(74) 17/10/04

Buone Pratiche, Elmi e mutande
L'editoriale di ateatro 74
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and1
 
Le Buone Pratiche: avant programme
Una Banca delle idee per un nuovo teatro
di Franco D’Ippolito, Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and5
 
Presidenziali USA: il teatro come arma di seduzione di massa
La mobilitazione teatrale contro Bush
di Alessandra Nicifero

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and10
 
Retoriche del genocidio
In margine a Rwanda 94
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and20
 
Video Inferno. Intervista a Massimo Munaro del Teatro del Lemming
Rccolta per la tesi di laurea L’immagine elettronica in scena – alchimia di una realtà de-materializzata
di Noemi Binda

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and22
 
Attraverso la drammaturgia italiana contemporanea
Dalla XXXVI Biennale Teatro
di Fernando Marchiori

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and23
 
Teatro tra le gru
L’estate dei festival ad Amburgo è Kampnagel
di Mara Serina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and30
 
Tra performance, video e teatro, tra arte e vita
The biography remix di Marina Abramovic, regia di Michael Laub
di Silvana Vassallo

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and3
 
Il Teatro Civico della Spezia: alcune modeste provocazioni
Spettacolo, politica e cultura in una città italiana (che per fortuna è di sinistra...)
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and37
 
develop.net: teatro, centri sociali e spazi autogestiti
prototipo per un sistema teatrale
di Gian Maria Tosatti per develop.net

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and50
 
Un gestionale per compagnie teatrali
Un progetto di freeware da costruire insieme
di Michele Cremaschi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and51
 
Una società di servizi per il nuovo teatro
Per le Buone Pratiche
di Danny Rose s.c.

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and52
 
Semi di cooperazione
La rete di tre teatri milanesi
di Adriano Gallina per Teatro Blu, Teatro della Cooperativa, Teatro Verdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and92
 
Tecniche e valori di scambio reciproco fra cinema e teatro
La proposta di "Comedy"
di Claudio Braggio

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and88
 
Una casa comune per l'arte
L'Arboreto di Mondaino
di Fabio Biondi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and55
 
Progetto Nave fantasma
Produrre con il contributo (del) pubblico
di Renato Sarti (Teatro della Cooperativa)

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and56
 
Realizzare un sito... con RStage è facile come fare una telefonata
Un originale software/builder
di Silvio Bastiancich

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and57
 
Un nuovo canale televisivo sperimentale e digitale fatto da giovani
Una tv delle comunità
di Claudio Braggio

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and58
 
Architettura & Teatro in seminario a Reggio Emilia
23-24 ottobre al Teatro della Cavallerizza architetti, scenografi e registi a confronto
di Fondazione I Teatri di Reggio Emilia

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and80
 
Romanzesche avventure di donne perseguitate nei drammi fra Quattrocento e Cinquecento: il teatro medievale a convegno
A Roma dal 7 al 10 ottobre
di Associazione Centro Studi sul Teatro Medievale e Rinascimentale

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and81
 
Siete ancora in tempo per la XII Biennale dei Giovani Artisti
Il bando scade l'11 ottobre, appuntamento a Napoli nel 2005
di Zone Attive

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and82
 
Luca De Fusco risponde a Franco D'Ippolito
Sul "Libro bianco degli stabili"
di Luca De Fusco

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and83
 
In anteprima per ateatro l'inizio di Predisporsi al micidiale, il nuovo spettacolo di Alessandro Bergonzoni
Con le date della tournée
di Alessandro Bergonzoni

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and84
 
Luzi, Tiezzi & Lombardi: Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini in scena a Siena
Repliche a Firenze e Roma
di Compagnia Lombardi-Tiezzi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and85
 
La sentenza sul caso Benedetti-Pedullà
Intorno alla ricostruzione del "caso Martone"
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and87
 
Il Premio Tuttoteatro.com “Dante Cappelletti” a A.V. dell'Associazione Culturale Narramondo
Selezionato tra 8 progetti finalisti
di www.tuttoteatro.com

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro74.htm#74and91
 

 

Buone Pratiche, Elmi e mutande
L'editoriale di ateatro 74
di Redazione ateatro

 

La convocazione per

LE BUONE PRATICHE. UNA BANCA DELLE IDEE PER UN NUOVO TEATRO,
la giornata di incontro e scambio che si terrà il 6 novembre alla Civica Scuola d’Arte Drammatica «Paolo Grassi» di Milano, sta ottenendo un successo imprevisto.

Sono decine e decine le Buone Pratiche e le conferme che ci sono arrivate in questi giorni. Ne trovate un primo elenco – con il programma di massima della giornata – nel numero 74 di ateatro.

Ss avete molta fretta di sapere tutto sulle BUONE PRATICHE (ma occhio a quel che perdete...) cliccate qui

IL PROGRAMMA

LE BUONE PRATICHE

In ogni caso aggiorneremo queste pagine fino al fatidico 6 novembre.
Perciò se desiderate ardentemente venire alle BUONE PRATICHE
qualora bramaste intensamente inviare una BUONA PRATICA
per favore mandate info via mail o nel forum NTVI
così ci organizziamo meglio.

Se avete bisogno di un invito ufficiale,
fatecelo sapere al più presto:
vi mandiamo subito subito un bel mail
nelle dovute forme.

In ogni caso il successo dell’iniziativa ci lusinga (GRAZIE a tutti per la fiducia!!!)
ma un po’ ci inquieta:
evidentemente le occasioni di incontro & confronto
sono sempre - frequenti ... e sempre + necessarie.

Ma in ateatro 74 non ci sono mica solo Buone Pratiche.
Siamo anche andati a teatro (come dice la testata), abbiamo continuato a riflettere sulle cattive pratiche,
su quelle così così e su quelle un po’ così (tipo l’uso delle mutande nelle presidenziali USA, ovvero il teatro come arma di seduzione di massa).
(Del resto non è detto che tutte quelle che si presentano come BUONE PRATICHE lo siano poi davvero...).

Perciò in ateatro 74 si parla anche di
# retoriche del genocidio (olivieropdp su Rwanda 94) ,
# Kampnagel Festival di Amburgo (Mara Serina),
# drammaturgia italiana con la Biennale Teatro di Massimo Castri (Fernando Marchiori),
# Marina Abramovic a Roma (Silvana Vassallo),
# Video-Inferno con una intervista a Massimo Munaro del Teatro del Lemming.

E si discute di:
# politiche culturali alla Spezia (Anna Maria Monteverdi);
# numero degli stabili (Luca De Fusco risponde a Franco D’Ippolito).

Insomma, un numerone bellograsso, e in più notizie e indiscrezioni.

A proposito, avete visto l’intervista di MGE, neopresidente dello Stabile del FVG alle Iene?

«Sottoposta a un crudele interrogatorio, trasmesso lunedì scorso, la Elmi è caduta sulle domande di teatro (...) la Iena Sabrina Nobile incalza: "Essere o non essere, chi lo dice?". L’ex annunciatrice Rai, donna di mondo, prende tempo come a scuola: "Già, chi lo dice?". "E’ una grande tragedia...", suggerisce Nobile. "Appunto", mormora la "fatina" bionda, e non aggiunge altro. Domanda di riserva: "Goldoni?". Il neo presidente del teatro stabile si rianima: "E’ la seconda opera che manderemo in onda! E’ proprio di quell’autore". La iena butta lì un dubbio: "Ma Goldoni è morto?". Risposta: "E’ della nostra epoca". Mentre Trieste celebra il centenario dell’arrivo di James Joyce (avviso per la "fatina": si pronuncia Gems Giòis), il sindaco, Roberto Dipiazza, sponsor di Elmi, vacilla: "Quello di presidente è un titolo onorifico... Tutti abbiamo tempo per imparare». (Alessandra Longo, «la Repubblica», 21 ottobre 2004).

Vi è tornato il buonumore? ateatro 74 è tutto per voi.

(Ma intanto hanno nominato Gigi Marzullo responsabile cultura della Rai....)


 


 

Le Buone Pratiche: avant programme
Una Banca delle idee per un nuovo teatro
di Franco D’Ippolito, Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino

 


sabato 6 novembre
Civica Scuola d'Arte Drammatica «Paolo Grassi»
via Salasco 4, Milano
dalle 10.00 alle 18.30


Perché le Buone Pratiche (e che cosa sono)

Negli scorsi numeri di ateatro avevamo lanciato una convocazione per una giornata di studio, confronto e riflessione sul tema delle Buone Pratiche. Una banca delle idee per un nuovo teatro.
Siamo consapevoli dello stato di difficoltà che sta attualmente attraversando il teatro italiano (e non solo il teatro, ci pare), ma ci sembra di aver individuato una serie di esperienze interessanti e vitali, non solo sul piano della creazione artistica ma anche su quello dell’organizzazione. Su alcune di queste esperienze organizzative ci pare utile appuntare l’attenzione, per il loro apporto creativo e originale, ma soprattutto perché possono offrire una serie di soluzioni pratiche e indicazioni operative utili anche ad altri.

Per chi non ne sapesse niente (e per chi vuole ripassare) l’iniziativa era stata lanciata in ateatro 71 e ripresa in ateatro 73.

Abbiamo poi raggruppato – soprattutto per motivi di comodo – le Buone Pratiche in quattro aree principali (produzione, distribuzione, finanziamento, servizi e reti), più un quinto contenitore che riguarda gli intrecci del teatro con altri ambiti, discipline, realtà...
Abbiamo cercato di individuare dei nuclei tematici, ma molte Buone Pratiche si presentano in realtà come «trasversali»: questa scansione non è dunque rigida.
Abbiamo inoltre rilevato con piacere che la nostra iniziativa è stata colta sia da realtà del «nuovo teatro» sia da realtà più consolidate o istituzionali, e che – come era nelle nostre intenzioni – pratiche ambiziose e complesse si integrano con idee operative molto concrete.

Come consultare le Buone Pratiche
e presentare la vostra


E’ possibile consultare le Buone Pratiche censite da ateatro nella Banca delle idee per un nuovo teatro: è già attiva e lo resterà anche in seguito, sia per raccogliere altre Buone Pratiche sia per valutare la loro reale efficacia.

Quella che segue è una prima traccia del programma. Sono già annunciati e previsti altri interventi.

In particolare sono già al lavoro per presentare una buona pratica:

Marco Cavalcoli (Fanny & Alexander), Silvia Fanti (Xing), Cosetta Niccolini (Societas Raffaello Sanzio), Valeria Ottolenghi (ANCT), Paola Pedrazzini (Teatro di Fiorenzuola), Giuseppe Romanetti (Teatro di Casalmaggiore), Nicola Savarese, Mirella Savegnago o Renato Vella (Archè), Federico Toni (Tracce)...

Vi ricordiamo che per presentare la vostra Buona Pratica è indispensabile segnalare al più presto il titolo e inviare una breve relazione che verrà inserita nella Banca delle idee per un nuovo teatro (già attiva). Per i più diligenti, abbiamo anche distillato dall’archivio di ateatro alcuni materiali preparatori che possono risultare utili (troverete i relativi link nella Banca delle idee, al solito).

Una giornata davvero intensa (e memorabile)

Le relazioni (i cui titoli sono per ora indicativi) dovranno essere brevi e avere un carattere eminentemente pratico, con indicazioni concrete; dureranno al massimo indicativamente 5-8 minuti per dare spazio alla discussione e agli approfondimenti: insomma, per capire se si tratta davvero di una Buona Pratica o no...
Allo stesso modo la lista delle presenze è in continuo aggiornamento (cresce, cresce...). Vi preghiamo in ogni caso di registrarvi scrivendo a info@ateatro.it (ci è utile per organizzare lo spartano buffet).

Questa pagina sarà in costante aggiornamento fino al 6 novembre. Buone pratiche, adesioni, dissociazioni, commenti, suggerimenti, complimenti, coccole, insulti, divagazioni, proposte, oboli eccetera sono assolutamente graditi (fino al 30 ottobre).

Una buona pratica che ci piacerebbe condividere è quella dell’editoria dello spettacolo. Pensiamo dunque di allestire un banchetto in cui, nelle pause caffè e buffet, potrete presentare libri, riviste & altro. Per favore, oh editori & editrici, fateci sapere se vi interessa, e cerchiamo di provvedere.

Per quanto riguarda il vostro sabato sera nella metropoli lombarda, abbiamo pensato anche a questo. Alle 20.30 Ruggero Cara offrirà una replica gratuita (le prenotazioni verranno raccolte alla Civica Scuola d’Arte "Paolo Grassi allo 02-58302813, fino a esaurimento posti) del suo divertente (e simpaticamente perverso) Il feticista di Michel Tournier. Nel sito troverete altre info sullo spettacolo (è implicito in questa scelta un caldo invito curare con particolare attenzione un intimo dal tocco fetish).
Indicheremo tuttavia anche altri spettacoli in scena a Milano il 5 e il 6 novembre, e se possibile concorderemo con i teatri ingressi a prezzo ridotto.

Ancora un caldo ringraziamento alla Civica Scuola d’Arte Drammatica «Paolo Grassi» per l’ospitalità.


AVANT-PROGRAMME
(molto indicativo, molto parziale e sicuramente ancora pieno di errori)

Saluto di Massimo Navone (Direttore della Civica Scuola d’Arte Drammatica «Paolo Grassi»)

Presentazione
di Oliviero Ponte di Pino


1. LE BUONE PRATICHE DELLA PRODUZIONE
introduce Mimma Gallina

Ci riferiamo ai modi di produzione, al sostegno all'attività produttiva e alla gestione delle compagnie e delle imprese di produzione. Alcune pratiche, come le «fusioni», sono funzionali al rafforzamento organizzativo e economico delle imprese (il che può essere anche una condizione di crescita artistica). La necessità del rinnovamento e del ricambio generazionale sembra interpretata con concretezza da alcune realtà istituzionali (circuiti, teatri comunali, ma anche teatri stabili, centri di ricerca-festival), ciascuno dei quali cerca la sua personale soluzione: azioni integrate, messa a disposizione di teatri e servizi, garanzie distributive, convenzioni.
Una delle forme più diffuse (e più apprezzate dai giovani professionisti, che la considerano come – almeno teoricamente – la più aperta), resta probabilmente quella dei «bandi» e dei concorsi (dal Premio Scenario alla Biennale 2005 curata da Romeo Castellucci), ma le modalità sono molto differenziate e nei casi più consolidati sono in corso significative revisioni. Chi non è riuscito a trovare in Italia sostegni adeguati, si è inventato modi di produzione su misura, tanto ai massimi livelli di qualità e notorietà internazionale, che a livello diffuso ( forse non è un caso che il primato dei progetti Cultura 2000 del 2003 vada all'Italia: ma quasi nessuno se n’è accorto...).
A oggi non ci sono pervenute segnalazioni nell'ambito molto esteso della coproduzione (che forse viene vissuta come abusata: eppure qualche miglioramento, qualche nuovo modello, anche in questa pratica dovrebbe essere possibile). Quando invece i sostegni in Italia ci sono (o sembrano esserci), non è facile lanciare idee su come usarli e avere informazioni corrette.

La Res Publica di Elsinor: racconto di una fusione tra teatri in Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna - Stefano Braschi (Elsinor)
Progetto Danzaria: un'idea di promozione dei giovani coreografi
- (Teatro Giuditta Pasta, Saronno)
Scenario - Un progetto - Stefano Cipiciani (Premio Scenario)
Il sostegno di un teatro stabile a una giovane compagnia - Paolo Zanchin (URT) relazione stesa in collaborazione con Carlo Repetti (Teatro di Genova)
Per uno stabile corsaro - Marco Martinelli (Ravenna Teatro)
Le produzioni leggere - Gilberto Santini (AMAT)
Dal sostegno alla produzione alla produzione
- Massimo Paganelli (Armunia-Castiglioncello)
Una casa comune per l'arte - Fabio Biondi (L'arboreto di Mondaino)
Una modesta proposta a Luca Ronconi per le Olimpiadi di Torino 2006
- Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino
eccetera

domande e chiarimenti


2. LE BUONE PRATICHE DELLA DISTRIBUZIONE, DELLA GESTIONE E DELLA PROMOZIONE
introduce Franco D’Ippolito

Il «mercato» (anzi, «i mercati») è uno dei problemi nodali del sistema, forse il principale: quindi va salvaguardata la qualità di gestione delle sale e delle istituzioni che programmano. Per qualità intendiamo chiarezza delle funzioni e coerenza nelle scelte (ci fa piacere che una delle nostre buone pratiche sia dedicata alla trasparenza), professionalità nei singoli aspetti, attenzione al pubblico e capacità di incrementarlo e formarlo. Se è vero che esistono aree molto estese di degrado, tuttavia stiamo scoprendo che negli ultimi anni è successo davvero molto.
Negli ultimi tempi si sono sviluppati alcuni «microcircuiti», operanti su dimensioni provinciali (e facenti capo di solito a enti locali) o promossi dalle compagnie (e operanti in più regioni). Qualche singolo teatro comunale si è «reinventato» e gli stessi Circuiti teatrali regionali (o meglio, alcuni fra loro) stanno riflettendo a fondo e cercando di reinventare le loro funzioni (magari tornando alle origini). Non meno interessante lo spazio, la funzione e i modi di fare teatro nei Centri Sociali (che, sul piano nazionale, fanno – tutti – musica, e quasi tutti teatro, anche a livello produttivo). La situazione sta cambiando anche nelle periferie delle grandi città – da Milano a Napoli – si stanno creando di fatto reti di sale, con progetti comuni di programmazione, forme di residenza, e stanno nascendo nuovi teatri e progetti di programmazione inediti, e inedite forme di gestione (che vedono per esempio l'ingresso nel settore dello spettacolo di realtà attive nel «sociale»). Non pensiamo che sia tutto oro quello che luccica, ma che tutto questo stia un po' cambiando la faccia del sistema distributivo.

Dalla formazione ai mestieri del teatro: una rete di pratiche per la costruzione di nuovi territori del teatro -Massimo Luconi (Teatro Metastasio, Prato)
Decalogo degli obblighi e delle responsabilità di un centro culturale comunale - Franco Oss Noser (Teatro Santa Chiara, Trento)
Uscite dall'emergenza - Rocco Laboragine (Circuito Teatrale della Basilicata) e Raimondo Arcolai (AMAT)
I Teatri Possibili: una nuova idea di circuito - Corrado D’Elia (Teatri Possibili)
I Teatri di Napoli: una ipotesi di stabilità leggera per le periferie - Luigi Marsano (I Teatri di Napoli)
Semi di cooperazione - Adriano Gallina (Teatro Verdi, Teatro Blu, Teatro della Cooperativa, Milano)
develop.net: teatro, centri sociali e spazi autogestiti - Gian Maria Tosatti (Develop.net)
Cantieri Goldonetta: i teatri della danza - Virgilio Sieni (Firenze)
eccetera

domande e chiarimenti


3. LE BUONE PRATICHE PER L’AUTOFINANZIAMENTO
introduce Mimma Gallina

Funziona l'«azionariato popolare» lanciato per finanziare alcune produzioni? Come riuscire ad acquistare il proprio teatro/spazio e quali vantaggi può portare? Alcuni ci stanno provando e ci racconteranno come hanno fatto. E ancora: sono nati negli ultimi anni assetti proprietari nuovi per il settore dello spettacolo e funzionali a progetti innovativi. Un'analisi dell'economia delle imprese di medie dimensioni (e di alcune più innovative) ci porta a scoprire che è molto più rilevante del previsto l'attività non direttamente di spettacolo: corsi, noleggi, attività editoriale, servizi, la gestione di esercizi pubblici. Sembrava che in Italia questa ricetta non potesse funzionare: ma forse ci siamo sbagliati. E non è neppure detto che tutto ciò mortifichi l'attività creativa: oltre a costituire un mezzo efficace di sensibilizzazione del pubblico. In tutto ciò però, possiamo imparare qualcosa da esperienze riuscite, in settori «confinanti»: vedi per esempio il Festivaletteratura di Mantova.

Il Progetto Nave fantasma: produrre con il contributo (del) pubblico
- Renato Sarti (Teatro della Cooperativa di Milano)
La multidisciplinarietà: una provocazione a pubblico e privato - Gianni Valle (La cittadella della cultura-Teatro Franco Parenti)
Teatro di confine - Rosita Volani (Olinda)
Il Festivaletteratura di Mantova: un modello di finanziamento? -
Marzia Corraini (Festivaletteratura, Mantova) da confermare
eccetera

domande e chiarimenti


4. LE BUONE PRATICHE DELLE RETI E DEI SERVIZI COMUNI
introduce Cooperativa Danny Rose


L'unione fa la forza. Proprio vero? In teatro l'unione è spesso apparente e la conflittualità abbastanza alta (fra un settore e l'altro e all'interno di aree omogenee. Ci sono però esperienze recenti e interessanti di attività comuni.
Area 06 a Roma, Faq a Milano: in cosa consistono queste associazioni tra compagnie? E hanno funzionato? o possono funzionare? (tanto su un piano politico-rappresentativo che con iniziative concrete). Stanno inoltre nascendo nuovi centri di servizi per il teatro giovane: anche sulla base di esperienze precedenti, dove e come intendono operare e come possono farlo con successo (e in cosa consiste la loro novità?). Ma la pratica delle reti è molto più estesa: anche a livello internazionale e verso discipline diverse dal teatro. Due di esse, Lus e Iris, erano già state segnalate da ateatro e verranno illustrate a Milano. Aspettiamo di conoscerne anche altre, davvero buone.

Una società di servizi per il nuovo teatro – Cooperativa Danny Rose
Le reti tra compagnie di produzione e gruppi -
Federica Fracassi, Michela Cavaterra (FAQ, Milano)
I cantieri dello spettacolo: dalla formazione alle reti - Roberto Ricco (Kismet)
Le relazioni internazionali (Iris) (da confermare)
La produzione cinematografica –
Marcella Nonni (Lus) (da confermare)
eccetera

domande e chiarimenti


5. LE BUONE PRATICHE DI NONSOLOTEATRO
introduce Oliviero Ponte di Pino

Una delle forze del teatro in questi anni è stata la sua capacità di confrontarsi e contaminarsi con ambiti, realtà, discipline, diverse. Insomma, la sua capacità di sconfinare in altri territori. Ma per riuscire a entrare nelle scuole, nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nei musei (evidenziando il rapporto tra il teatro e le arti visive), nei centri sociali – oltre che una serie di motivazioni artistiche, politiche, sociali, di mercato – è necessaria anche una grande immaginazione organizzativa.
Allo stesso modo è interessante la creazione di nuovi spazi polivalenti, in cui si possono intrecciare teatro, musica, cinema, arte, eccetera.
L’intreccio del teatro con i nuovi media in continua evoluzione, dalla televisione a internet (con i loro canali tematici), può aprire nuove prospettive (a proposito, ateatro non è una Buona Pratica, è un’ottima pratica ;-)
E ci sono mille ambiti di intervento in cui è possibile immaginare l’esistenza di altre Buone Pratiche (dalla didattica e pedagogia al sostegno alla nuova drammaturgia).

Un software gestionale per compagnie teatrali – Nicola Cremaschi
Realizzare un sito... con RStage è facile come fare una telefonata - Silvio Bastiancich
Tecniche e valori di scambio reciproco fra cinema e teatro - Claudio Braggio (Comedy)
Giocare fuori casa: palcoscenici atipici - Angela Lucrezia Calicchio (Outis)
La dieta della mail teatrale, ovvero: perché peso 800 kb mentre il mio medico dice che dovrei pesarne 8?
- Roberto Canziani
Un nuovo canale televisivo sperimentale e digitale fatto da giovani - Claudio Braggio
eccetera

domande e chiarimenti


Il professor Michele Trimarchi ci ha garantito la sua collaborazione per un'analisi dell'insieme dei progetti.


