di Antonio Calbi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and84
 
Le telestreet italiane in un evento-incontro a Monaco
MediaDemocracy and Telestreet
di Tatiana Bazzichelli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro70.htm#70and87
 

 

Videoteatro, stabili e Olimpiadi
L'editoriale di ateatro 70
di Redazione ateatro

 

Fin dagli inizi una delle vocazioni di ateatro è stata quello di offrire uno spazio aperto di discussione e riflessione sui problemi del teatro. Questo ateatro 70 prova ad approfondire e invitare al dibattito su diverse linee.
Un primo spunto arriva all’ultimo TTV expanded theatre, che si è chiuso con il polemico comunicato della giuria sui criteri della commissione di selezione del Concorso Italia. Al di là dell’occasione specifica, le difficoltà dell’importante rassegna romagnola (l’unica manifestazione di livello internazionale dedicata al videoteatro) fanno emergere alcune questioni irrisolte. Riguardano in primo luogo la definizione stessa di videoteatro (e di expanded theatre, ovviamente) e implicitamente la possibilità e la necessità di definire e catalogare diversi generi e sottogeneri; ancora, l’opportunità di accorpare tutte le opere «made in Italy» in un unico concorso-contenitore, indipendentemente dalle modalità di produzione (si va dai video autoprodotti alle produzioni delle grandi reti televisive) e a prescindere alla destinazione (dalle reti generaliste alla documentazione a uso interno). Senza dimenticare che in questa fase gli incroci e le contaminazioni appaiono sempre più numerosi e imprevedibili (come peraltro hanno dimostrato i lavori prodotti e ospitati proprio in questo Riccione TTV). Sono tematiche che, all’interno di ateatro, la sezione tnm curata da Anna Maria Monteverdi esplora e approfondisce da sempre. Dunque ci è sembrato naturale accogliere l’invito della direzione di Riccione TTV: abbiamo raccolto un ampio dossier e aperto uno spazio alla discussione.
Un secondo fronte riguarda la situazione dei teatri stabili pubblici, che hanno nominato al loro vertice il direttore dello Stabile del Veneto Luca De Fusco: una decisione che ha suscitato qualche resistenza e un abbozzo di dibattito. Anche in questo caso, cerchiamo di portare la discussione fuori dalle segrete stanze, «all’aperto» (grazie al puntuale intervento di Mimma Gallina), in modo che diventi possibile comprendere i termini della questione.
Terzo, una ingenua proposta. E’ rivolta al più geniale regista italiano, Luca Ronconi, che per le prossime Olimpiadi di Torino dovrà allestire cinque spettacoli cinque (con un budget che dovrebbe oscillare tra i 5 e gli 8 milioni di euro, con un investimento inedito per le nostre scalcagnate scene). Se la cosa vi incuriosisce e la proposta non vi risulta così strampalata (ma anche se non vi sembra praticabile), potete ovviamente commentare e/o aderire nel forum Nuovo teatro vecchie istituzioni.
Non c’è solo questo, in ateatro 70, perché vi regaliamo (sì, è tutto gratis) recensioni, approfondimenti & informazioni. A propo, se non l’avete ancora fatto, guardatevi la notizia sul Critical Art Ensemble: è ridicola e agghiacciante.
Infine c’è una grande novità nel sito: una apposita sezione (uno strepitoso database) con i programmi dei festival dell’estate, con le date e informazioni sugli spettacoli.
Insomma, leggete leggete leggete (e intervenite intervenite intervenite: senza il confronto con i suoi visitatori, senza il loro contributo, un sito come www.ateatro.it perde gran parte della sua forza ed efficacia.


 


 

Luca De Fusco guida gli stabili
E Angela Spocci va all'INDA? Ma allora all'ETI chi ci va?
di Redazione ateatro

 

L’assemblea dell’Antad, l’associazione che riunisce i teatri stabili pubblici, ha eletto il suo nuovo presidente: è Luca De Fusco, dal 2000 direttore dello Stabile del Veneto. La nomina era nell'aria da tempo, visto lo sbando della sinistra culturale e soprattutto il legame tra il regista e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta. Carlo Repetti (direttore dello Stabile di Genova) e Renato Galeazzi (presidente dello Stabile delle Marche e deputato DS) sono stati eletti vicepresidenti, mentre Laura Barbiani (presidente dello Stabile del Veneto), Luigi Mahony (presidente dello Stabile di Brescia, che faceva parte del Collegio dei Revisori dei Conti già nel precente Direttivo) e Maria Giovanna Figoli (architetto, presidente dello Stabile di Genova, faceva parte del Collegio precedente) sono i nuovi revisori dei conti.
Si parla anche con una certa insistenza di un cambio al vertice dell’Inda: su una poltrona riservata fino a poco tempo fa «a un grecista di chiara fama» dovrebbe sedersi Angela Spocci, che dopo la bella prova di sé data all’Eti merita senz’altro un altro incarico di prestigio.
E al posto di Angelo Spocci all'Eti? Si parla di Emanuele Banterle, regista (ha portato al debutto molti testi di Testori), considerato vicino a Comunione e Liberazione, fondatore del Teatro degli Incamminati, attualmente consigliere di amministrazione del Piccolo Teatro nonché direttore artistico del teatro Giuditta Pasta di Saronno.


 


 

Abbiamo toccato il fondo?
Le nuove nomine del direttivo degli stabili pubblici
di Mimma Gallina

 

Lo si diceva già in «Hystrio» Dossier"Retroscena n. 2: il maggior nemico del teatro pubblico sta nel teatro pubblico stesso.
La nomina di De Fusco (detto simpaticamente ma non sappiamo quanto apertamente «De Fiasco») a presidente ANTAD, al posto cioè che fu di Grassi e Chiesa all’epoca in cui gli stabili pubblici (anzi, gli Stabili tout court) si potevano considerare un movimento – o quando almeno si battevano con la convinzione di essere senza ombra di dubbio (e senza libri bianchi a certificarlo) la punta di diamante del sistema teatrale nazionale – è sconcertante.
Non avremmo proprio nulla da ridire sul direttore del Teatro Stabile del Veneto, se operasse con la diligenza e l'umiltà di molti in altre aree del teatro, ma sappiamo di essere in buona compagnia (insomma, in linea con la maggioranza ancorché silenziosa, per una volta) considerandolo impresentabile per questo ruolo: come (non certo esimio) regista, come (non)tecnico, come uomo di (troppa scarsa) esperienza nel settore, per la (dichiarata: neppure un po' discreta) «appartenza» politica. E non basta certo a smussare il marchio governativo il gruppo dei vicepresidenti e revisori che lo circonda (di varia provenienza e appartenenza, e di diverse e impegnative aree professionali). Chi sa ad esempio se si sarà accorto di fare un po' da foglia di fico l'autorevole medico, nonché ottimo sindaco di Ancona per due legislature, nonché deputato DS, Renato Galeazzi (vicepresidente new entry): forse pensa solo di fare l'interesse del suo giovane teatro.
La chiave di lettura però non è solo politica (e forse neppure prevalentemente politica, se non in quanto la dequalificazione delle rappresentanze è uno dei disastri della deriva berlusconiana, in tutti campi). Il problema è di classe dirigente. Ovvero: è possibile che il teatro pubblico oggi non sia in grado di esprimere personalità rappresentative sul piano culturale, o davvero competenti a livello tecnico-politico (si tratta anche di discutere CCNL e battagliare con il ministero), e insomma all'altezza della sua storia? E' possibile, evidentemente. Oppure, se queste personalità ci sono, è probabile che non siano disponibili a guidare l'associazione in questa fase, senza una approfondita riflessione, senza una strategia.
Per quanto non eccessivamente discussa e combattuta, la nomina di De Fusco e degli altri non è stata del tutto scontata. Franco Ruggieri (direttore del Teatro dell'Umbria e per alcuni anni presidente dell'associazione) aveva chiesto che non si procedesse all'elezione del nuovo ufficio della Presidenza Antad in assenza di un dibattito serio e approfondito sulla situazione del teatro pubblico in Italia: «Questo anche in considerazione del fatto che veniamo da un biennio in cui l'intervento finanziario dello Stato assume sempre più caratteri di incertezza e indeterminatezza, tant'è che a oggi i diversi soggetti non sanno se e in che misura saranno finanziati per le attività in gran parte già svolte, in una situazione di ritardi molto gravi nell'erogazione dei fondi ed avendo aumentato gli oneri e i compiti dei teatri stabili pubblici. Oltretutto il finanziamento dello stato è ormai fermo da tanti anni ed è sempre più percentualmente limitato nel bilancio del teatro pubblico. Occorre perciò ragionare e porre tali serie problematiche nell'ambito di una piattaforma politico-rivendicativa gestita da una Presidenza autorevole. Non avendo riscontrato nessuno di questi elementi nel dibattito che c'è stato, ho chiesto dapprima il rinvio e, non avendolo ottenuto, non ho votato il nuovo gruppo dirigente». Ruggieri non era isolato: sappiamo ad esempio dei malumori molto precisamente esternati da Sandro Bertini (il presidente del Metastasio). Perché questa fretta, quando una pausa di riflessione sarebbe stata più opportuna? Incombevano le elezioni, probabilmente (ovvero: si è agito in base all’aurea regola «Occupiamo tutti i posti possibili prima che cambi il vento», spesso adottata anche dal centrosinistra). Ma potrebbe aver inciso anche il fatto che questa nomina può rafforzare De Fusco, non poi così solido in Veneto (con il comune di centrosinistra che non perde occasione per attaccarlo): è un'illazione certo, ma ci sono precedenti analoghi, e come si sa a pensar male qualche volta ci si azzecca. E perché, come riteneva ad esempio Pietro Valenti di Emilia Romagna Teatro, non allargare il consiglio di presidenza e renderlo più rappresentativo a livello territoriale e delle diverse vocazioni dei vari stabili pubblici, alleggerendo fra l'altro il lavoro – davvero improbo, se fatto bene – del presidente in carica? (a mio personalissimo parere una buona soluzione sarebbe la presidenza a rotazione: ma pare che funzioni solo per l’Europa).
La nuova dirigenza del resto è stata nominata solo da un pugno di presenti; fra gli assenti – o presenti con una lettera molto chiara e dura come nel caso di Sergio Escobar (di cui purtroppo abbiamo solo sentito parlare) – si contavano alcuni dei teatri maggiori, come Milano, Roma, Torino e delle personalità più significative, come Cesare Lievi, Walter Le Moli, Giorgio Albertazzi o Oberdan Forlenza.
Per completezza di informazione è utile segnalare come «obiettivo della nuova presidenza l'avvio di un confronto allargato sull'identità del teatro pubblico, fra la funzione naturale di associazione di categoria e la vocazione culturale di "teatro d'arte", nell'ottica di una sempre più incisiva interlocuzione con le istituzioni, centrali e locali, e di una riaffermazione del ruolo assicurato dalla stabilità pubblica attraverso un'adeguata campagna di immagine. Tra i prossimi appuntamenti, la realizzazione di un "libro bianco" che attesti il volume dell'attività e lo standard qualitativo dei teatri stabili, un'iniziativa pubblica di presentazione dei cartelloni e un convegno dedicato al ricordo di Ivo Chiesa, grande protagonista del teatro italiano». Basterà il fantasma di Chiesa a risollevare le sorti e l'immagine del teatro pubblico? Sarà sufficiente a far ritrovare l'identità a questo gruppo eterogeneo e sbandato? In nuovo vertice dell'associazione sarà in grado di valutare lo «standard qualitativo» degli stabili pubblici? (Magari ci penserà De Fusco con Letta mentre meditano sui prossimi Premi Olimpici). E questa qualità, sommata al «volume di attività» sarà tale da avvalorare con credibilità a richiesta di maggiori finanziamenti?
Non solo di soldi e di bassa cucina si tratta (si potrebbe trattare), per fortuna. Qui si tratta di immaginare e praticare una politica vera (il teatro pubblico ha qualcosa da dire, magari di non conservatore, nel dibattito istituzionale in atto, fra Stato e Regioni?). DI lavorare sui contenuti. Massimo Luconi, direttore del Teatro Metastasio di Prato-Stabile della Toscana, rivendica la diversità e la ricchezza culturale del settore: «L'Antad deve trovare o ritrovare una forza di aggregazione intorno alla migliore energia del teatro pubblico con un ruolo anche culturale di discussione. Io e molti colleghi auspichiamo che si possa aprire una fase nuova, dove le migliori qualità del lavoro del teatro pubblico si incontrino per progettare e elaborare nuovi percorsi e nuove metodologie organizzative». Da anni e da più parti le forze migliori del settore discutono anche di forme di aggregazione diverse, esterne all'AGIS, che recuperino il senso della missione storica in una dimensione contemporanea, anche dialogando con altre aree del teatro. Lasciando forse all'ANTAD la rappresentanza sindacale e tecnica. Forse è la strada giusta. E ora che si sta toccando il fondo, magari è l’occasione buona per risalire.

Altre considerazioni e approfondimenti sul prossimo numero di «Hystrio/Retroscena»


 


 

Lettera aperta a Luca Ronconi
A proposito degli spettacoli per le Olimpiadi di Torino 2006
di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino

 

Caro Luca, il suggerimento che segue potrà sembrare ingenuo o forse provocatorio: invece è una proposta su cui abbiamo meditato e che non ci sembra del tutto balzana. Dei progetti per Torino/Olimpiadi 2006 si è scritto molto, anche se non sappiamo gran che degli spettacoli che realizzerai in quell’occasione. Perché finora si è parlato soprattutto di soldi: i cinque, sette o otto miliardi di euro (a seconda delle fonti) destinati un progetto articolato, che ti vede artefice unico, e che, se abbiamo capito bene, prevede l'allestimento di cinque diversi spettacoli in altrettante sedi: cinque luoghi «simbolici» di una città che è diventata anche simbolo della fine o della trasformazione dell'era industriale. In linea con alcune delle tue ricerche più recenti, questi spettacoli-evento tratteranno temi di carattere scientifico, filosofico, economico, intrecciando il linguaggio del teatro con altri «generi», linguaggi, discipline. E’ una direzione di ricerca che abbiamo apprezzato e continuiamo ad apprezzare, e che ci pare trovare eco in altre esperienza della scena contemporanea.
Il programma è interessante anche per l'impostazione organizzativa: ogni produzione – se abbiamo capito bene – si appoggia a un teatro/ente coproduttore, che ospiterà la fase preparatoria dei diversi progetti nel corso del 2005, per poi presentarli, nella versione finale, dopo il debutto torinese. Precisiamo subito che non siamo «pauperisti»: non entriamo dunque nel merito del costo del progetto, che evidentemente corrisponde alle necessità del lavoro. Oltretutto sappiamo bene che, come per Infinities, nel budget vanno previsti i costi di approntamento degli spazi, nessuno dei quali è già teatrale (e questo è un ulteriore elemento di interesse). E restiamo ammirati dalla tua ben nota – ma sempre straordinaria e sorprendente, o se preferisci felice – capacità produttiva (anche perché, oltre ai cinque spettacoli torinesi, nei prossimi anni ne allestirai anche altri, da Milano a Roma...).
Ciò nonostante ci permettiamo farti la nostra modesta proposta.
Se invece di cinque spettacoli a Torino tu ne facessi solo quattro? Se i mezzi destinati al quinto progetto li mettessi a disposizione di altri?
Non altri qualsiasi, ovviamente, ma persone e progetti scelti da te, sulla stessa linea di pensiero e di lavoro, che ti accompagnino in questa nuova avventura. Ci sono in Italia diversi artisti giovani (e magari meno giovani) cui non mancano le idee, le capacità, la buona volontà: ma a loro mancano mezzi (soldi). E' probabilmente vero che il genio emerge comunque, in ricchezza e in povertà, ma con quale fatica! I pochi mezzi a disposizione il teatro italiano tende insieme a disperderli in mille rivoli e a concentrarli su pochi (che se lo meritino o meno). Il sistema del teatro pubblico non offre opportunità serie di ricambio generazionale e di ricerca – se non molto di rado. I festival hanno budget risicatissimi, oppure rincorrono eventi. E se dal circuito internazionale ci arriva la notizia che il nostro teatro non è poi così male, l'accesso è circoscritto a specifici linguaggi, internazionali appunto (ci riferiamo anche alla tua conversazione con Quadri su «Repubblica» del 25 marzo): gruppi e spettacoli che se spesso rappresentano punte di eccellenza, non di rado si modellano sulle regole dell'import-export. E se queste sono le tendenze di sempre, aggiungi che la deriva politica culturale del nostro paese ha chiuso e sta chiudendo ulteriori spazi. I tempi per mettere a fuoco e valutare i progetti ci sarebbero (e i progetti interessanti, ne siamo certi, non mancherebbero). Supponiamo – da spettatori informati – che diversi artisti stiano attualmente lavorando su percorsi affini, e che dunque la coerenza generale dell’iniziativa sarebbe salvaguardata. E siamo convinti che il tuo impegno nella scelta degli artisti e dei lavori costituirebbe una garanzia per i partner (Enti locali, comitato olimpico, teatro stabile), incuriosirebbe stampa e pubblico, sarebbe apprezzata a livello sia locale sia internazionale.
Una apertura di questo genere, oltretutto, ben corrisponde alla tua autentica vocazione pedagogica, a una costante attenzione ai giovani e alla formazione che si è concretizzata in diverse occasioni: in scuole, corsi di teatro, masterclass, e soprattutto nelle compagnie che hai formato.
Non si tratterebbe solo un bel gesto, ma anche di arricchire un progetto già articolato con alcune ipotesi di lavoro diverse. La quota di risorse da dirottare in questa direzione, anche nell'ipotesi minima (se il teatro stabile non caricasse troppo le spese generali, s'intende), sarebbe comunque eccezionale rispetto agli standard produttivi «indipendenti».
Siamo certamente ingenui, parliamo a titolo personale, non avendo alle spalle né istituzioni né pulpiti autorevoli. Probabilmente – per mille ragioni pratiche che non stentiamo a immaginare – la nostra proposta sarà difficilmente praticabile. E tuttavia ci sembra che un impegno come quello profuso per «teatralizzare» le prossime Olimpiadi meriti almeno una riflessione.
Buon lavoro e a presto

Mimma Gallina
Oliviero Ponte di Pino

(si raccolgono adesioni) nel forum NTVI)


 


 

Riccione TTV premi e polemiche
Su tnm uno spazio di discussione su videoteatro & expanded theatre
di Redazione ateatro