DIBATTITO


CONCLUSIONI
(se ce la fanno...)
Oliviero Ponte di Pino, Mimma Gallina, Franco D’Ippolito


LA FEBBRE DEL SABATO 6 (NOVEMBRE)
Hanno finora confermato la loro partecipazione

Monica Abbiati
Sonia Antinori
Roberta Arcelloni
Antonio Attisani
Patrizia Baggio
Roberta Belledi
Teresa Bettarini
Giacomo Bottino
Mario Brandolin
Fabio Bruschi
Walter Cassani
Silvio Castiglioni
Patrizia Coletta
Andrea Collavino
Shara Cottarozzi
Patrizia Cuoco
Giuseppe Cutino
Francesco D’Agostino
Sergio Dagradi
Maria Grazia de Donatis
Alessandra De Santis
Luca Dini
Paola Dubini
Manuel Ferreira
Giusy Frallonardo
Paolo Giorgio
Piero Maccarinelli
Massimo Mancini
Massimo Marino
Chiara Merli
Vito Minoia
Renata Molinari
Anna Maria Monteverdi
Massimo Munaro
Luciano Nattino
Donato Nubile
Giovanna Palmieri
Mario Perrotta
Emilio Pozzi
Noemi Quarantelli
Beniamino Saibene
Roberto Traverso
Clarissa Veronico
Alessandra Vinanti

E inoltre:

Sergio Ariotti
Giulia Attucci
Barbara Bertin
Stefania Calò
Paolo Crivellaro
Davide Di Pierro
Elena Di Stefano
Elisabetta Donà
Francesca Donnini
Manuel Ferreira
Marco Fratoddi
Franca Graziano
Isabella Lagattolla Elena Lamberti
Alessandro Lay
Babara Mascia
Massimo Momoli
Luciano Nattino
Cristian Palmi
Cristina Palumbo
Nicoleugenia Prezzavento
Barbara Romano
Beniamino Saibene
Mara Serina
Silvano Voltolina

Stiamo attendendo di registrare le conferme di alcuni esponenti di grandi istituzioni teatrali, di enti pubblici e di esponenti politici (responsabili cultura locali e nazionali). Ma, come sapete, si tratta di burocrazie assai complicate, e dunque hanno i loro tempi... (A proposito, se qualcuno per partecipare alle Buone Pratiche avesse bisogno di un invito ufficiale, mandateci un mail e provvederemo all'istante - o quasi).

Dunque, se c’è tutta questa bella gente (e che ne sarà sicuramente moltissima altra, ancora più bella), come puoi mancare alle Buone Pratiche?
Troverai tanti amici e potrai conoscerne di nuovi: le Buone Pratiche è molto meglio dei boy scout...

Tra parentesi, la partecipazione è gratuita (cosa rara di questi tempi), salvo l'obolo buffet, e dunque...

A parte gli scherzi, ci sembra che questa «autoconvocazione zerofinanziata» abbia suscitato un notevole interesse. Evidentemente di questi tempi si avverte la necessità di occasioni di incontro e di scambio: speriamo di essere all’altezza. Delle vostre aspettative, e dei tempi... ;-)


 


 

Presidenziali USA: il teatro come arma di seduzione di massa
La mobilitazione teatrale contro Bush
di Alessandra Nicifero

 

Sono passati tre anni da quando gli americani, uniti e patriottici, si erano coperti di stelle e strisce per dimostrare il loro cordoglio dopo l’attacco terroristico alle Twin Towers. Ancora incapaci a commentare i fatti con una certa analisi critica, erano stati in pochi gli intellettuali e gli artisti, immediatamente dopo l’evento, a esporsi cercando di aprire un dialogo, ritagliandosi uno spazio pubblico. Quel cordoglio, e quel momentaneo sfasamento era stato strumentalizzato dai media che, con più o meno ritegno, erano stati al gioco del governo di elementarizzare la logica dei fatti.
In questi tre anni la situazione politica, economica, sociale del paese (e mondiale) è così drammaticamente degenerata che in vista delle prossime elezioni presidenziali si è scatenato un putiferio di attivismo come non si era visto da decenni. Le organizzazione no-profit che dicono dire no alla politica di Bush sono spuntate negli ultimi due anni come funghi. Non si sono semplicemente limitate a scendere in piazza a protestare, ma si sono impegnate a raccogliere fondi per la campagna del partito democratico, e si sono mobilitate a raggiungere quegli angoli remoti di questo vasto paese per convincere gli aventi diritto al voto ad esprimere il loro dissenso. Basti pensare che durante le scorse elezione solo il 51% della popolazione si era recato alle urne; circa 20 milioni di donne aventi diritto al voto erano rimaste a casa. C’è stata un’esplosione di brillanti forme spettacolari adottate dai gruppi, coscienti di dover in qualche modo esser capaci di attirare l’attenzione staccando la spina televisiva – per molti americani unica fonte di informazione (distorta). New York è stato il palcoscenico degli oppositori al governo di Bush durante la convention del partito repubblicano alla fine di agosto.
La lista sarebbe lunghissima e per motivi di spazio mi limiterò ad elencarne solo alcuni. Da un punto di vista prettamente teatrale alcuni gruppi hanno adottato la rivisitazione di classici con tematiche inerenti alla guerra. E’ il caso del Lysistrata Project partito più di un anno fa per volontà di due attrici, Kathryn Bloome e Sharon Bower, che hanno invitato università e gruppi teatrali a mettere in scena, organizzare letture della Lisistrata di Aristofane come un modo di opporsi pubblicamente alla guerra in Iraq. THAW (Theaters Against War), un collettivo di gruppi teatrali, partito da New York, ma con gemellaggi sparsi in tutto il mondo, ha invece, con lo stesso principio, adottato, letto e messo in scena l’Ubu Roi di Jarry durante la convention.
L’arma della parodia si è affilata diventando tagliente con due tra i tanti gruppi attivisti. I Billionaires for Bush, che hanno come logo un mailino-salvadanaio a stelle e strisce, travestiti da presunti miliardari se ne sono andati per strada con bicchieri di champagne e sigari durante la convention, ripetendo ottusamente slogan repubblicani senza i veli ipocriti della mediazione linguistico-strategica dei governanti.



I Billionaires for Bush manifestano in difesa di Dick Cheney a Madison, Wisconsin.

Hanno semplificato all’osso i concetti espressi in questi quattro anni dal governo per giustificare le loro guerre, leggi economiche, riduzioni dei diritti civili, rendendo, attraverso la ripetizione e l’ostentazione di un lusso pacchiano, i concetti semplicemente volgari, assurdi ed obsoleti. Al momento sono in giro negli «swing states» del sud ovest con il Limo Tour per raggiungere chi è ancora confuso ed indeciso, accompagnati dalla colonna sonora The Billionaires Are in the House del gruppo rap 50 Million. Un modo per raggiungere una delle fasce di elettori più disinteressate alla politica: i più giovani della comunità afro-americana.
Nella stessa campagna d’informazione e persuasione al voto sono anche impegnate le donne di Axis of Eve (ebbene sì, parodia ovvia del ritornello-scudo dietro cui si è protetta la strategia del terrore adottata da Bush).



Il loro impegno a «expose and depose Bush» (esporre e deporre Bush), è quello di creare uno stato di trasparenza sull'operato dei repubblicani, svelandone le menzogne. Con le loro uniformi sexy, con su scritto «weapon of mass seduction, give bush the finger», le Eves si vogliono riappropriare del corpo femminile, strumentalizzato e denigrato dalla politica conservatrice, anti-abortista e reazionaria dei repubblicani.



Lì dove Ashcroft vorrebbe coprire la statua nuda nel Dipartimento di giustizia, le Eves si scoprono con umorismo. Vogliono che il corpo femminile positivo e forte, si lasci guardare e leggere, perché i messaggi espressi sono diretti e chiari. In conclusione, di ammirevole c’è il credere nella possibilità del cambiamento, e di adottare di conseguenza precisi piani strategico-creativi. Per questo in tanti si stanno rimboccando le maniche e lavorando insieme per un comune obbiettivo: riportare questo stato alla democrazia attraverso la corretta informazione ed il voto come unico strumento di partecipazione attiva. Questo popolo d’individualisti per reputazione riesce a riconosce le cause per cui vale la pena lottare insieme, e lo fa con creatività e senso pratico, senza lasciar spazio alla rassegnazione passiva, maschera molto spesso di un certo individualismo menefreghista.


 


 

Retoriche del genocidio
In margine a Rwanda 94
di Oliviero Ponte di Pino

 

Spettacolo nato da un’esigenza morale e politica, da un bisogno di verità, Rwanda 94 racconta e cerca di comprendere quello che è accaduto nel paese africano quando, nel giro di poche settimane, un milione di persone (tutsi e hutu moderati) venne massacrato a colpi di machete e di kalashnikov dal resto della popolazione, nell’indifferenza del mondo, a cominciare dalle grandi potenze e dall’ONU, e con potenti complicità internazionali. Una gigantesca macelleria, il genocidio più rapido della storia dell’umanità.
Rwanda 94 è anche, per diversi aspetti e proprio per questi motivi, uno spettacolo particolare: un oratorio laico, uno «spettacolo evento», così come un evento è stata la tournée italiana della compagnia belga Grupov, che dopo il prologo al Mittelfest nel 2002 ha toccato nel settembre-ottobre 2004 Palermo, Roma, Torino, Milano e Reggio Emilia (grazie, va aggiunto, alla volontà e all’impegno di Antonio Calbi).
Del resto, come si fa a raccontare un genocidio? Come si fa a trasformare un milione di morti in uno spettacolo?
Per capire la strategia e le scelte del regista Jacques Delcuvellerie e dei suoi collaboratori (per il testo Marie-France Collard, Yolande Mukagasana, Jean-Marie Piemme e Mathias Samson, oltre a Dorcy Rugamba e Tharcisse Kalisa Rugano), vale la pena di riflettere per cominciare sulle funzioni che può svolgere uno spettacolo di questo genere – un genere che possiamo in qualche modo ricondurre al «teatro civile». Sono varie e assai ampie: la testimonianza, la memoria, la didattica, l’informazione (e la controinformazione), l’azione politica, il rito funebre...
Sono alcune delle funzioni che il teatro svolge da sempre, che a loro volta hanno una serie di presupposti impliciti. In questo caso affiorano all’evidenza. Un teatro di questo genere presuppone per esempio che esista una giustizia che va aldilà del diritto del più forte e che coinvolge la responsabilità personale di ciascuno di noi, e che questo principio vada stabilito anche fuori e prima dei tribunali. Implica anche che abbiamo un’idea della storia (e forse del futuro, e dunque del suo senso). Ancora, suggerisce che i morti non siano solo morti, e dunque noi abbiamo delle obbligazioni nei loro confronti: insomma, abbiamo in qualche modo un’idea di vita dopo la morte – di trascendenza. Poi suggerisce che il teatro possa essere lo spazio pubblico in cui questi temi possono trovare espressione e diventare occasione di riflessione collettiva; e che a quello che accade in questo spazio pubblico possano (e forse debbano) essere interessanti tutti gli individui responsabili. Sappiamo anche che da questi presupposti impliciti può svilupparsi il senso del tragico. Il quale, a sua volta, è strettamente legato all’idea che abbiamo del male – e oltretutto, nel caso di un episodio come il genocidio del Rwanda, tutto questo si intreccia al giudizio sulla possibilità di un Male assoluto che si manifesta nella nostra realtà, nella Storia.
Spettacolo eccezionale per più di un aspetto, Rwanda 94 dura circa sei ore (compresi due intervalli di una ventina di minuti) e per svolgere tutte queste funzioni utilizza varie tecniche e modalità comunicative: il monologo, l’oratorio, il dramma, la fiaba, la conferenza e la lezione, il documentario... Sono forme che possono avere un rapporto diverso con la realtà che evocano, e un diverso grado di elaborazione e complessità estetica. La modulazione di queste forme, e il loro rapporto con la realtà umana, storica, collettiva e individuale, è una delle equazioni che Grupov ha dovuto risolvere.

Il primo blocco dello spettacolo, senz’altro il più toccante e sconvolgente, è la testimonianza di una sopravvissuta, Yolande Mukagasana, autrice di diversi volumi sul Ruanda, che nel genocidio perse il marito e i tre figli. Sono 40 minuti di intenso monologo, un racconto agghiacciante, che si apre con una premessa:

«Io non sono un’attrice, sono una sopravvissuta del genocidio del Rwanda, solo questo. Quello che vi racconterò sono solo sei settimane della mia vita durante il genocidio».

Yolande Mukagasana è sistemata su una sedia, sulla sinistra della scena. Ogni tanto l’emozione prende il sopravvento, le parole vengono soffocate dalle lacrime, allora prende fiato, dice «Scusatemi», estrae il fazzoletto, si ricompone e riprende il racconto. Al termine del suo monologo, si alza, avanza verso il proscenio, alza la mano destra e conclude:

«Che quelli che non vogliono ascoltare queste cose, che si denuncino come complici del genocidio del Rwanda. Io, Yolande Mukagasana, dichiaro dinanzi a voi e di fronte all’umanità che chiunque non voglia conoscere il calvario del popolo rwandese è complice dei boia. Non voglio terrorizzare né impietosire, voglio testimoniare. Solo testimoniare. Gli uomini che mi hanno inflitto le più atroci sofferenze, non li odio e non li disprezzo, mi fanno pietà».
Dunque la prima funzione, quella della testimonianza, è affidata a una sopravvissuta che si è assunta il compito – anche con una serie di libri – di tenere viva la memoria, di chiedere giustizia, e al tempo stesso di interrogarci sulle ragioni di un evento che pare sfuggire alla nostra comprensione. Questo racconto in prima persona, così teso ed emozionante, a tratti insopportabile per crudeltà e strazio, dà verità e forza a tutto quello che succederà in seguito.
Un narratore deve avere delle cose da dire e un punto di vista da cui narrare. Deve padroneggiare una tecnica che gli permette di raccontare. Ma deve anche avere una legittimità, una autorevolezza che lo renda credibile agli occhi della platea. Yolande Mukagasana – con la sua forza e la sua straordinaria presenza: insomma, non è detto che altri sopravvissuti abbiano la stessa potenza comunicativa e la stessa urgenza di comunicare, di testimoniare – risponde a tutte queste esigenze, e con la sua presenza legittima tutto quello che accadrà su quel palcoscenico, sia agli occhi dei rwandesi sia agli occhi degli stranieri, di noi occidentali.
Ma va anche sottolineato che in qualche modo gli spettatori hanno già risposto all’appello finale: sono qui, hanno deciso di ascoltare, in qualche modo hanno scelto di conoscere, si sono assunti le loro responsabilità
Dopo un breve intermezzo – la canzone intonata dal maestro Muyango ricorda i pogrom del 1959, anticipazione del genocidio – è la volta di un oratorio. Sono le testimonianze dei morti, sei attori che narrano la loro storia di vittime sacrificali: uno degli attori, che al momento del genocidio era fuori dal paese, narra in prima persona la morte di suo fratello. I morti entrano in scena dalla platea, sussurrano la loro storia agli spettatori, e poi prendono posto sulla scena, dietro un leggio.



E’ un primo slittamento dalla testimonianza personale a una forma di spettacolarizzazione, anche se il rapporto con la realtà storica ed emotiva è ancora molto forte. Fino alla conclusione, che denuncia una condizione ibrida, perché i morti senza giustizia e senza memoria non sono davvero morti:

«Sono morto, mi hanno ucciso.
Non dormo, non sono in pace».

Subito dopo, entra in gioco un terzo livello, più esplicitamente teatrale. Il «muro del Rwanda» che chiude la scena – una scultura costituita da sei pannelli di argilla rossastra, con rughe in bassorilievo illuminate di taglio con un forte effetto evocativo – si apre. In basso c’è uno studio televisivo da cui trasmettono la conduttrice Bee Bee Bee e il suo assistente Paolo Dos Santos; sopra di loro, uno schermo dove passano in un rapido zapping immagini televisive dell’epoca: Giovanni Paolo II, la Mecca, Mitterrand, l’opera di Pechino... La trasmissione, che si chiama Mwaramutse 1995, viene spesso interrotta e perturbata da strane apparizioni, fantasmi elettronici, anime che non trovano pace: sono le vittime del genocidio, spiegherà il linguista Kamali, in collegamento video dal suo studio, illustrando il loro linguaggio allusivo, ma anche la loro inquietudine.


Foto di Lou Hérion.

La trasmissione televisiva è certamente una finzione, anche nella recitazione affettata Bee Bee Bee e l’opportunista Dos Santos sono chiaramente due personaggi interpretati da due attori. Nel video, invece, se il Papa e il Presidente sono veri, le apparizioni dei morti sono finzione: tuttavia molto del «vero» che passa in quel video appare finto, una messinscena, una impaginazione, mentre quelle interferenze misteriose hanno una loro forza e anche se non comprendiamo quello che dicono – parlano infatti la lingua rwandese – paiono portatrici di una loro verità.
Alla base del patto comunicativo che lega un romanzo (o uno spettacolo o un film) al suo fruitore c’è quella che viene definita «sospensione dell’incredulità»: so che quello che sto leggendo (o vedendo) è finto, ma per un po’ faccio finta che sia vero. In Rwanda 1994, come abbiamo iniziato a vedere, questa «sospensione dell’incredulità» è in un certo modo intermittente, continuamente modulata: è nulla nel caso del racconto in prima persona della testimone («Io, come spettatore, credo che chi in questo momento dice "io" sia realmente quella persona, e che quello che mi racconta è vero perché l’ha vissuto lei stessa»); è leggermente maggiore nel caso dei racconti dei morti («Chi dice "io" non è quella persona, è un attore, ma racconta fatti veri»); è ancora maggiore nel caso della pièce teatrale sulla produzione televisiva («Sono attori ed è una storia finta», anche se da essa possono emergere brandelli di verità, ma in una forma diversa dalla pura enumerazione dei fatti).
L’inserto «televisivo» ha dunque anche un altro obiettivo. Quasi automaticamente attribuiamo alla televisione un alto valore di verità («Ci credo, è vero perché l’ha detto il telegiornale»). In questi filmati succede invece qualcosa di «impossibile»: vengono «infiltrati» dalle interferenze dei morti. Sappiamo benissimo che i morti non possono comparire qua e là nelle televisioni di tutto il mondo e dirci la loro: tuttavia queste testimonianze hanno un altissimo valore di verità, molto più – per certi aspetti – dei frammenti di immagini televisive che li circondano, e di cui viene dunque messo in causa lo statuto. Anche se, va aggiunto, per cogliere la verità di questa «enciclopedia dei morti rwandesi» ci è in ogni caso necessaria un’interpretazione, un commento – che ci viene offerto in questo caso nella forma del talk show. Questo paradosso prepara il terreno a quello che sarà uno dei temi chiave dell’intero lavoro: la necessità di smontare l’informazione diffusa dai media (televisioni, radio, giornali), che distorce la verità per superficialità o per interesse, per andare invece a cercare un’altra verità.
Sono i morti a insinuare il dubbio, con un ritornello ripetuto all’infinito:

«Ascoltateli, ma state in guardia
Guardateli, ma non dovete fidarvi
Questi apparecchi che diffondono le informazioni
Sono stati loro la fonte del male.»


La prima verità inafferrabile, la prima domanda dopo il genocidio, è la più difficile: «Perché?». Perché in Rwanda è successo quello che è successo, quello che a tutti – a cominciare dalle vittime – appariva inconcepibile?
Da questo interrogativo prende le mosse la terza parte dello spettacolo, la «litania delle domande»: un oratorio in cui vengono poste le mille questioni lasciate aperte dal massacro. A porre le domande è un coro di morti, ma impersonato questa volta da attori europei. Sono domande scomode sia per gli occidentali sia per gli africani. Riguardano RTLM, la stazione radiotelevisiva che lanciò le parole d’ordine del massacro e lo organizzo; e poi l’ONU, il colonialismo, la chiesa... Non ci sono risposte, ma ne esce un quadro agghiacciante di responsabilità, di scelleratezze, di veri e propri crimini. Un mosaico di cause che, tutte insieme, hanno provocato un effetto inimmaginabile. Se il genocidio resta ingiustificabile e incomprensibile, comincia a affiorare un contesto, una realtà storica e istituzionale all’interno della quale l’orrore ha potuto esplodere in tutta la sua forza. Ma questa litania di domande, nella sua ripetitività, nella sua forma oratoriale, è anche una cerimonia, un rituale che tiene aperto il contatto con i morti. Quello che i rwandesi che apparivano in televisione dicevano in forma allusiva, viene ora riproposto in termini più precisi: storici, politici, sociali. Ma il tono resta quello di un cerimoniale laico. Anche perché, se pure avessimo le risposte a tutte queste domande, se il quadro storico, economico, politico, sociale, venisse completamente ricostruito, la domanda principale resta senza risposta.
Il grande interrogativo viene implicitamente affrontato nella quarta parte, che ha ancora per protagonista Bee Bee Bee. La conduttrice televisiva ha deciso di continuare a investigare sulla vicenda rwandese, ma per farlo sente il bisogno di un interlocutore e di un destinatario. Vuole confrontarsi con chi abbia vissuto un’esperienza simile, con chi sia stato costretto ad affrontare il problema del male assoluto. Ecco dunque entrare in scena un nuovo personaggio, l’ebreo Jacob, sopravvissuto all’Olocausto. Al di là della verità di «esperti, storici, sociologi, antropologi, politologi», che Jacob la invita a interpellare, quello che interessa a Bee Bee Bee è una verità umana, morale. Come chiosa Jacob,

«l’infinitamente grande della verità, l’infinitamente piccolo della verità.»

Segue un breve intermezzo, un frammento di una trasmissione televisiva su Antenne 2: un anno prima dell’inizio dei massacri Jean Carbonnaire, responsabile dell’associazione «Survie», avvertiva con le lacrime agli occhi che in Rwanda stava per succedere qualcosa di terribile,

«ma si può fare molto, noi francesi con i nostri partner della comunità europea e del mondo occidentale».

Dunque qualcuno sapeva. Qualcuno parlava. Dunque era possibile sapere che stava per succedere qualcosa di terribile, che era possibile e necessario fermare la corsa verso l’orrore. Ma l’appello – come in altre occasioni – era destinato a cadere nel vuoto. Ora pesa come un macigno sulle coscienze di tutti.
Il brano che segue, «Ubwoko» (ovvero «clan»), il blocco più ampio dell’intero spettacolo, è una conferenza sul significato delle due parole intorno alle quali ruota l’intero dramma rwandese, «hutu» e «tutsi». Non è un compito semplice, quello dell’oratore che con aria professorale siede dietro la cattedra: si tratta infatti di districare una grande quantità di luoghi comuni, di falsificazioni, di distorsioni, di approssimazioni, e soprattutto di concetti che sono difficili da comprendere in termini «occidentali». E’ una decostruzione complessa, lunga e articolata, la parte meno «spettacolare» dell’intera serata: è la sezione più esplicitamente didattica, in un lavoro che è frutto di lunghi studi e ricerche storiche, antropologiche, archeologiche, linguistiche, sociologiche...
Sono i saperi che invocava Jacob, e sono spiegazioni convincenti, nella loro complessità e sottigliezza. Eppure, quando torniamo alla vicenda che ha per protagonista Bee Bee Bee, non bastano:

«E tuttavia non sappiamo ancora che cosa accade nella mente di un uomo che ammazza il suo vicino, con cui parlava ogni giorno, sulla soglia della sua casa, sul marciapiede della scuola quando, insieme, andavano a prendere i loro figli.»

Perché la tragedia ugandese evoca il male assoluto. All’insegna di «Se questo è un uomo» (i titoli delle sezioni vengono proiettati sul «muro del Rwanda»), Jacob racconta dunque la propria vicenda, la morte dei suoi famigliari e quella atroce del fratello:

BEE BEE BEE
«Mi sento sporca. Il solo fatto di ascoltare questa storia, è come se avessi del fango nel cuore.»

JACOB
«E’ così, direi, che si segnala il male assoluto. Vittima o testimone, non lo puoi evocare senza che ti sporchi. Ma non sporca i boia. Gli assassini di mio fratello sono ripartiti felici, senza dubbio placati.»


Quella che riprende Jacob è la lezione di Primo Levi:

JACOB
«Ecco, ha capito. Ora può uccidere il figlio del vicino: non è un bambino. Potete far scoppiare la testa del profugo.
Non è un uomo, ma un errore. I topi devono scomparire, se qualcuno scappa bisogna finire il lavoro. Ecco tutto.»

BEE BEE BEE
«Ma come è possibile far credere che un uomo non è un uomo?»

JACOB
«Con la sofferenza, l’istruzione e l’impunità. La sofferenza cerca una causa, l’istruzione la indica, l’impunità incoraggia e libera. Quando una popolazione giunge a quel punto, quello che può intraprendere nel dominio del crimine e illimitato, infinito. Letteralmente.»


A questo punto, entrano in scena tre personaggi da fiaba, corpo di uomini e testa d’animale, le feroci bocche da iena irte di denti. Sono alcuni dei «cattivi» della storia e cercano di rassicurare Bee Bee Bee: quello che è accaduto è inevitabile, è nella natura degli africani, o nella dura realtà dei rapporti di forza, è il peso della storia e della sua complessità. Dunque non ci sono responsabili...
Tuttavia Bee Bee Bee non si accontenta della cantilena fatalista dei luoghi comuni. Molto spesso nel corso dello spettacolo Jacob riferisce quello che fa e dice la sua interlocutrice:

«"Lotterò per la verità", aveva detto Bee Bee Bee.
E lo fece.
Si spese molto.
"Tutto deve essere mostrato, reso pubblico" proclamava.
"Lo dobbiamo a ogni singolo volto
e anche a un milione di volte un volto".
E poco a poco i suoi superiori iniziarono a preoccuparsi del suo zelo.»


I tamburi africani, in questa lunga e terribile notte, cacciano le iene e chiamano alla veglia. Sarà solo una breve pausa.
Questa è infatti una notte d’anniversario: quello stesso giorno, il 6 aprile di quell’atroce 1994, dopo l’abbattimento dell’aereo che trasportava il presidente rwandese Juvenal Habyarimana e quello del Burundi, ebbe inizio il genocidio.
Bee Bee Bee fa un sogno. Sono tre visioni, che portano nuovamente lo spettacolo in una dimensione fantastica. Il primo sogno ci porta sul Calvario, alcuni degli attori che impersonavano i morti sono ora la Vergine, le Pie Donne, san Giovanni; sfilano sulla scena, come nelle processioni organizzate dai missionari.



Entra un personaggio gigantesco, con un becco d’uccello: è un vescovo che ebbe un ruolo significativo nell’eccitare i primi pogrom rwandesi del 1959.

«Anche gli ebrei hanno molto sofferto. Credete che sia accaduto senza una ragione? Povero Rwanda. Povera terra benedetta. Dio non perseguita alla leggera. Non scatena la sua collera per un capriccio.»

Tocca poi – in una scena ambientata sopra le cascate del Niagara – al generale che comandava le truppe dell’ONU in Rwanda nel 1994. E’ ancora un attore con una gigantesca testa d’animale.



«Mi vergogno. Abbasso il capo come chi ha perduto ogni arroganza. Mi vergogno di aver dovuto restare a braccia conserte. Di aver visto quello che ho visto, di aver saputo quello che ho saputo e di non aver potuto intervenire.»

Ora il sogno di Bee Bee Bee ci porta in Francia, verso «un luogo noto perché ogni anno era la meta del pellegrinaggio di un Presidente della Repubblica ormai defunto». I due personaggi sono il figlio di quel presidente della Repubblica e il suo autista. Il loro dialogo – all’inizio di questo terzo sogno – ricalca la celeberrima scena dell’incontro di Amleto con il fantasma del padre.

«Non ho scelto il mio alleato. Ho solo voluto salvaguardare l’influenza francese in Africa. Ho fallito. Ma la Francia che perde la propria influenza nel mondo, anche questa è una tragedia. Addio, figlio mio. Addio! Lava dal mio nome il crimine di cui l’hanno macchiato e che il popoli di Francia si ricordi di me.»

Sono solo sogni, visioni, forse incubi, eppure sono queste intrusioni del fantastico a offrire il più netto giudizio politico sulle responsabilità della tragedia: la chiesa, l’ONU, la Francia sono responsabili.
A questo punto Bee Bee Bee è finalmente pronta per discutere della sua trasmissione-verità sul Rwanda con il responsabile del programma. La conduttrice vuole aprire il suo«speciale Rwanda» con un inserto filmato di 8 minuti. Sono materiali di repertorio (in parte trasmessi anche in Italia) che condensano il genocidio in una seuqenza di immagini mute e terribili. Nelle prime immagini vediamo le esecuzioni, poi le strade piene di cadaveri, il sangue sul selciato. Ancora, le scuole e le chiese dove si rifugiarono i tutsi e che sono state teatro dei massacri... Via via che procede il filmato, ci rendiamo conto che quegli 8 minuti condensano gli anni che ci separano dal genocidio: nelle ultime immagini vediamo l’erba che cresce e sommerge centinaia di teschi.
Sono immagini vere, «documenti», per così dire, la cui realtà è inconfutabile. Sono dure, ancora una volta insopportabili per lo spettatore. Tuttavia già attraverso il montaggio quelle immagini mute (se non per qualche frammento di una canzone trasmessa da RTLM che incitava allo sterminio dei tutsi) iniziano a raccontare una storia, quella della perdita di memoria che rischia di cancellare quelle sofferenze, quei morti, quell’orrore. Perché quelle immagini documentano la lenta decomposizione dei corpi dopo la morte, da carne pulsante a polvere – la polvere rosso sangue di cui sembra fatto il «muro del Rwanda». Il cammino verso quel nulla che il lavoro della memoria vuole a ogni costo evitare.
Ma il produttore della trasmissione, Monsieur Eur, ha qualcosa da obiettare.

BEE BEE BEE
«Otto minuti per evocare 3 volte 30 giorni, 3 volte 30 giorni di 24 ore, otto minuti di immagini per 2160 ore d’agonia, è troppo?»

MONSIEUR EUR
«Bee Bee Bee, non mi rompa le palle con la sua pseudo-contabilità. Vuol sapere che cosa succederà? Per i primi due minuti, la gente sarà sconvolta, terrificata. Al terzo minuto, gli verrà la nausea. Al quarto, non gli farà più nessun effetto e al sesto cominceranno a ridacchiare dicendosi va bene, abbiamo capito.»


BEE BEE BEE
«Ma le dà tanto fastidio? E in questo caso non è giusto essere sgradevoli? Se le dico tranquillamente "1 milione di morti", lei non salta sulla sedia. Se le faccio vedere qualche decina di corpi, ecco il disgusto. Perché?»

MONSIEUR EUR
«Il mondo ha le sue leggi. Anche la televisione. Lo spettatore non va brutalizzato. Né demoralizzato. E nemmeno colpevolizzato. In ogni caso quello che succede in Africa, non è mica colpa sua».

Naturalmente, come ci informa Jacob, la trasmissione di Bee Bee Bee non andrà mai in onda. Quelle immagini sono troppo crude per il prime time. La verità sul genocidio non può passare in televisione. L’assunto implicito è che solo in teatro, fuori dai mass media, lontano dai loro meccanismi di controllo, e solo quando è ancora possibile un contatto umano, là dove si crea una comunità e non si raduna un pubblico da indici d’ascolto, è possibile cercare e sopportare la verità.

Dopo il secondo intervallo, l’ultima parte, la quinta, è la più compatta e quella esteticamente più elaborata, filtrata e forse sublimata dalle regole e dai canoni dell’arte. Peraltro l’intero spettacolo era punteggiato di commenti e intermezzi musicali: spesso erano canzoni cantate nella lingua del Rwanda, a volte un accompagnamento para-minimalista (come nel caso della litania delle domande), a volte commenti più colorati, magari jazzati. Quando le parole non dicono più abbastanza, la musica può soccorrere.
La «cantata di Bisesero» è una suite lunga una quarantina di minuti, una sorta di coro – con i cinque attori in piedi dietro un leggio a scandire il testo – in cui si narra la resistenza dei tutsi asserragliati sulla collina di Bisesero, l’ultimo rifugio. Poche centinaia di sopravvissuti su 50.000 rifugiati, braccati e massacrati a colpi di machete, che seppero resistere per mesi in condizioni impossibili: senza cibo né acqua, senza armi, a mani nude... E’ un’epopea disperata e straziante. Tuttavia questa insopprimibile volontà di sopravvivenza è la migliore testimonianza che possiamo rendere ai morti del Rwanda, il migliore omaggio che si possa rendere alle vittime del genocidio, alla loro umanità e forza. Da sempre – almeno dai tempi delle Troiane e dei Persiani – il teatro ha saputo dare voce e dignità ai vinti, agli sconfitti dalla storia, alle vittime innocenti. Rwanda 94, ancora una volta, si fa carico di questo compito.
E così, conclusa questa suite per voci e orchestra, dopo essersi aperto con la testimonianza di una sopravvissuta, Rwanda 94 termina con il «Censimento Preliminare delle Vittime del Genocidio a Bisesero»: un’attrice inizia a declinare l’elenco dei morti, che sfuma con la musica nel silenzio e nel buio.

In oltre sei ore di spettacolo, Delcuvellerie e i suoi collaboratori affrontano un groviglio di temi complessi, profondi e delicati. Non si illudono di aver esaurito l’argomento: per esempio, solo sul piano degli eventi storici, mancano quasi del tutto i riferimenti al FLP degli esuli tutsi, che riconquistò il paese ponendo fine al genocidio e che è attualmente uno dei maggiori protagonisti della geopolitica dei Grandi Laghi. Tuttavia lo spettacolo è ricco e denso di informazioni (e di controinformazione, come abbiamo visto), anche se questa non è la sua unica funzione, e forse nemmeno quella principale.
Le difficoltà non vengono però solo dalla quantità e dall’articolazione dei contenuti. E’ anche necessario dar loro una forma adeguata, che tenga conto delle diverse sensibilità coinvolte nella tragedia rwandese, che sappia puntare il dito contro i responsabili senza ferire la sensibilità dei sopravvissuti (e senza accumulare troppo querele), che sappia parlare al pubblico evitando le trappole della retorica e dell’ideologia.
Se lo spettacolo avesse dovuto svolgere solo una (o solo alcune) delle funzioni elencate prima, il compito sarebbe senz’altro stato più facile, e sarebbe stato forse possibile trovare una chiave unitaria anche dal punto di vista formale. Ma da questa stratificazione di obiettivi è emersa anche la necessità di una molteplicità di modi e stili della comunicazione. Delcuvellerie e soci hanno dunque messo in atto una retorica – nel senso più nobile del termine. Non una tecnica per persuadere l’interlocutore, quanto una strategia in grado di articolare il rapporto tra quantità e la qualità del materiale accumulato e le forme della comunicazione, tenendo conto di tutte le sensibilità coinvolte. Sullo sfondo, incombe la questione fondamentale per chi voglia fare arte a partire da un evento che forse non dovrebbe essere narrato o spettacolarizzato – è questa la ragione di fondo, aprioristica, di molte critiche a Schindler’s List e La vita è bella.
Perché forse del genocidio possono parlare (hanno diritto di parlare) solo i sopravvissuti, i «salvati». Perché forse della tragedia del Rwanda dovrebbero occuparsene solo storici, studiosi, giornalisti, e al limite filosofi e teologi.
Tuttavia sappiamo che non è possibile raccontare l’orrore e cercare di capire solo attraverso una storia (la testimonianza personale, la vicenda esemplare) o solo attraverso la Storia, ovvero una ricostruzione dei fatti come rete intelligibile, coerente e completa di cause ed effetti. L’una e l’altra sono necessarie, ma lasciano molti interrogativi aperti. Dunque per cercare di capire l’Orrore, è necessario utilizzare una serie di strategie diverse, un intreccio più complesso. E’ necessario interrogare il «cuore di tenebra» dell’umanità.
Ci sono ulteriori funzioni che la ricerca storica e l’interrogazione filosofica non posso risolvere. Perché non riguardano fatti o idee, ma azioni che vogliamo e dobbiamo compiere. Un primo ordine di azioni riguarda la nostra sete di giustizia e il desiderio che eventi di questo genere non debbano ripetersi: è una tensione che implica un senso della storia e spinge all’azione politica. Un secondo ordine investe invece la sfera simbolica: da un lato si tratta di costruire e preservare una memoria (e dunque una identità), di scambiare e condividere una testimonianza; dall’altro si tratta di placare le anime dei morti, delle vittime senza giustizia e senza memoria che continuano a turbare i nostri sogni e le nostre coscienze.
A queste funzioni il teatro può rispondere – anche se in maniera solo parziale – recuperando la propria dimensione rituale. Il rito, senza pretenderla esplicitamente, sottintende una apertura a una dimensione trascendente. Rwanda 94 chiama esplicitamente in causa i morti – le vittime del genocidio – di continuo e in molte maniere diverse: fin dal sottotitolo, «un tentativo di riparazione simbolica verso i morti, a uso dei viventi», e poi con la testimonianza di Yolande sul marito e sui figli, negli attori che danno voce alle vittime, con le intrusioni video, nell’intera cantata di Bisesero, e poi con l’elenco dei caduti... I morti – quelli esplicitamente citati e tutti gli altri – sono insieme protagonisti e destinatari dell’intero lavoro, una presenza costante e necessaria.
Infine, l’intero lavoro cerca un punto d’equilibrio, una possibilità di continuare a vivere dopo l’Orrore. Senza dimenticare ma senza essere ossessionati dal ricordo. Coerentemente con la propria vocazione, Grupov cerca e trova una soluzione «estetica», che giunge al termine della serata, al suo culmine, e dovrebbe riassumerne e condensarne le diverse prospettive. Però, suggerisce l’articolazione complessiva, la prospettiva estetica non può prescindere dalle altre. Il teatro può assumere un ruolo centrale grazie alla sua duplice valenza politica e rituale. Grazie alla sua flessibilità «spettacolare» può inglobare altri elementi, altri generi e modi. E tuttavia non basta. Per raccontare tutto questo, la scena non può restare autosufficiente e autoreferenziale. Deve trovare materiali ed energia fuori da sé, per poi proiettarli di nuovo fuori dalla scena, nel fondo delle coscienze e nell’impegno civile.


 


 

Video Inferno. Intervista a Massimo Munaro del Teatro del Lemming
Rccolta per la tesi di laurea L’immagine elettronica in scena – alchimia di una realtà de-materializzata
di Noemi Binda

 



Foto di Gabriella Barresi.

Il vostro teatro è da sempre molto legato al mito, alle origini, agli archetipi, all’Essenza. E’ la prima volta che utilizzate il video: in che modo vi siete avvicinati a questo mezzo? E’ un caso che l’abbiate preso in considerazione proprio per la nuova produzione sull’Inferno?

Ovviamente non è stato un caso. Per la verità la sperimentazione sul linguaggio video aveva caratterizzato alcune esperienze iniziali del nostro gruppo… Lavori come Il paesaggio mancante (1989), La scatola di Frish (1992) e Il Galileo delle api (1996) hanno affiancato le nostre produzioni teatrali configurandosi come opere video del tutto autonome. In questi casi non si trattava di contaminare il linguaggio della scena con il linguaggio Video ma, piuttosto, di sperimentare liberamente un linguaggio altro: quello filmico appunto.
Successivamente, come sai, con la Tetralogia dello spettatore abbiamo affermato la necessità di un teatro il cui statuto sapesse opporsi a quello fornito dai mezzi di comunicazione di massa, cercando di fare uscire lo spettatore dalla passività a cui è inevitabilmente relegato fin dentro la sua vita quotidiana, proponendo per lui un coinvolgimento diretto, drammaturgico e sensoriale.
Da questo punto di vista Inferno opera una svolta: qui, per la prima volta per noi, le immagini "reali" degli attori e i loro doppi "virtuali" interagiscono direttamente.


Foto di Gabriella Barresi.

Siete sempre stati molto legati alla dimensione notturna, inconscia e dionisiaca piuttosto che alla natura apollinea dell’animo umano. Non è certo un utilizzo della tecnologia freddo e distaccato quello che ci si aspetta da voi... Che ruolo ha dunque l’immagine elettronica all’Inferno?

L’idea di usare l’immagine elettronica nell’Inferno si è imposta da sé – in particolare per quella parte, il basso inferno, che Dante immagina per Malebolge, il girone dei fraudolenti. Malebolge ci è apparso paradigma perfetto della falsità che permea il nostro mondo contemporaneo, il mondo della tecnica, il mondo dei mezzi di comunicazione di massa che abitano sempre più pervasivamente il nostro tempo e il nostro spazio. Per questo abbiamo cercato di restituire quella freddezza infera della quale siamo già tutti imbevuti. Siamo già all’Inferno, nel regno di Malebolge qui e ora.


Nell’Inferno di oggi un moderno Dante collocherebbe, oltre ai comuni cittadini del nostro tempo, una schiera di personaggi politici, imprenditori, magistrati, "vip", facce conosciute perché appaiono in televisione, insomma. Un uso cosciente e motivato del monitor e della diretta sulla scena è dunque un antidoto "ad armi pari" alla massificazione mediatica dominante?

L’operazione che descrivi è in parte proprio quella che abbiamo cercato di praticare.
Si dimentica spesso che Dante è un autore capace di coniugare l’eternità del Mito (cioè qualcosa che, come diceva Sallustio, "pur non essendo mai accaduto è sempre") con la finitudine della nostre storie quotidiane. L’Inferno di Dante è insieme un luogo archetipico e un luogo presente. Esso non è soltanto dimora dei morti – l’Ade dei greci – ma è anche lo spazio in cui i viventi vedono riflessi i propri mali individuali e collettivi.
Se da un punto di vista psichico l’Inferno, come è per il teatro, suggerisce così uno sprofondamento dell’anima nel regno del sogno e dell’inconscio – cioè in un luogo senza tempo – da un punto di vista etico esso ci riporta, invece, a domande basilari sul nostro tempo, sul regno del presente. Per noi l’Inferno si costituisce come un regno psicologico di adesso, non come un regno escatologico di poi. Non è un remoto luogo di giudizio sulle nostre azioni, ma costituisce il luogo per giudicare ora le nostre azioni entro una riflessione interiore.
Sentiamo la denotazione sfacciatamente politica di questo nostro lavoro – nell’epoca del disimpegno generalizzato – come un movimento necessario e squisitamente dantesco: in questo nostro tentativo di confondere l’alto col basso, il mito alla cronaca, c’è l’incessante necessità per noi di fare assurgere la cronaca, finalmente, alla dignità di mito.
Così può essere scioccante assistere ad un seppellimento reiterato all’infinito, in una dimensione onirica e sospesa, mentre un attore ha appena parlato "della faccetta da bamboccio di Tremonti"… può provocare un cortocircuito interessante, sicuramente può costringere a pensare, ci risveglia, ci conduce a riflettere. Siamo noi a seppellire quella faccetta o è piuttosto quel bamboccio che continua a seppellirci?
Certo ci risveglia… ma occorre non essere vinti dal sonno proprio perché siamo pervasi di esso.


Mi sembra quasi un atteggiamento brechtiano per un gruppo che ama rifarsi spesso ad Artaud….

Mi viene da dirti che Artaud e Brecht sono stati spesso stupidamente contrapposti. Mi sembrano anzi due autori che devono essere pensati insieme.
L’eredità brechtiana, di cui tanto ci si riempie la bocca, non può essere ridotta, com’è per lo più oggi, ad una narrazione epicizzante, che finisce per risultare – aihmé – solo pre o proto televisiva… La sua eredità, non sta tanto, mi pare, nel rispettare i suggerimenti formali da lui praticati (l’epicità della forma o della recitazione), quanto piuttosto nel perseguire le sue stesse finalità: portare lo spettatore a prendere una posizione attiva verso di sé e verso il mondo… Come vedi Artaud non è poi così lontano.
Le strategie per raggiungere questo scopo vanno continuamente reinventate. Oggi invece, a prescindere dalla loro efficacia, sempre più si copiano soltanto le forme che ovviamente non possono funzionare disgiunte dalle epoche per le quali erano state pensate. Nessuna arte appare tanto legata alla vorticosa necessità di ridefinire il proprio linguaggio come il teatro. Il mondo cambia, il pubblico cambia, e il teatro può essere efficace soltanto per il mondo e per il pubblico del suo presente. Ed invece si assiste in Italia ad una concezione del teatro che si apparenta al museo – il che di per sé è una cosa totalmente assurda – e che del museo non ha neppure la dignità.
Credo che sia del tutto naturale per il teatro cercare di implementare anche lo strumento video fra i suoi strumenti… se ci pensi, cent’anni fa a teatro, naturalmente, non si usava né luce elettrica né voci o musiche amplificate… Ma, per rispondere alla tua domanda precedente, mi verrebbe però da affermare, con Brecht, che il linguaggio della televisione può essere usato a teatro, di questi tempi, solo se è usato in modo consapevole e critico, per smascherare l’artificio: se è capace di portarci a riflettere su di noi, sulla nostra condizione quotidiana – per esempio – di spettatori sempre più passivi… Occorre riuscire a farlo diventare propriamente linguaggio teatrale… dico questo perché semmai capita di vedere, e sempre più spesso, il linguaggio teatrale scadere a linguaggio televisivo (e non importa se si usano video oppure no). In altre parole se oggi, per lo più, è il linguaggio del teatro a inseguire le dinamiche suggerite dalla televisione, credo che occorrerebbe utilizzare invece il video solo come uno strumento in più per il proprio medium che, evidentemente, resta il teatro, che amerei definire come un evento che da luogo ad un incontro in grado di portarci a vivere un’esperienza di denudamento personale e collettivo radicale.



Foto di Gabriella Barresi.

Sai, a parole sono tutti d’accordo con questa affermazione, ma nei fatti, anche nel mondo della cosiddetta "ricerca" (già perché anche qui ci sono i piccoli centri di potere e addirittura gli stabili d’innovazione…), c’è una atmosfera stagnante e conservativa… C’è molta, troppa prudenza: direi una vigliaccheria diffusa… si ha paura di presentare qualcosa che possa veramente provocare una risposta forte nel pubblico… si preferisce il già visto, il già digerito, l’omologato…. quel teatro dalle tinte così morbide che non piace a nessuno ma che riempie poi tutti i cartelloni delle stagioni teatrali… crea certo meno problemi e risponde perfettamente alla gran voglia che c’è in giro di fare rientrare tutto negli schemi… Trovo questo atteggiamento disastroso per il teatro e per la società italiana.


Cosa pensi di chi fa dell’immagine video in scena un’esibizione virtuosistica e modaiola finalizzata ad una dialettica puramente estetizzante e di superficie?

Penso che non abbiamo bisogno di aggiungere orrore all’orrore. Credo anzi che il compito dell’artista oggi sia quello di provarsi a restituire bellezza al mondo: sarebbe in sé l’atto politico decisivo. E la "bellezza", per dirla con le parole di Mariangela Gualtieri, "non è una accademia di centimetri", ma la dimensione che ci appartiene più profondamente e a cui tutti in qualche modo aneliamo, è qualcosa che fa appello a potenze sotterranee e trasformatrici.
L’Inferno è ovviamente un luogo oscuro, notturno, metafora perfetta della nostra vita inconscia e della disastrosa condizione in cui versa il mondo, ma qui ci si cala solo per la necessità di ritrovare il lume spento del proprio volere/sentire/pensare. Il movimento dantesco suggerisce che solo inabissandosi è possibile salire nell’alto, solo cadendo ci si potrà alzare: solo la ferita risana. La discesa agli Inferi è infatti viaggio verso la luce.


Il vostro modo di coinvolgere lo spettatore provocandone lo spiazzamento o l’esaltazione di una certa sfera sensoriale è qui affidata all’immagine: ad un certo punto lo spettatore vede se stesso. Abituati a credere alla televisione non abbiamo dunque più scampo: siamo davvero all’Inferno. L’aspetto artaudianamente crudele del teatro può dunque essere affidato al video? L’uso che avete fatto dell’immagine consente solo una lettura in chiave poetica della visionarietà infernale o può consentire anche l’elaborazione di un discorso più complesso?