 

Si è conclusa domenica 30 maggio l’edizione 2004 di Riccione TTV, con una cerimonia di (non)premiazione ravvivata da qualche polemica.
Da non perdere, in questa tornata della rassegna, alcune installazioni (in particolare in ateatro 70 torneremo su Room dei Motus e Ada, cronaca familiare. Rebus per Ada di Fanny & Alexander-A. Zapruder filmakersgroup, mentre della personale di Giacomo Verde e del film Resist di Dirk Szuzies abbiamo già dato ampiamente conto in ateatro 69).
Per quanto riguarda le polemiche, riguardano soprattutto il lavoro della commissione che ha selezionato i video del Concorso Italia, che la giuria dello stesso Concorso ha pubblicamente messo in discussione.
Al di là delle singole posizioni, riteniamo che il disagio che ha segnato questa edizione del Concorso Italia rifletta un più generale stato di difficoltà del settore. E’ molto difficile oggi capire che cosa possa essere, per esempio, il videoteatro, e attraverso quali categorie possa essere storicizzato, analizzato e catalogato (e dunque come possa essere selezionato ed eventualmente premiato-segnalato). Ma le questioni aperte sono numerose e si moltiplicano immediatamente. Quali possono essere i luoghi e le forme che possono assumere oggi le nuove forme di expanded theatre? E sul fronte della documentazione, quale teatro o quali teatri ha senso documentare, e in quali forme?
Inoltre va riconosciuto che la maggior parte dei video made in Italy sono autoprodotti: ancora non esiste, in pratica, un mercato (o una destinazione possibile), e dunque si tratta molto spesso di prodotti poveri (finanziariamente e tecnicamente), senza reali possibilità di approfondimento e sperimentazione.
Ma non ci sono solo ombre. In accademie, DAMS e università si stanno moltiplicando corsi e laboratori dedicati al multimediale (e dunque anche potenzialmente all’expanded theatre che campeggiava nell’insegna di questo TTV). Inoltre molti gruppi utilizzano da tempo nel loro lavoro le nuove tecnologie in maniera creativa – a cominciare proprio dalle realtà prodotte da questo TTV.
Dunque, proprio pensando a queste difficoltà ma soprattutto alle possibilità di sviluppo del settore, d’accordo con la direzione di TTV abbiamo pensato di aprire su tnm uno spazio di documentazione e discussione su questi temi.
Per cominciare abbiamo raccolto alcuni materiali che possono fornire qualche spunto di riflessione e chiarire i termini della questione:
# il comunicato finale del festival;
# l’introduzione della commissione di selezione del Concorso Italia (Fabio Acca, Daniele Del Pozzo, Erica Magris, Andrea Nanni);
#
il verbale della giuria (Ciro Giorgini, presidente, Carlo Antonelli, Gioia Costa, Sandra Lischi, Giacomo Verde, Valentina Pellitteri segretaria);
# la lettera del direttore Fabio Bruschi che accompagnava il bando.
# Sono stato io! It was all my fault!: la lettera del direttore Fabio Bruschi ai collaboratori di TTV Festival, ai membri della commissione e alla giuria del Concorso Italia sul dopo-festival.

Online sul blog di Giacomo Verde il suo diario nei giorni in cui ha fatto parte della giuria di Riccione TTV.

Abbiamo aperto un thread nel forum Vecchio teatro nuove istituzioni: la discussione è aperta a tutti, aspettiamo i vostri interventi.
Sui prossimi numeri di ateatro raccoglieremo e pubblicheremo ulteriori contributi alla discussione.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Conclusa la 17° edizione di TTV Festival
Il comunicato stampa finale
di Riccione TTV

 

TTV/ EXPANDED THEATRE

17a EDIZIONE
Riccione 26-30 maggio 2004

Conclusa la 17° edizione di TTV Festival

Domenica 30 maggio 2004 si è conclusa, con ampio successo di pubblico e vasta attenzione da parte degli organi di informazione nazionali e locali, la 17° edizione di TTV, Festival dedicato a danza, musica e teatro su film, video e nuovi media, che si è svolto a Riccione dal 26 al 30 maggio.

La direzione artistica del TTV ha assegnato il PREMIO RICCIONE TTV 2004 per il miglior programma televisivo di spettacolo ad Antonio Albanese per la trasmissione Non c’è problema - programmato dalla terza rete RAI nell’ inverno 2003 - con la seguente motivazione:
"Il pubblico televisivo dei primi anni Novanta impara a riconoscere e ad amare Antonio Albanese per le sue apparizioni in programmi nei quali presenta una galleria di personaggi indimenticabili, costruiti con accurata e simpatetica osservazione e talento compositivo; la sua formazione teatrale si rivela in particolare nella centralità e precisione del suo lavoro sul corpo. Successivamente, con Non c’è problema, Antonio Albanese sperimenta per la prima volta una tv a sua immagine, una sorta di "contro-varietà da camera" con mille personaggi per tre attori: oltre allo stesso Albanese gli eccellenti Emanuela Grimalda e Nicola Rignanese.
Ne è risultata una trasmissione che, dalla sigla di inizio al tormentone di chiusura, è risultata benissimo costruita, sperimentale e solida al tempo stesso , caratterizzata dall’invenzione di maschere di quella stralunata, temibile, nuova commedia dell’arte del nostro orrore quotidiano".



Nessun vincitore per il PREMIO RICCIONE TTV 2004- CONCORSO ITALIA, ma tre segnalazioni: Jack e il fagiolo magico di Bruna Gambarelli e Lino Greco, Roccu di Anna de Manincor e Le ore di Danilo Conti.

La giuria, composta dal presidente Ciro Giorgini, collaboratore di Fuori Orario di Rai 3, Gioia Costa, direttrice del festival esplor/azioni, Giacomo Verde, video artista e teatrante, Sandra Lischi saggista e codirettrice della rassegna internazionale In Video e Carlo Antonelli giornalista e direttore di Rolling Stone, all’unanimità ha così motivato le proprie scelte:

Jack e il fagiolo magico di Bruna Gambarelli e Lino Greco: per la gradevole compresenza di elementi diversi e l'interessante composizione visiva, che combina con leggerezza, repertori anche lontani tra loro.
Roccu di Anna de Manincor: per le qualità ritmiche e formali del montaggio, la grazia e l'essenzialità del linguaggio video e audio in rapporto ai contenuti.
Le ore di Danilo Conti: per la libera irriverenza del tessuto narrativo, per l'imprevedibilità dello spostamento del centro visivo, per l'uso controllato e non lezioso delle immagini slabbrate e artificiali.



Il TTV Festival, prodotto e organizzato da Riccione Teatro, associazione culturale costituta dal Comune di Riccione e dalla Provincia di Rimini, ha avuto il patrocinio del Comune di Riccione, della Provincia di Rimini (Assessorato alla Cultura, Assessorato al Turismo), dell’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia Romagna e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Il Festival ha inoltre avuto il contributo del Goethe Institut Mailand, della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma e dell’Ambasciata del Canada a Roma. Media partner: Cult Network Italia.
Benetton, da sempre attenta alle realtà espressive artistiche dei giovani è stata lieta di partecipare a questa importante rassegna internazionale, in collaborazione con i Dipartimenti Cinema e Video di Fabrica, il Centro di ricerca sulla comunicazione del gruppo.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Concorso Italia 123
Dal catalogo di Riccione TTV 2004
di Fabio Acca, Daniele Del Pozzo, Erica Magris, Andrea Nanni

 

La generazione degli anni Novanta, che aveva saputo dialogare efficacemente con quello che potremmo definire "lo spazio della visione e dei suoi formati", sembra avere lasciato un vuoto proprio nel momento della sua definitiva storicizzazione.
Il Concorso Italia e Riccione TTV hanno sicuramente fornito a questa generazione – e non solo – alcuni spunti e ipotesi di lavoro, le hanno costruito intorno un’importante piattaforma di indagine, rigorosa ed esclusiva, proprio nell’idea di individuare il teatro come terreno elettivo di un polimorfismo produttivo, in cui coniugare le spinte creative della scena sperimentale con le emergenze dell’immaginario visivo. Un ambiente che negli anni si è configurato anche come discorso critico su quella "zona del desiderio" che fin dagli anni Ottanta ha saputo (e voluto) connotarsi come dimensione necessaria al teatro di ricerca, anche in termini semplicemente produttivi.
Oggi, pur con alcune felici e necessarie eccezioni che permettono ancora di pensare il teatro come l’antitesi di una realtà artistica integrata e chiusa, e per quanto il Concorso possa fornire una mappatura esaustiva delle tensioni creative che innervano la scena teatrale odierna, siamo di fronte alla cronicizzazione di un linguaggio ricreato come prolungamento del pensiero postmoderno.
Dell’effervescenza che aveva caratterizzato gli anni Novanta rimangono per lo più i segni di una stratificazione di scorie, rimandando così ai dubbi sollevati in passato in sede critica, quando si discuteva del pericolo di consumare il gesto artistico nei ritmi compulsivi di un’esaltazione acritica del presente, sulla sua immediata mitologizzazione, sul progressismo tecnologico, sull’invariabile escoriazione del contenuto, permutando infallibilmente e arbitrariamente la logica del senso con le poetiche dell’immagine.
Già dagli anni Ottanta – che non mancano ovviamente di essere volgarmente ostentati dalle cicliche riesposizioni della storia come cadavere "sublime", in una giostra che del passato consuma ogni suo miserevole interstizio – Maurizio Grande affilava il proprio discorso sulla sperimentazione teatrale, imputandole una deriva per la quale la ricerca si concentrava in maniera patologica sull’afasia storica. Di questo processo, il panorama del Concorso fa inconsapevolmente proprio il rapporto di esclusione definitiva delle forme da qualsiasi necessità storica, quasi fosse in atto un pericoloso moto di "presentificazione", che esclude non solo il dialogo con i maestri, ma la storia tout court, lasciando disattesa una riflessione affatto marginale di Giorgio Agamben, secondo il quale "l’avanguardia, quando è cosciente, non è mai rivolta al futuro, ma è estremo sforzo di ritrovare un rapporto col passato". Più volte si è parlato della generazione del decennio scorso come di una generazione senza maestri, eppure questa sembrava essere una strada ancora percorribile, a tratti anche esaltante sul piano squisitamente formale, se non altro per una riformulazione dei rapporti tra la drammaturgia dello spettacolo e l’uso inedito delle proprie fonti. Così era stato possibile anche un momento di sincera vibrazione creativa, in cui gli artisti avevano saputo coltivare le proprie ossessioni con estro e spavalderia, pur nell’accelerazione del privato. Ma ecco che lo scenario di questa edizione del Concorso Italia fa di questo privato un "privatissimo". Il riverbero della storia permane come breve allusione, o piccola, patetica ironia. Soprattutto nelle produzioni indipendenti, l’universo critico di riferimento ha, il più delle volte, il carattere di una patologia isolazionista: è la camera da letto, o la cucina, forse il bagno, in cui i sospiri, gli ansimi, i colpi di tosse, i gargarismi segnano la pregnanza dell’unico evento capace di fare storia (di quale evento si tratti nello specifico poco importa, uno vale l’altro). Un universo fatto di pretesti, di balbuzie spacciate per dissertazioni sullo stato dell’arte. D’altro canto, la gran parte delle produzioni istituzionalmente accreditate, quelle dei canali televisivi, sembra tentare una riappropriazione della dimensione pubblica con risultati scontati e retorici: da un lato il rapporto con la realtà urbana diventa il terreno di esercizi stanchi e ingenui, dall’altro la trasposizione video dello spettacolo sembra cercare una sorta di legittimazione attraverso l’inserimento, ripetitivo e insensibile al ritmo, di immagini documentarie, in una generale tendenza all’appiattimento del teatro televisivo al registro del documentario storico.
Mutatis mutandis, rieccoci dunque agli esiti della comunicazione scambiata per cultura. Alla diffusione capillare dei mezzi e delle pratiche di drammaturgia della visione, che segnano sempre più violentemente la percezione degli eventi, del mondo e di quel corpo che dovrebbe esserne il termine di esperienza, corrisponde oggi nella comunità teatrale che si affaccia alla metà del decennio un profondo e dilagante analfabetismo. Non è bastato dunque il democratico accesso al gesto più creativo del Novecento – il montaggio – per garantire una creazione originale congiunta alla scelta stilistica del teatro.
Gli artisti di questa ondata sembrano le vittime predestinate di una nuova ideologia parallela, la comunicazione, che quando non è direttamente riferita alla "sensologia" dello spettatore modello, gioca sterilmente a nascondino, congelando quello che un tempo si chiamava "rarefazione" in un vero e proprio annichilimento. Tanto pervasiva ed efficiente sul piano della volgarizzazione dei linguaggi, quanto capace di ammutolire e sotterrare le necessità dell’arte. In modo del tutto identico, un tempo si credeva che la lingua italiana potesse, tramite la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (la televisione in testa), entrare nella case di tutti gli italiani, imporsi come lingua. La realtà è invece una metalingua impoverita, fatta di slogan, jingle, battute, coniata sulle ombre di una tradizione e rafforzata verso il basso da un impoverimento del vocabolario.
In questo paesaggio francamente desolante, sebbene non manchino alcuni slanci originali, le scelte della commissione di selezione appaiono motivate in parte da una provocazione, in parte come conferma di una qualità che tuttavia si inserisce in una prospettiva sconnessa, informe, priva di una rete che connetta uno con l’altro gli artisti presenti.
Così Libere, di Paola Columba, scavalca la pur presente acerbità Concorso Italia 124 e demagogia del dato visivo in favore della verità sensuale delle protagoniste, liberando le contraddizioni di un’esperienza teatrale in carcere; mentre Luparella, di Giuseppe Bertolucci dall’omonimo spettacolo di Enzo Moscato, trascrive con grazia ed eleganza il sentiero teatrale originario, costruito sulla memoria di una napoletanità crudele e a tratti oleografica, sull’orlo di una rinascita neorealista. A questi lavori, a loro modo generosi, si contrappongono quelli di Fabrizio Arcuri (Ex proclama e martirio) e Danilo Conti (Le ore), per la volontà di isolare la creazione all’interno di un circuito formale gelido e autorappresentativo, quasi fossero, a diverso titolo, le lapidi poste sui rispettivi generi di riferimento, teatro e danza. Eizel. Di cosa è fatto un teatro, di Stefano Massari, riconduce la memoria di uno dei tragitti teatrali più fortunati degli ultimi anni, quello del Teatro delle Ariette, collocandosi in quella linea di confine tra documentario e creazione originale: con un uso lirico dei documenti visivi, elabora liberamente le immagini come fossero accostamenti di materia, non aggredendo le figure esposte, bensì attendendo una loro conciliazione con le forme e le luci. Postanovscik di Masque Teatro, Diario di parole di Nick Rebès e Jack e il fagiolo magico di Lino Greco e Bruna Gambarelli individuano, ciascuno a suo modo, soluzioni particolari per riconfigurare la materia autonoma e conclusa dello spettacolo da cui traggono origine.
In Postanovscik la regia video si interroga sulla presenza necessaria, e particolarmente esigente, dello spettatore, assegnandogli il punto di vista privilegiato di una videocamera che lo immerge all’interno della scena, vicino ai volti, ai corpi e alla materia che ne sostanzia la forma. In Diario di parole le azioni che compongono lo spettacolo sono documentate con una fotografia in bianco e nero che rimanda a esperienze di happening delle avanguardie degli anni Sessanta, mentre il ritmo del video è scandito da ripetuti fermo immagine a colori e dalla lettura cadenzata delle stesse parole che, come in una partitura visiva, compaiono sulle pareti della scena. Jack e il fagiolo magico ripropone sulla traccia narrativa della fiaba un modello di racconto per visioni, in cui le immagini tratte dallo spettacolo di Laminarie riprendono sia l’azione scenica che l’insieme dello spazio teatrale con il pubblico, fungendo da bussola per un duplice viaggio, che lo spettatore video percorre attraverso il tragitto compiuto dal protagonista nella fiaba e attraverso il percorso di attori e spettatori nell’evento teatrale. Infine Roccu, di Anna de Manincor, rappresenta forse l’unica continuità reale del Concorso con il suo recente passato. In questo lavoro la regista alimenta i perimetri astratti in cui agiscono i corpi dei due danzatori della compagnia Le Supplici e, pur rimanendo fedele ai propri feticci, esalta le proporzioni del movimento attraverso brevi cenni della telecamera, reiterazioni ritmiche e un uso analitico del montaggio. Un esempio di come integrare la propria personalità registica con la qualità delle fonti.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Il verbale della giuria
Premio Riccione TTV-Concorso Italia
di Ciro Giorgini, Carlo Antonelli, Gioia Costa, Sandra Lischi, Giacomo Verde, Valentina Pellitteri

 

TTV Festival - 17a edizione, 2004
Ottava edizione del Premio Riccione TTV-Concorso Italia
Verbale della giuria
Riccione, 29 maggio 2004

La giuria dell’ottavo Premio Riccione TTV – Concorso Italia composta da Ciro Giorgini, presidente, Carlo Antonelli, Gioia Costa, Sandra Lischi, Giacomo Verde, Valentina Pellitteri segretaria, dopo aver visionato gli appena nove video proposti dalla commissione di selezione sugli oltre centoventi pervenuti per il Concorso Italia, si rammarica per non aver potuto valutare un campione più rappresentativo delle tendenze nazionali. Notando la provenienza, a vario titolo, di sei prodotti su nove dalla medesima area geografico-culturale esprime la propria perplessità sui criteri di scelta e di esclusione adottati dalla commissione selezionatrice.
Questo elemento, unito alla non eccellenza delle opere finaliste, ha portato la giuria alla decisione unanime di non assegnare alcun premio, limitandosi a rilevare gli aspetti positivi di tre dei lavori visionati.

Jack e il fagiolo magico di Bruna Gambarelli e Lino Greco: per la gradevole compresenza di elementi diversi e l'interessante composizione visiva che combina con leggerezza repertori anche lontani tra loro.
Roccu di Anna de Manincor: per le qualità ritmiche e formali del montaggio, la grazia e l'essenzialità del linguaggio video e audio in rapporto ai contenuti.
Le ore di Danilo Conti: per la libera irriverenza del tessuto narrativo, per l'imprevedibilità dello spostamento del centro visivo, per l'uso controllato e non lezioso delle immagini slabbrate e artificiali.