Nel nostro Inferno giunti nelle Malebolge – i tredici canti della fraudolenza – gli spettatori sono condotti a sedere malamente su dodici letti posti dagli attori circolarmente nello spazio. Gli spettatori si trovano ora seduti sui letti – gli attori nel cerchio davanti a loro: a circondarli. Tre telecamere riprendono gli attori in primissimo piano e le riproiettano sulle pareti nere dietro a loro e su cinque televisori disposti di fianco a loro nello spazio. Si mescolano immagini in diretta con immagini, fraudolentemente, pre-registrate. E’ impossibile, o per lo meno difficile, per lo spettatore distinguerle.
"E senza dubbio il nostro tempo preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere: ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità" . E così accompagnati dalle profetiche parole di Feuerbach, ci accorgiamo, più o meno con terrore, che sono i nostri occhi a preferire, quasi come per abitudine, la copia, così grande e bella proiettata sullo schermo, all’attore, che pure è lì dal vivo a reclamare la nostra pìetas.
Infine in questo fitto gioco di rimandi fra i corpi reali degli attori e le loro immagini/simulacro improvvisamente è il nostro corpo-immagine di spettatori ad entrare in gioco, siamo noi ad apparire sugli schermi e proprio sulle parole che Dante fa dire ad Ulisse "Nati non foste a viver come bruti…" : questo orrore ci riguarda, questo orrore siamo noi. Mai come in passato, specialmente grazie alla televisione, siamo diventati tutti un perpetuo ed universale pubblico degli eventi della storia. Siamo spettatori ventiquattro ore al giorno… uno spettacolo senza fine e in apparenza guidato da un deus ex machina che pare dotato di un’immaginazione illimitata. Così sempre di più siamo diventati un pianeta di spettatori affamati di spettacoli, ma allo stesso tempo siamo anche diventati, volenti o nolenti, un mondo di spettatori osservati – dalle telecamere di sorveglianze che popolano le città, dalle sempre più intrusive telecamere delle televisioni… pensa a tutti quegli sconosciuti che vediamo tutte le sere alla TV. Potremo chiederci "Chi di noi non è stato filmato?" e – rispondeva Greenaway – non ci sarebbe nessuna mano alzata. Non ci pensiamo mai, non vogliamo pensarci, ci rende inquieti, ma siamo davvero in un mondo di guardoni che sono guardati… Ecco, penso che al minimo il teatro debba restituirci questa consapevolezza inquietante.
Ma credo si possa pretendere dal teatro anche di più. Credo infatti che il linguaggio del teatro sia, da una parte, un linguaggio profondamente alchemico che si costituisce proprio a partire dalla sua capacità di rielaborare altri linguaggi (letteratura, danza, arte figurativa, musica, così come anche il linguaggio video naturalmente) che però riesce a trasformare e a rendere propri. D’altra parte il linguaggio teatrale, come sappiamo, si costituisce propriamente a partire dalla compresenza fisica, spaziale e temporale, dei suoi interlocutori, attore e spettatore: ciò permette di praticare delle relazioni che spezzino la passività a cui siamo tutti relegati.
Persino in questo nostro lavoro, che pure ovviamente è del tutto infero, nell’ultimo Canto, nell’"uscimmo fuori a riveder le stelle", ecco in quest’ultima scena un attimo prima della fine, dell’aprirsi delle porte e dell’uscita, noi ci ritroviamo da soli come spettatori, gli attori sono andati, restiamo noi e non possiamo fare altro che guardarci. Guardarci. Ma i nostri occhi ora non sono più quelli di guardoni che più o meno si compiacciono di guardare e di essere guardati: siamo piuttosto solo persone che guardano se stesse attraverso gli altri. Siamo occhi e specchi… come in un atto d’amore. Siamo un pubblico che guarda se stesso o forse, finalmente, non siamo più nemmeno un "pubblico"…
Ecco mi è sempre interessata quest’utopia annunciata tanti anni fa da Rousseau: "Il teatro cederà il posto ad una Festa" in cui non ci sono più attori e spettatori ma solo persone che faranno dello spettacolo della loro presenza una festa. In un mondo che ha ridotto questa utopia straordinaria in una farsa aberrante da Grande Fratello, penso che il teatro sia in grado di significarsi come lo spazio in cui questa possibilità di incontro altro possa manifestarsi segretamente – già perché essa non può darsi come lo spettacolo di moda del momento ma come una necessità costitutiva e immanente.


Quali affinità e quali divergenze riscontri tra il linguaggio del video, immateriale ed effimera presenza di luce e il linguaggio del corpo degli attori fisicamente presenti sulla scena?

La presenza in scena di un attore è sempre l’affermarsi di un paradosso, di una contraddizione inesplicabile. Egli da un lato è una persona reale, un attore vivo in tutta la sua attualità, per così dire, biologica; d’altra parte egli afferma anche la presenza di un altro – il personaggio che incarna – che ora si fa presente. Il teatro ha sempre a che fare, per me, con la possessione, con il regno dei morti, dei fantasmi, il regno, appunto in cui l’altrove si fa presente. E’ il luogo intermedio fra la "realtà del presente" e "la presenza di un’altra realtà" – come un sogno è un ponte.
Mi pare del tutto evidente che il linguaggio filmico propone un andamento opposto. Questa sospensione cessa o per lo meno slitta. La presenza di una attore su un Video manifesta infatti un paradosso opposto: abbiamo a che fare solo con il suo simulacro. A teatro i morti si fanno vivi, in Video i vivi si offrono – più o meno letteralmente – come morti. Così inevitabilmente il tempo del teatro si consegna alla morte – proprio perché vivo – mentre il tempo filmico si consegna alla conservazione – proprio perché morto. Ci sono intere pagine che Pirandello, nel Serafino Gubbio operatore, dedica alla condizione alienata di un attore cinematografico che trovo di una sconcertante attualità.
Mi sembra infine che l’abolizione delle distanza, che è la promessa del linguaggio tele-visivo, si associa in realtà ad una riaffermazione vertiginosa e ancor più, direi, ontologica della distanza stessa: perché qui inevitabilmente è il corpo degli interlocutori ad obliarsi definitivamente.
Credo per questo che il teatro, ormai sempre più liminale rispetto ai grandi centri produttivi, rappresenti una possibile forma di resistenza attiva a questo processo di dissoluzione della presenza, che è il tratto più caratteristico della nostra contemporaneità. Se infatti il mezzo Video sembra unire mentre in realtà separa, il teatro, continuando con i giochi di parole, sembra allontanarci (siamo qui riuniti infatti per incontrare degli assenti) mentre in realtà ci unisce.
E’ il corpo: il corpo dell’attore e dello spettatore, ma anche il corpo-voce, il corpo-spazio, il corpo-tempo ad essere l’unico medium, ad affermarsi come centro propulsore ed inalienabile della comunicazione.
Lo ripeto: il teatro afferma l’altrove mentre ci unisce; il video afferma la presenza mentre in realtà ci distanzia.


I sogni pensano essenzialmente per immagini e il vostro è un teatro per così dire onirico. Quali nuovi stimoli vi ha dato sondare la capacità dell’immagine di evocare forze oscure e ctonie?

Credo che le immagine virtuali possano potentemente evocare l’altrove… In una dimensione teatrale la proiezione di luce che va magicamente a definirsi nel simulacro di una presenza, è un elemento di per sé, com’è evidente, fantasmatico, onirico…
Nel nostro Inferno abbiamo, per esempio, esplorato la possibilità di proiettare il volto di un attore sul corpo nudo di un altro… Un corpo vive intrappolato dentro un altro corpo… come nelle continue metamorfosi evocate da Dante per la bolgia dei ladri… C’è uno strazio oscuro, una potente riverberazione poetica… la fragilità di quell’evocazione è davvero struggente.


Questa esperienza con l’immagine video è da considerarsi un capitolo aperto e stimolante o credi non riservi altre possibilità espressive?

Seppure credo che tutto sia già inscritto nel tempo presente, non riesco a immaginare ora quali sviluppi futuri possa prendere il nostro lavoro. Per fortuna, come sempre, si tratta semplicemente di viverli.
 
(agosto 2004)


 


 

Attraverso la drammaturgia italiana contemporanea
Dalla XXXVI Biennale Teatro
di Fernando Marchiori

 

Fin dalle sue premesse, la scelta di Massimo Castri di porre al centro della XXXVI Biennale Teatro la nuova drammaturgia (italiana) e i suoi padri putativi (Testori e Pasolini) ci è sembrata meritoria eppure rischiosa. Meritoria perché indicava nella questione della scrittura un punto di svolta possibile nell’attuale situazione del teatro, proponendo un confronto con autori che il nostro sistema teatrale, per fragilità strutturale e incapacità di memoria, non ha ancora metabolizzato. Rischiosa perché tale questione, senza una considerazione complessiva del suo rapporto con i linguaggi dello spazio e del movimento, dei colori e dei suoni, in una visione autonoma della poiesis teatrale, poteva dar adito a un equivoco di fondo, trascinando il discorso sul terreno paludoso di una "drammaturgia" che ritorna a farsi ipoteca letteraria sullo spettacolo. Un terreno che pensavamo superato in favore di un’idea e di una pratica della scrittura di scena ormai patrimonio della cultura teatrale anche del nostro Paese: una drammaturgia che non scompare ma si fa nella composizione scenica, nella "produzione di immagini" (per usare un’espressione cara al primo Castri), nella creazione delle differenti e coessenziali partiture gestuali, coreografiche, scenografiche e anche verbali.
Quella che credevamo scomparsa era invece la concezione aprioristica della drammaturgia, il retaggio di un teatro a fondamento testuale, la sacralità di una parola scritta nella quale il "teatro" preesisterebbe e sopravviverebbe all’evento spettacolare, che ne sarebbe la realizzazione. Stupisce perciò sentir parlare di "silenzio del Novecento" italiano per la "mancanza di una scrittura per il teatro", quando basterebbe considerare la scrittura del teatro per alzare lo sguardo su Carmelo Bene o su Leo De Berardinis, su Giuliano Scabia, o anche sul grande teatro di regia (da Strehler a Ronconi allo stesso Castri), per non parlare di Barba e Grotowski (che pure con l’Italia hanno qualcosa a che fare, se proprio dobbiamo – in tempi di mondializzazione e in un festival internazionale – ridurci all’orizzonte nostrano), per indicare alle nuove generazioni del teatro italiano una varietà di approcci compositivi ben più ampia e complessa con cui confrontarsi.
Pasolini e Testori sono autori immensi, portatori di due concezioni forti di teatro – di teatro di parola. Ma la dilatazione del concetto di scrittura teatrale, operata anche in Italia dagli anni Sessanta in avanti, li comprende come momenti critici e non si esaurisce in loro. È senza dubbio importante la scelta di indicarli quali riferimenti ineludibili per chi voglia oggi fare i conti, anche nei linguaggi della scena, con l’eredità contraddittoria, e perciò ancora vitale, del secolo passato. Possono funzionare, con l’efficace espressione di Castri, da "muri di risonanza". Ma presentarli quali "garanti della generazione nuovissima" rischia di alimentare l’equivoco di fondo.


Scemo di guerra

Dal quale sembra del resto derivare la scelta di presentare in questo percorso tematico sulla drammaturgia il nuovo lavoro di un narratore monologante come Ascanio Celestini. Il suo Scemo di guerra, gradevole anche se forse un po’ troppo lungo, con un finale commosso e commovente che ha strappato lunghi applausi, racconta la storia del 4 giugno 1944, il giorno della Liberazione di Roma, dal punto di vista di un ragazzino (il padre dell’attore) e di un gruppo di personaggi che, schivando attacchi aerei e scontri tra partigiani e fascisti, vanno da Porta Pia al Quadraro, verso casa. Mentre gli americani entrano in città e i tedeschi ne escono, muovendosi in direzione sud-nord, il gruppetto avanza in direzione opposta, dunque "contromano rispetto alla Storia". Concreta e dissacrante come solo il lavoro sulle fonti orali può esserlo, questa storia, cento volte sentita dalla voce del padre, Celestini la scompone efficacemente in tanti rivoli, digressioni, vicende laterali che sembrano sempre compromettere il plot e che invece tornano puntualmente a incastrarsi al loro posto, ricomponendo infine il mosaico. Come nella tradizione novellistica, la struttura a cornice tiene una serie di storie all’interno della storia principale: dal racconto della stramba brigata che "fa una società" per racimolare le mille lire necessarie a comprare un maiale rubato ai tedeschi, si dipartono episodi più o meno lunghi. Per esempio quello del "barbiere dalle mani belle" che spara a un cane per far capire che la strada è sorvegliata e poi se ne sta a guardare l’animale "crocefisso su quel crocicchio di strade, quell’agnello di Dio. O il destino del soldato tedesco (uno di quei ragazzini "diventati adulti per decreto del Führer) che aveva una chiazza rossa in faccia esattamente come il suo sosia romano. Il tedesco si impiccherà a un albero della capitale, l’italiano morirà in un campo di lavoro in Germania, e i rispettivi parenti piangeranno il cadavere sbagliato. C’è anche una delirante ricostruzione della Liberazione d’Europa da parte dei Russi, con tanto di scimmie soldato, bandiere rosse a Piazza Venezia e impiccagione di Vittorio Emanuele III. Insomma, gli avvenimenti storici anche molto conosciuti (come il bombardamento di San Lorenzo o il rastrellamento del Quadraro che portò alla deportazione di più di mille persone) si intrecciano con le piccole vicende private, con le storie mutuate da altri contesti storici e quelle invece completamente inventate. Il disegno è neorealista, ma ben temperato da innesti di surrealismo (il ragazzo sull’albero che piscia in testa a un tedesco, la resurrezione dei morti di fame e di guerra grazie ai poteri del "barbiere dalle mani belle" e quella di Cristo ad opera delle mosche: la Madonna aveva chiesto loro di far sparire il corpo del Signore dal sepolcro, ma quando scopre che le mosche, non sapendo come accontentarla, se lo sono mangiato, le condanna a nutrirsi di ciò che sulla Terra non manca mai: cadaveri ed escrementi). Questi inserti fiabeschi alleggeriscono il racconto torrenziale, variando i colori della scenografia verbale. Che è poi l’unica scenografia dello spettacolo. Seduto sulla solita seggiolina, l’abito scuro, la voce amplificata, Celestini si ritaglia un perimetro di neon gialli e comincia a parlare senza mai fermarsi, procedendo con la collaudata tecnica degli spostamenti progressivi per iterazioni di suoni, parole, intere espressioni, andate e ritorni di micro sequenze, intercalari ritmici. Va preso atto della sua bravura e della sua simpatia, e l’affetto che il pubblico ovunque gli dimostra vuol dire che c’è bisogno anche di questo tipo di teatro. Ma è altrettanto doveroso ribadirne i limiti. Cambia la storia, matura la capacità compositiva, il gusto dell’intreccio, ma in scena c’è soltanto la voce. E la voce è quello che è.
D’altronde questo era forse il senso della sua presenza nel cartellone veneziano: un caso esemplare di quei narratori che costituiscono certo una realtà significativa delle scene italiane, che portano avanti un loro discorso drammaturgico, ma che si fermano, come ammette lo stesso direttore del festival, a "quel momento di affabulazione che è un pre-teatro, il racconto che costruisce le condizioni della scena".

Scanna

A tentare il passo successivo verso il teatro ci ha provato un altro attore finora conosciuto per i suoi monologhi, Davide Enia. Di passi, anzi, il giovane siciliano ne ha mossi più d’uno: scrivendo un testo per nove attori (che ha vinto il Premio Tondelli), scegliendo di non salire sul palco, provandosi come regista e dunque cominciando a porsi la questione di una sintassi del discorso scenico che superi il piano meramente narrativo. Scanna concentra una numerosa famiglia in un rifugio antiaereo, durante un coprifuoco: "Aspettano che ritorni il padre, che sta preparando un attentato, un padre che non arriverà mai, e nell’attesa si scannano." Si scannano a insulti, a ceffoni e infine a pistolettate. I picciriddi imparano dai grandi il codice d’onore, la preparazione delle armi. Giocano alla faida, mimano le esecuzioni. E se imitano col nonno paralitico i versi e le movenze animali, è perché la scannatura del titolo è quella delle bestie da macello, che nel dialetto palermitano estende il suo significato a ogni conflittualità sanguinosa tra essere umani. L’assenza di indicazioni spazio-temporali potrebbe, secondo Enia, giustificare qualsiasi interpretazione: l’epoca fascista, Sarajevo, la guerra onnipresente nella storia. In realtà è difficile pensare a un’ambientazione diversa da quella in cui la scelta linguistica e l’impostazione registica collocano inevitabilmente la pièce. Il testo intatti è scritto (e recitato) in un palermitano recuperato da Enia dopo il ritorno in Sicilia, ma non per questo meno stretto e arduo. Anche la bella musicalità di questa lingua è spesso soffocata dal tono concitato, dalla recitazione spinta, in molte scene gridata. Il senso complessivo passa comunque, ma si perdono le parole, le loro punte taglienti e le loro sfumature colorate. Quanto alla regia, ci è parsa stranamente "televisiva", nel senso delle regie teatrali fatte un tempo per il piccolo schermo (Eduardo, per intenderci, anche se qui De Filippo non c’entra), come se un filtro – una quarta parete catodica, una ripresa fissa – impedisse allo sguardo del regista (dunque dello spettatore) di penetrare lo spazio scenico secondo direttrici differenti. Ne risulta una messinscena che in qualche modo rimanda a un cliché di realismo meridionalista, che spesso si appiattisce su un’inquadratura prevedibile e costringe gli stessi attori entro stereotipi espressivi: tipi fissi (gli uomini in canottiera e le donne che lavorano a maglia sulle seggiole in fila, il vecchio che non ci sta tanto con la testa ma è poetico, il capofamiglia e l’antagonista, ecc.), dialogato "popolare", coralità in climax, chiassose rotture di scena, richiami al clima d’attesa.
Dentro questa struttura, Enia ha però cominciato a intervenire ricavando spazi di autonomia attorale, momenti contrastivi che creano in scena equilibri meno scontati. Sono aperture giocose (la pioggia di coriandoli, le bolle di sapone, la ragazzina lanciata in aria), sprazzi di realismo magico (la bella parentesi del vecchio paralitico che si alza dalla sedia a rotelle per descrivere come dall’alto la scena ("Visto che bella famiglia di merda?"), in un a parte che è il punto più alto dello spettacolo), ma anche tentativi di soluzioni finalmente antinaturalistiche basate sulla ricerca di equivalenze, per esempio attraverso l’esasperazione della gestualità (in particolare dei picciriddi), permettendo agli attori di provare a sciogliere il corpo da intenti didascalici e trovarvi una grammatica propria, una articolazione significante. Scelti quasi tutti attraverso un laboratorio, gli attori dimostrano già un buon affiatamento. Sono Valentina Apollone, Luigi Di Gangi, Alessio Modica, Katia Gargano, Ugo Giacomazzi, Giorgio Li Bassi, Paolo Mazzarelli, Carmen Panarello Antonio Puccia.

Sugli altri esempi di "nuova drammaturgia" su cui ha puntato la Biennale non ci sembra il caso di soffermarci. Io ti guardo negli occhi di Andrea Malpeli, regia di Chérif è uno spettacolo scelto per chissà quali logiche ma sicuramente non per il suo valore artistico. Preziosi arabeschi proiettati a terra, sul fondale e sulle colonne del Teatro alle Tese, costumi firmati Capucci, un testo pieno di banalità, due ore di dialoghi convenzionali e luoghi comuni sul tema dell’emigrazione, una recitazione declamatoria.
Binario morto di Letizia Russo conferma invece le capacità della giovane drammaturga, stavolta alle prese con un testo "per adolescenti" scritto su commissione del progetto "Intercity connections". Coraggiosa l’idea di costruire una sorta di paradossale teogonia profana, sinistramente giocosa, ironicamente tragica, anche se l’analisi degli schemi relazionali tra i personaggi e la grande allegoria della creazione ciclica di un dio che è forse un carnefice (un "piccolo dio fallito" che non sa parlare e deve imparare dagli uomini) restituiscono, più che la cattiveria e l’eroismo dei ragazzi, un tessuto linguistico-emotivo fin troppo ammiccante al loro universo. Non nel senso dell’imitazione del linguaggio giovanile ma della definizione giocoforza dall’esterno degli estremi stantardizzati del branco e della solitudine. In ogni caso un lavoro interessante, che però è stato portato in scena da Barbara Nativi con esiti poco convincenti. I giovani interpreti si muovono velocemente ma senza un’efficace definizione dello spazio scenico, a volte bambineggiano a volte fanno i teen-agers, sono approssimativi nei momenti di scoperta e in quelli di odio ("anche questo è un pensiero che si addice a un dio"), nei passaggi introspettivi come in quelli sadomaso. Scontano forse le aporie insite nel meritorio progetto: si ascolta una generazione ma poi si vorrebbe scriverla, ci si rivolge ad essa ma in una lingua altra perché ogni mimesi sarebbe falsa, si dichiara la sua inafferrabilità costitutiva ma si pretende di rappresentarla… Una bella sfida che il teatro continuerà a raccogliere.


La scimia

Da Le due zittelle (il raddoppiamento della t compenserebbe lo scempiamento del titolo), il piccolo capolavoro che Tommaso Landolfi licenziò nel 1939, Elena Stancanelli ha ritagliato per Emma Dante e gli attori della compagnia Sud Costa Occidentale un copione asciutto e rispettoso, scegliendo di partire circa a metà del racconto e condensando in pochi precisi richiami tutto l’antefatto, per dedicarsi poi a delimitare e definire sistematicamente la materia verbale come un "claustrofobico campo semantico". Due donne tetre e bigotte vivono con una scimmia (Tombo) che è il vivo ricordo lasciato loro dal fratello defunto, una sorta di esotica reliquia, vezzeggiata e quasi venerata. L’animale (di cui Lilla e Nena non riconoscono ormai che l’aspetto antropomorfo) ha imparato a uscire nottetempo dalla gabbia e dall’appartamento per raggiungere l’attiguo convento e lì trafficare con ostie, cibori e paramenti sacri. Le lamentele e le accuse delle monache spingono le donne, incredule, a organizzare un appostamento nella chiesetta. Da qui parte lo spettacolo, all’altezza dell’ispezione in chiesa, che diviene lo spazio di tutta la vicenda. La scenografia di Mela Dell’Erba dispone quattro sedie rovesciate in disordine e un tavolo-altare in fondo a destra su cui pende una grande croce di legno, quasi a ridosso del fondale bianco. Quattro attori in nero, le due beghine (Manuela Lo Sicco e Valentina Picello) e due preti (Gabriele Benedetti e Sabino Civilleri), convergono sull’altare, sotto il crocefisso che dondola sulle loro teste. Lilla e Nena sono delle macchiette molto ben delineate: una ha le zeppe alte, a sottolineare la figura alta e magra, allungandola insieme alla voce acuta, in falsetto; l’altra sempre innaturalmente curvata in avanti, con un tono più deciso. In molte scene si trasmettono tra loro i movimenti, doppiano gesti, tic, reazioni. Nel loro aspetto caricaturale, cui si contrappone la serietà dei sacerdoti, rendono bene l’ironia che attraversa il testo, anche se non con la finezza della scrittura di Landolfi. Emma Dante ha puntato piuttosto sulla sessualità repressa delle due donne, che seguono la messa ogni giorno, sono devote fino a ingoiare il rosario e lavarsi con l’acqua benedetta, e ritrovano negli impulsi della scimmia un richiamo alla vita in tanto grigiore e tanta contrizione.
Come nei primi spettacoli della regista palermitana, gli attori lavorano sempre in strette relazioni di coppia e in segmenti e incroci a quattro, fin dalla prima scena che li vede cercare nervosamente qualcosa su quello che sembra un semplice tavolo, ma quando se ne discostano è l’altare ricomposto
Ha inizio il rosario, poi c’è la benedizione delle ostie. Le due donne pregano inginocchiate verso il pubblico, poi si spostano con le sedie in modo sempre più concitato e discinto, indietreggiano segnandosi istericamente, si scoprono pezzi di carne, lasciano cadere dagli indumenti intimi delle arachidi (quelle che nascondono a Tombo), le teste rovesciate all’indietro, i rosari calati nelle gole.
Dalla transustanziazione simbolica sembra di passare a questo punto ad una "reale": da sotto l’altare sbuca prima una palla poi la scimmia. L’uscita di Tombo e i suoi numeri occupano la parte centrale dello spettacolo e stravolgono scenografia e personaggi. "Le due donne", scrive Landolfi, "per un momento non capirono, si rifiutarono di capire… Lettore, non ne ho colpa: Tombo diceva messa" (citiamo, come più avanti, da Tommaso Landolfi, Le due zittelle, SE, Milano 1985). La Dante è riuscita a rendere la ritrosia, il raffinato disagio della scrittura orchestrando i personaggi "umani" come un quartetto dai movimenti combinati, ripetitivi e autosufficienti, lenti quando attorno all’altare fingono il sonno (quasi un’ipnosi per l’oscillare della croce), veloci quando tenteranno di bloccare la scimmia, fino all’agitato della scena conclusiva.
Tombo è interpretato da Gaetano Bruno che supera brillantemente la prova assai difficile della rappresentazione animale. Nudo, barbuto e capelluto, mostra i denti, ghigna, salta, corre. Notevole lo studio di gesti, posture, movimenti da primate, ma l’attore è credibile non in virtù delle capacità imitative, semmai perché non le porta mai fino in fondo, consapevole che vale per la scena ciò che Landolfi scriveva per la scrittura che provi a dire l’animale: "[…] tutte le qualità che un accorto novellatore di razza umana, esperto quanto si voglia di caratteri, può rilevare in un animale o attribuirgli, non sono al postutto che mere supposizioni, cui solo il nostro smodato antropomorfismo presta verosimiglianza". È sul crinale che separa e insieme congiunge uomo e animale che si gioca l’unica possibilità di incontro. Non l’animale, ma il divenire uomo dell’animale è ciò che vediamo e crediamo in scena. E a tale dinamica risponde un uguale e opposto movimento negli altri attori verso il divenire animale: uno dei preti ingoia l’ostia con esagerati movimenti della bocca, le donne si spulciano a vicenda, raccolgono le arachidi saltando, si disarticolano in una gestualità impulsiva. Lo spettacolo insomma ha colto la questione centrale del testo landolfiano, ovvero la messa in crisi del paradigma antropocentrico, e lo indica con forza attraverso i corpi ben prima che esso diventi esplicito nella parte finale, quando Tombo, – consumato il suo rito blasfemo, masticate le ostie e bevuto il vino, scimmiottata insomma la messa, mentre per i quattro lo choc è tale che scattano cercando di afferrare la croce, di fermarne la paurosa oscillazione – viene acciuffato e sottoposto a giudizio.
Uno dei preti, tuttavia, si fa difensore della scimia. Ne nasce un serrato confronto teologico tra i due religiosi che si trasmette di continuo alle movenze delle donne, mentre l’animale si dimena e lamenta al guinzaglio. Ritorna il modulo a quattro, adesso stretto sulle sedie in fila davanti agli spettatori. Alla rigida ortodossia del parroco, il prete giovane contrappone una critica del libero arbitrio e un panteismo estremo: se l’universo intero è il corpo di Dio anche la scimmia ne è un’incarnazione, e l’innocenza, la colpa, il peccato sono invenzioni degli uomini. Giunge a urlare: "Io non so chi sia Dio. Cento volte al giorno lo bestemmio e altrettante lo invoco".
Ma d’improvviso Tombo si libera dal collare, salta sull’altare e afferra la grande croce. È il buio. Poi in un flash lo si rivede crocefisso. Infine torna l’assetto iniziale dei personaggi attorno all’altare vuoto, mentre un taglio di luce reclina sul fondale bianco, scompare con l’ombra della croce rimasta anch’essa vuota.
Cinquanta minuti di teatro teso e compatto, dove ogni gesto cerca (non è detto che sempre la trovi, ma corre questo rischio essenziale) la propria necessità nella logica interna di questo "reame rovesciato", dove persino la disputa metafisica passa attraverso la presenza viva degli attori. Un teatro percorribile dallo spettatore in più direzioni e livelli. Ne indichiamo un ultimo, prezioso: i velenosi scambi di battute in russo tra le zitelle. Non ci sono in Landolfi, ma sono funzionali alla scena stratificata in cui compaiono e costituiscono un coerente e delicato omaggio al traduttore di Gogol’ e Puskin.