Tuttavia, vista la brevità della selezione dei finalisti, la giuria ha voluto documentarsi sul resto dei lavori pervenuti, sorpresa dall'assenza di linguaggi innovativi e di altri territori attraversati dal videoteatro, come la video danza, la documentazione di spettacoli teatrali, il backstage, i laboratori, la video arte e il teatro televisivo; tutti di pertinenza del festival Riccione TTV, unico riferimento nazionale dell'area.

Dopo aver visto per estratti o per intero la totalità delle opere candidate al concorso, la giuria ha rilevato l'esistenza sommersa di una realtà vitale e varia. Esistono infatti autori in grado di modulare le proprie creazioni in funzione delle tecnologie usate o di inventare nuove modalità di rappresentazione del teatro in video.

Di fronte alla puntuale imprevedibilità di trasformazione dei linguaggi del videoteatro la giuria invita all'uso di criteri di selezione più aperti e possibilmente non assistiti da testi con finalità persuasive; suggerisce un maggiore investimento nelle attività di promozione del concorso ed una maggiore curiosità nelle scelte, anche attraverso più ampi ed eterogenei gruppi di valutazione.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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A proposito di TTV Concorso Italia
Una lettera
di Fabio Bruschi Direttore di Riccione TTV Festival

 

Uno dei punti tradizionalmente controversi del Concorso Italia, prima nella fase della selezione, poi nella fase della competizione, è quello che il bando segnala all’articolo 1 come punto centrale del concorso: "l’unico requisito richiesto è che il soggetto del video presentato riguardi il teatro e/o più in generale le arti sceniche"! Ci è stato segnalato in più di una occasione che questa terminologia un po’ vaga (riguardi ecc…) non chiarisca bene quali lavori possono partecipare al concorso e quali no.

Ci si può orientare esaminando la tradizione del festival, ideato nel 1985 da Franco Quadri come un territorio di convergenza (e scontro) tra il teatro e le arti sceniche, i nuovi media e le arti visuali, tradizione che è venuta maturando ben prima del numero zero del Concorso (1995).
Mi pare indubbio che molto spesso la pertinenza ‘teatrale’ di un video o di una installazione derivi dalla biografia teatrale dell’artista o degli artisti che avevano prodotto quell’ opera piuttosto che dall’adesione dell’opera stessa a un genere o a un contenuto ‘teatrale’ più o meno ben definito: non di rado sono stati presentati lavori ‘impertinenti’, che presentavano dimensioni pre o post teatrali, espansioni del teatro in qualcosa d’altro ecc., in continuità con la presenza - nella tradizione del teatro italiano contemporaneo d’arte e ricerca - di un legame forte tra la scena, il mondo delle ‘immagini in movimento’ e le arti visive.

E’ indubbio che questa tradizione produca, nelle opere che arrivano al Concorso Italia, dei margini di ambiguità; tuttavia credo che questa ambiguità sia preferibile a un rigido incasellamento in generi e sottogeneri che dovremmo – dato che fortunatamente questa realtà è in continuo movimento – continuamente inseguire in affanno.

Di conseguenza il bando che il TTV licenzia per questa 17^ edizione del Concorso Italia è sostanzialmente inalterato rispetto alle edizioni precedenti: viene mantenuta la commissione di selezione che avrà il non facile compito di scegliere tra i molti lavori che arrivano a Riccione (circa 150 nella scorsa edizione) i finalisti, che verranno presentati a Riccione dal 26 al 30 maggio, in un contesto che sottolinea la ‘tradizione del nuovo’ del nostro teatro d’arte con Fanny & Alexander, Carloni e Franceschetti, Motus e altri ancora.

Buon 2004 e buon lavoro!

Riccione, 13 gennaio 2004


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Sono stato io! It was all my fault!
Lettera aperta ai collaboratori di TTV Festival, ai componenti della commissione e della giuria del Concorso Italia 2004
di Fabio Bruschi (Direttore di TTV Festival)

 

Ai collaboratori del TTV Festival
Ai componenti della commissione
Ai componenti della giuria del Concorso Italia 2004


Oggetto: Sono stato io! It was all my fault!

La giuria dell’ottavo Premio Riccione TTV – Concorso Italia ha deciso di non assegnare premi ai nove video selezionati dall’apposita commissione (segnalandone tre) ed ha rilasciato una dichiarazione critica nei confronti del lavoro svolto dalla commissione stessa.
Quale direttore responsabile della scorsa edizione del TTV Festival (articolato in Performing Arts on Screen, Bologna, marzo 2004 e Expanded Theatre, Riccione, maggio 2004) devo rispondere di questa situazione, che danneggia innanzitutto gli autori ai quali –obiettivamente- si toglie uno strumento di visibilità, promozione e incentivo alla produzione.
Credo che le responsabilità di questo esito non felice siano soprattutto del direttore e vedo di spiegarmi:
Dal 1985 al 1994 il TTV è stato basato sulla formula: rassegna internazionale/concorso a inviti.
Data la scarsa visibilità che la dimensione internazionale del concorso/festival dava agli autori italiani, nel 1995 -quando mi è stata affidata la direzione artistica del festival- ho proposto di istituire il Concorso Italia riservato ai teatranti e videomaker italiani e al tempo stesso di rafforzare la componente internazionale fuori concorso e in modo diretto, attraverso la presenza al festival di registi di riferimento come Peter Sellars, che presenta per la prima volta in Italia il suo lavoro sui moving images media a Riccione nel 1996.
Dato il numero cospicuo di video italiani in concorso si è imposta da quasi subito la necessità di una commissione di selezione, che da sempre ha svolto i suoi lavori a Bologna, coinvolgendo operatori e situazioni di ‘tendenza’ ruotanti negli anni ‘90 prevalentemente attorno al Link (quello di prima della diaspora).
Si venivano così configurando due diverse tradizioni: la tradizione della commissione, più di tendenza e ‘videoteatrale’, espressa in precedenza dalla situazione bolognese (che era d’altra parte una delle più attive in vari campi in quegli anni sia sul versante della ricerca teatrale che dell’uso innovativo dei media); la tradizione del festival in quanto rassegna di quanto complessivamente accade tra la scena e il mondo delle immagini in movimento, da sempre interessata sia alla dimensione video che a quella televisiva, sia alla ‘tendenza’ della ricerca e della sperimentazione che alla dimensione ‘industriale’ dei programmi d’arte sulle reti televisive generaliste.
Tale pluralità di voci e di provenienze si è mantenuta anche nella edizione 2004 del TTV Festival, dove a Bologna abbiamo presentato film e corti prodotti dalle televisione estere, articolati per generi (teatro, danza, opera) mentre a Riccione abbiamo organizzato la serata ‘televisiva’ con Antonio Albanese, Emanuela Grimalda e Nicola Rignanese (intervistati in pubblico da Oliviero Ponte di Pino) non solo sulla trasmissione culto ‘Non c’è problema’ (Rai 3, 2003) ma anche sul relativo contesto televisivo, teatrale e sociale.
In realtà sia nel 2000 che nel 2002 queste due tradizioni avevano già manifestato una tendenza a collidere: nel 2000 sul versante di tensioni della giuria verso la commissione, nel 2002 con alcuni autori già affermati partecipanti al concorso ed esclusi dalla fase finale.
In queste condizioni credo che avrei dovuto fermare le macchine e arrivare a dei chiarimenti prima di ripartire con il Concorso Italia. Le circostanze non l’hanno permesso: in questi due anni abbiamo dovuto rifondare l’associazione, affrontare due traslochi, cambiare dei collaboratori importanti, insediarci nella nuova sede e iniziarne la sistemazione, mantenere le attività tradizionali (Premio Riccione e Premio Tondelli) e iniziarne di nuove e impegnative (La Stagione del Premio).
Speravo che avremmo potuto doppiare il Capo di Buona Speranza e procedere poi alle necessarie riparazioni e revisioni. Così non è stato e chi ci ha rimesso sono stati soprattutto gli autori che sono – analogamente a quanto facciamo con i premi teatrali – il nostro riferimento principale, l’unico vero ‘editore di riferimento’ che abbiamo. Naturalmente c’è anche molto di positivo nelle attività ‘videoteatrali’ di Riccione Teatro: siamo tra le poche realtà che riescono a dare visibilità sia in Italia che all’estero ai lavori dei videomaker/teatranti; tra i pochi a far circuitare informazioni, a volte essenziali; tra i pochi a lavorare sull’archiviazione, conservazione e catalogazione dei video, garantendone l’accessibilità a ricercatori e artisti.
Questo è quanto volevo dirvi sulla genesi dell’impasse verificatasi all’ultimo Concorso Italia. Mi riprometto di intervenire a breve giro di posta sulla parte propositiva.


 



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Teatro e tecnologia tra Eco o Narciso
Recensione a Te@atri nella rete di Maia Borrelli e Nicola Savarese
di Anna Maria Monteverdi

 

Non è facile districarsi nel mondo dei nuovi media, la cui accelerazione di progresso fa sì che un medium ci superi quando noi abbiamo appena intravisto quello precedente, secondo la cosiddetta sindrome macluhaniana dello "specchietto retrovisore". L'affermazione del cambiamento continuo dovuto alle tecnologie e la complessità dei processi di assorbimento che esse innescano, è stata oggetto di studi sociologici che hanno portato a una "teoria della dinamica dei cambiamenti ciclici" e a una storicizzazione delle progressive ondate di innovazione nel campo della comunicazione, con le relative conseguenze sul piano delle modificazioni degli assetti sociali e comunitari. Contro la teoria del determinismo tecnologico e dell'inevitabilità del progresso, Bolter e Grusin, autori del libri Remediation (1998), ispirati dalle posizioni di Benjamin e Mac Luhan, affermano che i nuovi media ben lontani dall'essere "agenti esterni che intervengono a scompaginare una cultura che sembra ignara di loro" emergono piuttosto dagli stessi contesti culturali, sociali ed economici operando sui vecchi media un processo da loro definito di remediation, di modellamento sulla base delle due caratteristiche fondanti dei new media: l'immediatezza e l'ipermedialità.
Nel volume Te@tri nella rete Maia Borelli e Nicola Savarese ci conducono in un territorio sterminato e intricato fatto di intrecci di media e teatro, di storia e di teoria della tecnica e di tecniche per il teatro con tutte le innumerevoli possibilità di declinazione di questa "relazione pericolosa". Dai data base teatrali alle tecnoperformance alle videocreazioni di argomento teatrale ai film ispirati al teatro.
La storicizzazione di quello che possiamo sinteticamente definire teatro multimediale (o ipermediale, o unimediale o sinmediale; o ancora, teatro aumentato, virtuale, digitale, consapevoli del dibattito in corso anche sul piano terminologico) è legato a studi francesi piuttosto recenti, confluiti in alcuni volumi collettivi curati da Denis Bablet (1995) e Beatrice-Picon Vallin (1998; 2001) e in riviste specializzate ("Théatre/public"; "The Drama Review" "Performing Arts Journal"). In Italia la linea critico-estetica è stata tracciata da Valentina Valentini, Andrea Balzola, Carlo Infante, Emanuele Quinz e Antonio Pizzo, Laura Gemini.
Dopo un primo capitolo dedicato alla scoperte della rivoluzione digitale (seguendo Negroponte, 1995) a firma di Maia Borelli, in cui viene inserito l'evento capitale della convergenza multimediale, ovvero la progressiva traduzione in linguaggio binario e integrazione-passaggio dei diversi media da un medium all'altro e l'atterraggio di Internet sul pianeta desktop, si passa a uno sguardo (a firma di Savarese) sugli ipertesti, ovvero la "rete di segni interconnessi" (Landow, 1994). In questo quadro dell'off line, il teatro entra con i cd rom creati per documentare spettacoli, singole personalità artistiche o compagnie, enciclopedie, raccolte di testi drammatici o atlanti iconografici teatrali. Archiviazioni preziose per gli studiosi di teatro e a loro disposizione senza spostarsi dal proprio pc: immagini e testi anche rarissimi depositati nella biblioteche dello spettacolo di tutto il mondo sono ora disponibili in un cd rom o "libro in movimento" (secondo la bella definizione di Robert Stein giustamente riproposta da Savarese). Poco esplorato forse il campo dei cosidetti cd d'arte (e anche dei dvd d'arte), di cui è senz'altro pioniere Carlo Infante con il cd rom dedicato alla Gaia scienza e quello del Tam Teatromusica di Padova, che lavora con i detenuti del carcere Due palazzi, dal titolo Sei dentro. Inclusa anche una sezione dedicata alle riprese per il teatro, una riflessione sui documentari e film teatrali seguita da lungo elenco di titoli (decisamente privilegiato è l'ambito dell'antropologia). Aggiungiamo per nostro interesse specifico l'ambito del cosiddetto videodocumentario di creazione elettronica che svela i dietro le quinte, il making of dello spettacolo o la biografia dell'artista attraverso un uso sprepiudicato delle tecnologie elettroniche. Tra le opere annovererei almeno J'etais Hamlet (1992) di Dominik Barbier, ritratto del drammaturgo e regista tedesco Heiner Müller dall'inconfondibile marchio Cicv; o Travelling lights (1991) di Theo Eshetu, poetica introspezione dell'universo personale e artistico di Lindsay Kemp. Sulla questione dell'hacker art – giustamente inserita per la sua tangenza con il teatro – rimandiamo anche ai siti collegati all'Electronc Disturbance Theatre e al Critical Art Ensemble. Con le loro opere e dichiarazioni questi gruppi dimostrano come la sfera dell'attivismo entri a teatro anche attraverso le maglie della rete e del digitale e quanto sia sempre più labile il confine tra performatività, tecnologia e attivismo. Proprio il Living Theatre (a cui i gruppi sopra citati si ispirano) ci aveva abituati a questo scambio tra teatro e azione di protesta urbana (dai Sei atti pubblici al corteo di Moloch di Genova 2001).
Nicola Savarese in Non tutti i teatri sono spettacolo (e viceversa) riconduce il racconto storico dell'atteggiamento "multimediale" della scena novecentesca all'utopia wagneriana di Gesamtkunstwerk (o opera d'arte totale o comune, secondo le diverse traduzioni), all'integrazione con il cinema e all'avvicinamento del teatro al principio del montaggio (Ejzenstein, Mejerchol’d, Piscator), alla tematica "macchinica" sia scenica (dai greci al rinascimento) che attoriale (dalla Supermarionetta craighiana all'attore biomeccanico di Mejerchol'd, dai futuristi alla Bauhaus) ed infine alle invenzioni tecniche primonovecentiste relative al suono e alla luce. In questo divenire multimediale della scena non potevano mancare i radiodrammi (da Bene a Beckett) e gli happening americani (che rientrano di diritto nella categoria del cosiddetto "nuovo teatro": Kirby 1968; De Marinis 1987) testimonianze di un sistematico sconfinamento di linguaggi da parte dell'avanguardia americana della fine degli anni Cinquanta.
Nel capitolo di Maia Borelli La difficile scelta tra Eco e Narciso le Blue stories di Roberto Paci Dalò ovvero il live cinema, diventano il simbolo di una "navigazione" fuori rotta (teatrale), tra cinema, radio, suono e web. Il cyberteatro starebbe proprio in questa una condizione liminale, di "collaudo" di un'esperienza di vasi comunicanti. Borelli elenca le possibilità di commistione dei media (dai dispositivi multischermo ad una narrazione basata su una connessione a distanza o con l'utilizzo di sistemi di motion capture o con animazioni in Flash). Numerosi sono gli esempi citati come emblematici di quello che Dan Zellner definì l'enhanced theatre: dal video teatro (Corsetti-Studio Azzurro) al teatro in 3D (il Wilson di Monster of grace) a spettacoli che usano varia sensoristica (Marcel.í Antunez Roca, Stelarc) o animazioni di personaggi virtuali (Giacomo Verde), creazioni di ambienti interattivi (Studio Azzurro) e infine web performance (Desktop Theatre), esempi forse di quel Teatro Infinito sognato da Kiesler nell'Austria degli anni Venti e di quella condizione di immersione propria delle realtà virtuali che secondo Oliver Grau (2002) sarebbe da ricondurre agli affreschi dionisiaci pompeiani, o ancora, per stare dentro almeno al Novecento, agli esperimenti di Cinerama. Ma allora ecco delinearsi nel libro, auspice Ovidio, l'ardua scelta: Eco o Narciso? Teatro o tecnologia? Live o mediatizzato? Intrattenimento al pari di un videogames o discesa negli inferi della propria condizione esistenziale? Teatro d'autore o teatro dell'utente? Ma soprattutto l'opera teatrale da specchio potrà tornare a essere, grazie al digitale, pura metamorfosi in atto, rinunciando – come già i greci e Brecht – a riflettere un mondo immutabile?
Ai posteri...

Maia Borelli-Nicola Savarese
Te@tri nella rete. Arti e tecniche dello spettacolo nell'èra dei nuovi media
Carocci, Roma, 2004, 312 pp., 20 euro


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Il teatro nella staffetta dei media
Da Te@tri nella rete di Maia Borelli e Nicola Savarese, Carocci, Roma, 2004
di Nicola Savarese

 

Non deve sorprendere che le maggiori sinergie contemporanee tra computer e arte si siano affermate proprio nell'ambito dello spettacolo le cui tecniche di rappresentazione hanno concentrato, per così dire d'ufficio, le tecnologie riproduttrici di immagini e movimenti. Per illustrare questo processo ormai storico abbiamo scelto una raggiera costituita da sette vettori che scavalcano il tempo fino a ricorrere, con diversa espressione ma analoga sostanza, anche nelle contemporanee esperienze del cyberteatro. Essi sono:
1. l'invenzione del cinema;
2. il mito delle macchine;
3. la rivoluzione della luce e del suono;
4. l'azione dell'artista come opera d'arte;
5. il miraggio dell'opera d'arte totale;
6. la cultura della fusion;
7. la revisione del tempo.
Dei sette vettori, diamo qui di seguito solo una breve definizione: ai successivi paragrafi, il paesaggio dei fatti. Tuttavia il lettore si accorgerà che si tratta di aspetti fortemente intrecciati e senza gerarchia, e dovrà pertanto considerarla una suddivisione di comodo, sottesa da una circolarità e un'osmosi tipica di un processo ancora aperto e vischioso. Quella che segue non è perciò una storia del teatro moderno nell'ottica delle tecnologie sempre più utilizzate sulla scena, quanto una retrospettiva di eventi che ha guidato gli estri alle attuali sperimentazioni teatro/nuovi media o cyberteatro che dir si voglia.