La Monaca di Monza

Se guardiamo alle messinscene testoriane e pasoliniane di questa Biennale, i dubbi sollevati in apertura sembrano confermati. La Monaca di Monza di Teatridithalia, regia di Elio De Capitani, poggia interamente sull’intensa interpretazione di Lucilla Morlacchi. Capelli cortissimi, grigi come la tonaca, gesti contratti e voce tormentata, l’attrice è una Marianna de Leyva – "suora bastarda", "cagna" – ormai anziana ma decisa a ripercorre senza più ipocrisie la sua via crucis aberrante, interrogando gli altri personaggi fissati nel passato allucinato in cui si sono svolti i fatti, evocati come spettri, e soprattutto ascoltando l’urgenza della propria carne che cerca di ridiventare voce, verità. Violenze, perversioni, delitti, fino all’invocazione finale, insieme blasfema e pietosa, a un Dio indifferente (con quale tormento Testori si stava avvicinando alla conversione!): "Punta i tuoi occhi su questi stracci che ti bestemmiano, su questo niente che ti reclama. Te lo chiediamo con lo strazio delle nostre ossa e delle nostre carni finite. Liberaci dalla nostra carne; liberaci dal nostro sangue; liberaci dalla nostra morte. O distruggi anche te nella nostra carne, nel nostro sangue, nella nostra morte".
Il disfacimento morale e fisico del personaggio, Testori lo proiettava anche sull’ambiente: "Sono sola, Dio mio, sola su questa scena popolata di spettri; il Calvario di Monza è stato distrutto; le fabbriche han rovesciato case e giardini; gli scoli degli opifici infettano la schiuma del Lambro…". Ma la scenografia di Carlo Sala non ne ha tenuto conto. Fatta di "lacerti di pittura secentesca", scale e drappi, ha appesantito l’allestimento (e soluzioni come quella della pedana-letto trascinata dietro le quinte con sopra la madre della monaca in posa plastica hanno effetti melodrammatici), mentre spesso la Morlacchi sembra davvero sola sul palco. L’interprete della scandalosa Arialda di Visconti (1960) e dei Promessi sposi alla prova di Shammah (1984) non ha trovato in questo suo atteso ritorno a Testori un gruppo di attori all’altezza. Fatta eccezione per un Marco Baliani più dinamico di come siamo soliti vederlo, impegnato a sfaccettare l’inquietante figura dell’amante e assassino Gian Paolo Osio (l’altro travestimento autobiografico dell’autore, oltre a quello della stessa monaca: maledizioni diverse e complementari), ma anche costretto a lunghe pause statiche. Il testo ha passaggi altissimi, e il regista ha operato scelte e tagli diversi da quelli dell’allestimento di Visconti (del 1967, lo stesso anno della sua composizione), sfruttando il vantaggio di conoscere l’evoluzione stilistica e tematica del teatro di Testori. Per esempio ha dato rilievo alla vicenda dei genitori di Marianna, alla violenza subita dalla madre, nella consapevolezza che "l’atto di un concepimento non voluto è l’ossessione testoriana di tutto quel periodo, dai Trionfi a La cattedrale". Eppure lo spettacolo rimane entro i limiti del più tradizionale teatro di parola, facendo solo intravvedere quello che per lo stesso De Capitani dovrebbe essere il cuore di questo lavoro: la lotta con il corpo. Colpa solo delle lamentate "condizioni produttive" (Teatridithalia, Stabile della Toscana, Biennale)?


Bestia da stile

Quanto a Pasolini, la messinscena di Bestia da stile del Nuovo Teatro Nuovo spinge a considerazioni diverse ma altrettanto perplesse sul rapporto tra drammaturgia d’autore e creazione teatrale.
Questa "regia di gruppo a cura di Antonio Latella" viene a concludere una trilogia pasoliniana iniziata con Pilade nel 2002 e proseguita l’anno scorso con Porcile (ma nello stesso periodo Latella ha allestito altri otto spettacoli: Genet, Shakespeare, Testori…!). Se il primo era pensato come un’assemblea di ragazzi riuniti a lavorare sul testo e il secondo come una sorta di cartone animato, Bestia da stile vorrebbe risultare un "rito culturale" nel quale si consegna al pubblico un fardello di domande – che sono le domande insieme intime e politiche dello scrittore – perché ciascuno cerchi la propria risposta.
Un coro di dieci attori e due attrici prende posto su sgabelli allineati al proscenio, davanti al sipario chiuso. Vestono un identico frac double-face e guardano sorridendo gli spettatori prima di iniziare, all’unisono, a declamare i versi. Le luci di sala sono accese e lo rimarranno per quasi tutto lo spettacolo. Entrando dalla platea, un tredicesimo attore (Marco Foschi), scalzo e discosto dagli altri, dà voce al protagonista, Jan, e alla sua decisione si essere poeta. "Poeta di cosa? / Del mio sesso e del mio paese. / Del mio sesso caldo che conosce il fresco dell’aria; / del mio paese popolato come un poema / in versi brevi / di canti popolari". E i canti popolari si alzeranno davvero, da Jannacci a Violeta Parra ai ritmi incalzanti dei tamburelli. Volti dai tratti decisi, parlate dialettali che ricordano l’amore di Pasolini per la lingua viva, da far entrare finalmente a teatro: "Se un italiano oggi scrive una frase – sottolineava il poeta nel Manifesto per un nuovo teatro, del 1968 – la scrive allo stesso modo in qualsiasi punto geografico o a qualsiasi livello sociale della nazione, ma se la dice la dice in un modo diverso da quello di qualsiasi altro italiano".
Fin dalla prima scena, che lo vede masturbarsi sulle rive della Moldava, il ventenne protagonista traduce "in parole estreme", e senza voler distinguere, il politico e il personale, l’intimità e la Storia, la vocazione letteraria e "gli odori bui della cucina nell’ora dell’inverno che precede la cena". Combattente partigiano dopo l’invasione della Cecoslovacchia, trova la metà del suo sangue ebreo negli scrittori amati (Kafka, Apollinaire, Kavafis, Dylan Thomas, Pound…). Scoprirà la morte dei genitori deportati e le relazioni ambigue della sorella con i tedeschi ascoltando lo spirito dell’amico Karel impiccato. Più che la vita lo possiede il soggno della vita, nella scelta del formalismo come di fronte al coro operaio o nell’integrazione nell’ideologia comunista che lo porterà a ricevere a Mosca il Premio Stalin. E un’apparizione, attraverso la profezia dell’ombra del Padre, sono anche i carri armati russi per le strade di Praga e la majakovskjiana lotta tra il Capitale e la Rivoluzione.
Con intelligenza, Latella ha trasformato la domanda chiave del testo pasoliniano – che senso ha per me scrivere ancora poesia – in una domanda che chiamasse in causa l’esperienza dei suoi giovani attori e sua: il senso del fare teatro, del continuare a farlo. Se la lotta è tra il talento e lo stile (l’urgenza iniziale e la sua formalizzazione, l’artista che diventa bestia da stile), allora "la questione è risalire all’inizio: ritrovare il momento in cui è nata l’esigenza di fare qualcosa: la tua voglia di far poesia, la tua spinta a fare teatro". Forse in questo modo gli interpreti sono riusciti a scoprire nel copione la loro stessa autobiografia, il loro diario, tuttavia l’intenzione di fare "comunione di un testo con il pubblico" rimane tale. Nonostante la bravura di Foschi e di quasi tutti i suoi compagni, nonostante gli scorci lancinanti di paesaggio e gli squarci storici infiammati nei versi, lo spettacolo resta distaccato e a tratti noioso, con rari momenti di reale coinvolgimento che, guarda caso, coincidono con la rottura dello schema frontale e con l’apertura concreta al corpo e all’immagine. Così quando la madre di Jan (Cinzia Spanò) sfila sugli sgabelli in preda all’alcol, con i frac dei compagni agganciati alla cintola a formare una gonna di fiamme di raso rosso, e lancia la sua invettiva fascista sul capo del figlio inerme, reo ai suoi occhi di essere non un buon comunista ma un cattivo borghese. O quando – ma siamo ormai alla fine, dopo più di due ore – il protagonista pronuncia il suo testamento spirituale mentre viene trasformato in spaventapasseri e il grottesco irrompe in scena aprendo un tardivo varco nell’intellettualismo del testo. Qui si evidenzia bene anche una costante del concetto di tragico in Pasolini, perché – lo ricorda il Padre nell’epilogo di Affabulazione – "C’è sempre, nell’eroe di una tragedia, l’ora in cui egli è un po’ ridicolo e perciò fa pietà". Poi nel buio finalmente il sipario si apre su un palco completamente vuoto e scuro, a eccezione di una sagoma in cui si potrebbero indovinare i tratti dello scrittore. In silenzio un servo di scena la incendia (il protagonista ha lo stesso nome di Jan Palach, lo studente praghese che si diede fuoco in Piazza San Venceslao per protesta contro l’invasione sovietica, del quale capovolge l’intinerario politico-esistenziale), mentre gli attori la guardano semidistesi come in un sogno – questo sì condiviso con il pubblico – e la voce di Laura Betti proviene da una caverna, da una riserva di senso, saldissimo di fronte alla banalità del male che le parole di Pelosi, cento volte sentite, riversano ancora sul vuoto lasciato da Pasolini.
Diceva Adorno che gli intellettuali sono gli ultimi nemici dei borghesi e insieme gli ultimi borghesi. Forse a questa contraddittoria e tragica sorte alludono le parole di Pasolini quando ricorda (ed è un’altra suggestione di quel rogo che guardiamo lentamente spegnersi) di aver voluto morire per affrettare il crepuscolo, mentre "adesso voglio vivere per difenderlo fino all’ultimo bagliore".
Alla luce di questo insanabile paradosso, che è di Pasolini e della "meglio gioventù" del suo tempo, ci si può accostare ai passaggi metalinguistici di Bestia da stile, alle dissociazioni, agli sdoppiamenti, ai controsensi, alle provocazioni di un testo così difficile e così poco teatrale, si può provare a entrare nella sua lingua, nel tormento e nella lucidità, nella passione e nell’ideologia della lingua di Pasolini, in quella "coscienza della lingua che tiene il posto della sua necessità". Ma la coscienza della lingua, per degli attori che hanno quest’età (in media meno di trent’anni) in questo momento storico, può significare semplicemente il "rispetto" della sua "purezza"? E se è la coscienza del teatro a portare alla sua rinuncia, ciò non avviene in nome di una più urgente necessità di esprimere?
Domande che ci siamo posti di fronte alla scelta di Latella in favore di una "non rappresentazione" dell’opera. "Abbiamo tolto tutto ciò che era possibile togliere", si legge nelle note di regia. "Qualsiasi cosa in più diventerebbe un gesto registico. Tentiamo di eliminare ogni possibile segno, per conservare la purezza del testo." A parte l’ingenuità del presunto grado zero della comunicazione teatrale (di "gesti" e di "segni" è piena, inevitabilmente, anche questa messinscena che nega se stessa), è di nuovo l’idea di una fedeltà al dettato pasoliniano che ci appare discutibile.
Latella riprende alla lettera le proposizioni più antispettacolari del Manifesto per un nuovo teatro, quelle che nel Riepilogo conclusivo (citato nel programma di sala) affermano: "Il teatro di Parola ricerca il suo spazio teatrale non nell’ambiente ma nella testa. […] Tale spazio teatrale sarà frontale; testo e attori di fronte al pubblico: l’assoluta parità culturale tra questi interlocutori, che si guardano negli occhi, è garanzia di reale democraticità anche scenica". Ma lo stesso Pasolini, nelle note al Manifesto, recuperava esperienze del tanto vituperato "teatro dell’urlo". E nella prima stesura di Bestia da stile proponeva delle indicazioni per una scenografia tutt’altro che mentale. Avrebbe voluto per esempio "una cantoria" sullo sfondo e una specie di canneto al cui riparo il Poeta protagonista restasse tutta la prima scena della masturbazione. Dava inoltre le precise misure del palco ideale: "Il palcoscenico dev’essere ridotto alle dimensioni di quello dei teatri dei pupi (due o tre metri per due)". Ce n’era abbastanza per interrogarsi sul senso di quella "purezza" del testo e sulle sue potenzialità spettacolari, non per strumentalizzare il testo, ma per tradirlo per amore, per sentirlo vivo qui e ora.
Se quella della "reale democraticità scenica" suona oggi, di fronte alla parvenza comunitaria di questa messinscena come "rito culturale" (con abbondanza di lessico liturgico nelle note di regia: inno, sacro, rito, messa laica), poco più che una battuta demagogica, l’"assoluta parità culturale" tra testo, attori e pubblico è un abbaglio che appiattisce la prospettiva storica. Pasolini pensava i suoi testi teatrali – e vale anche per questo che è il più autobiografico e sofferto – come esempi di una "tragedia della borghesia" destinata a informare il passaggio storico in cui la classe dominante, "identificando a sé l’intera umanità", non aveva più "nessuno al di fuori di se stessa cui deferire l’incarico della propria condanna". Una condizione di ambiguità appunto tragica, spiega Pasolini in Teorema: "Tragica perché, non avendo più una lotta di classe da vincere […] essa è rimasta sola di fronte alla necessità di sapere ciò che essa è".
L’istanza intellettuale di Pasolini, il suo tentare una forma mentre la contraddice non può essere applicato tout court quarant’anni dopo. Lo si riduce a slogan. Non si trattava, crediamo, di attualizzare il testo, ma di provare – e questa poteva essere la sfida per il teatro – a metterlo in prospettiva, perché noi oggi non siamo più, assolutamente, all’altezza della tragedia di Pasolini. Siamo da un’altra parte, i nostri corpi e i nostri pensieri sono lontani, e là dove sono forse ci servirebbe non un ritorno a un malinteso "teatro di parola", ma il recupero critico della grande visione pasolinana di un teatro dell’esistenza.


Su Pasolini

Se ci si ferma al Manifesto e alle varie dichiarazioni polemiche, quella di Pasolini può risultare, com’è noto, un’idea forte ma anche riduttiva di teatro, provocatoria ma strumentale e del tutto antispettacolare. L’assoluto primato assegnato alla parola (scritta) unito a un atteggiamento che apparentemente va dalla sottovalutazione fino all’esplicito disprezzo per il proprium del teatro, ovvero le teknai attorali, il linguaggio mimico-gestuale ecc., e il rapporto con il pubblico, trascinano l’anticonformismo dello scrittore friulano in un reiterato attacco contro il teatro italiano coevo. Proprio dall’introduzione scritta nel 1974 per Bestia da stile vengono i giudizi più sferzanti, dai quali si salva solo l’originalità di Carmelo Bene, mentre l’avanguardia è definita "altrettanto ributtante" del teatro tradizionale, "la feccia della neoavanguardia e del ’68", Visconti, Strehler e Ronconi sono tacciati di produrre solo "pura gestualità, materia da rotocalco", e a Dario Fo, additato quale ex-repubblichino, si riservano le peggiori accuse sulla linea di altri precedenti polemiche contro il suo teatro, di volta in volta "terroristico", "moralistico", "abominevole", "puritano", "peste del teatro italiano". Più che gli spettacoli del futuro Premio Nobel, Pasolini sembra tuttavia giudicare i suoi testi scritti ("non si può immaginare niente di più brutto"), anteponendo una idea di teatro e una posizione intellettuale a una pratica di teatro e ai suoi esiti concreti: "Della sua [di Fo] audiovisività e dei suoi mille spettatori (sia pure in carne e ossa) non può evidentemente importarmene nulla".
Alla decadenza delle scene italiane Pasolini oppone il programma che l’ombra di Sofocle pronuncia nel celebre incipit di Affabulazione: "Sono qui arbitrariamente destinato a inaugurare / un linguaggio troppo difficile e troppo facile: / difficile per gli spettatori di una società / in un pessimo momento della sua storia, / facile per i pochi lettori di poesia". Un teatro elitario destinato a rimanere sulla carta, si direbbe. Ma in realtà il pensiero pasoliniano del teatro procede, al solito, per scarti, paradossi, aperture divergenti. Accanto alle "tragedie borghesi" c’è il "teatro" di Uccellacci e uccellini e quello di Salò, c’è la composizione "teatrale" di Petrolio, c’è l’esporsi immediato dell’autore-attore Pasolini che interpreta se stesso nelle interviste come nelle letture pubbliche, c’è il suo corpo che si fa teatro nelle fotografie di Dino Pedriali e nella performance di Fabio Mauri, con le sequenze del Vangelo secondo Matteo proiettate sul petto del poeta (per un’analisi più ampia di questi episodi, e in generale del "progetto" teatrale di Pasolini, rinviamo almeno a Stefano Casi, Pasolini. Un’idea di teatro, Campanotto, Udine 1990, tra i primi contributi organici sull’argomento). Qualcuno direbbe che c’è la stessa scena della morte dello scrittore. Cosa tiene insieme il Pasolini tentato dalla body-art e quello del teatro della parola poetica? La visione – che attraversa la sua opera non solo teatrale – di un teatro dell’esistenza, tragedia globale nello spazio reale, rischio della forma in presa diretta, sconfinamento della rappresentazione fino all’incontro con la vita nella sua estrema estensione, "naturale" con-fusione dei due termini.
Forse che tutto questo, e tanto altro che in Pasolini si coagula intorno alla formula teatro di poesia, non riguarda il teatro del nostro tempo?


 


 

Teatro tra le gru
L’estate dei festival ad Amburgo è Kampnagel
di Mara Serina

 


E’ una grandissima ex fabbrica di gru situata nella zona nord di Amburgo ma adesso ad affollarla non sono più macchine e operai ma un vivacissimo pubblico di giovani e meno giovani attratti dagli spettacoli di teatro, danza, musica e cinema che quasi ogni sera sono in programma con artisti provenienti da tutto il mondo. Alla fine della lunghissima Jerrestraße c’è una K fra due parentesi quadre, alla fermata del 172, è il logo del >Kampnagel, un simbolo semplice, pulito ma efficace, come l’uso dello spazio che è ampio, essenziale, molte parti volutamente grezze, altre solo imbiancate così da non perdere la memoria del luogo ma assaporare il piacere di quell’elegante architettura industriale ancora intatta e genuina.
C’è un grande foyer che ospita due banconi da bar e un ristorante e quattro attrezzatissime sale teatrali con gradinate e poi ci sono altre sale, più piccole e riservate, per incontri o laboratori.
Kampnagel ha una propria programmazione teatrale condotta da Gordana Vnuk che quest’inverno ha ospitato una mini antologica sulla scena italiana con Motus, Fanny & Alexander e Teatrino Clandestino e tra qualche mese presenterà L’Ospite, l’ultima produzione dei Motus. In estate Gordana passa il testimone a Hidenaga Otori che dal 2001 è direttore artistico di un interessante festival internazionale, Laokoon, in programma ad agosto con un cartellone di tutto rispetto. Dai filippini protagonisti della performance New World Disorder, ai croati Zekaem in scena con un musical ispirato al film Moulin Rouge, alla divertente libanese Lina Saneh con Biokhraphia o, sempre dal Libano, lo spettacolo di danza Guerre au Balcon di Maqamat Dance Theater e poi i russi Akhe con lo storico White cabin fino alla Fura dels Baus con XXX, e in chiusura, due grandi eventi d’atmosfera orientale: i giapponesi Nibroll con Note uno spettacolo di danza dal sapore multimediale e Robert Lepage con il nuovo allestimento de La Trilogie des dragons, uno spettacolo epico della durata di 5 ore e mezzo.



La Trilogie des dragons.

Abbiamo seguito la prima parte del Festival, una sorta di viaggio dalla Croazia alla Russia fino alle Filippine e ne è valsa la pena, salvo una sola eccezione, il musical croato Moulin Rouge, davvero disarmante ed eccessivo nelle sue due ore e trenta con effetti speciali di dubbio gusto. Una ventina di attori infaticabili e a prova di liquefazione, data l’elevata temperatura in sala, hanno raccontato e cantato la storia di un giovane artista oppositore del regime che sogna ad occhi aperti un cambiamento e attraversa un’esistenza fatta di amori e aberrazioni, amicizie e tradimenti in cui tutti i toni del tragico vengono inferti al povero spettatore salvo poi rasserenarlo con inutili passerelle da varietà, guidate da un vero direttore d’orchestra e tre musicisti sempre in scena. Il finale è all’insegna della migliore tradizione mediterranea e la compagnia festeggia sul palco a "tarallucci e vino" con tanto di prosciutto affettato a vista, richiamo irresistibile per il pubblico tedesco che applaude felice.
Incontro decisamente migliore quello che abbiamo fatto la sera successiva, con due giovani artisti libanesi originali e intelligenti: Rabih Mrouè videomaker e Lina Saneh protagonista di un monologo delizioso (con la regia di entrambi), tema comune: la biografia. Rabih racconta di sé, del desiderio di percepire se stesso in tutte le trasformazioni dell’età e della vita anche se non sempre gli è possibile e la mancanza di memoria, di foto di famiglia, gli impediscono di sondare il misterioso legame che esiste tra un volto e un’anima, una personalità e una postura. C’è anche un nastro, una vecchia registrazione del frantello che canta ma ecco che riscoltandolo Rabin sente la mancanza delle immagini, di una memoria piena di sé e del mondo che gli sembra bizzarramente negata.