1. L'invenzione del cinema - Il teatro non è cinema, il cinema non è teatro: nessuno si sognerebbe mai di negare questa sentenza (tranne forse un artista). Per molti cineasti, dopo le prime grandi prove di autonomia del cinema, come quelle di Griffith o di Ejzenstejn, una delle maggiori preoccupazioni fu quella di sganciare il cinema dall'influenza delle altre arti, specialmente da quella affine del teatro. Storicamente insomma la ricerca di una specificità del cinema passò attraverso l'opposizione col teatro. Eppure, con l'andar del tempo, l'antagonismo divenne nelle pratiche un prospero rapporto (poi rafforzato dall'apporto della TV), per esempio sul piano della drammaturgia (sceneggiature), dei principi compositivi (montaggio), con scambi di storie modello, di tecniche narrative, di attori. Se lo stesso Ejzenstejn arrivò ad affermare che il cinema non era altro che "l'odierna tappa del teatro", un poeta come Cocteau pensava ad una impossibile rivincita:

Credo di poter affermare che il teatro uscirà dal lungo sonno ristoratore nel quale l'aveva immerso la sorpresa del cinematografo. Già lo spirito si stanca di una striscia di immagini piatte che non smette di girare e di offrire, di seguito, sulla vecchia tela delle lanterne magiche, un mondo fantasma al quale la scoperta dei rumori e dei suoni stereofonici (aggiungerei l'elemento di sorpresa scomparso) toglie molto fascino.

Legami difficili senza dubbio, almeno da sbrogliare, vista l'enorme letteratura in proposito. Una sola realtà è oggettiva: l'avvento del cinema portò alla "definitiva" considerazione che lo spettacolo non era più effimero e che non voleva più necessariamente dire "presenza dal vivo". Accanto ai gesti delle avanguardie, fu il cinema a essere l'altro grande propulsore sia della rivoluzione tecnologica del palcoscenico che, per una sorta di reazione, delle riforme teatrali del Novecento centrate sull'arte dell'attore. Il cyberteatro sposta ancora oltre queste frontiere, associando la presenza dal vivo alle immagini registrate e l'interattività alla distanza mediatica.

2. Il mito delle macchine - I primi connubi arte e nuove tecnologie si riscontrano già nel corso dell'Ottocento, come una conseguenza inevitabile della rivoluzione industriale, ma è soprattutto nel Novecento che si afferma una vera e propria vocazione per l'arte meccanica ed elettrica, divenuta poi elettronica e informatica. Nella vorticosa corsa dei media - stampa, fotografia, teatro, cinema, radio, televisione e ora internet (ma nel vortice andrebbero comprese anche tutte le loro successive "manifestazioni", si pensi, per esempio, alle numerose facce del cinema: muto, sonoro, a colori, cinemascope, cinerama, digitale…) - si sono inserite e si inseriscono sia le arti più antiche e tradizionali che le nuove tecnologie, con interazioni e scambi che ricorrono di continuo. Con l'avvento dello standard digitale che ingloba tutti i media, la corsa si intensifica per il piacere del pubblico (e dei consumi), e il gioco di incontri, accostamenti ed equivoci continua grazie alla tecnologia e alle macchine che li consentono e li esaltano.
Facendo leva sulle grandi potenzialità offerte dalle invenzioni scientifiche e dalle macchine, nel giro di pochi anni l'uomo realizza sogni antichissimi come quello di volare, di spostarsi per terra e per mare o di non affaticarsi grazie ai cavalli-vapore. La tendenza tecnologica e meccanica, sempre più presente nella quotidianità, diventa un mito culturale e invade con forza anche tutti gli interstizi delle prassi artistiche. Attraverso il montaggio, il bricolage, il collage e il taglia-e-incolla - tutte tecniche rigorosamente industriali - gli artisti/artigiani scoprono come la tecnologia porti con sé un'eccitante e ricca dimensione sperimentale e laboratoriale, in cui ciò che più conta non è l'opera d'arte finale - "il prodotto" - ma il processo creativo, la centralità assunta dall'idea e dall'autore.
Il trionfo di automi, macchine, robot e quindi dei computer nella vita reale fa sì che essi siano anche riproposti negli spettacoli come protagonisti. Si va dalla semplice denominazione di automatismi ancora umani (supermarionetta, biomeccanica, balletti meccanici), a vere protesi che amplificano le facoltà espressive dell'attore (proiettori luminosi, proiettori di immagini, fonografi, altoparlanti, microfoni, laser ecc.), fino alla completa sostituzione del corpo umano con i robot, gli avatar del cyberteatro e dei videogame, in cui corpo dell'attore e corpo meccanico-virtuale si fondono. Talvolta gli apparati tecnologici diventano essi stessi soggetti di rappresentazioni e "magici" attori.

3. La rivoluzione della luce e del suono - Due fattori rivoluzionano tecnicamente il teatro dell'800: l'illuminazione dello spazio scenico controllabile a distanza (prima a gas, poi elettrica) e la definizione scientifica della risonanza che ha portato all'architettura acustica delle sale teatrali. L'elettricità ha inoltre introdotto nei teatri un'energia non manuale che ha aiutato la meccanizzazione della scena (palchi girevoli, piattaforme e ponti idraulici), i sistemi di riproduzione, trasmissione e amplificazione sonora (fonografi, microfoni, altoparlanti) come poi gli apparati audio-visivi (lanterne magiche, proiezioni in scena di film, video e diapositive). Si sviluppa una tecnologia teatrale sempre più autonoma, rivolta a compiacere e soprattutto a illudere i sensi primari (vista e udito) dello spettatore oltre l'attore umano. L'ultimo apparato della "progressione elettrica" è il computer: il più potente e dunque il più prodigioso, forse il più connivente data la sua diffusione e facilità d'uso. Tuttavia, occorre dirlo, sono stati rari gli artisti della scena in grado di "piegare le macchine" alle esigenze della loro inventiva, di servirsene come traini della loro creatività più che come deità sostitutive.

4. L'azione dell'artista come opera d'arte - Il teatro si è giovato di macchine sceniche fin dai suoi esordi nell'antica Grecia e la macchineria teatrale è stata la protagonista non solo della grande stagione del teatro barocco. A questa partita, nell'epoca industriale, se ne affianca un'altra: le macchine non solo amplificano la realtà ma sono capaci di duplicarla. Nell'epoca della riproducibilità tecnica (fotografia, fonografo, cinema), l'arte finisce col perdere la sua unicità - l'"aura", come affermò Walter Benjamin - e diventa un bene di consumo delle masse. Del valore rivoluzionario dell'arte resta così soltanto una traccia ed è l'azione dell'artista, un'azione tanto più rilevante, quanto più la sua opera finita è riprodotta, duplicata e quindi svalutata.
Si affermano perciò i "gesti" a partire dalle avanguardie storiche - simbolismo, cubismo, futurismo, e poi dadaismo, surrealismo, espressionismo - nei cui piani dominano i comportamenti provocatori e le accanite dissacrazioni pubbliche delle arti "passatiste" (la definizione è di Marinetti). Proclami, manifesti e azioni spettacolari trovano largo spazio e, per la prima volta, grazie ai media, anche un'immediata risonanza internazionale (si pensi proprio alla diffusione del futurismo in Europa tramite la stampa).
L'arrivo dei computer sposta ulteriormente l'azione dell'artista in un territorio percepito come avveniristico e fantascientifico, la proietta subito nel futuro e fornisce, tramite internet, una platea immediatamente globale. In particolare, i costosi apparati informatici conferiscono all'esperimento spettacolare una patina di rarità, di distanza sospesa tra scienza e magia: lo spettatore accetta la sollecitazione tecno-scientifica come una meraviglia raffinata e, per quanto consapevole dell’illusione, resta ugualmente stupito e coinvolto. A cambiare, insomma, non sono solo i confini della realtà ma anche quelli dell’illusione.

5. Il miraggio dell'opera d'arte totale - Alle radici dell'interattività, e dell'immersione, richieste dai nuovi media c'è il miraggio dell'opera d'arte totale, i cui ideali ottocenteschi avevano come obiettivo "la sintesi di tutte le arti", secondo la formula di Wagner. Gli spettacoli totali furono però anche il frutto di una lunga escalation della spettacolarità favorita dall'ingresso di elaborati apparati tecnologici rivolti a soddisfare le richieste di un pubblico sempre più esigente, e di impresari pronti ad esaudirlo per profitto. I panorami, i diorami, l'illuminazione a gas e poi elettrica dei teatri, le grandi scenografie naturalistiche, le architetture del divertimento di massa (teatri, edifici per esposizioni internazionali, gallerie e luna park) furono i preliminari, o meglio le prove generali per la proposta spettacolare del Gesamtkunstwerk (letteralmente "opera d'arte totale") di Wagner, dello spazio scenico tridimensionale di Appia e di Craig o del Teatro Totale di Moholy Nagy progettato da Gropius, in cui lo spettatore doveva provare il piacere sensoriale di sprofondare. Agli inizi del secolo XX, lo spettatore era così attratto e stimolato dalle provocazioni audiovisive della scena, che gli interventi battaglieri delle avanguardie cercavano per prima cosa di rompere, con intimazioni contrarie, proprio l'aspetto illusorio del teatro. Anche le successive proiezioni di film negli spettacoli teatrali di Piscator, i film a tre schermi di Abel Gance con orchestra dal vivo, o le scenografie polivisuali di Polieri, furono tutti esempi di spettacoli che richiedevano al pubblico di immergersi nell'illusione. Tesi ai rapporti sociali, gli happening e le performance degli anni sessanta chiedevano al pubblico partecipazione diretta all'azione: si trattava in realtà di stabilire una complicità più ludica che illusoria per provocare lo spettatore conformista e non politicizzato.
Alla fine del Novecento, hacker, utopisti, visionari e scienziati divulgano nuovamente l'immersione totale, anzi globale, con l'interattività come possibilità di partecipazione emotiva individuale. I mass media invasivi, come la TV, hanno infatti cambiato le modalità di fruizione dello spettatore, più che altro saturato la sua mente, spingendolo a respingere l'eccesso di informazione e di visione. Con i nuovi media, lo spettatore si affida al sistema immersivo da individuo e non più come massa, interagendo e addirittura determinando con azioni personali lo sviluppo delle storie che incontra. Anche se la realtà è virtuale, il gioco sembra non avere rivali: attraverso l'intermedialità dell'arte (gli "scambi" fra media), gli artisti propongono ibridazioni, provocazioni audiovisive e giochi interattivi e lo spettatore è guidato ad una viva curiosità per le combinazioni, gli innesti, il divertimento. E se studiando la percezione degli esseri umani, ci si accorge che tutto prende forma e valore nella nostra testa più che al suo esterno, ecco che i computer tendono a ricreare artificialmente anche la nostra intelligenza (con l’AI), a sostituire la nostra percezione (mediante le interfacce) e a frapporsi tra noi e la realtà (con la realtà virtuale). Alcuni artisti, e alcuni spettatori, amano questo tipo d'immersione solitaria come Gauguin la fuga a Tahiti.

6. La cultura della fusion - Le arti moderne non sono più forme chiuse, si aprono alla sperimentazione estrema, s'incontrano e si confondono tra loro, anche con altre culture: dunque non più le arti "storiche" ferme alla millenaria ripartizione "architettura, pittura, scultura, musica, danza e poesia". Questa apertura comporta che alcuni artisti scendano in campo con un apprendistato e una formazione non più tradizionali: non vanno a scuola, o a "bottega", di quell’arte specifica cui tendono, ma sperimentano diverse esperienze formative per approdare, spesso, ad altre ancora, mettendosi alla prova in più campi creativi.
Non diversamente dalle altre manifestazioni d'arte, anche il mondo dello spettacolo non esita a misurarsi con il flusso, la frammentazione e la fusion. Gli spettacoli dai confini precisi - melodramma, prosa, balletto - si sfilacciano e si mescolano, e avviandosi al confronto mediatico non si dissolvono ma si trasformano, si parcellizzano e si combinano in nuovi modi e nuove mode - varietà, operetta, cabaret, café-chantant, attrazioni circensi - ancora più frammentari e quindi ancora più versatili. Un fattore agevola questo processo: la congenita condizione "multimediale" del teatro. Gli spettacoli teatrali, infatti, sono sempre stati il frutto di un'attività artigiana dovuta all'aggregazione di tecniche e arti diverse - recitazione, canto, danza, musica, drammaturgia, scenografia e architettura: e se Wagner proponeva un Wort-Ton-Drama, uno spettacolo in cui si fondevano la parola, il suono e l'azione scenica, non fu difficile scomporre le attrazioni in un diverso montaggio e con diverso equilibrio tra le parti.
Grazie a questa duttilità dello spettacolo teatrale, gli artisti e gli impresari teatrali entrarono nel XX secolo anche con una buona opzione commerciale. I confini tra le arti slittavano oltre le tecniche e il teatro si mescolò anche alle arti plastiche, al cinema, come poi al video e ai computer. In realtà a trasmigrare faticosamente da un’arte all’altra, da una tecnica all’altra, furono spesso individui che si scoprivano delusi e feriti dalle loro prime aspirazioni fallite. Il ‘900 vede un consistente drappello di uomini di spettacolo cimentarsi in direzioni diverse da quelle che desideravano nei loro primi ideali o nel loro apprendistato, talvolta raggiungendo, proprio nelle nuove scelte forzate, traguardi inattesi. "Il carro andò in pezzi e il carrettiere cadde nel cinematografo" disse a 26 anni Ejzenstejn, deluso dalla recitazione artificiosa degli attori e convinto di non poter spingere oltre la regia teatrale.
Oggi, nella società dello spettacolo, attraverso i nuovi media, lo standard digitale assicura una condizione di fusione permanente delle diverse arti - performative e non - e sembra dunque offrire, per costituzione, un’opportunità inesauribile (che virtualmente dispone di tutto quello che è stato, e sarà, memorizzato dalle macchine), attenuata soltanto, per ora, dai costi delle apparecchiature tecnologiche, dei software, delle memorie meccaniche.

7. La revisione del tempo - "A teatro reciti, al cinema hai recitato". In questa lapidaria sentenza del grande attore francese Jouvet si racchiude l'ultimo dei nostri vettori, ma non il meno importante, quello del tempo: il teatro è un presente assoluto, il cinema è sempre al passato. La società moderna con le sue tecnologie e le sue macchine ha senza dubbio "abbreviato" il tempo e lo spazio e la nuova dimensione spazio-temporale è entrata di forza anche nella fantasia e nell'immaginazione delle arti. Tra la fine dell'800 e gli inizi del '900, giocare con la concezione del tempo, del trascorrere del tempo o del viaggiare nel tempo, fu uno degli argomenti preferiti della letteratura, soprattutto di quella fantascientifica, e di riflesso un tema ripreso spesso anche dal teatro e dal cinema: il romanzo The Time Machine (La macchina del tempo), che dette la fama a Georges Wells e fu preso a modello da infiniti epigoni, è del 1895, lo stesso anno che segnò la nascita del cinema, la più vera e potente "macchina del tempo".
Quando poi la teoria della relatività di Einstein, arrivò a dimostrare che le caratteristiche del tempo e dello spazio non dovevano più essere considerate come assolute ma dipendevano dall'osservatore, l'approdo ad un tempo-spazio dipendente anche dalla sua psiche, o dalla sua fantasia, divenne quasi una forma di gioco, un artificio utile per svincolare ogni narrazione dalla tradizionale linearità del racconto. Per la verità, la concezione soggettiva del tempo era stata scoperta e formulata già da un padre della chiesa come Agostino di Ippona, ma fu Henri Bergson a riprenderla proprio tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Secondo il filosofo francese, al concetto meccanico del tempo, legato all'evoluzione biologica e materiale, si oppone quello dell'esperienza interiore, soggettiva, nella quale il tempo non si identifica con l'orologio ma con l'intuizione della successione di stati di coscienza, legati fra loro dalla memoria e dall'immaginazione.
La nascita del cinema conferì la spinta decisiva ai rozzi "passatempi" fino ad allora giocati sulle scene del teatro e degli altri spettacoli dal vivo. Abituando gli spettatori a rivedere il passato come un presente o un futuro, senza fantascientifici teletrasporti e al costo di un biglietto accessibile a tutti, i film davano a ognuno la possibilità di tessere e ritessere la piccola tela della propria esistenza, la trama di ragno della propria coscienza con l’ordito felice della memoria e dell’immaginazione. Per trovare il bandolo di questa intricata matassa non è bastato un secolo, né, pertanto, potremo riuscirci noi: ma iniziamo la rassegna dei fatti da qui, dall’avvento del cinema…


 


 

Il corpo tra oriente e occidente
Danza di Confine. 2° Festival di Assoli Butoh
di Alessandra Giuntoni

 

Nel fine settimana tra il 14-15-16 maggio, si è svolta a Lerici la seconda edizione del Festival di assoli Butoh, La Danza di Confine sotto la direzione artistica di Annalisa Maggiani.
La manifestazione ha inteso proseguire il viaggio cominciato lo scorso anno nella "terra di confine" tra forme artistiche che si attraversano nel passaggio tra danza e teatro, improvvisazione e tradizione, oriente e occidente. "Confine come spazio di passaggio tra culture, arti, stili" spiega Annalisa Maggiani, "in cui la capacità di assorbimento e di trasformazione porta alla creazione di nuove appartenenze, alla trasformazione delle reciproche diversità. Una terra in cui il corpo ritrova tutta la sua forza comunicativa e poetica". Ed il corpo - nella danza Butoh - sottoposto a tensioni e metamorfosi, a gesti ora veloci ora lentissimi, a distorsioni disarmoniche e scomposte riscopre un legame con la propria naturalità più arcaica facendosi portatore di una sensualità voluttuosa e primordiale. Proprio per questo il Butoh non viene considerato una tecnica ma una relazione tra corpo e natura, un modo per risalire alle origini dell’esistenza in un dialogo tra il silenzio delle tenebre e caos della luce. Le partiture oniriche realizzate dai danzatori sorprendono per la potenza suggestiva delle immagini: corpi nudi, imbrattati di biacca, incrostati di memoria e materia si risvegliano lentamente a una vita oscura e animale, quella in cui thanatos ed eros fatalmente convivono. Per questa carica dirompente, per la drammaticità archetipica delle immagini che ne scaturiscono si è detto che la danza Butoh rappresenterebbe il vero teatro della crudeltà di Artaud. Ma la sacralità rituale, la disciplina etico-estetica della sofferenza e della morte che spesso dominano le performance, non devono far pensare a una prospettiva puramente estetizzante: l’impegno politico, anti-coloniale ha accompagnato sin dagli esordi questo movimento teatrale radicale ponendolo tra le espressioni piú interessanti e più impegnate del teatrodanza contemporaneo. Nata nel Giappone del dopo Hiroshima e Nagasaki ad opera di Tatsumi Ijikata e Kazuo Hono, la danza Butoh segna da subito una forma di ribellione alla disumana massificazione e americanizzazione della società giapponese. Pur non ripudiando le forme della tradizione giapponese come il No ed il Kabuki, essa si ricollega piuttosto alla Neue Tanz e all’Espressionismo Tedesco sviluppandoli nella visione di un corpo-anima-psiche che conserva il legame originario con l’universo e con la sua ombra. Tale espressività soggettiva, individuale ed unica, figlia della tradizione romantica tedesca, non esclude una passione come la rivolta ma la ricolloca entro la ritualità cultuale tipica dell’Oriente in cui tutte le espressioni sono già contenute dalla fissità e dai codici della tradizione.

Ma torniamo a Danza di Confine, dedicato quest’anno ad assoli esclusivamente al femminile eseguiti da danzatrici di fama internazionale. La rassegna è stata aperta da Marea, performance di Anna Lisa Maggiani, danzatrice, performer, danzamovimentoterapeuta che, partita dal teatro di strada con i Chille de la Balanza, dopo una formazione in mimo e danza espressiva, ha studiato con Kazuo Oono, il grande vecchio del Butoh, per entrare poi a far parte della Compagnia berlinese Ten Pen Chii Art Labor fondata da Yumiko Yoshioka. La sua performance, accompagnata dalla musica dal vivo di Lauro Rossi e dalle videoproiezioni di Mario Morleo, è stata un intervento intenso e toccante sulla storia collettiva ed individuale che "per un attimo inonda il corpo e sale la nostalgia di dove siamo venuti… il mare, forse…". Ma Annalisa non dimentica, nella folle danza che la scuote di brividi e fremiti, di nominare i bambini iracheni o le donne kamikaze che muoiono ogni giorno senza che nessuno ne conosca il nome. C’è una sorta di frenesia nei suoi gesti, un dolore consacrato all’ossessione del ricordo, alla volontà di non dimenticare. Nell’incedere sincopato la danzatrice si scuote convulsa come in una trance rituale. Ora è ferma davanti alle immagini di Morleo, il suo corpo solare, i grandi occhi azzurri sbarrati, vengono attraversati dai nomi islamici digitalizzati in blu e sul fondale di onde marine ci appaiono quali simboli di tutto il dolore rimosso, del grido di chi non ha voce. Non si può fare a meno di ripensare ai corpi seviziati dei torturati iracheni, alle immagini sporche di questa sporca guerra.

Nella seconda giornata Yumiko Yoshioka, coreografa e danzatrice Butoh di fama internazionale, dal 1977 danzatrice del gruppo Ariadone di Carlotta Ikeda, ha presentato Before the dawn, un assolo sul tema del vacillare tra il sogno e la realtà "nella penombra tra giorno e notte dove anche i confini tra conscio ed inconscio svaniscono…". Ancora una volta Yumiko si è rivelata una forza della natura indomita e travolgente, capace di infliggere sferzate di energia al nostro assopito sistema nervoso di spettatori. E’ una sciamana terribile e bellissima quella che ci appare sul palco del Teatro Astoria, una guerriera crudele e marziale ricoperta da un lungo abito rosso che le cinge il capo con un enorme cappuccio, scoprendole il seno e il dorso a evidenziare ogni minima sensuale metamorfosi della muscolatura.



La danzatrice, in preda ad una possessione sciamanica, si agita e si dimena, disarticola gli arti, deforma il volto in smorfie infernali, si graffia come se volesse strappare a brani la pelle di madreperla. Si ha la sensazione che di lì a poco, da quel corpo diafano in lotta contro se stesso, usciranno metamorfiche creature provenienti da altre ere zoologiche, antiche bambine rettili appartenenti alla sua ontogenesi e alla filogenesi della specie. E’ un crescendo di sensualità ferina che lotta per venire alla luce; sono demoni terrifici, potenze oscure, creature boschive, uccelli selvaggi che si materializzano sul palco del Teatro Astoria. Anche i brevi inserti musicali, suono ambient non filtrato alternato ad onde sonore vagamente industrial, suggeriscono il senso di questo fragore primordiale e della ritrovata naturalità. Infine Yumiko, l’essere nuovo frutto di questa rinascita, si getta a capofitto su di una piccola duna di sabbia e si rotola nella polvere, si cosparge il corpo e le chiome lunghissime sollevando una nuvola di pulviscolo iridescente che ricorda certi fenicotteri in esotici paesaggi lacustri. Le sue narici aspirano sabbia, la lingua si nutre con voluttà dell’elemento terroso, lo incorpora nel ciclo organico delle sue cellule, nel ciclo della materia in cui nulla si disperde e tutto viene reintegrato dal corpo e dal cosmo in un sistema di reciproca appartenenza.

Ultimo episodio della trilogia degli assoli è Ka-ga-yo-u che nel titolo si richiama all’antica parola giapponese "ombra ondeggiante" sul fenomeno del vedere tra visibile ed invisibile. Il pezzo è performato da Hisako Horikawa, danzatrice per oltre vent’anni nella compagnia di MinTanaka "Maijuku", cofondatrice del laboratorio di meteorologia del corpo, creatrice di una serie di performance dal titolo "The Alley" sul rapporto tra sensazioni corporee vita metropolitana.
Hisako Horikawa ha dato inizio alla propria performance sui gradini antistanti il foyer del teatro, preannunciando in poche battute quello che si sarebbe rivelato un omaggio alla miglior avanguardia novecentesca laddove è risultato chiaro un richiamo a certe pièces beckettiane, alle atmosfere esistenzialiste e oniriche del suo teatro. Una donna d’età indefinita, il viso pallido senza trucco, abito nero sobrio e tacchi a spillo, cammina lentamente, si accascia al suolo, si rialza. Circondata da una piccola folla che ne accompagna il tragitto, tremebonda e curva sotto il peso dei propri fantasmi, la donna si muove in un silenzio rotto soltanto dal rumore dei suoi passi.
In Ka-ga-yo-u Hisako Horikawa ha creato un’immagine teatrale icastica e pregnante: una figura scolpita di tragica bellezza, fragile come un giunco piegato, le mani protese a cercare un appoggio per ripararsi da ulteriori cadute. Una mater dolorosa che sollevandosi ci guarda con occhi azzurrognoli da cieca, lo sguardo sembra promananare da lontananze siderali. Il viso è quello di una creatura mortalmente triste. Le fessure degli occhi, i contorni della bocca sembrano indicare un pianto trattenuto, ma non è così. Non filtra emozione dal volto di maschera No tradizionale, non un sentimento nel suo essere animica e cangiante. A ben vedere Hisako ci guarda con occhi vuoti, sorridendo a se stessa: assente, un sorriso dolce-amaro sul bel volto orientale, un sorriso arcaico come quello delle cariatidi dell’Acropoli o come quello enigmatico di Monna Lisa. Poi l’attrice-danzatrice riprende il suo cammino verso l’interno del teatro mentre l’accompagna la musica proveniente dal violoncello di Tristan Honzinger, uno dei più affermati esponenti della musica improvvisata contemporanea (il suo percorso artistico spazia dal jazz alla composizione di musiche per spettacoli di danza e di teatro, le sue abituali collaborazioni vanno da musicisti come Steve Lacy, Cecil Taylor, Evan Parker, Peter Kowald, Derek Bailey, Leo Smith, Charles Gayle, Louis Moholo, Barre Phillips, Anthony Braxton).
Insieme, violoncellista e danzatrice, raggiungono il palco duettando tra le sospensioni oniriche di lei e le note struggenti del violoncello di lui. Tristan, da vero performer, si produce in uscite beffarde e surreali di sapore dadaista del tipo: "CACCA-PIPPI-TALISMO" pronunciate con improbabile accento tedesca. Sapremo in seguito che niente nella partitura era stato prefissato e che ogni incontro, ogni spunto, ogni pieno e ogni vuoto è stato dettato dall’ascolto reciproco, dall’alea dunque che tanta parte riveste nella difficile arte dell’improvvisazione. E il loro dolce gioco continua a lungo, nell’ascolto di ombre e risonanze, nel lavoro minuto di scomposizione del movimento, nella solitudine di note musicali lanciate come vettori di un desiderio. Anche il vuoto più rarefatto può essere una forma del Butoh, anche l’insensatezza del silenzio, la desolazione del tempo che passa, di fantasmi che ritornano.

Danza di Confine
2° Festival di Assoli BUTOH
a cura di GEST/AZIONE
Lerici (SP), Teatro Astoria


 


 

Le recensioni di "ateatro": Bersaglio su Molly Bloom
Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa
di Oliviero Ponte di Pino

 

Dopo decenni di lavoro matto e disperatissimo, rigoroso e solitario, a malapena sopportati dalle istituzioni e quasi totalmente ignorati dalla critica, Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa cominciano finalmente a ottenere l’attenzione che meritano. Il gruppo torinese era emerso (come le Albe di Marco Martinelli e Ermanna Montanari) alla fine degli anni Ottanta, con ritardo rispetto alla «seconda onda» del nuovo teatro italiano. Aveva subito incuriosito per le sue mirabolanti macchinerie teatrali, opera della più inventiva scenografa italiana di questi decenni, Daniela Dal Cin. La semplice scatola-armadio bianca da cui emergeva la prima edizione delle Serve era progressivamente concresciuta in architetture di legno e ferro, a metà tra il labirinto e l’attrezzo di tortura, spesso inglobando attori e spettatori, lungo una linea che discende direttamente (e dunque con uno scarto di un paio di decenni) dalle invenzioni spaziali del Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski (magari filtrato da qualche intuizione ronconiana), anche se con un immaginario visuale declinato manieristicamente (e spesso con ironia), in un proliferare via via sempre più barocco e colorato.
In parallelo, sul piano vocale, il regista Marco Isidori costruiva per i suoi attori – generazioni di giovani interpreti letteralmente forgiati da una dura disciplina, alla perenne ricerca di una irraggiungibile perfezione – partiture vocali dove la sonorità veniva esplorata in tutte le sue sghembe prospettive, spezzata e ritmata incessantemente, ora stirata ora compressa esplosivamente. Il modello amato (e dichiarato) da Isidori è da sempre Carmelo Bene, per il suo lavoro sulla phonè e per la sua tecnica; ma il regista è stato anche abbagliato dalla travolgente energia scenica di una Marion D’Amburgo. Un mix per certi aspetti improbabile, ma che si è poi incarnato nei virtuosismi e nella potenza di Maria Luisa Abate, da sempre primattrice della compagnia.



C’era poi una vena di ruvida e scontrosa follia a ispirare la sequenza degli spettacoli strenuamente autoprodotti (compreso un lavoro d’appartamento per un unico spettatore, a galoppare per un’ora in groppa a una tigre circondato da una decina d’attori), sostenuta dalla convinzione di essere nel giusto malgrado tutto e tutti. Ma questa certezza non poteva essere confermata dall’esterno, dagli apprezzamenti per questo o quell’aspetto di uno spettacolo (spesso a colpire erano le spiazzanti trovate scenografiche). Piuttosto nasceva dalla convinzione di una precisa idea di teatro che era ben presente nella mente di Marco Isidori, chiara e lucida, ma faticava a farsi percepire.
Di questa idea di teatro il recente Bersaglio su Molly Bloom è un frutto maturo ed equilibrato. Per certi aspetti, lo spettacolo va nella direzione esattamente contraria rispetto all’originale joyciano: l’invenzione del flusso di coscienza, che avrebbe segnato tutta la letteratura del Novecento, viene letteralmente ribaltata, e il vagabondare dell’io nel monologo notturno viene declinato come pura oggettività, parole e suoni disincarnati. La voce di Molly Bloom, il suo fantasticare tra sonno e veglia, tra memoria e desiderio, vengono oggettivati, epicizzati e affidati addirittura a un coro, che si esibisce in una partitura musicale. In effetti il copione, sul leggio di fronte al regista-direttore d’orchestra, è meticolosamente rimarcato da segni e segnacci neri, sottolineature, cesure, grumi, in una notazione impressionisticamente efficace, un codice di pause e crescendo, assoli e cori.



A sottolineare l’exploit quasi-canoro degli attori (e il loro affiatamento), la scenografia li immobilizza imbozzolandoli crudelmente a una enorme e metaforica struttura-conchiglia, propriamente la «Grande Conchiglia» di Daniela Dal Cin, che occupa l’intero boccascena. Al centro ovviamente lei, Maria Luisa Abate, e tutto intorno – come lei biancovestito – il coro di Grazia Di Giorgio, Alessandro Curti, Roberta Cavallo, Elena Serra, Davide Barbato, Paolo Oricco, Isadora Pei, Veronica Gallo e Michele Di Rocco. A colpire è la qualità vocale, l’affiatamento nell’eseguire quella che è diventata una vera e propria orchestrazione, un lavorio minuzioso e robusto che porta a un’ora di concertato ricco di sorprese e modulazioni.
Però limitarsi a sottolineare questi due aspetti (gli exploit scenografici e vocali) significa fare un gran torto ai Marcido e alla loro idea di teatro. Perché a tenerli così separati sfugge il loro agganciarsi in una macchina teatrale che comprende ovviamente lo spazio scenico e gli attori, ma ingloba sempre anche gli spettatori: ogni volta «tirati dentro», con modalità sempre diverse, a quel tritaparole-tritacarne che è il teatro. In questo caso, il pubblico è come schiacciato e percosso dalla iper-frontalità della scena, investito dalla massa sonora che quella conchiglia-megafono riversa senza sosta sulla platea. Infatti quelle dei Marcido non sono mai macchine celibi, sazie di una perfezionistica autosufficienza, ma giocano sempre ad agganciare e intrappolare – con modalità ogni volta differenti – lo spettatore, aggredendolo sui due versanti. Da un lato la creazione di uno spazio che è sempre spazio di relazione (una relazione tanto profondamente necessaria che a volte risulta addirittura perversa, sadicamente determinata. Dall’altro l’invenzione di una massa sonora destinata a risuonare nei corpi e a farne vibrare le viscere. Sono due esercizi che presuppongono una sapienza, ovvero una idea di teatro intuita e perseguita con ferrea determinazione. Ma anche un duro lavoro, esercizio e affiatamento. Una fatica che pochi, oltre a questi forsennati autodidatti e puntigliosi pedagoghi, possono sopportare.


Bersaglio su Molly Bloom
Venendo l’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce a manovrare nelle acque territoriali dei cantanti Marcido

Direzione di Marco Isidori
«Grande Conchglia» di Daniela Dal Cin
Con Maria Luisa Abate e Grazia Di Giorgio, Alessandro Curti, Roberta Cavallo, Elena Serra, Davide Barbato, Paolo Oricco, Isadora Pei, Veronica Gallo e Michele Di Rocco
Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa
Milano, Teatro Verdi L'indescrivibile teatro di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa descritto da Oliviero Ponte di Pino sul "manifesto".


 


 

Le recensioni di "ateatro": TRIO PARTY – Marcido in Beckett’s love
Un spettacolo di Marco Isidori dall’opera di Samuel Beckett
di Andrea Balzola

 

Marcido Marcidorjs & Famosa Mimosa (alias Marco Isidori e Daniela Dal Cin) e la loro prima attrice Maria Luisa Abate ritornano a Beckett, dopo la rielaborazione di Happy Days (1997), scegliendo tre monologhi del drammaturgo irlandese: i meno noti Dondolo e Quella Volta e il celebre Non io. Il pre-testo è sperimentare tre soluzioni registiche differenti e in qualche misura complementari, ma anche tessere nuovi arazzi vocali per l’"attore generale" (come lo definisce Isidori), voce dai molti corpi o senza corpo (la sola bocca che immaginava Beckett per Non io), in particolare per Maria Luisa Abate, "regina" delle modulazioni vocali marcidoriane che legano in un’unica navigazione del flusso interiore la Molly Bloom di Joyce (2003) all’ultimo Beckett.



La lezione di Carmelo Bene di estrarre dal testo il sottotesto mediante la modulazione dei registri vocali, interiorizzata, elaborata e accanitamente perseguita da Isidori, con un’ostinazione "militante", come se la "coreografia" delle voci dovesse essere sempre specchio delle complesse coreografie dei corpi e delle geniali costruzioni (e decostruzioni) scenografiche di Daniela Dal Cin, rimpolpa la scarnificazione beckettiana con la moltiplicazione dei corpi degli attori e il mosaico delle loro voci estenuate. Nel brano iniziale del Trio party, Quella volta, il palco è svuotato per far posto a una sorta di giostra in cui tre giovani attori (Beckett immaginava sul palco un anziano ascolatore immobile, circondato dal flusso di tre voci provenienti da zone diverse della scena) creano una circolarità di gesti e parole rievocatrici del passato, emersione agitata ed agitatrice di quell’incrocio tra memoria e fantasticheria che è il rigurgito interiore del tempo perduto. Questo pezzo, affidato ai nuovi attori della scuola marcidoriana risente di un contrasto tra la staticità volontaria – già beckettiana – e l’ossessiva forzatura e dilatazione temporale delle voci intrecciate, infatti in questo caso la sobrietà austera di Beckett appare invasa e travolta dall’esuberanza della chiave interpretativa.
Un equilibrio invece pienamente trovato – pur nella radicale reinvenzione - nel secondo pezzo, Dondolo, cronaca spietata di un dialogo interiore di una donna seduta su una sedia a dondolo davanti alla finestra, lungo l’arco di un’intera giornata fino alla notte. Sulla scena appare la gigantesca figura dipinta (da Daniela Dal Cin) dell’immaginaria signora sul dondolo, composta come un puzzle da tanti cartelli-tasselli separati, ognuno dei quali è gestito da un attore in calzamaglia nera; quando gli attori si separano la figura si disintegra per poi, ciclicamente, ricomporsi con il loro riavvicinamento. Parallelamente la recitazione collettiva si compone e si scompone sulla scena in reiterati frammenti di testo e loop gestuali, con un ritmo – quasi ipnotico- molto efficace che fa coincidere il contrappunto della scrittura beckettiana (indecifrabile passaggio tra interno ed interno, miunuziosa descrizione del particolare quotidiano nella proiezione di una terra desolata dell’anima) con il fremito delle onde vocali del "coro" marcidoriano.
Il brano finale, Non io, è interamente affidato alla vitrtuosa acrobazia gorgogliante di Maria Luisa Abate, rinchiusa in una scatola-bocca (Beckett immaginava la performance di un’unica bocca divenuta logorroica dopo un lungo tempo di forzato mutismo, con un tempo fisso di 12 minuti di esecuzione) che emette per suo tramite un’incessante sproloquio, dove però tutto di lei si gioca, una vita intera rimescolata dalla parola, magmatica ma anche imprevidibilmente illuminata da "lampi di verità improvvisa". Come se squarci di verità siano possibili solo – vero topos gnostico di Beckett – accidentalmente nell’inerzia di un radicamento involontario dentro la terra, immobili e prigionieri dentro la materia, magari con la sabbia fino al collo, a rimestare la condizione umana finché nello specchio impietoso dell’alienazione appare un riflesso metafisico, una traccia che l’attesa di Godot potrebbe non essere vana.
In questa lotta estenuata, e a tratti – volontariamente – estenuante, dei Marcido con i testi di cui si appropriano, con esiti differenti ma con lo sforzo sempre sopra le righe dello spartito vocale e gestuale, alla ricerca utopica del corpo come segno vibrante e della voce sovra-personale e quindi sovra-umana, si scorge quello spiraglio metafisico della talpa che scava instancabilmente e ciecamente (ma la cecità è anche atributo dei veggenti) sotto la terra, dentro la materia dello Spettacolo.