Biokhraphia.

Biokhraphia di Lina Saneh è un’ironica riflessione sul teatro sull’arte sulla sessualità e sulla censura, raccontati come in un’intervista dai ritmi serrati. Secondo la lezione del talk show televisivi le domande si susseguono uscendo da un registratore e la ragazza risponde. Temi di scottante attualità vengono stemperati in una gestualità bizzarra e a tratti comica, quando la performer inizia a disporre su di tavolino numerose boccette di liquido viscoso che lentamente travasa o versa a terra, alchimista delirante alle prese con scomode verità. Del resto a differenza di biografia, "biokhraphia" è un termine che fa riferimento al racconto demeziale di una vita, con aspetti surreali, caricaturali e radicali di un’esistenza. E proprio così, con la serietà di chi ha deciso di giocare col fuoco, agisce Lina sin dal primo momento in cui mette la testa fuori dall’allegorico teatrino con le tende rosse che costituisce la sola scenografia del suo intervento. Poi si alza, apre le porte della sala teatrale, si siede accanto all’uscita, dispone in bella vista le sue boccette e vi pone accanto un cartello: 55 euro l’una!
Dalle Filippine invece arriva New World Disorder della compagnia This Order, una performance graffiante sulla violenza diffusa nelle Filippine, sull’invadente modernità che calpesta l’ingenuità, l’onestà, la purezza della natura e delle tradizioni. Si procede in fila verso una grande sala prove, un magazzino dove fra materiali di scena e tubi a vista sono disposte alcune pedane e postazioni, che di volta in volta verranno illuminate per consentire al pubblico di assistere a un assolo degli attori-danzatori. Si parte con una danza tribale in costume tipico in cui si cerca il coraggio di mutilare la diversità: una lingua lunga e ingombrante che fa soffrire il suo possessore. Alla fine l’omologazione è sancita da un netto colpo di cesoia. Poi è la volta di un uomo che entra spinto su di un carrello del supermercato, incatenato.



The New World Disorder.

Riesce a liberarsi ma per cadere in una nuova forma di prigionia, quella di una gestualità sincopata che lo induce, al pari di un rapinatore, a indossare una calza di nylon in testa e tentare di salire e scendere da una scala. Ma il masochismo ha ancora ben altro di fronte a sé e l’artista si infila in un tubo di plastica, opportunamente gonfiato, e in quella situazione difficile prosegue il nonsense doloroso della scalata. Alle nostre spalle arriva lieve il lamento di una donna, sta sopra una pedana ed è coperta da un velo, il suo corpo è fatto di piccoli e grandi seni che stanno ovunque mentre immobile lei canta, nel buio. Poi un uomo tutto imbiancato, una sorta di fantasma di un antico guerriero con una gabbietta in mano e dentro un uccellino si avventura tra gli spettatori, come in una scura foresta, guardingo e timoroso. Trova una meta, una piattaforma in cui sembra compiere un rito con della polvere lanciata per aria ma ecco che la sua purezza svanisce per sempre, in un gesto crudele e violento: l’unico personaggio in apparenza libero da ogni tortura diventa subito aguzzino di un suo simile e lo picchia a sangue.
Per i prossimi mesi, anche se il festival Laokoon è finito, Kampnagel torna a far parlare di sé con una programmazione speciale dedicata alla danza, 4 eventi davvero interessanti: dal Canada la Fondation Jean-Pierre Perreault presenta Joe una produzione colossale con 35 danzatori che attraversa le atmosfere di 1984 di Orwell, Metropolis di Fritz Lang e il Beckett di Aspettando Godot (in scena dal 6 al 9 ottobre 2004). Dal Brasile Bruno beltrao e Grupo de Rua de Niteroi presenta Telesquat in cui è protagonista la danza di strada con eccezionali performance di hiphop (in scena dal 4 al 13 novembre 2004). Dal SudAfrica è la volta di Boyzie Cekwana/ The Floating Outfit Project in Ja, Nee/Rona (dal 12 al 22 gennaio) e infine da Israele arriva al Batsheva Dance Company in Naharins Virus, dal 9 al 13 marzo.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Tra performance, video e teatro, tra arte e vita
The biography remix di Marina Abramovic, regia di Michael Laub
di Silvana Vassallo

 

Quando gli spettatori cominciano a prendere posto in sala per assistere a The Biography Remix - spettacolo presentato in prima assoluta nell’ambito di Romaeuropafestival (dal 27 settembre al 2 ottobre) - il sipario è già aperto e la protagonista principale, l’artista-performer Marina Abramovic è già in scena. Sospesa a mezz’aria, sostenuta da una struttura simile a una croce, immobile, ieratica, a torso nudo, con una lunga gonna gialla che le parte da sotto il seno e due pitoni tra le mani, l’Abramovic appare come una sorta di ‘Dea dei serpenti’(la statuetta minoica trovata nel palazzo reale di Cnosso): una presenza scenica potente, che cattura ipnoticamente lo sguardo. Un fondale di luce diffusa giallo-oro illumina la scena, mentre un fascio di luce più chiara circoscrive la figura dell’artista, evidenziandola e proiettando la sua ombra sul fondale. Per terra, al centro del palcoscenico, sono sistemate una fila di grandi ossa, mentre ai lati, su due supporti rettangolari, scorrono delle brevi frasi composte da led luminosi, che ci informano succintamente sulle vicende più salienti della storia personale dell’artista (1946:nata a Belgrado. Madre e padre partigiani /1948:rifiuto di camminare / 1950:paura delle stanze da letto buie / 1961: Mestruazioni. Dipingo i miei sogni / 1962: Prima mostra / 1968: Gioco alla roulette russa con i miei amici. Scoperta del buddismo zen / 1972: Uso il mio corpo come materiale. Sangue. Dolore. Osservo operazioni chirurgiche negli ospedali ... e cosi via).


© Foto di Piero Tauro.

Poco dopo, quando il pubblico si è sistemato, due grandi dobermann neri entrano in scena e cominciano ad azzannare delle ossa, staccando famelicamente dei brandelli di carne. Il suono amplificato del loro ringhiare minaccioso pervade il teatro, fino a quando non arriva sul palcoscenico una cantante che indossa un elegante vestito di seta nera e sia nel fisico che per come è truccata ricorda l’Abramovic, sembrando quasi una sorta di suo alter-ego. La cantante, Raffaella Misiti, comincia a cantare una canzone, Lotta di classe e d’amore1, dai ritmi vagamente balcanici (terra d’origine dell’Abramovic). I toni languidi e le parole della canzone (‘L’amor mio non muore/ contiene desiderio/ aria di rivoluzione/ è fonte degli amanti/ è un eccezione o solo uno come tanti’) introducono un brusco cambiamento di registro, in netto contrasto con l’atmosfera precedente, pervasa da un senso di minacciosa violenza. Con la fine della canzone si conclude la prima scena dello spettacolo, a cui fa seguito una narrazione composita della vita e del percorso artistico di Marima Abramovic, costruita attraverso un alternarsi di canti, balli, monologhi, tableaux vivants, proiezioni video e azioni performative, che contribuiscono a fare di The Biography Remix un’opera difficilmente classificabile.


© Foto di Alessia Bulgari - © Edizioni Charta, Milano 2004.

Lo spettacolo rappresenta l’ultima tappa di un ampio progetto avviato da Marina Abramovic a metà degli anni ‘80 e intitolato The Biography, concepito in un momento particolare della sua vita, dopo la rottura del rapporto con l’artista-performer Ulay, con cui aveva condiviso per dodici anni un intenso legame sentimentale e artistico. Lo spaesamento provocato da questa separazione le fece sorgere l’idea di realizzare una performance basata su una teatralizzazione della sua vita e della sua carriera, per poter, quasi terapeuticamente, prendere le distanze da se stessa e da una condizione dolorosa2. L’idea iniziale si è poi trasformata in un work in progress, a cui vengono aggiunti continuamente nuovi fatti, consentendo in tal modo all’Abramovic di fissare con lucidità e distacco alcuni snodi esistenziali ed artistici della sua storia personale. Naturalmente il progetto ha anche un significato più ampio, in quanto esprime il desiderio di veicolare, attraverso contenuti autobiografici rielaborati artisticamente, esperienze universalmente condivisibili :’se si affronta qualcosa di personale lo si deve fare a patto di riuscire a trasformarlo in qualcosa di universale, altrimenti non interessa nessuno’3. Tra le pioniere della Body art e della performance, pratiche artistiche basate su uno strettto legame tra arte e vita, non stupisce che l’artista abbia avviato un progetto incentrato sulla sua biografia. Nel corso del tempo lo spettacolo è stato presentato in diverse versioni e in diversi teatri, sia in Europa che in America, talvolta diretto dall’Abramovic stessa, talvolta in collaborazione con registi teatrali. L’unica scena rimasta pessochè invariata è proprio quella iniziale, ideata dall’Abramovic assieme al filmaker e videoartista Charles Atlas nel 1989, e diventata una sorta di ‘biglietto da visita’, di condensazione della sua poetica, volta ad esplorare i limiti della resistenza sia fisica che mentale per giungere a nuove forme di consapevolezza, e che tratta essenzialmente di opposti - amore e odio, violenza e tenerezza, materia e spirito, vita e morte.
The Biography Remix presenta alcune importanti novità rispetto alle versioni precedenti. Per la prima volta l’Abramovic non è sola sulla scena ma utilizza altri interpreti, soprattutto allievi dei corsi da lei tenuti in diverse università europee ed istituzioni di arte contemporanea. Inoltre, per la prima volta la direzione dello spettacolo è stata affidata interamente al regista e coreografo belga Michel Laub, legato all’Abramovic da un profondo rapporto di stima, amicizia e di collaborazione artistica. Sono scelte, queste, che implicano una maggiore disponibilità a lasciare ad altri l’interpretazione del proprio lavoro e delle proprie performance, e testimoniano l’avvio di una fase di riflessione da parte dell’artista su tali problematiche.
Avendo il pieno controllo sulla produzione, Michael Laub ha dunque messo in forma, ‘re-mixato’ il materiale artistico e biografico a sua disposizione fornendoci un ‘suo’ ritratto di Marina Abramovic. Laub ha scelto di non procedere secondo un ordine cronologico, ma di costruire una drammaturgia che mescola diversi piani narrativi, in cui passato e presente si intrecciano costantemente, e che assume lo schermo video quale principale dispositivo di raccordo. Il regista, che da oltre trent’anni sperimenta sulle possibilità d’intersezione fra teatro e video, ha dichiarato a proposito dello spettacolo: ‘In un certo senso questa è un’opera su Marina Abramovich e uno schermo. Il fatto che lo schermo impegni cinquantacinque minuti a salire o scendere significa che occorreva costruire un’intera struttura drammaturgica intorno a quell’oggetto’4.
In varie fasi dello spettacolo, un enorme schermo che occupa quasi tutto il proscenio si alza e si abbassa assolvendo molteplici funzioni. Quella, ad esempio, di ‘memoria storica’: a tratti su di esso scorrono le immagini delle principali performance di Marina Abramovic a partire dagli anni ‘70, che documentano il rapporto dell’artista con il corpo, il dolore e la resistenza fisica. Allo stesso tempo lo schermo scandisce le varie sezioni dello spettacolo, creando slittamenti, cortocircuiti temporali, sovrapposizioni di tempi diversi. Una scena particolarmente toccante è quando sullo schermo viene proiettata una performance di Marina e Ulay del 1978 intitolata Incisione. Nella performane Ulay, nudo, cammina verso il pubblico, impedito in questo movimento da una corda elastica fissata al muro che gli cinge la vita e che lo respinge costantemente indietro; mentre si svolge questa azione Marina Abramovic, vestita e immobile in un lato della stanza, in concomitanza con il punto di massima estensione della corda, osserva la scena impassibile. Ad un certo punto, lentamente, lo schermo su cui sono proiettate le immagini si alza, e il pubblico può vedere la stessa performance eseguita dal vivo sul palcoscenico. Per un attimo avviene una sorta di sospensione temporale, perché i protagonisti sembrano gli stessi, come se il tempo fosse stato azzerato, mentre in realtà, come apprendiamo dalle scritte sui led luminosi, al posto dell’Abramovic c’è una sua allieva e al posto di Ulay suo figlio, che gli rassomiglia in maniera sorprendente. E’ un ciclo che si ripete, ma è soprattutto un ‘passaggio al testimone’, che esprimono il bisogno, il desiderio di preservare esperienze significative.



Incision, 1978 © Archivio di Marina Abramovic © Edizioni Charta, Milano 2004.
© Foto di Alessia Bulgari © Edizioni Charta, Milano 2004.

Sovrapposizioni temporali vengono realizzate nello spettacolo anche proiettando dei video sulla parete di fondo del palcoscenico. In un’altra scena estremamente suggestiva, sulla parete di fondo vengono proiettate le immagini della performance Light/Dark, del 1977, in cui Marina e Ulay, seduti in ginocchio l’uno di fronte all’altro, si schiaffeggiano fino allo sfinimento. Progressivamente sul palcoscenico entrano cinque coppie di giovani interpreti che ripropongono la stessa performance, trasformando il rumore provocato dagli schiaffi in una sorta di composizione musicale. C’è un contrasto tra l’intensità e la tensione emotiva che traspare dai volti di Marina e Ulay in video e una sorta di leggerezza, che caratterizza la riattualizzazione della performance in chiave ‘musicale’, nonostante il fatto che gli schiaffi siano reali, violenti e sicuramente dolorosi.


© Foto di Alessia Bulgari - © Edizioni Charta, Milano 2004

In effetti, nel corso dello spettacolo, ogni volta che ci troviamo di fronte alla reinterpretazione live delle passate performance, si avverte una sorta di scarto, come se ‘teatralizzandosi’ cambiassero di segno. Ciò che parzialmente si perde - e di cui paradossalmente le immagini video preservano la traccia - è la dimensione di evento unico, eccezionale, di carattere ritualistico tipica dell’arte performativa, che si basa su un forte coinvolgimento e una forte interazione con il pubblico. Inserite in un flusso narrativo complesso e stratificato le performance live eseguite dagli allievi dell’Abramovic, pur restando fedeli a quelle originarie, acquisiscono nuove valenze, nuovi significati, che riflettono anche le scelte registiche di Michael Laub, il quale ha costruito uno spettacolo dalle scenografie minimali ma visivamente ed esteticamente molto accurate, modulato su una molteplicità di registri - dall’ironico al giocoso, dall’estetizzante all’oleografico, dal concettuale all’emotivamente coinvolgente - sospeso in una dimensione liminale, tra il regno della realtà e quello della finzione.



© Foto di Alessia Bulgari - © Edizioni Charta, Milano 2004.

The Biography Remix rappresenta un’ulteriore tappa nel percorso artistico di Marina Abramovic, che con tale spettacolo ha inteso aprire una riflessione sullo statuto e sul futuro dell’arte della performance, più precisamente sulla possibilità di rieseguire e persino reinterpretare opere performative. Questo è il motivo principale per cui ha scelto di non occuparsi direttamente della regia ed ha utilizzato in scena dei suoi studenti: ‘Credo ... negli studenti e nella loro possibilità di interpretare un’idea originale di performance, per questo durante lo spettacolo lascio che siano loro a finire delle azioni che ho cominciato io’5.



© Foto di Alessia Bulgari - © Edizioni Charta, Milano 2004.

L’ipotesi su cui sta lavorando l’artista è che le performance, al pari di uno spartito musicale, possano appartenere a chiunque sia in grado di eseguirle: ‘Dopo trent’anni di lavoro credo ... che, come un musicista suona la musica di Bach o Beethoven e della sua esecuzione può fare una versione ascoltabile all’infinito, allo stesso modo, se sei un artista di performance puoi anche interpretare qualcun altro. Nessuno lo ha mai voluto fare, ma voglio essere la prima a farmi da parte e a lasciare spazio agli altri’6. In questa direzione l’Abramovic sta progettando un lavoro per il Guggenheim di New York, dove questa volta sarà lei ad eseguire una serie di performance di altri artisti, dopo aver chiesto loro precise istruzioni ed un permesso formale per poterle reinterpretare. Il ‘work in progress’ continua ... in attesa di una nuova versione di The Biography.


NOTE

1 Raffaella Misiti, Lotta di classe e díamore, di Selvaggi-Misiti-Scatozza, suonata dagli Acustimantico.
2 Per un’esauriente descrizione di The Biography Remix e della sua genesi, si può consultare il libro The Biographhy of Biographies, edito da Charta e pubblicato in concomitanza con la realizzazione dello spettacolo.
3 La forza nuda della mia vita, intervista a Marina Abramovic a cura di Elena del Drago, «il manifesto», 1° ottobre 2004.
4 The Biographhy of Biographies, Charta, Milano, 2004, pag. 21.
5 Intorno alla mia vita, dichiarazione di Marina Abramovic in un articolo di Arianna di Genova, «il manifesto», 29 settembre 2004.
6 La forza nuda della mia vita, intervista a Marina Abramovic a cura di Elena del Drago, «il manifesto», 1° ottobre 2004.


 


 

Il Teatro Civico della Spezia: alcune modeste provocazioni
Spettacolo, politica e cultura in una città italiana (che per fortuna è di sinistra...)
di Anna Maria Monteverdi

 

Una guerra è in corso tra la direzione artistica del Teatro Civico della Spezia e il suo gruppo politico, i Democratici di Sinistra nella figura dei consiglieri comunali Montefiori e Basile (per i precedenti, vedi anche ateatro 63.15 e la "autodenuncia" di Antonello Pischedda in ateatro 66.20) . Antonello Pischedda criticava qualche giorno fa in una intervista sulle pagine locali del «Secolo XIX» la bassa quota lasciata dal Comune per la programmazione teatrale e soprattutto minacciava di non firmare interamente il cartellone, prendendo le distanze da appuntamenti "commerciali" praticamente imposti per ragioni di "cassa" ("Tanto vale privatizzare il Civico"). Dura replica dei Ds (un vero "siluramento", titolava «Il Secolo»), che in una lunga nota pubblicata il domenica 17 ottobre («Provocazione incoerente con il ruolo di consulente dell'ente») oltre a non accettare la posizione di Pischedda (consulente a 77 mila euro per il 2002) rilanciavano il progetto Mecenate 90. Il Comune ha infatti affidato a una società di ricerche di mercato il compito di progettare un nuovo possibile assetto del "Sistema Cultura" cittadino e il risultato è stata la proposta di una suddivisione in tre Strutture: 1. Istituzione museale; 2. Archivi; 3. Istituzione Spettacolo. Una riorganizzazione che si rende ancora più urgente dalla recente apertura del CAMEC (Museo d'arte contemporanea) diretta da Bruno Corà, da un orientamento di "snellimento" dei vari uffici culturali e da una necessità di "ottimizzazione" delle risorse. Per inciso, nel 2004 su 786 mila euro assegnati all'attuale Istituzione per i servizi culturali, 221 mila sono andati al teatro soltanto per coprire le spese di gestione. L'attività di spettacolo viene finanziata quasi esclusivamente con gli incassi, sponsor e con l'affitto del teatro («Il Secolo XIX», 17 ottobre 2004).
I due esponenti Ds apprezzano l'idea di una Istituzione Spettacolo che miri a una "rete provinciale" della programmazione teatrale. Quello che in molte regioni italiane è una realtà già ampiamente consolidata alla Spezia, per certi aspetti Sud del mondo teatrale, è ancora in una fase di discussione. La prima domanda è: quali cariche verranno eliminate o come verranno riconvertite? In questa prospettiva la direzione del Teatro dovrebbe passare a una commissione allargata presumibilmente eletta dall' Istituzione e dalla Provincia, con rappresentanti politici e tecnici. Assetto di cui già si discuteva sin dall'inizio dell'estate, all'interno del direttivo dell'Arci. Quindi niente di nuovo. Quello che colpisce è proprio il tempismo della dissociazione del direttore dagli «affari istituzionali teatrali» che sembra lasciare campo libero al nuovo assetto politico-amministrativo in un momento di gravi tagli al Settore Spettacolo, facendosi per giunta paladino di proposte di qualità finite per colpa altrui miseramente in minoranza....
Una motivazione che fa sorridere se diamo un'occhiata alla programmazione di spettacolo di questi anni che portava anche la sua firma (pensiamo solo alla catastrofica gestione del Festival del Jazz 2004). Quindi un allontanamento volontario per motivi etico-artistici (i soldi non c'entrano...) per andare dove? In molti dicono per ricoprire un'importante carica dentro la Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia, quella che ha da sempre appoggiato e finanziato l'attività del Teatro Civico e di fatto anche la struttura che ha garantito ossigeno economico alla cultura in città, sia pur imponendo linee di indirizzo che non erano affatto piaciute al sindaco DS Giorgio Pagano. Quindi l'impressione è che non ci sia un terremoto in corso, solo uno spostamento e un rinforzamento di sedie già preordinato. (redazione ateatro)


Da tempo abbiamo assistito impotenti – ma a volte denunciandolo – all'inarrestabile declino di un teatro cittadino che vanta una gloriosa storia. E non siamo così convinti che questo dipenda unicamente dalle ormai scarse risorse economiche delle casse comunali: lo ha indebolito e eroso di più la monolitica concentrazione di potere accumulata ai vertici secondo modalità di gestione che oggi vanno per la maggiore: monodirezionalità, personalismi e protezionismi, poca trasparenza. Niente di eccezionale: esattamente quei mali che infestano gran parte del teatro italiano (oggi denunciato in convegni e su riviste specializzate). Ma oggi la piaga è conclamata: la cultura non paga, nel senso che di soldi non ce ne sono più per nessuno e chi ha impostato la propria attività manageriale su questo, adesso abbandona la barca che affonda. Credo sia legittimo domandarci quanto è costata la gestione del Teatro Civico dal 1999 ad oggi, quanti sono stati i costi per il consulente e per il personale e a quanto ammontano gli straordinari per le strepitose Grandiestati. Dal mio punto di vista credo che se bisogna sferrare un attacco (o un siluro, come titola il giornale) questo vada indirizzato a una mancata linea di indirizzo programmatico e a uno scollamento dagli obiettivi regionali. La direzione del Teatro Civico non si è praticamente mai preoccupata di inserire nella sua "agenda" una seria attività di formazione, di istituire corsi legati alle professioni e all'imprenditoria dello spettacolo, di promuovere un'osservatorio e un'attività di archivio e di memoria, di formare una classe di progettisti culturali e teatrali in grado di dialogare con altre realtà territoriali, provinciali e regionali, di creare una rete di contatto con altre realtà produttive regionali. Ancora, non sono mai state fatte convenzioni con Istituzioni formative superiori (Accademie di Belle Arti o Dams, peraltro molto vicine: Carrara, Pisa e Genova). Era prioritario poi identificare sin da subito un gruppo teatrale nazionale che avesse nel Teatro una residenza, e che usasse questo come "luogo laboratoriale" dove i giovani che si avvicinano al teatro avrebbero potuto imparare nella pratica della messinscena, i mestieri dell'arte, e una base da cui il gruppo prescelto poteva fare della Spezia un luogo di scambio artistico e culturale. Niente di tutto questo è accaduto. Spezia è stata, negli ultimi anni, solo ed esclusivamente una data per compagnie itineranti spesso mediocri. Dal calderone spezzino dove Natalie Caldonazzo sta con Alfonso Santagata e Sconsolata (agenzia Sosia) con Judith Malina (appuntamento voluto e pagato dal Festival Portovenere Donna) cosa ci possiamo aspettare? (Restituendo a Cesare ciò che è di Cesare alcuni appuntamenti importanti negli anni ci sono stati, come quelli di Marco Paolini e Albanese, più "eccezioni" evidentemente che "regole"). Un gesto di coraggio sarebbe stato rinunciare in questi anni a tanta spazzatura televisiva fatta passare per "divertissment". Ma inaspettatamente (un vero colpo di teatro!) il direttore del Teatro Civico, Antonello Pischedda tra le pagine de «Il Secolo XIX» rivendica il diritto di "firmare" solo spettacoli che lui ha scelto in autonomia per il cartellone in base a motivazioni di qualità, rinnegando altri eventi "obbligati" in cui entrerebbero prioritariamente questioni di "cassa", esigenze di botteghino". Preoccupazione legittima.... Sta a noi decidere se credere alla sincerità del ravvedimento in nome del teatro, o leggere questo sfogo come l'ennesimo evento sapientemente preparato per scatenare un finto conflitto "in casa" alla fine del quale si cambia solo di posto...(magari per uno più prestigioso e remunerativo). Di fatto occorrerà molto tempo per rimediare ai danni portati in città da molta sottocultura televisiva fatta passare per buon teatro. Di fronte a situazioni come queste spazi come la Dialma Ruggero acquistano il valore di luoghi di "resistenza culturale", dove faticosamente si prova a tessere le fila di un nuovo e più diretto rapporto con il pubblico, ormai lacerato. Il tutto però ahimé, a costo zero. Questa minestrone (pastetta?) teatrale ha inglobato infatti tutti i finanziamenti pubblici sullo spettacolo senza peraltro mai convincere né i fanatici della ricerca né il grande pubblico. Ho assistito personalmente a spettacoli di scarsissimo valore artistico in un teatro praticamente deserto. Quale era la motivazione di una tale scelta di spettacolo? Si trattava forse di fare favori a qualcuno? O di "scambiare spettacoli"?
Leggo e accolgo con interesse e attenzione insieme con il collettivo Cut up di cui faccio parte la proposta di un nuovo assetto dello Spettacolo in città, che promuova una messa a sistema dell'esistente e vada nella direzione di una partecipazione diretta, trasparente e pluralistica della sua gestione amministrativa e artistica. Siamo convinti che tutto questo parta da buone intenzioni e ci auguriamo sinceramente che questa prospettiva futura delineata dal gruppo Ds tra le pagine del «Secolo XIX» significhi un decisivo cambio di rotta e di stile e non solo un cambio di persone. Perché è appunto il sistema che va cambiato, non soltanto, nel caso, un direttore.