TRIO PARTY – Marcido in Beckett’s love
Con Maria Luisa Abate, Alessandro Curti, Paolo Oricco
E con Grazia di Giorgio, Roberta Cavallo, Davide Barbato, Elena Serra, Isadora Pei, Carlino Sorrentino
Direzione di Marco Isidori
Scene e costumi di Daniela Dal Cin
Teatro Vascello di Roma
Dal 18 al 23 maggio 2004


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Le recensioni di "ateatro": Rebus per Ada
di Fanny & Alexander-A. Zapruder Filmakersgroup per Riccione TTV expanded theatre
di Oliviero Ponte di Pino

 

Negli spettacoli di Fanny & Alexander lo spettatore viene spesso costretto nel ruolo del voyeur, di chi spia attraverso un diaframma teatrale una intimità fiabesca, venata di pulsioni erotiche e brividi mortuari, un gioco privato ricchissimo di rimandi, tanto affascinante quanto difficile da decifrare. Anche Rebus per Ada, frutto della collaborazione tra Fanny & Alexander e A. Zapruder Filmakersgroup, presentato a Riccione TTV (che lo ha coprodotto) e inserito nel complesso e ambizioso progetto che il gruppo sta dedicando al romanzo di Vladimir Nabokov Ada o ardore, mette lo spettatore in una posizione insolita. O meglio, isola e radicalizza una delle funzioni dello spettatore, come in un esperimento laboratoriale.
Su un piccolo schermo vengono retroproiettate due sequenze di immagini affiancate: corpi, oggetti, gesti, e alcune lettere a stampatello, scorrono veloci, in una danza visuale che sfida alla decodificazione. E’ una serie di «rebus stereoscopici», ovvero «rebus in cui si usano due o più vignette per rappresentare una successione logica o cronologica che molto spesso è espressa nella soluzione con verbi al passato o al futuro» (ovvero dei rebus in cui rientrano il tempo, il racconto, rispetto alla fissità dei tradizionali rebus «statici».
Ogni opera d’arte, nel costante ricorso alla metafora, ogni spettacolo teatrale, nel suo porsi come realtà separata che rimanda ambiguamente alla realtà del mondo, e addirittura ogni espressione linguistica, presuppone un lavorio di decodifica e traduzione. Ogni segno si offre per quello che è, nella sua materialità, ma anche per qualcos’altro: ogni segno può essere dunque un enigma da decifrare, e i segni dell’arte sono ancora più ambigui – perché il loro senso si stratifica su più livelli e si apre all’interpretazione.
In Rebus per Ada, grazie alla consulenza del maestro Stefano Bartezzaghi, l’enigma della comunicazione diventa enigmistica. Sono enigmi di difficile risoluzione, un po’ per la velocità con cui scorrono le immagini, un po’ per qualche libertà rispetto all’enigmistica corrente, un po’ per i numerosi riferimenti ai protagonisti del romanzo, Ada e Van, la coppia di fratelli intorno a cui ruota l’intero ciclo spettacolar-romanzesco. Non manca il palindromo bilingue di Primo Levi, «è filo teso per siti strani», «in arts it is repose to life», a sottolineare che tutta questa esperienza vuole anche essere una riflessione sull’arte. Ogni rebus racconta un diverso mistero, una diversa microstoria. Nel loro insieme i quindici rebus (più due palindromi) paiono quasi narrare l’intera vicenda, esaurendone il senso per frammenti allusivi e sapienziali (a cominciare dal rimando all’abilità di Ada – e ovviamente di Nabokov – nei giochi della parola): sono schegge che sfidano la capacità d’interpretazione dello spettatore e lo mettono in scacco.
E’ una comunicazione tutta mentale, dove ogni cosa diventa icona, segno, a cominciare dal corpo e dal volto degli attori – ovvero dalla materialità stessa del teatro. Il pubblico è ridotto a ossessivo (e frustrato) solutore di enigmi, in un labirinto brulicante di allusioni e connessioni, ma privato della compresenza con l’attore, a cui peraltro il filmato allude senza tregua. E’ un romanzo dove la narrazione è esplosa in oracoli. E’ un teatro disincarnato, senza corpo, ridotto a puro segno e impaginato con raffinato rigore. Ridotto a una essenza enigmatica che – alludendo a Edipo, principe dei solutori, e alla Sfinge – rimanda all’incesto che è al centro del romanzo di Nabokov. Nella sua chiusa, misterica e frustrante perfezione, rispecchia anche l’intreccio claustrofobico delle anime dei due fratelli intorno a cui ruota l’intero ciclo.

Rebus per Ada
con la consulenza enigmistica di Stefano Bartezzaghi
Fotografia: Monaldo Moretti, David Zamagni
Riprese e montaggio: David Zamagni, Nadia Ranocchi
con Paola Baldini, Marco Cavalcoli, Luigi de Angelis, Chiara Lagani, Sara Masotti, Francesca Mazza, Nina Muffolini
Fanny & Alexander-A. Zapruder Filmakersgroup
Riccione TTV expanded theatre
Riccione, Villa Lodi Fè, 27 giugno 2004


 


 

Le recensioni di "ateatro": 1968
Progetto e regia di Serena Sinigaglia
di Oliviero Ponte di Pino

 

Tra gli anni che nella storia recente hanno segnato una svolta epocale, il 1968 merita senz’altro un posto d’onore. E’ l’anno della ribellione generalizzata e della scoperta della libertà, del tramonto (che pareva definitivo) delle virtù e dei vizi borghesi, l’alba del consumismo giovanilista. In quella breve stagione le due anime dell’ultima rivolta – quella libertaria, individualista e anarcoide e quella marxista-leninista e gruppettara – non si erano ancora cristallizzate e separate.
In quell’anno a molti sembrava possibile cambiare il mondo (in meglio), e in quell’anno il mondo è molto cambiato, come testimoniano molti degli eventi che hanno punteggiato quei mesi e che tornano nello spettacolo di Serena Sinigaglia intitolato per l’appunto 1968.



Dopo un breve prologo impacciato e vagamente didascalico con la autopresentazione di quattro leader del movimento in altrettanti paesi (Francia, Germania, Usa e Italia), sfilano in una serie di brevi scene le mille liberazioni che esplodevano su vari fronti, dalle università alle fabbriche, dai manicomi ai ghetti neri (con il pugno alzato di Smith e Carlos sul podio olimpico), e poi il maggio parigino, i carri armati a Praga dopo la primavera e l’eccidio sulla piazza delle Due Culture a Città del Messico, la nuova consapevolezza femminile, il rifiuto del dogmatismo bigotto delle chiese, la mobilitazione contro la guerra del Vietnam e naturalmente la trasgressiva trinità di sesso, droga e rock & roll... Insomma, con entusiasmo e allegria, senza schemi ideologici preconcetti, 1968 prova a raccontare tutto quello che avrebbe segnato gli anni successivi, sempre rivisitato con leggerezza e ironia, e sospinto da una colonna sonora live con frammenti di Beatles, Rolling Stones, Dylan, i Doors, Cohen che fa da collante e raccordo, così come un paio d’anni fa la musica latina trascinava la biografia teatralizzata del Che, prima della parentesi più didascalica dello sceneggiato teatrale dedicato a Rosa Luxemburg (anche se rispetto agli altri due tasselli di questa trilogia sulla memoria storica, 1968 è probabilmente il più riuscito: politicamente meno semplicistico dello spettacolo sul Che, e certamente più godibile del flash back sulla Germania d’inizio secolo).



Scena dopo scena, si condividono la curiosità e il divertimento che – nei nostri anni plumbei, mentre il mondo sembra cambiare solo in peggio e riesce perfino difficile immaginarselo, un mondo diverso e migliore – hanno animato il lavoro di Serena Sinigaglia (e della sua drammaturga Paola Ponti) e delle quattro interpreti Beatrice Schiros, Irene Serini, Marcella Serli e Sandra Zoccolan, con il supporto del terzetto di musicisti composto da Massimo Betti, Elvio Longato e Andrea Poli.
Così per un’ora e mezza si respira un po’ di quell’aria utopistica e idealistica che una trentina d’anni fa ha mobilitato milioni di ragazzi in tutti i continenti. Anche se alla fine, in tutta questa esplosione di vitalità e di rivolta, di sete di giustizia e rivendicazioni ugualitarie, di coscienze in espansione e fratellanza, si coglie però un indizio rivelatore. Nella montagna di sedie e banchi che occupano la scena, troneggiano infatti due icone. Sono prevedibilmente i ritratti di Jimi Hendrix e il Che. Morti giovani, e dunque cari agli dei (forse), e tuttavia preda entrambi di una incontenibile spinta autodistruttiva.


1968
Progetto e regia di Serena Sinigaglia
Drammaturgia di Serena Sinigaglia e Paola Ponti
Scenografia di Maria Spazzi
Costumi di Federica Ponissi
A.T.I.R. in collaborazione con Torino Spettacoli
Milano, Teatro Verdi


 


 

Le recensioni di "ateatro": Quando l’uomo principale è una donna
di Jan Fabre con Lisbeth Gruwez
di Pietro Gaglianò

 

È tornato il disturbatore, l’artista panico, l’esteta onnivoro. Jan Fabre, sciamanico e rigorosamente premorale, questa volta dà la scalata alle contraddizioni delle identità sessuali con un progetto registico e coreografico raffinatissimo, in collaborazione con le invenzioni sonore di Maarten Van Cauwenberghe e il talento performativo di Lisbeth Gruwez.



Nella scenografia essenziale, costituita unicamente da una ventina di bottiglie d’olio sospese, con il collo rivolto verso il basso, e da un carrello con tutto il necessario per la preparazione di un cocktail, si situa una delle chiavi del genio creativo di Fabre. Un’invenzione che non ha bisogno di costose sovrastrutture (conosciamo, per altro, le sontuose apparecchiature di altri suoi lavori, non solo teatrali) ma riesce, se lo vuole, a farne a meno, e a ridurre lo spettacolo a un’idea e un’interpretazione.
Su questa scena, dunque, si muove la protagonista dell’assolo per danzatrice. Il suo corpo ambiguo, fasciato in un completo maschile, risuona di uno strano acciottolio. È la donna primordiale, l’alchimista intrepido, efficacemente munito di attributi – tre biglie – che entrano ed escono dal suo cache-sex.
L’uomo, principio solare, è inscindibile dalla sua componente femminile, se non altro perché in tempo pre-natale ogni uomo è necessariamente parte della donna (così Hendrik Tratsaert). Ma Fabre è troppo raffinato per ignorare come, nella prospettiva teologica giudaico-cristiana, è la donna discendere dall’uomo, previo sradicamento di una costola. In un gioco di riflessi si costruisce, così, un mosaico colto, profondamente evocativo ma non inutilmente intellettualistico. L’ironia corrosiva dell’artista belga, infatti, fa da contrappunto a tutta l’ardimentosa architettura concettuale con un risultato che, anche formalmente, è ineccepibile e che è godibile anche dal punto di vista semplicemente estetico.



L’olio, intanto, si versa goccia a goccia formando cerchi perfetti e scandendo il tempo.
Lisbeth Gruwez compie la sua corsa in diagonale attraverso gli strati dell’identità, frammenta con lieta disinvoltura lacci e barriere che, dopo il suo passaggio, sarebbe davvero difficile ricomporre. Si libera dei vestiti e degli attributi (che rotolano miseramente ai confini della scena) e, completamente nuda, complice una striscia di nastro nero che "censura" i suoi capezzoli, tende più che mai all’imperfettibile.
Il traguardo di questo viaggio, però, prevede una forma di corruzione. L’androgino rappresenta lo stato di perfezione che è proprio solo di Dio, la sua disgregazione è necessaria: la scissione tra i poli, maschile e femminile, da cui discende la proliferazione della vita.
La complessa coreografia in cui si dibatte – è il caso di dirlo – l’androgino, sembra imposta da una necessità arcaica sintetizzata dall’olio, che permea ogni passaggio, e dal cocktail al cui confezionamento attende la danzatrice. Qualcosa di oscuro ad ogni nuovo assaggio la informa che «Ancora non basta». Non è ancora abbastanza lo slancio e il salto da fare è lungo.
Ogni volta la Gruwez si addentra in una dimensione più frenetica. L’olio, antico e mediterraneo simbolo di vita, la guida in un ulteriore stato della materia dove la sua fisicità si amplifica diventando un’espressione di energia pura.
È un’oliva a segnare il compimento della ricerca, partorita (au pied de la lettre) dalla donna, ecco la separazione, ecco il maschile, irrisorio ma indispensabile contributo seminale, ecco la vita.

Quando l’uomo principale è una donna
regia e scenografia: Jan Fabre
coreografia: Jan Fabre, Lisbeth Gruwez
interprete: Lisbeth Gruwez
assistenza alla regia e drammaturgia: Miet Martens
musica: Maarten Van Cauwenberghe
musica supplementare: Domenico Modugno, "Nel blu dipinto di blu (Volare)"
luci: Jan Fabre, Pieter Troch - costumi: Daphne Kitschen
coordinazione tecnica: Gert Vanderauwera, Pietre Troch
responsabile di produzione: Mark Geurden
produzione: Troubleyn (Anversa, Belgio) in coproduzione con Théâtre de La Ville (Parigi, Francia), deSingel (Anversa, Belgio) con il supporto del Festival Iberoamericano de Teatro de Bogotà
Nell’ambito di Fabbrica Europa XI edizione
Stazione Leopolda, Firenze, 15-16 maggio 2004


 


 

Le recensioni di "ateatro": Il cielo degli altri
Regia di César Brie, Teatro del Setaccio
di Fernando Marchiori

 

Non capita spesso (e certo non è necessario né per ciò soltanto degno di nota) che da un’esperienza di pedagogia teatrale, per quanto intensa e prolungata, nasca un gruppo coeso e che questo gruppo si presenti al pubblico con uno spettacolo vero, dove le motivazioni e le abilità personali trovino una forma che le trascenda. Il percorso, si sa, è più importante della meta e non è il prodotto finale che decide della bontà di una proposta formativa. Tuttavia, quando ciò accade bisogna salutare l’evento con il rispetto dovuto all’urgenza che sempre anima una simile avventura umana e artistica, e il miglior modo per farlo è giudicare quel "prodotto" senza pregiudizi o scorciatoie critiche.
Il gruppo si è dato il nome di Teatro del Setaccio e ha debuttato a Rimini con Il cielo degli altri, regia di César Brie che firma anche i testi (con frammenti degli attori stessi e di Nazim Hikmet). Direttore del Teatro de los Andes in Bolivia, ma da trent’anni ben presente sulla scena italiana, il regista argentino ha guidato con generosità e sapienza maieutica gli interpreti (otto italiani, un francese e un americano, quasi tutti giovanissimi) scelti in vari seminari lungo la Penisola e poi raccolti in un’attività didattica di più ampio respiro a Castiglioncello (grazie alla lungimiranza di Armunia Festival, che produce in parte anche lo spettacolo – per il resto autoprodotto).



Il cielo degli altri. Quello di chi è cresciuto riconoscendo altre costellazioni sopra di sé ma spera di trovare una stessa legge morale negli uomini che alzano la testa verso un diverso cielo, un medesimo orizzonte di umanità. Hassan che scappa dall’Iraq, Kirom dall’Albania, Draid che viene dal Libano e Ahmed dall’Algeria trovano invece l’Italia dell’umiliazione e dello sfruttamento, della legge Bossi-Fini e dei cpt. Un’"accoglienza" non molto diversa da quella che ricevevano i nostri emigranti in America nell’Ottocento e che abbiamo rimosso dalla memoria nazionale: "l’amnesia è comoda come l’anestesia", scrive Brie. E così lo spettacolo si apre con una lettera di Nanni, meridionale con la valigia di cartone, "quaranta giorni di nave fino a Buenos Aires, otto morti e uno nato", che rivela ai conterranei la dura verità: "Oggi la Merica è terminata". Poi tira la cordicella sopra la sua testa e dalla bocca di un sacco sospeso al graticcio comincia a scendere una sabbia fatta di miglio, in una densa striscia dorata che diviene lentamente cumulo sul proscenio. Questa figura di un racconto scenografico eloquente, insieme clessidra e silos che alimenta e dà misura allo spettacolo, verrà ripresa e moltiplicata da altri sei sacchi, aperti in tempi diversi, che continueranno a riversare il loro frusciante contenuto su barche di carta, cappelli, bicchieri, sulle teste degli attori, su una mensa imbandita. È la polvere del tempo sulle lettere, la pioggia sull’ombrello di due albanesi che raccontano la storia del loro Paese, è l’acqua con la quale si lava le mani il chirurgo dopo l’operazione, spiegando gli effetti delle bombe a grappolo.
Nella seconda parte dello spettacolo – vuoti i sacchi del tempo andato e della Storia che ripete i suoi miseri cicli – i mucchietti di sabbia si rivelano alla luce soffusa del proscenio per quello che sono: le dune di una spiaggia. Brie guarda questo tratto di costa italica, e lo fa attraversare agli attori, secondo due operatori descrittivi opposti e complementari: quello della lontananza che leviga il dolore, il tempo che azzera le microstorie o le impasta in una "verità" postuma funzionale all’oblio o all’epica dei vincitori (ne sa qualcosa il regista sudamericano che ha messo in scena un’Iliade andina), e insieme quello del coinvolgimento, il dolore dell’altro che spezza il ghiaccio della nostra indifferenza o che riapre una ferita antica (ne sa qualcosa l’esule in fuga dalla dittatura argentina che trovò rifugio politico in Italia nel 1974). Così alle scene corali, che allontanano la materia in un campo lungo e universalizzano l’esperienza dello sradicamento, si alternano serrate sequenze ravvicinate, primi piani su corpi e vicende di aspirazioni, paure, bisogni quotidiani.
A che cosa cercano di dare voce questi attori che si muovono sul filo del grottesco caro a Brie, ma resistendovi con la vivacità dei vent’anni e una spontanea inclinazione verso i passaggi più poetici del testo? Non solo, com’è scontato aspettarsi, alla disperazione dei clandestini sui gommoni o nelle stive strapiene, al disagio di chi sta in piedi per giorni nelle code alla questura per il permesso di soggiorno o di notte sui marciapiedi delle nostre periferie-bordello, ma anche all’esperienza di chi ha aperto la porta ai nuovi arrivati e ha visto la propria vita cambiare. E un po’ anche a se stessi: "Ho scelto io di fare la bosniaca", spiega un’attrice guardando per un attimo il suo ruolo dall’esterno, e un’altra ammette di aver dovuto vincere la resistenza dei familiari, e di una parte di sé, che dicevano "Sistèmati, avrai un bambino"; "Facciamo questo Imam", sbotta un attore piuttosto scettico prima di entrare nella parte, mentre un altro confessa di trovarsi a "fare l’albanese" dopo essersi lasciato alle spalle "una prestigiosa università, 110 e lode, e un lavoro nelle assicurazioni". Anche il personagio di Ahmed, dopo aver raccontato la sua storia indossando eleganti abiti occidentali sotto una fitta pioggia di sabbia, ritrova la voce dell’attore: "Il mio vero nome è Alessandro. Chissà perché, io che sono timido, in questo spettacolo devo fare un magnaccia marocchino". È anche da questo percorrere i confini tra personaggio e interprete che emerge un tessuto di richiami al presente nostro, di emozioni e interrogativi condivisi da attori e spettatori, senza che i fili narrativi s’ingarbuglino nel moralismo, perché l’ironia si rivolge contro di "noi" quanto contro di "loro". Vediamo comporsi un gruppo di famiglia albanese in un interno di ristrettezze e promiscuità. Dal quadro degli attori in piedi, ritratti come in una foto di gruppo con gli sposi novelli spiati nottetempo nel loro primo amplesso da tutti i maschi di casa, agitati nell’esercizio masturbatorio collettivo, si stacca il giovane che tenterà la traversata clandestina dell’Adriatico sognando un appartamento decente, col frigo e la tivù. Tornerà senza neppure i vestiti, ritrovando il suo posto nella fotografia, il moto sussultorio, il fiato sul collo. Oppure seguiamo l’arrivo di un naufrago su una barca-padellone e il suo entusiamo fuori luogo ("Viva l’Italia, viva il mercato comune europeo!") rivolto ai bagnanti in sgargianti costumi che fanno la fila per mettere i piedi in un secchio d’acqua. Ma sullo stesso padellone un altro naufrago sogna e i suoi racconti sono interrotti da secchiate d’acqua in faccia. Anche la voce s’imbeve, gorgoglia, annega.
E tra le storie più dure quella di Ido, disperso in Bosnia. L’attore che lo interpreta con occhi assenti è accasciato sulla sabbia, abbandonato tra le braccia della moglie che lo cerca ancora. Per il suo pastrano militare, per l’acqua e la sabbia impastate sulla faccia come contrappunti al candore vitreo dello sguardo, per la postura stessa ricorda la serie di soldati e partigiani del primo Baselitz.
Alle donne l’attesa o lo sfruttamento sessuale: Alma cerca il marito disperso, Nur lo aspetta e appende le sue lettere al velo nuziale, Amina parte insieme a Kirom e si metteranno in proprio: lei a battere, lui a proteggerla, Nazrim riceve la sua iniziazione inginocchiata tra due uomini che la fanno bere, oscenamente, da bottiglie d’acqua offerte come membri.
A saldare le scene è il refrain di un bilancio truccato tra ciò che si trova (si sogna di trovare) e ciò che si lascia e si perde per sempre, perché anche tornando nulla sarà più come prima. Una dialettica che diventa schizofrenia nei lunghi elenchi di merci e affetti, presagi e rimpianti. E più ancora funziona da collante il continuo richiamo al tema della comunicazione interrotta, del cortocircuito di pensieri, lettere, telefonate, di equivoci, scarti, distanze linguistiche. Un dramma nel dramma dei migranti, tra lost in translation e perdita della lingua madre, che culmina nell’ipostasi delle tre mendicanti in piedi: si tolgono di bocca un foglietto di carta ripiegato, lo aprono e lo rivolgono al pubblico a formare la scritta "Ho perso / la / lingua". È una scena ripresa da Il paese di Nod, lo spettacolo che Brie mise in scena con Iben Nagen Rasmussen in Danimarca nel 1986, quando la parabola del suo esilio era ormai giunta al punto estremo.
L’elemosina di qualche spicciolo gettato ai piedi di quelle donne denuncia tutta la nostra inadeguatezza umana e culturale di fronte alla condizione di chi rischia l’annichilimento tra l’indifferenza o il fastidio dei più: "Non mi lamento di nulla", dice infine Ahmed, "dal nulla sono venuto e ci torno volentieri. Non lascio nessuna traccia. Di me non ci sarà testimonianza. Non sono mai esistito".
A contrastare l’amara conclusione resta tuttavia la scena chiave dello spettacolo, che indica l’orizzonte di un possibile incontro, di una accoglienza autentica. Recuperando il bidone della spazzatura (di quelli verdi, con le ruote) appena servito per un inquietante interrogatorio in un cpt, Brie opera una dilatazione spazio-temporale. L’azione rallenta sulla musica di Satie, attraversa il palcoscenico in diagonale, la recitazione è rarefatta. Un uomo spinge il bidone-sedia a rotelle dal quale una donna ogni tanto indica, chiede di andare, si sporge (inclinando il bidone controbilanciato dal corpo dell’uomo) a frugare tra la sabbia, in un secchio: trova una scarpa, una camicia, una lettera, resti di altri naufraghi, di un medesimo destino che le ha strappato il marito. Ma l’uomo della spazzatura è paziente, premuroso, consenziente. Gli avevano chiesto di ospitare una profuga, "ma non si trattava soltanto di una stanza. Tempo, orecchie, questura, permessi, lacrime, pannolini, le sue figlie che diventano le tue… Lei è entrata nella mia vita, ma dietro di lei è stata la guerra a entrarci. E poi, tutto questo è diventato la mia vita…". Come se da una delle figure teatrali di più radicale affermazione dell’incomunicabilità – i bidoni di Nell e Nagg nel Finale di partita di Beckett – Brie fosse riuscito a estrarre un controsenso che ne rifiuta il nichilismo. E che è poi il solo modo per dare oggi un senso al fare teatro di questi giovani, e al nostro andarci ancora a teatro.

Il cielo degli altri
Regia di César Brie
Teatro del Setaccio


 


 

I Premi della Critica Teatrale 2004
Consegnati a Napoli il 29 maggio
di Associazione Nazionale dei Critici di Teatro

 

Associazione Nazionale dei Critici di Teatro

PREMI DELLA CRITICA TEATRALE 2003/2004
NAPOLI - Sabato 29 maggio alle ore 20.00 al Teatro Mercadante di Napoli avrà luogo la cerimonia di consegna dei Premi della Critica Teatrale 2003/2004, assegnati dall'ANCT (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro), con l’intento di segnalare gli eventi più significativi che hanno caratterizzato la vita teatrale nel nostro Paese.
Nessun obbligo di riferimento a "generi" o "categorie" specifiche, ma l'indicazione annuale di quei momenti, di quelle persone che con la loro arte, passione e lavoro hanno sviluppato la ricerca di nuove forme teatrali, sul piano strettamente artistico, ma anche scientifico e organizzativo.
Un’originale indagine conoscitiva, che ha interessato l'intera area geografica del teatro italiano, ha portato alla scelta di eventi e nomi rappresentativi della scena italiana e non. A cominciare dal miglior spettacolo, La visita della vecchia signora con Isa Danieli. Tra i premiati un eccellente quartetto d'attori che annovera Annamaria Guarnieri (per la sua interpretazione di Prospero ne La tempesta diretta da Latella), Mario Scaccia (meraviglioso Goldoni al tramonto nei Memoires di Scaparro), Warner Bentivegna (interprete incisivo de La peste di Camus a Torino con la regia di Claudio Longhi) e Michela Cescon, tenera e forte Giulietta degli spiriti nello spettacolo felliniano firmato da Valter Malosti. Con loro premiati anche Gioele Dix per l'intelligente e moderna rilettura dell'Edipo di Sofocle. Miglior regista Cesare Lievi per La brocca rotta di Kleist e l'Alcesti di Raboni, mentre a Emma Dante è stato assegnato il premio per la scrittura scenica di Medea. Riconoscimenti anche al lavoro della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo e ad Arturo Cirillo, ai giovani attori emergenti Paolo Pierobon e Filippo Timi, al Tib Teatro di Belluno, allo scenografo Giuseppe Crisolini Malatesta, allo studioso Marco Consolini, e a due operatori teatrali, Paola Pedrazzini e Federico Toni, che hanno proposto stagioni teatrali di grande interesse a Fiorenzuola (Piacenza) e Pieve di Cento (Ferrara). Con Zio Vanja, presentato col suo Maly di San Pietroburgo, il grande regista siberiano Lev Dodin ha ricevuto il premio per il miglior spettacolo straniero proposto quest'anno in Italia.
Il Presidente
Giuseppe Liotta


 


 

Perché un artista può essere preso per un terrorista dall'FBI?
L'arresto di Steve Kurtz del Critical Art Ensemble
di Redazione ateatro

 

L'11 maggio a Buffalo è stato arrestato Steve Kurz, uno degli animatori del Critical Art Ensemble. E' una vicenda insieme tragica e ridicola, minima e inquietante. Ed è aggravata dal fatto che due altri membri del CAE il 30 maggio abbiano ricevuto un avviso dall'FBI mentre si recavano all'"Interventionists" art show.
Qui di seguito, la traduzione italiana del comunicato sull'arresto di Steve Kurtz postato da francesca sul sito http://www.thething.it. /ndr).


Non cessa l'isteria securitaria alimentata dal governo statunitense col pretesto della "Guerra al terrore". A farne le spese, in maniera assurda, Steve Kurtz del Critical Art Ensemble.
E' di ieri la notizia dell'arresto di Steve Kurtz (poi rilasciato), componente del collettivo di artisti radicali Critical Art Ensemble, con la farneticante accusa di bioterrorismo. Sembrerebbe grottesco, se in tutto questo non si annidasse una tragedia reale. Ma cosa è successo di preciso?
Riportiamo i fatti dal comunicato che circola in rete.
La mattina dell'11 maggio Steve Kurtz telefona al pronto intervento, riferendo che la moglie aveva subito un arresto cardiaco ed era morta nel sonno. Dopo essersi recata sul posto, la polizia decide che le installazioni artistiche di Kurtz sono in realtà armi per il terrorismo biologico.
E' iniziato così un flusso di eventi orwelliano, in cui gli agenti dell'FBI hanno arrestato Kurtz senza alcuna imputazione, hanno messo i sigilli all'intero isolato, e hanno sequestrato computer, manoscritti e materiali artistici... e addirittura il corpo della moglie.
Come nel caso di Brandon Mayfield, l'avvocato musulmano di Portland detenuto per due settimane sulla base di prove false e inconsistenti, il caso di Kurtz dimostra ampiamente i rischi posti dall'USA Patrioct Act, abbinato all'isteria sul terrorismo alimentata dal governo.
Steve Kurtz è professore associato nel dipartimento d'arte presso la New York University di Buffalo, e fa parte del Critical Art Ensemble, il collettivo artistico di fama mondiale, noto anche in Italia per testi come Sabotaggio elettronico e Disobbedienza Civile Elettronica.
La moglie di Kurtz, Hope Kurtz, è morta nel sonno per arresto cardiaco nelle prime ore del mattino dell'11 maggio. La polizia, dopo essersi recata sul posto, ha cominciato a nutrire sospetti sui materiali artistici di Kurtz e ha chiamato l'FBI.
Nel giro di ore, gli agenti dell'FBI hanno "trattenuto" Kurtz col sospetto che fosse un bioterrorista, e hanno cordonato l'intero isolato che circonda casa sua (Kurtz è stato rilasciato il giorno successivo su disposizione di un avvocato, dato che la sua "detenzione" si è dimostrata illegale). Nei giorni successivi, decine di agenti con tute isolanti, appartenenti a diversi apparati di pubblica sicurezza, hanno passato al setaccio il lavoro di Kurtz, esaminandolo sul posto e sequestrando computer, manoscritti, libri, strumenti e addirittura il corpo della moglie per ulteriori analisi. Nel frattempo, il Dipartimento Sanitario di Buffalo ha dichiarato "a rischio" l'abitazione.
Ma cos'è che ha scatenato tanta paranoia? Da tempo la riflessione teorica e artistica del Critical Arte Ensemble affronta la politica delle biotecnologie. Free Range Grains, l'ultimo progetto in ordine di tempo, consiste in un laboratorio mobile per l'analisi del DNA, che permette di verificare l'eventuale contaminazione transgenica dei prodotti alimentari. E' stato questo strumento che ha dato il via alla kafkiana catena di eventi.
Gli esami condotti sul posto e successivamente in laboratorio da parte dell'FBI hanno dimostrato che la strumentazione di Kurtz non è mai stata usata per scopi illegali. Anzi, in realtà non è nemmeno possibile usare questa strumentazione per una eventuale produzione di germi pericolosi da usare come arma batteriologica. Inoltre, fa notare il comitato di difesa di Kurtz, questo tipo di apparecchiature sono perfettamente legali negli Stati Uniti e facilmente procurabili da chiunque.
"Oggi, non c'è alcun modo legale per impedire alle grandi corporation di inserire materiale geneticamente modificato in quello che mangiamo", ha detto il portavoce del comitato di difesa Carla Mendes. "Eppure possedere l'apparecchiatura necessaria per verificare la presenza di 'Frankenfood' vi fa cascare sul capo l'accusa di 'terrorismo'. Potete essere detenuti illegalmente da oscuri agenti del governo, perdere l'accesso a casa vostra, al vostro lavoro e ai vostri possedimenti, e scoprire che il corpo di vostra moglie appena deceduta è stato portato via per 'accertamenti'".
Benché Kurtz abbia infine potuto tornare a casa e recuperare il corpo della moglie, l'FBI non ha ancora restituito né le apparecchiature, né i computer, né i manoscritti, e tantomeno ha fornito indicazioni su quando lo farà. Il caso rimane aperto.
Il comitato di difesa ha aperto un fondo per sostenere le spese legali (http://www.rtmark.com/CAEdefense/) di Kurtz e degli altri membri del Critical Art Ensemble. Qualora i fondi raccolti dovessero eccedere i costi della difesa legale, i soldi restanti saranno impiegati per aiutare altri artisti.

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Per ulteriori informazioni sul Critical Art Ensemble:
http://www.critical-art.net/

Articoli sul caso:

http://www.rtmark.com/CAEdefense/news-WKBW-2.html

http://www.rtmark.com/CAEdefense/news-WKBW.html


 


 

L’Orestea di Gibellina (Capitta sulle Orestiadi 2004)
L'edizione 2004
di Gianfranco Capitta

 

L’Orestea di Eschilo è stato il momento costitutivo di tutte le attività delle Orestiadi di Gibellina, la cui Fondazione ne ha preso, non a caso, il nome. E’ stata infatti la trilogia di Eschilo ad avviare, agli inizi degli anni Ottanta, il teatro sui ruderi della città vecchia, quindici anni dopo il terribile terremoto che nel 1968 l’aveva distrutta completamente. Il Cretto, il grande sudario bianco di cemento ideato da Alberto Burri, era allora solo un progetto che si avviava a espandersi, ma con la traduzione contemporanea e in siciliano di Emilio Isgrò, e con la regia di Filippo Crivelli e le spettacolose sculture sceniche di Arnaldo Pomodoro, nacquero Agamennuni, Cuefuri e Villa Eumenidi. L’antica trilogia che per la prima volta in occidente aveva mostrato e ratificato il potere dei cittadini di Atene chiamati a giudicare Oreste, amplificava ora la domanda di Gibellina e dei suoi abitanti di una fondazione nuova e di una nuova convivenza tra cittadini.
Poi a Gibellina (sui ruderi della vecchia e negli spazi di quella nuova ricostruita a venti chilometri in una sorta di concorso ideale e generoso tra i più diversi e prestigiosi artisti e architetti) il teatro si è fatto tradizione, quasi necessità. Negli anni sono passati da lì i più grandi artisti della scena italiana e internazionale. Peter Stein vi ha portato la sua Orestea preparata in russo a Mosca negli anni della Perestrojka gorbacioviana. E quella domanda di teatro continua ancora, riproponendo ancora i nostri quesiti alla trilogia più antica, l’Orestea di Eschilo.