 


 

develop.net: teatro, centri sociali e spazi autogestiti
prototipo per un sistema teatrale
di Gian Maria Tosatti per develop.net

 

A tutti i responsabili di centri sociali e spazi autogestiti che operano (anche) nel campo delle arti performative rivolgiamo l’invito a prender parte in un progetto sperimentale mirato alla creazione di un coordinamento di spazi sul territorio nazionale con la finalità di creare un centro di ricerca nazionale in rete, per il teatro e la danza, che sostenga lo sviluppo dei percorsi artistici di tutte quelle realtà che al presente operano “fuori dal sistema”.


Durante la prima parte del 2004, la principale questione sollevata dal mondo teatrale è stata l’impossibilità dell’attuale sistema istituzionale a sostenere le correnti di sviluppo della scena contemporanea. Non staremo qui a ricordare i molti eventi importanti, dai dibattiti aperti sulle riviste, alle diatribe sindacali dell’Eti, all’individuazione di nuove prospettive economiche per il futuro.
Tra queste iniziative va certamente segnalato l’incontro del 16 luglio 2004 dal titolo Le vie possibili del nuovo teatro che si è svolto a Napoli nell’ambito del festival “Teatri di Napoli” e che avrà un seguito in un secondo incontro che si terrà il prossimo 6 novembre a Milano presso la Scuola Civica d’Arte Drammatica “Paolo Grassi”. (Si può leggere un resoconto dell’incontro di Napoli, a firma di Franco D’Ippolito, su www.ateatro.it. Sullo stesso sito è pubblicato l’articolo Le Buone Pratiche il 6 novembre a Milano)
L’appuntamento milanese di novembre servirà a definire alcune linee concrete di azione per apportare i necessari cambiamenti all’attuale logica produttiva e di mercato attualmente dominante che determina la crisi della nostra scena.
Il progetto al quale Vi invitiamo a partecipare nasce da una delle relazioni del convegno di Napoli che ha cercato di spostare l’attenzione dall’ipotesi di riforma del “sistema istituzionale” a un intervento di organizzazione atta ad ottimizzare e sviluppare le risorse di tutta quell’ampia fetta di artisti, operatori e strutture che non hanno rapporti con gli organismi istituzionali del Teatro nazionale, lavorano quotidianamente “fuori dal sistema” e per le quali gli attuali regolamenti non prevedono prospettive di un dialogo realmente funzionale con i soggetti istituzionali esistenti. Tali soggetti, tra cui centri sociali e associazioni varie, tuttavia, raccolgono la maggior parte delle forze produttive autogestite che fanno riferimento alla nuova scena.
Gli spazi autogestiti sono al presente le “cattedrali ignoranti” di un nuovo campo di lavoro che potrebbe razionalizzare le proprie risorse umane ed economiche per diventare il prototipo di un nuovo sistema teatrale in grado di assistere con maggiore continuità e impegno, e dunque con risultati migliori, il fermento della nuova scena che vive senza sovvenzioni o organi di monitoraggio adeguati.
L’intervento, che ha posto l’accento su questo problema e sulle possibilità di attingere a un bacino di risorse alternativo a quello “centralizzato” del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) o dagli enti locali per il Teatro, è stato tenuto da Gian Maria Tosatti, direttore della rivista settimanale on-line “LifeGate Teatro” e del gruppo di ricerca “Hôtel de la Lune”.
Milano sarà per noi l’appuntamento per un’ulteriore definizione delle possibilità di realizzazione del progetto develop.net e l’occasione per presentarlo a coloro che parteciperanno al convegno.
A seguito dell’incontro milanese, a Gian Maria Tosatti verrà affidata la guida di un tavolo di lavoro il cui scopo sarà mettere concretamente in pratica le proposte.
A questo tavolo di lavoro, che indicativamente si terrà a metà novembre, prenderanno parte tutti i responsabili di centri sociali o spazi sparsi su tutto il territorio nazionale che accetteranno la sfida di dedicarsi alle arti performative impegnandosi nel progetto sperimentale develop.net.
Il progetto prevede la creazione di un coordinamento tra le strutture aderenti, che sosterranno un anno di collaborazione estesa mirata a creare un grande centro di ricerca teatrale indipendente e autogestito con spazi dislocati nel nostro Paese, e a costituire il prototipo di un circuito produttivo e organizzativo alternativo e attivamente complementare a quello attualmente finanziato istituzionalmente.
Questa lettera invita tutti i responsabili di spazi e centri sociali che vorranno contattarci nell’eventualità di aderire al progetto, a partecipare all’incontro di Milano e, in seguito, a prendere parte al tavolo di lavoro per discutere e disegnare una proposta di collaborazione per il 2005.

Roma, 31 agosto 2004

Per develop.net

Gian Maria Tosatti


Per info e contatti scrivere a: develop.net@libero.it
Noemi Quarantelli (collaborazione organizzativa al progetto)


Per consentirci di fornirVi in tempo utile tutte le informazioni necessarie, Vi preghiamo di contattarci entro e non oltre la metà di ottobre.
Inoltre, sarebbe per noi estremamente prezioso ricevere da chi fosse interessato al progetto un breve resoconto delle attività svolte dal centro sociale o dall’associazione, e una descrizione degli spazi a disposizione.


 


 

Un gestionale per compagnie teatrali
Un progetto di freeware da costruire insieme
di Michele Cremaschi

 

Vi racconto il progetto che sto realizzando, lasciando a voi il compito di valutare se si possa definire "buona pratica" nell'accezione che volete dare a tale iniziativa.
La mia esperienza di curioso osservatore di uffici teatrali, che da attore quale sono mi capita di frequentare, mi dice che le cosiddette "nuove tecnologie" comunemente presenti nel tipico ufficio della tipica compagnia teatrale vengono usate in modo - come dire? - "primitivo", un po' "naif". E' normale prassi avere un computer per fare dell'elaborazione testi, usare la posta elettronica; i più audaci lo utilizzano anche per il fax e per qualche progetto di grafica... e poi svariati fogli excel in cui tenere dati contabilità eccetera.
La mia idea - in corso d'opera - è quella di realizzare un software gestionale per la compagnia teatrale. Un software gestionale, o più semplicemente detto, un "gestionale", è un database pensato per fornire al suo utlilizzatore un'interfaccia chiara e unica all'inserimento, ricerca, modifica dei dati che deve trattare in funzione delle attività che nel suo specifico ambito egli si trova a realizzare.
Nello specifico, il teatrante potrebbe avere un unico programma in cui depositare:
- l'archivio dei contatti, con indirizzi numeri di telefono eccetera
- l'archivio dei dipendenti della compagnia, con dati anagrafici, enpals, contratti ecc.
- l'archivio delle produzioni della compagnia, con l'elenco degli attori e tecnici che ne prendono parte, i costi fissi per replica, ecc.
- l'archivio delle ospitalità
- l'archivio delle repliche in cartellone, con riferimenti al contatto che la organizza, riferimento alla produzione richiesta, le spese affrontate ecc.
- i movimenti di cassa, con il dettaglio dei conti che vanno a muovere all'interno di un "piano dei conti" appositamente scritto per l'attività di una compagnia teatrale;
- le fatture e i relativi movimenti di pagamento
- eccetera.

Il gestionale deve permettere anche di incrociare i dati e creare dei report quali:
- elenco degli email di tutti i contatti presenti in una determinata regione;
- elenco delle repliche di una determinata produzione replicata negli scorsi anni in una regione;
- bilancio economico totale e parziale riferito ad esempio alla singola produzione o al determinato periodo;
- numero di borderò;
- foglio compensi del singolo artista;
- elenco delle repliche in programma con upload automatico sul sito web della compagnia;
- eccetera.

Questo progetto è in realtà in fase avanzata di sviluppo. Nelle mie intenzioni, deve essere:
- multipiattaforma (gira sia su windows che su mac);
- gratuito;
- open source: il codice è a disposizione per chiunque voglia modificarlo per le sue necessità;
- sviluppato in linguaggio Filemaker

Quello che chiedo a chi possa essere interessato alla cosa è di aiutare lo sviluppo di un progetto che finora (da un anno e mezzo a questa parte) si sta basando solo sulle mie forze, ma che al punto in cui sono arrivato difficilmente può proseguire senza un aiuto esterno; le necessità pratiche in questo momento sono:
- programmatori (o meglio, teatranti-programmatori o programmatori-teatranti) che continuino lo sviluppo;
- esperti in contabilità teatrale che verifichino la bontà dell'impostazione che ho dato al progetto;
- beta-tester: ovvero uffici che con tutti i rischi che si corrono ad utilizzare un programma non ancora sperimentato ed esente da errori, si mettano ad usarlo per segnalare problemi intercorsi;
- una "task-force" di assistenza che possa supportare gli utilizzatori del programma - ad esempio tramite un forum, una mailinglist;
- una somma attorno ai 600 euro per acquistare le licenze del programma "Filemaker developer" che permette di sviluppare e distribuire il gestionale legalmente.

Il mio lavoro è l'attore (anche se la mia mamma tanto avrebbe voluto che facessi il programmatore, ma questa è un'altra storia), da fine ottobre comincerò a girare come una trottola in lungo e in largo e tempo da dedicare al progetto ne avrò poco, anche se viaggiando mi sarebbe facile incontrare chi ne fosse interessato per fare quattro chiacchiere. Per questo, sarebbe utile "unire le forze" per dare un nuovo impulso alla cosa ora.


 


 

Una società di servizi per il nuovo teatro
Per le Buone Pratiche
di Danny Rose s.c.

 
Fin dal primo anno del corso per operatori dello spettacolo e delle attività culturali della Scuola d’Arte Drammatica "Paolo Grassi" di Milano ci siamo resi conto delle grandi potenzialità che avrebbe avuto continuare a lavorare e a progettare insieme. Negli ultimi mesi della scuola e dopo il diploma abbiamo strutturato e fatto nascere la società cooperativa Danny Rose come risposta concreta all'istanza di diventare una rete e di mettere in comune le esperienze.
Il nostro maggiore punto di forza è senza dubbio la provenienza da diverse zone d'Italia; seppure abbiamo scelto come sede principale Milano perché è la città che ci accomuna, intendiamo diffondere l'attività anche altrove e questo ci è possibile perché ognuno di noi ha conservato dei forti rapporti con il proprio territorio. Decentrando così il lavoro riteniamo di poter avviare collaborazioni proficue con enti locali, ma anche con realtà istituzionali a più ampio raggio, nell’organizzazione di rassegne, festival, manifestazioni e eventi culturali.
Il secondo punto a nostro vantaggio è la provenienza dalla Scuola "Paolo Grassi" verso le cui produzioni e attività mostriamo sempre un certo riguardo; pur essendo una struttura indipendente, l'attenzione che abbiamo nei confronti dei giovani e delle nuove realtà ci impone di confrontarci continuamente con ciò che proviene dagli allievi e dagli ex allievi.
L'attenzione per i giovani si esplicita poi in modo preponderante nell'attività di casting: intendiamo creare un portfolio di volti di giovani attori e danzatori e svolgere la funzione di tramite fra questi artisti e le società che si occupano di produzione cinematografica, radio-televisiva e pubblicitaria. La specificità del servizio che vogliamo offrire è quella di occuparci di volti giovani che abbiano, però, una sviluppata competenza nella recitazione.
Intendiamo infine attivare seminari e laboratori, sia per ragazzi che per adulti, tenuti da giovani attori e registi, in risposta a una crescente richiesta di teatro come attività formativa e ricreativa, nonché occasione di incontro e conoscenza.

Nell'incontro a Milano del 6 novembre 2004 i sette membri fondatori di Danny Rose faranno la prima presentazione pubblica dell'attività della cooperativa.


 


 

Semi di cooperazione
La rete di tre teatri milanesi
di Adriano Gallina per Teatro Blu, Teatro della Cooperativa, Teatro Verdi

 

La stagione di Teatro Blu, Teatro Verdi e Teatro della Cooperativa si caratterizza quest’anno per la decisa apertura ad una nuova dimensione progettuale, tramite l’organizzazione comune di due veri e propri Festival, accomunati dal titolo "Dentro la festa. A teatro al di là del rito".
L’iniziativa è concentrata su due precisi periodi dell’anno (la giornata internazionale della donna e la festa dei lavoratori). Da qui il titolo del progetto: da un lato, l’opportunità "promozionale" di veicolare l’attenzione ormai piuttosto rituale che le due scadenze comunque ogni anno ridestano; dall’altro, e più significativamente, la possibilità di oltrepassare attraverso le arti della scena proprio questa dimensione di ritualità forzata, riproponendo un’approfondita riflessione sul senso straordinariamente attuale e sulle ragioni fondanti di queste celebrazioni.
L’intero programma, così, si snoda attraverso l’organizzazione di due veri e propri festival, ciascuno sviluppato nell’arco di due settimane con spettacoli ospitati contemporaneamente nei tre teatri. Per entrambi i festival è prevista una promozione specifica e – fermo restando che le ospitalità sono inserite organicamente nell’ambito di ciascun cartellone – forme di abbonamento trasversale ad hoc che consentano al pubblico di assistere ad ogni allestimento. Proprio per questo è possibile parlare correttamente di "festival" e non di "rassegna": si tratta di manifestazioni coerenti sul piano tematico e delle scelte artistiche, che possiedono il carattere di concentrazione temporale, presentando una quantità notevolmente elevata di spettacoli garantendone nel contempo un’accettabile tenitura.
Una breve sintesi numerica dei due progetti evidenzia l’ospitalità di 12 spettacoli per complessive 96 recite, con una media di 8 recite a spettacolo.
Le ragioni del progetto
Il progetto muove da alcune motivazioni (e ha in sé delle implicazioni) che oltrepassano – e con ciò a nostro avviso valorizzano – il dato strettamente artistico e gli elementi contingenti o accidentali dell’iniziativa:
(a) La promozione dell’innovazione teatrale
Una funzione essenziale nel panorama nazionale, che peraltro nel corso degli ultimi anni evidenzia una progressiva contrazione – in particolare nell’area milanese – limitando drasticamente le reali possibilità di nuove emergenze artistiche e, con ciò, le reali prospettive di formazione dei pubblici e di evoluzione del gusto.
(b) La cooperazione tra strutture teatrali
Un segnale che riteniamo essenziale, volto ad oltrepassare in parte – procedendo per affinità progettuali – le numerose ragioni di frammentazione e frattura che caratterizzano il panorama milanese, il suo definirsi spesso per steccati anziché per obiettivi comuni. Il progetto – che è fondato sulla discussione e successiva condivisione delle scelte, quindi anche su una relazione sanamente dialettica – da un lato amplia considerevolmente i confini di un mercato possibile per il nuovo teatro, dall’altro sperimenta il grado di mobilità dei nostri pubblici (che non è affatto sovrapponibile, almeno non meccanicamente, alla formula di "invito a teatro", priva per definizione di un’omogeneità di area).
Lungo la linea di questo convegno, ci piace poter pensare a quest’iniziativa come ad un seme sul terreno dei possibili cambiamenti "virtuosi" del nostro sistema.
(c) La dimensione di festival
Un dato progettuale che, a nostro parere, agisce come moltiplicatore funzionale dell’intera iniziativa. Nella possibilità di introdurre elementi di unità tematica, di contiguità e continuità temporale, di promozione congiunta e reciproca, di forme di abbonamento trasversali. Una dimensione che porta con sé, tra l’altro, la possibilità di interrompere brevemente la strutturazione esclusivamente lineare delle programmazioni cittadine per introdurre caratteristiche di sincronicità nei cartelloni, con una conseguente (almeno lo speriamo, visti i tempi bui delle redazioni spettacolo) amplificazione della risonanza.
Ecco, ci pare che – a prescindere come dicevamo dai dati specifici del progetto – sia interessante evidenziare come, in questa "buona pratica", siano impliciti:
1. La comunicazione tra operatori in fase di programmazione. 2. La capacità di (e la disponibilità a) negoziare parzialmente le scelte artistiche. 3. Il riconoscimento delle affinità come elemento (sembra naturale ma nella prassi non lo è affatto) di coesione anziché di divisione concorrenziale.
E (riprendendo due spunti del mio intervento di Napoli) se questa prassi – che è essenzialmente comunicativa ma che possiede nel contempo straordinarie valenze organizzative ed economiche di scala – divenisse patrimonio operativo comune, normalità (un po’ come in Francia)? Lo divenisse non solo all’interno delle città ma anche tra i teatri di uno stesso territorio? O fra le stabilità di innovazione? Se imparassimo a parlarci prima anziché – post festum – dirci: "Ah, lo ospito anch’io", o – più spesso – "Ah è bello? L’avessi saputo!"?
Cosa accadrebbe? Non saremmo un po’ più vicini al miraggio del "farsi sistema"? Ad un possibile circuito alternativo? Alla dignità di una – almeno relativa – autonomia possibile?
 


 

Tecniche e valori di scambio reciproco fra cinema e teatro
La proposta di "Comedy"
di Claudio Braggio

 

Il riferimento puntuale delle argomentazioni proposte è al percorso del complesso di iniziative denominato "Comedy" ed in cui sono comprese le "Giornate sulla sceneggiatura umoristica" che l'associazione culturale Commedia Community, di cui sono l'attuale vicepresidente, ha in animo di progettare nel corso dell'anno 2005 (con buona probabilità da Febbraio sino a Novembre), avendo già ottenuto il patrocinio della Regione Piemonte e dell'Amministrazione Provinciale di Alessandria e confidando nell'aiuto di enti pubblici e privati.
La commedia, ma non in modo esclusivo quella che nasce già come cinematografica, sarà il punto di riferimento di giornate di studio, workshop teorico-pratico per filmakers ed infine di giornate dedicate agli incontri con professionisti del settore, ovvero gli autori in primo luogo che si ritroveranno anche con registi, produttori cinematografici e televisivi e dei new media, finanziatori, eccetera.
La prima buona pratica che intendo suggerire concerne due metodi di lavoro che vengano adottati nei mercati ove si tratta la cessione di diritti ovvero si cercano co-produzioni e/o finanziamenti per progetti cinematografici e televisivi.
Questo tipo di mercato è diffuso in Europa, ma in Italia al momento ve ne sono solamente due attivi e per aree specifiche, come "Documentary in Europe", con esperienza decennale, e l'ultimo nato al Salone del Libro di Torino, denominato "Book Film Bridge" e si occupa dei diritti per la trasposizione in film di un romanzo e viceversa, pur salvando una grande serie di variazioni su tema.
Per quanto ci riguarda, se ci ponessimo le basi per la creazione di un mercato dei diritti o meglio ancora delle idee teatrali, da porre in rapporto di reciproco scambio con editoria, cinematografia, new media, eccetera, sarebbe opportuno considerare l'attivazione di due collaudati strumenti quali il match-making ed il pitching.
Il Match-making vuol essere una opportunità offerta ad autori per proporsi formalmente al mondo produttivo essendo formula di collegamento fra la fase creativa e quella della produzione.
Si tratta sostanzialmente di un laboratorio intensivo di preparazione, a cui si accede con progetti specifici, e solitamente dura almeno un paio di giorni sotto la conduzione di alcuni commissioning editors per le opportune revisioni tecniche e di presentazione per la fase finale.
I progetti vengono quindi presentati a registi e produttori in cerca di nuove idee, avviando una sessione plenaria dei partecipanti, finalizzata all'incontro tra autori che si rendendo disponibili per una sessione di domande e risposte, con l'obiettivo di stabilire un contatto con produttori per arrivare ad un primo contratto di opzione sui loro progetti.
"Pitching" è un'espressione mutuata dal baseball e significa "lanciare la palla", che nel mondo della produzione televisiva e cinematografica si utilizza per definire il lancio un'idea nella speranza che venga raccolta per essere realizzata.
Nella sostanza si sviluppa nel corso di una giornata con la presentazione pubblica di progetti rivolta a società di produzione cinematografica e televisiva, ma è preceduto da un paio di giornate per un laboratorio di preparazione condotto da esperti produttori e riguarda progetti selezionati.
Presentazione e discussione per ciascun progetto durano mediamente 15 minuti e l'iscrizione considera ogni singolo progetto che s'intende proporre ed è possibile aggregare ad ogni progetto un secondo partecipante o osservatore in aggiunta al titolare dell'idea.
Lo scopo è quello di presentare progetti strutturati a distributori e finanziatori, nell'intento di stabilire intese di co-produzione o pre-vendita.
La seconda buona pratica che intendo proporre riguarda aspetti che più attengono al gusto e quindi ai contenuti delle idee, giacché considero come utile il rapporto il reciproco scambio che talvolta cinema e teatro attuano.
Il miglior terreno di confronto è certamente quello della commedia e quindi della sceneggiatura umoristica, tutt'altro che aliene dall'eventuale trattazione di argomenti di carattere sociale e/o politico.
Quel che manca è la buona pratica e la frequentazione, quindi ritengo necessaria l'organizzazione di seminari work-shop che abbiano quale elemento centrale i vari aspetti di questo rapporti che spesso produce benefici effetti per entrambi i settori dell'espressione artistica (basti pensare ai molti titoli che cinema e teatro condividono felicemente in Francia).
Non soltanto questo, perché ambedue debbono tenere in debita considerazione i moderni molteplici aspetti del fare televisione (digitale, satellitare, on-line), anche dal punto di vista narrativo e non soltanto per gli aspetti tecnici di trasmissione. In riferimento alla diffusione dei sistemi di registrazione (DVD) e delle nuove modalità di fruizione televisiva, non è affatto balzano pensare alla creazione di collane dedicate al teatro ovvero di programmi e addirittura di reti tematiche, magari con la particolarità principale della televisione ovvero la ripresa diretta.


 


 

Una casa comune per l'arte
L'Arboreto di Mondaino
di Fabio Biondi

 

Non per dire "Guarda come sono stato bravo a fare questa cosa" e neanche per illustrare un progetto, bensì per raccontarvi una storia, la nostra storia che in questi anni è diventata anche la storia di altri, di quelli che con noi hanno condiviso dei percorsi di lavoro e delle relazioni umane, insieme.

Dal 1998 l’arboreto di Mondaino è una realtà progettuale nuova, nata in provincia (qui bisognerebbe interdersi che cosa vuol dire "di provincia" ma il discorso sarebbe molto complesso) che propone PerCorsi fra arte comunicazione natura.