Da anni le Orestiadi di Gibellina volevano riproporre al teatro le domande che dall’antichità classica lo spettatore gli rivolge: domande sul futuro e sul presente, sulla propria comunità e su quanti da fuori vi guardano. E’ nata così questa nuova Orestea, che guarda a Eschilo da questo terzo millennio in cui tutto appare precipitosamente cambiato. Da qui la decisione di chiamare tre registi diversi (per sesso, nazionalità, cultura e formazione), tutti sotto la soglia dei quarant’anni, cui affidare la realizzazione delle tre parti della trilogia. Ad essi la Fondazione Orestiadi ha suggerito solo due chiavi di lettura, strettamente legate tra loro: la prospettiva dell’Africa, che poche miglia dividono dalle coste siciliane con tutte le cronache di dolore di questi anni ma anche di felice integrazione, e il lavoro poetico di Pier Paolo Pasolini, che non solo tradusse Orestea nel 1960 per Vittorio Gassman, ma trovò proprio nell’Africa il luogo di contatto tra il mito e noi, come dimostrano i suoi film, in particolare quel saggio poetico che sono gli Appunti per un’Orestiade africana.
Il primo episodio di questa nuova Orestea è stato realizzato nell’estate 2003 a Gibellina da Rodrigo Garcia. Fedelissimo nello spirito alle chiavi di lettura affidategli, il lavoro dell’artista ispanoargentino su Agamennone ha sconvolto chi l’ha visto, per la violenza e la poesia con cui ha affrontato le tematiche del potere e della sua legittimazione, della spartizione delle risorse, della giustizia e delle responsabilità.

Proprio grazie all’invito della Biennale Teatro diretta da Massimo Castri, quest’anno sono state realizzati, e debutteranno per la prima volta a Venezia, gli altri due episodi della trilogia. Monica Conti si avvale di altri linguaggi (come il canto e la musica) per affrontare il "lato femminile" della tragedia, quelle Coefore che sono il luogo di transito obbligato tra un "passato che non passa" e un futuro che resta oscuro e quasi impossibile da razionalizzare. Caden Manson e il suo Big Art Group statunitense si affacciano invece sulla dimensione futura di Eumenidi, usando il progresso della tecnologia come strumento di interpretazione e progettazione del nuovo. I linguaggi, ma perfino il colore e il suono di ogni episodio, saranno così molto diversi tra loro, ma proprio per questo potranno dare più suggestioni e possibilità di comprensione a quelli che restano i grandi e più rischiosi interrogativi della convivenza umana.
Della trilogia di Eschilo, Coefore è il testo dove apparentemente meno accade, nonostante il sangue del matricidio di Oreste. Per molti, e per molto tempo, è sembrato il meno "avvincente" dei tre episodi. Oggi qualcosa è cambiato dopo l’Orestea di Peter Stein a Berlino nel 1980 (e poi a Mosca). Ma soprattutto è stata la rilettura pasoliniana che ha dato corpo e parola a un personaggio muto in Eschilo, Pilade, a farci capire che è proprio nelle Coefore che si compone l’identikit che individua i ruoli e la natura stessa dell’intera trilogia tragica.
Elettra sopravvive fantasticando un domani che ridia vita a forme, gerarchie e valori del passato; Oreste è tutto proiettato sul futuro da cui è affascinato, quasi non abbia mai avuto né storia né memoria, costretto quasi ad assorbirle da quella noiosa e insistente sorella, già ai limiti dell’ossessione. Pilade tace in Eschilo, ma quando Pasolini gli da voce e titolo, scopriamo l’importanza della sua mediazione, il fatto che racchiuda in sé, quasi traumaticamente, la fertile contraddizione tra passato e futuro, tra tradizione e progetto.
Pasolini ammetteva di rispecchiarsi e riconoscersi nel dilemma di Pilade, e noi possiamo a nostra volta farlo nei dubbi e nella lucidità spesso dolorosa di Pasolini .
Una donna regista, Monica Conti, è stata chiamata a mettere in scena il doloroso equilibrio di Coefore. A sua volta ha chiamato una grande attrice, Anna Maria Guarnieri, a interpretare Elettra ma anche quel suo risvolto atavico e sanguinario, e che pure l’ha generata, Clitennestra. La chiarezza e l’esperienza di entrambe aiuterà a traghettarci da Agamennone a Eumenidi, dall’oscurità del passato alla crudele chiarezza dell’oggi.

E con gli strumenti dell’oggi forse la realtà può essere solo "rappresentata", o meglio documentata, con strumenti ad alta definizione. Dal rimescolamento dei brandelli di verità ad una consapevolezza possibile: con il bagaglio tecnologico cui si è formato e che con sicurezza padroneggia, il trentenne Caden Manson prepara le sue Eumenidi Gentler. Sotto la "lente d’ingrandimento" delle webcam, quasi come un avveniristico entomologo, l’artista (divenuto notissimo anche in Europa per il suo lavoro con il newyorkese Big Art Group, con il quale ha appena preparato un nuovo spettacolo commissionato dal parigino Festival d’Automne), scompone e ricompone il percorso poetico e civile dalle Erinni alle Eumenidi, filtrandolo attraverso la lezione pasoliniana in America. Uno sguardo originale e insospettato che sarà capace forse di dare suggestioni valide e nuove anche per noi, in epoca di forzata globalità e quasi avvenuta omologazione.

Il programma del festival


 


 

Per un pugno di applausi? (Calbi su Teatri dello Sport 2004)
Teatri dello Sport 2004
di Antonio Calbi

 

L’attore è un atleta del cuore

L’attore è simile a un vero e proprio atleta fisico,
ma con questo sorprendente correttivo:
all’organismo atletico corrisponde in lui un organismo affettivo,
parallelo all’altro, quasi il suo doppio
benché non operante sullo stesso piano.
L’attore è un atleta del cuore. (...)
Tutti i mezzi della lotta, del pugilato, dei cento metri e del salto in alto
trovano analogie organiche nell’esercizio delle passioni;
hanno gli stessi punti fisici di sostegno.

Antonin Artaud
Il teatro e il suo doppio


Passione

Abbiamo privilegiato per troppo tempo il pensiero,
la razionalità, la nostra capacità di calcolo:
dobbiamo saper tornare al cuore.
Spesso, si sono considerati il cuore e le passioni
come elementi o categorie fragili: e dunque inaffidabili.
Al contrario, la passione è una categoria robusta, potente:
è quella che consente all’uomo la fantasia,
lo scatto di generosità, la gratuità del gesto.

Andrea Zanzotto
La montagna e la dimensione del piccolo


Teatri dello Sport taglia il nastro di partenza della sua terza edizione a Milano. Sì, perché quest’anno il progetto è emigrato pure a Genova, su richiesta del Teatro della Tosse e di Sergio Maifredi, e a Reggio Emilia, su invito della Fondazione I Teatri e del suo direttore Daniele Abbado. Dunque non soltanto siamo riusciti a realizzare tre edizioni meneghine, cosa non da poco in una Milano sempre più mesta e disorientata, ma il progetto si fa nazionale. Noi ne siamo contenti, anche perché in origine, come è nostra consuetudine, abbiamo pensato questo nuovo progetto come un esperimento, un’avventura, una sfida. Vinta.
La manifestazione può vantare ormai una sua piccola forza; ha centrato i propri obiettivi, a partire da quello di mescolare i pubblici del teatro e quelli dello sport, di portare fatti d’arte e di teatro laddove non sono, chissà perché, contemplati. Ha lanciato nuovi talenti: uno fra tutti, il palermitano Davide Enia, il quale continua a entusiasmare platee d’ogni tipo e di tutta Italia col suo Italia-Brasile 3 a 2, rivisitazione divertita e appassionata del "cunto" siciliano, qui al servizio di una epica del pallone, e che ebbe il proprio battesimo a San Siro, in apertura della prima edizione. Ma nella memoria degli spettatori-sportivi di Teatri dello Sport si sono impresse senza dubbio anche le immagini della Nuotatrice di Giovanna Bozzolo e Daniele Abbado, in piscina naturalmente; il Meazza che lentamente si illumina per rivelarci tutta la sua bellezza di macro-architettura e il suo "vuoto" che inquieta. Se poi alla visione si associa pure l’ascolto, grazie alla voce di un attore come Marco Cavicchioli, da ascoltare dall’alto del terzo anello, allora la vertigine di quell’esperienza si fa davvero indimenticabile.
E ancora, il calcio danzato degli sloveni del Fico Ballet e quello dei norvegesi della Jo Stromgren Kompani. I due amici in corsa nella Maratona di New York di Erba. I giovani detenuti "olimpionici" del Beccaria: che emozioni indescrivibili ha innescato quella banda di giovani colpevoli eppure così innocenti, a combattere coi propri corpi e coi propri sé... Sono, queste, soltanto alcune delle polaroid della prima edizione.
Dal 2003 arrivano le immagini della sarabanda del Thé‚tre de la Mezzanine con il velodromino di Shooting Star nel quale far pedalare e danzare le sequenze agrodolci di un secolo. Le competizioni ciclistiche della Milano e della Lombardia degli anni Cinquanta ritratte da Testori nel suo dio di Roserio, adattato per la scena da Maurizio Donadoni. Il Filottete in radiocronaca di Lady Godiva, e così via.

Fondamentale è poi, nella formula della manifestazione, il luogo, o meglio i teatri naturali che coinvolge. Location imprescindibili per le drammaturgie innescate, sollecitate, richieste. Trattasi di impianti sportivi, con la sola concessione dell’ovale di legno e mattoni della più anomala fra le sale del Piccolo Teatro: lo Stadio Meazza, l’Arena Civica Gianni Brera, la piscina Cozzi, la palestra Forza e Coraggio, il Palazzo del Ghiaccio, la palestra del carcere minorile Beccaria, ma pure il citato Teatro Studio, lo Spazio Oberdan, la sala di lettura della mediateca del Centre culturel franÁais de Milan. Questi i set abitati fino a oggi da questo festival che fa vivere gli impianti in modo inedito.

Luoghi, soggetti, campioni e discipline sportive, autori e interpreti, generi teatrali e mixed-media, spettatori e tifosi, poesia e crudeltà, pensieri e passioni, destini privati e sentimenti collettivi. Epicità dell’agone.



Teatri dello Sport, è opportuno riannotarlo, fa incontrare discipline sportive e arti sceniche nel nome della passione, del racconto epico, della memoria, della partecipazione, del sano agonismo, del tifo pulito e della spettacolarità intelligente. Teatri dello Sport ci rammenta che il teatro e lo sport siamo noi, ci raccontano come siamo, cosa vogliamo, per cosa e per chi ci appassioniamo. Ci ricorda soprattutto che lo sport non è soltanto evento mediatico, star miliardarie, folle tifanti o tifoserie rissose, bilanci falsificati, partite truccate, corpi alla chimica, danaro e potere, potere e danaro.

Teatri dello Sport ci rammenta che lo sport e il teatro sono ambiti e luoghi che ci appartengono, modi dell’essere e della partecipazione. Sono nostri prima che di coloro che li "comandano", perché ci mettono alla prova, ci pongono in relazione all’altro e agli altri, creano squadra e collettività...

Dopo il calcio omaggiato a piene mani nell’edizione d’avvio, dopo il ciclismo indagato lo scorso anno, ecco quest’anno il palcoscenico farsi ring e eleggere a protagonista di questa tornata l’arte di tirar cazzotti. Teatri dello Sport 2004 è dedicato alla boxe.

Non perché amiamo gli sport violenti. Curiosamente, molti sono stati i copioni dedicati alla noble art arrivati in questi mesi, cosicché quest’anno a Teatri dello Sport ci si batte per un pugno di applausi. Una disciplina che ha conosciuto epoche gloriose, anche italiane, e che forse negli ultimi decenni ha perduto smalto. Sarà che la violenza è talmente tanta nella vita di tutti i giorni, che di veder volar cazzotti per sport proprio non vogliamo saperne?

Anche Teatri dello Sport 2004 propone creazioni teatrali adatte a un pubblico eterogeneo, composto tanto di spettatori appassionati di teatro quanto di sport.



Ecco dunque i campioni eroici, i miti del pugno evocati dal programma 2004: Tyson raccontato da Giorgio Ganzerli, Alì rievocato dall’attore della Costa d’Avorio Rufin Doh, Tiberio Mitri da Mario Gelardi, il match fra George Carpentier e il senegalese Battling Fiki, reiventato da Orio Vergani e interpretato da Andrea Facciocchi. Ma sono di scena pure campioni di caratura meno pregiata ma non meno nobili: il viterbese Sergio Caprari raccontato da Ferdinando Vaselli, i "puggili", l’allenatore e la moglie, ritratti in romanesco da Alessandro Canale, la boxe danzata dal colombiano Juan Diego Puerta Lopez.
Sette round di un viaggio nella memoria, nel mito, nel combattimento. Sette racconti di vite stravolte dal successo, di povertà che si veste d’oro e che poi ripiomba in basso. Storie di umanità e di gloria.

E poi il calcio: dal Brasile al Meridione d’Italia alla rivisitazione di una partita che resterà nella storia. Il Garrincha derivato da un romanzo di Darwin Pastorin, il calciatore femmina di Egidia Bruno e Enzo Jannacci, la finale dei mondiali di Spagna 1982, che ci incoronò campioni del mondo (pare un secolo fa!) rigiocata come un solitario dall’italo-svizzero Massimo Furlan, un artista che chiama gli spettatori a giocare anch’essi con la memoria e il proprio ruolo in un evento che, crediamo, divertirà molto, radiotrasmesso da Radio Popolare.
E prima di trasformare l’Arena in un paesaggio d’Africa, ecco l’ascesa a una montagna di Paolo Trotti e Roberto Rustioni, complici le suggestioni di autori come Buzzati e Daumal.

Infine, l’evento più spettacolare di questa edizione è senz’altro rappresentato dalla lotta tradizionale senegalese che trasformerà l’Arena Civica Gianni Brera in un recinto rituale africano. I campioni dello sport nazionale del Senegal - fra i quali due assi come Tyson e Bombardier - saranno per la prima volta in Italia e condivideranno con noi il loro rito principe. In patria entusiasmano le folle come le nostre nazionali migliori.

12 spettacoli, quasi tutti in prima assoluta, 8 giorni di programmazione, 20 rappresentazioni, fra le quali 2 eventi.

Ancora una volta tutto ciò lo abbiamo fatto per passione ma anche per continuare a credere in una Milano viva e non ripiegata su stessa, in una cultura presente al proprio tempo, in uno sport pulito e che ritorni a essere "fatto sociale" nel senso alto. E pure questa volta abbiamo operato affinché gli artisti possano meritare, speriamo, un pugno di applausi, e non soltanto un pugno di dollari, per dirla con Sergio Leone. Perché in fatto di economie siamo sempre al punto zero. Per allestire il budget minimo necessario abbiamo faticato ancor più che nel passato. E nel ringraziare ancora una volta le istituzioni - a partire dal Comune di Milano, dalla Regione Lombardia e dalla Provincia di Milano - dobbiamo lamentare anche quest’anno la totale indifferenza del mondo del business sportivo. Peccato. Soprattutto per loro.

Che resti - quel mondo, quel modo di intendere la cultura e lo sport -, nella sua finta doratura, nella sua arrogante distanza, nel suo snobismo ignorante e suicida. Noi proseguiamo per piccole comunità, certo, ben consapevoli però che il senso delle cose non lo si produce soltanto in decadenti stanze dei bottoni, nelle fabbriche di palloni, scarpette, braghini e quant’altro, nelle strategie di comunicazione. Quando il vuoto è reale, non c’è finzione e messaggio che tenga. Prima o poi il Re, se è nudo, tale apparirà. Come di fatto sta accadendo. E allora, forse, sarà troppo tardi.

A noi pare che più gli anni passano e più lo sport necessiti di un momento di riflessione su se stesso. Non più procastinabile. Il nostro progetto vuole rappresentare anche questa occasione: momento di pensiero, di poesia, di sospensione della macchina economica e mediatica e dopata e truccata e falsificata e artefatta. Un momento collettivo, che vorremmo condividere con tutti voi: spettatori qualunque e campioni, appassionati furiosi e fini pensatori, professionisti e dilettanti, uomini e donne mature e nuove generazioni, grandi e piccini.

Buon Teatri dello Sport a tutti.

Il programma del festival.


 


 

Le telestreet italiane in un evento-incontro a Monaco
MediaDemocracy and Telestreet
di Tatiana Bazzichelli

 

Evento-incontro internazionale
MediaDemocracy and Telestreet
Networking Free TV

Muffathalle, Monaco, 14-16 Luglio 2004

L'Evento-incontro internazionale "MediaDemocracy and Telestreet. Networking Free TV" presenta progetti e riflessioni sulla 'media guerrilla' e l'informazione indipendente in Italia. Nonostante il monopolio televisivo berlusconiano, vive e si sviluppa da alcuni anni un network di TV di quartiere, radio libere e comunità in Internet che agisce negli interstizi del panorama mediatico italiano. Questo network produce e diffonde informazione accessibile dal basso, non fruibile nei contesti mediatici mainstream, dando vita a una concreta alternativa.

14 luglio 2004
ore 17:00
Opening dell'Evento
Presentazione della nuova versione del DVD P2P FightSharing (I + II)
Il DVD presenta forme di networking e cooperazione transeuropea fra coloro che realizzano attivismo politico e mediatico. In particolare, il DVD mostra azioni di protesta cittadina, media activism, guerrilla informativa e sabotaggio mediatico.

Evento con Candida TV, Minimal TV, New Global Vision, Rekombinant, P2P-FightSharing, infoAccessibile e contributi video sul circuito delle Telestreet.
A cura di: Tatiana Bazzichelli (AHA: Activism-Hacking-Artivism http://www.ecn.org/aha)
Alexandra Weltz (a_weltz@hotmail.com)

15 giugno 2004: Conferenza
14.30 ­ 16.00: Discorso introduttivo
infoAccessibile (Enrico Bisenzi - www.infoaccessibile.com)
Minimal TV (Giacomo Verde - www.minimaltv.cjb.net)
New Global Vision (N.N. - www.ngvision.org)
16.30 ­ 17-30
Rekombinant (Matteo Pasquinelli - www.rekombinant.org)
Candida TV (Agnese Trocchi - www.candidatv.tv)

18.00-19.00
Dibattito MediaDemocracy and Telestreet
Networking Free TV

20.30: Proiezione di RADIO ALICE - Un documentario sulla storica radio libera che rivoluzionò la comunicazione via etere e sul '77 italiano. Regia di Guido Chiesa, 2002, 59 min.
Dopo la proiezione: ..."qui e' la guerrilla - Tunes for Casino" con DJ Bellissima.

Nell'ambito di "Va bene ­ Understanding Europe: Italy"
Rassegna culturale e politica organizzata dalla Bundeszentrale für politische Bildung/bpb
Maggiori informazioni su: http://www.ecn.org/aha


 



Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
copyright Oliviero Ponte di Pino 2001, 2002