Dal 2001 l’arboreto di Mondaino è stato riconosciuto dalla Regione Emilia-Romagna e dalla Provincia di Rimini anche come Centro di educazione ambientale sul rapporto arte gioco natura.

Unitamente ai laboratori di teatro, danza, scrittura, musica e cinema, l’arboreto di Mondaino realizza delle residenze creative per gli artisti che hanno la necessità, o il desiderio, di vivere, di lavorare e di "produrre" nelle nostre strutture.

Che cos’è l’arboreto – come luogo/punto di partenza
(in sintesi)
Un parco di nove ettari con circa seimila piante.
Due case foresteria che possono ospitare ventidue persone.
La Sala del Durantino, all’interno della Rocca Malatestiana, per laboratori, prove, dimostrazioni di lavoro.
Un nuovo teatro, il teatro dimora, costruito in mezzo al parco, aperto il 29 maggio 2004.
Per un ulteriore approfondimento rimandiamo al sito www.arboreto.org

Che cosa è stato l’arboreto dal 1998 al 2004
(in sintesi)
Prima del teatro dimora, l’arboreto è stato soprattutto un luogo d’incontro per la "trasmissione del sapere".
Non solo e non tanto un’opportunità di formazione, bensì una possibilità di sosta per fermarsi a riflettere sul proprio lavoro: per maestri e allievi.
Il nostro principale obiettivo è stato quello di indagare i processi di lavoro prima che questi arrivassero a produrre dei risultati, delle opere.
Mi piacerebbe dire che l’arboreto è - più di ogni altra cosa - "un’officina", un "laboratorio a cielo aperto", ma siamo arrivati in ritardo…
Per un ulteriore approfondimento rimandiamo al sito www.arboreto.org

Che cosa sarà l’arboreto dal 2005 in avanti
Con il teatro dimora, l’arboreto proporrà meno laboratori e più residenze creative, per divenire (questo era l’impegno preso con noi stessi nel 1998) ancora di più una casa comune per l’arte.
Un’ambiente (parco con seimila piante + due case + nuovo teatro + paese di Mondaino, nella valle del Conca sul confine tra Romagna e Marche + relazioni fra le persone) per unire ricerca e produzione, formazione e testimonianze.

Che cosa possiamo offrire ad altri
Un’identità progettuale definita e aperta allo stesso tempo, in ascolto e in divenire, un luogo ospitale bello e necessario (ora ne siamo convinti), non un generico centro servizi.
L’ambiente, sopra descritto, per accogliere persone e idee, per elaborare progetti e opere, per approfondire PerCorsi fra arte comunicazione natura.

Se il nostro lavoro vi interessa, se ritenete che possa essere una Buona Pratica utile alsistema delle relazioni teatrali, e non solo, da raccontare ad altri, noi saremo felici di presentarvelo il 6 novembre, a Milano.

Per maggiori informazioni sulla nostra "piccola" storia, sui programmi annuali fin qui realizzati, rimandiamo sempre alsito www.arboreto.org

Diversamente, in altro modo - presentazione del programma 2004

Le speranze possono morire, i sogni devono vivere

1998: nasce il progetto l’arboreto
2004: nasce il teatro dimora

Sette anni sono trascorsi da quando abbiamo deciso di dare vita al progetto dell’arboreto. All’inizio, quando l’abbiamo pensato, assomigliava di più a un desiderio: credere nella possibilità di realizzare (non in assoluto, non solo per noi) qualcosa di nuovo, una diversa forma d’espressione per intrecciare lavoro, libertà e divertimento. A partire da un’ipotesi di senso, un pensiero condiviso prima con gli amici e poi con le istituzioni: il paese di Mondaino e il parco dell’arboreto - abbandonato e sottratto alla sua idea originaria di arboreto sperimentale della flora mediterranea - potevano diventare un ambiente in cui riflettere e agire sui processi della conoscenza, della creatività, delle relazioni professionali e delle passioni umane.
Un paesaggio, naturale e artificiale allo stesso tempo, necessario per creare le condizioni per proteggere un sogno: una residenza dove perdersi nella lentezza e nella bellezza della ricerca. Non solo un’opportunità per trasmettere e raccogliere il sapere e produrre opere, bensì uno spazio aperto per disperdere qualcosa nell’attesa di incontrare altro, di nuovo e non conosciuto. Quasi un territorio franco, per sperimentare di continuo le incognite della vita e dell’arte, indagando le ansie e i piaceri che ci accompagnano nell’elaborazione di un pensiero e di un’identità. Nel tempo l’arboreto è cresciuto, e oggi può proporsi ancora di più come un alleato che offre le sue strutture (il teatro dimora, le due case foresteria) per permettere a altri di difendere la libertà dei propri sogni. Noi non sappiamo dire bene che cos’è un sogno, ma possiamo provare a sognare con altri.
Si cresce sognando, si sogna per crescere, ma ciascuno di noi cresce solo se sognato. Diamo il meglio di noi se siamo nei sogni di qualcuno.


 


 

Progetto Nave fantasma
Produrre con il contributo (del) pubblico
di Renato Sarti (Teatro della Cooperativa)

 

Il 25 dicembre del 1996 a largo di Portopalo in Sicilia affondò un battello carico di migranti provenienti dall’India, dal Pakistan e dallo Sri Lanka. Le vittime furono 283: la più grande tragedia navale avvenuta nel Mediterraneo dal dopoguerra ad oggi.
I mass media italiani, eccetto rare eccezioni («il Manifesto», «Narcomafie»), non se ne occuparono e le autorità si mostrarono da subito molto scettiche, tanto che la tragedia divenne il naufragio fantasma. Nel 2001 il quotidiano «La Repubblica», attraverso un’inchiesta del giornalista Giovanni Maria Bellu, riuscì a individuare il relitto in fondo al mare e a filmare i resti dei corpi che ancora oggi lo circondano. Le immagini del naufragio fantasma furono trasmesse in tutto il mondo. Nonostante l’appello di quattro premi Nobel (Renato Dulbecco, Dario Fo, Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia) e alcune interpellanze parlamentari, ancora nulla è stato fatto per recuperare il relitto e i corpi delle vittime.


Torniamo indietro allo scorso novembre.
Avevamo già da diversi mesi nel cassetto un testo teatrale dal titolo La nave fantasma, scritto dal giornalista Giovanni Maria Bellu e da Renato Sarti in collaborazione con Bebo Storti. Lo tiravamo fuori spesso, se ne parlava, ma la possibilità di portarlo in scena sembrava sempre lontana.
Proprio la mancanza di risorse economiche e l’improrogabilità di questa vicenda, il suo carattere umano, sociale e politico, ci facevano avvertire la crescente urgenza di dire e di fare qualcosa non solo per il teatro.
Il naufragio fantasma è infatti una sintesi drammatica della vasta problematica connessa al tema dell’immigrazione: la disperazione dei migranti, il silenzio di autorità e media, la ferocia dei trafficanti di esseri umani, la terribile indifferenza e paura della nostra società. E’ una vicenda che fa emergere la grande distanza che separa le dichiarazioni di principio sulla solidarietà e l’eguaglianza dei diritti, dalle azioni concrete di istituzioni e cittadini.
Decidemmo, quindi, di intraprendere un’avventura che rispondesse alla situazione sì in modo creativo ed efficace ma anche in modo estremamente provocatorio. Provocatorio. Consapevoli dei rischi.
Così, dopo aver organizzato l’aspetto formale e la comunicazione, annunciammo che la notte del 25 dicembre 2003 – presso ArtandGallery a Milano - avremmo lanciato una campagna di sottoscrizione popolare per raccogliere i fondi necessari alla produzione.
Il giorno scelto era carico di significato: era la notte di Natale, ma soprattutto ricorreva il settimo anniversario della tragedia.
La nottata prevedeva la lettura di alcuni frammenti del testo teatrale da parte di Renato e Bebo, la proiezione di documenti video e la condivisione di testimonianze di altre personalità impegnate in temi di solidarietà sociale. Il pubblicò trovò del materiale cartaceo sulla l’intera vicenda, in cui dichiaravamo che l’obiettivo della raccolta era quello di coprire le spese di produzione e promozione dello spettacolo teatrale La Nave Fantasma e quelle di realizzazione di materiale video, cartaceo e digitale di approfondimento da distribuire in modo capillare e gratuito ai parenti delle vittime, a istituti scolastici, associazioni, circoli e realtà che si occupano di immigrazione. In modo estremamente ottimistico, aggiungemmo che la quota in eccedenza sarebbe stata devoluta in beneficenza.
Indicammo con chiarezza i tempi della produzione e le modalità di sottoscrizione, tramite bonifico bancario, precisando che tutti i sottoscrittori sarebbero stati aggiornati sull’andamento della raccolta e menzionati nel materiale promozionale prodotto.
Queste informazioni furono contestualmente inserite sul sito del teatro e comunicate ai media attraverso un intenso lavoro di ufficio stampa.

E’ stato immediatamente evidente che il nostro desiderio era sollecitare e raggiungere la collettività e coinvolgere la società civile. Un obiettivo raggiunto, perché la raccolta non ha fruttato molto, ma è composta da tantissimi piccoli contributi di cittadini, che ci hanno dimostrato stima ed espresso il supporto per noi necessario. Questo ci ha fatto capire che la scelta era giusta, anche se non avremmo potuto tener fede a tutti gli obiettivi dichiarati all’inizio della sottoscrizione. C’è una parte della società civile sensibilissima ai temi più scomodi e delicati che ha appoggiato con convinzione e orgoglio il nostro progetto.
Contestualmente, attraverso la disponibilità di alcune strutture – Università di Venezia, Università Bicocca, Leoncavallo, Paolo Pini, Meeting Internazionale Antirazzista dell’Arci, Social Forum di Parma - abbiamo organizzato nei mesi successivi altre letture pubbliche in varie città italiane, che ci hanno permesso di arricchire il nostro budget.
Inoltre, dal punto di vista della comunicazione, i risultati sono stati buoni. Parte della stampa e non solo ha accolto il nostro progetto e ha seguito le sue evoluzioni. Certo, è sempre pericoloso affrontare azioni rivolte ai mass-media che esulino dalla presentazione di uno spettacolo, stagione o festival. Si rischia di essere mal compresi proprio dai colleghi.
Ma come possiamo travalicare i confini in cui il nostro teatro (non di numeri o nomi) è spesso relegato? Come far parlare di una tragedia su cui non si è ancora fatta giustizia e in cui nemmeno il sentimento della pietà umana sembra avere posto?


 


 

Realizzare un sito... con RStage è facile come fare una telefonata
Un originale software/builder
di Silvio Bastiancich

 

Mi chiamo Silvio Bastiancich e aderisco con gioia alla giornata delle Buone Pratiche. In questa occasione Vi chiederei gentilmente di poter presentare un originale software/builder che abbiamo chiamato RStage.

RStage è uno strumento indispensabile per la realizzazione della GUIDA AL TEATRO ITALIANO che sarà presto ospitata all'interno del NETWORK spettacolopubblico.net.

Si parla sempre più spesso della necessità, oramai impellente, di creare Reti di comunicazione, Reti di servizi, Reti fra i teatri, Reti informatiche.

... 'Il filosofo greco Eraclito divideva gli uomini in due categorie: coloro che dormono li chiamava "dormienti", in
contrapposizione con coloro che son desti: quale è la differenza tra le due categorie? Quando siamo svegli siamo in grado di mettere in comune le esperienze: non siamo soli , ma c'è un comune terreno d'intesa. Quando invece dormiamo e sogniamo ciascuno di noi vive in un mondo interamente suo'....

Lavoro, da tempi non sospetti, alla creazione di una vera e propria Rete di condivisione di contenuti sul Teatro in Italia.
Prima, nel 1996, attraverso un sito dedicato agli Operatori, poi, nel 2000, con l'apertura di un Portale dedicato al Teatro.
Queste esperienze non hanno purtroppo dato risultati incoraggianti, anche se il Portale ha avuto, nell'arco dei 18 mesi di presenza in Rete, circa 2.200.000 contatti.
L'idea di fondo che ci ha portato alla costruzione di questi progetti era proprio quella di creare uno spazio di condivisione di contenuti e servizi per il Teatro.
Mettere in comune competenze, professionalità, idee, mezzi, opportunità, spazi, risorse, intrecciare esperienze in modo da rendere qualche cosa che è nostro anche di altri.
Attivare un atto sociale di partecipazione.

... «Nei distretti culturalmente più avanzati mettere insieme le conoscenze che ogni azienda possiede, e farne un patrimonio comune, è già la regola. Questo sistema non è incompatibile con l'autonomia imprenditoriale e con la concorrenza. In altri termini, ogni imprenditore continuerà ad andare per la sua strada come ha fatto finora. Ma disporrà di un prezioso know how. Si realizzerà un network del distretto, una vetrina per presentarne i prodotti, in modo che il cliente, da qualunque continente si colleghi, possa scegliere il particolare prodotto. Nel network, infatti, ogni azienda avrà il proprio spazio e vi creerà il proprio sito»....

Voglio pensare che i progetti sopra citati non abbiano avuto la fortuna che meritavano perché sono stati realizzati nel momento sbagliato. E anche vero che è pratica delle avanguardie propugnare audaci programmi in apparente contrasto con la tradizione e il gusto corrente.

Ora sembra che, dopo un lungo periodo di «solitudine nella Rete», le realtà teatrali abbiano capito che è arrivata l'ora di condividere con altri i contenuti da offrire in Rete.
Per questa ragione abbiamo pensato di regalare agli operatori teatrali uno strumento di lavoro utile alla libera gestione di contenuti testuali, visivi e sonori.

RStage è un originale «rivoluzionario» strumento informatico, un costruttore di singole pagine web o di interi siti, molto ... molto ... semplice da utilizzare.
RStage importa qualsiasi tipo di file .L'operatore, dopo aver scaricato il builder RStage sul proprio PC, farà un semplice doppio clik sulla icona del file che desidera pubblicare e lo strumento lo importerà automaticamente.
Infatti uno dei 'compiti' principali del builder è quello di generare file per la pubblicazione in Rete, evitando così all'operatore lunghi e complicati corsi di aggiornamento ed estenuanti sedute per la costruzione e l'aggiornamento dei siti.

Perchè Rstage?

Nella tragedia greca (in particolare di Euripide) si faceva ricorso a una macchina, denominata deus-ex- machina, sospesa a una gru che portava in scena un dio in grado di risolvere in brevissimo tempo tutte le questioni irrisolte.

Metaforicamente il software/builder RStage è la forza che interviene provvidenzialmente per sciogliere alcuni degli inestricabili problemi della Rete.

Quanti problemi in Rete

Le grandi multinazionali che si occupano di Internet investono sempre più tempo e risorse alla ricerca di nuove tecnologie capaci di velocizzare il collegamento alla Rete. La questione irrisolta però è la qualità della consultazione, cioè, della ricerca di contenuti in Rete. E' inutile avere una linea veloce se poi non si riesce a trovare quello che serve.
«Internet scoppia di informazioni, ma non sempre è facile trovarle. Gli utenti di Internet, siano sperimentati surfisti o occasionali avventurieri, devono misurarsi, e scontrarsi, con gli strumenti offerti dai cosiddetti browser di rete, spesso uscendone sconfitti. La ricerca attraverso l'immissione di parole chiave produce un elenco di documenti che dovrebbe soddisfare la richiesta. I risultati invece sono spesso scoraggianti: non si trova ciò che si desidera e ci si imbatte in una quantità enorme di informazione irrilevante, il cui esame nausea e costringe a cambiare strada o ad abbandonare gli scopi che si volevano perseguire. L'impressione è che il sistema si comporti spesso in modo troppo stupido e rigido; che non sia in grado di offrirsi all'utente con le caratteristiche di flessibilità e adattabilità tipiche della comunicazione umana, seppure realizzate a livello elementare».
Sono quasi dieci miliardi le pagine pubblicate su Internet. Quante di queste contengono informazioni obsolete? e perché sono ancora presenti in Rete?
All'inizio del terzo millennio Internet ha avuto il punto più alto del suo sviluppo. In quel periodo sono nati milioni di siti di aziende per ogni settore merceologico e di servizi. Chi non aveva un indirizzo web da esibire nel proprio biglietto da visita non era degno di considerazione.
Ma la strada da percorrere per soddisfare questa esigenza era lunga e piena di ostacoli (e lo è ancora adesso). Il primo era quello delle infrastrutture di comunicazione. Credo che chiunque si metta davanti ad un computer non abbia altre alternative: o dopo un po' le cose gli riescono, oppure (se può) chiama qualcuno che gliele faccia.
Insomma, la velocità delle risposte è condizione necessaria per l'utilità del sistema e per la sua diffusione. Lo stesso discorso vale per Internet: o si apprendono i vari linguaggi di pubblicazione oppure esistono i Web Master. Il problema è: sapere usare e gestire le infrastrutture.
Infatti la maggior parte dei siti presenti anche oggi in Rete sono stati creati e sono gestiti da Web Master pagati all'uopo per la consulenza. Consulenze che hanno fatto inevitabilmente lievitare i costi di mantenimento dei siti provocando da una parte un'eccedenza di contenuti obsoleti dovuta allo scarso aggiornamento degli stessi (+ si aggiorna + costa), e dall'altra una sempre più numerosa presenza di siti 'museali' o 'tombali', con contenuti oramai inservibili.
Un noto sociologo, nel 1997, facendo una previsione sullo sviluppo della Rete, poneva un quesito e una proposta di soluzione: ...«Chi per almeno una volta nella vita ha usato un telefono? Quante di queste persone sanno come funziona una linea telefonica? Probabilmente nessuno: si alza la cornetta, si compone il numero, e via... non mi interessa saperlo. Invece per pubblicare su Internet bisogna frequentare un corso di linguaggio HTML. Chi utilizza la Rete per lavoro non importa sapere come funziona questo o quell'altro linguaggio. Lo vuole fare nel modo semplice, efficace, immediato e meno costoso possibile. Internet deve diventare uno strumento utile, credibile, indispensabile per il mondo del lavoro, e non solo, per questo dovrà inevitabilmente dotarsi di nuovi software in grado di renderci indipendenti nella pubblicazione e nell'aggiornamento dei nostri siti, così come usiamo il telefono»...

La nostra proposta

In un mondo di software personalizzati in continua evoluzione, di prodotti con un ciclo di vita sempre più breve, in un'economia la cui unica costante è il cambiamento, avere, possedere, accumulare ha sempre meno senso. Il godimento di questi programmi ora si può ottenere attraverso l'ACCESSO e la COOPERAZIONE.
Perchè farsi carico della proprietà di una tecnologia o di un prodotto che, probabilmente, sarà diventato obsoleto prima ancora di essere del tutto pagato? L'accesso temporaneo a beni e servizi - in forma di noleggio, affitto o simili – diventa un'alternativa sempre più allettante rispetto all'acquisto e al possesso a lungo termine.
La Rete impone, a chi vi partecipa, la rinuncia ad una parte della propria autonomia e della propria sovranità; d'altro canto, la spontaneità e la creatività che "germogliano" in un ambiente cooperativo offrono ai partecipanti un grande vantaggio collettivo.
La proposta è quella di utilizzare RStage come una testa di ponte, un modo per stabilire una presenza fisica nel luogo di lavoro: questa presenza permette di avviare una relazione di servizio a lungo termine. Per questa ragione il builder è omaggiato, nell'intento di fornire i servizi più redditizi per l'intero ciclo di vita del prodotto.

Regalare i programmi è una strategia particolarmente efficace per le imprese informatiche, per la semplice ragione che, quanti più utenti sono collegati tanto è più elevato il beneficio che ogni utente ne trae e tanto più è elevato diventa il valore dei servizi che, potenzialmente, la società può fornire.
Questo fenomeno è conosciuto come effetto network. Com'è possibile formulare un prezzo ad un bene il cui costo di produzione è irrilevante?
La risposta è: regalare il software e fornire al cliente servizi sempre più sofisticati che lo accompagnano.
I nostri potenziali clienti non hanno bisogno del programma che proponiamo, ma solo della funzione che esercita. Non vendiamo niente; mettiamo a disposizione il nostro know-how e la nostra esperienza per aiutarlo a gestire l'attività. Il cliente, così, diventa partner attivo nella costruzione di un Network - comunità di interesse.

L'accesso a Internet è a portata di mouse con RStage sarai l'unico regista del tuo sito

RStage è ... un software in uso gratuito
RStage è ... uno straordinario Sistema per la costruzione di pagine web da vedere - leggere - ascoltare
RStage è ... semplice da gestire, da aggiornare nei contenuti e da inserire in Rete

RStage è ... spazio illimitato e pubblicazione multilingue

RStage è ... stato progettato per essere supportato da motori di ricerca e data-base dedicati
RStage è ... indispensabile strumento per la costruzioni di Portali tematici e Network
RStage inoltre ... permette di realizzare pagine e servizi linkabili da siti già esistenti
RStage è ... indispensabile per: teatri, compagnie, festival, circuiti, enti locali, attori, danzatori, registi, coreografi, musicisti, scenografi, compositori, fotografi, tecnici, ...... etc...... RStage è ... un sito a sole 50 Euro l'anno, costo per la pubblicazione in Rete per un anno

RStage è ... più facile usarlo che spiegarlo



Note tecniche del software

IMMAGINI – importa da: jpg, gif, bmp, tga, pcx
genera: jpeg ottimizzato;

TESTI – importa da: i txt, rtf (e tutti gli altri formati con drag and drop)
genera: html ottimizzato;

AUDIO – importa da: mp3, wav, ogg, microfono, linea audio
genera: ogg, wma;

VIDEO - importa da: avi, mpg, mpeg, wmv, asf, mov
genera: il codice di supporto ottimizzato

ANIMAZIONI – importa da: gif, flash
genera: il codice di supporto ottimizzato

OGGETTI – importa da: qualsiasi file o programma
genera: i collegamenti per lo scaricamento in rete


 


 

Un nuovo canale televisivo sperimentale e digitale fatto da giovani
Una tv delle comunità
di Claudio Braggio

 

La notizia è stata data nel corso di una non programmata conferenza stampa convocata alle 16 di Giovedì 14 Ottobre 2004 al Grinzane Cinema che si stava svolgendo a Stresa, presenti il Presidente del Premio Grinzane Cavour Giuliano Soria, il Direttore di Innovazione Prodotto Rai Franco Matteucci e il Direttore Sede Regionale Rai di Torino Tommaso Genisio e si tratta in sostanza dell'imminente nascita di un nuovo canale televisivo digitale terrestre, ovvero una "televisione-laboratorio" come viene definita, che trae ispirazione ed origine da un'iniziativa condotta dal Dams di Torino, che da tempo realizza un telegiornale degli studenti, come pure dalle esperienze di vari laboratori di sperimentazione audiovisuale.

Occorre considerare che la Provincia di Torino è attiva nel settore da due anni con il finanziamento di iniziative come UndergroundTV e Scenari, che hanno coinvolto decine di scuole superiori e di gruppi ambientalisti in processi formativi e soprattutto nella produzione di programmi televisivi e di reportage.
Sperimentazioni che hanno favorito la nascita della TV della Comunità, costituita da una rete di persone, gruppi, associazioni, enti, con riferimento a costituendi centri di produzione audiovisiva e multimediale nell'intento di creare luoghi d'incontro, fare formazione e produrre materiali audiovisivi e multimediali.
La Provincia di Torino ha inoltre creato un canale su internet il Canale Multimediale, veicolo delle produzioni attuali e future della TV della Comunità, aperta a tutti (case di produzione audiovisiva, TV locali, Enti Pubblici che possono partecipare ed essere protagonisti di questa videocomunità).
Gli strumenti di produzione audiovisiva e multimediale nel giro di pochi anni sono sostanzialmente cambiati, offrendo qualità elevata e notevoli possibilità creative: oggi piccole telecamere digitali a basso costo possono competere, in alcune produzioni, con strumentazioni professionali e semplici software di montaggio permettono di effettuare in casa la post-produzione video.
L'integrazione fra audiovisivi e internet pone le premesse per un nuovo modo di fare televisione, interattivo e multimediale, che potrà nei prossimi anni, creare linguaggi originali e nuovi modi di distribuzione dei contenuti, per raggiungere target diversi da quelli della TV tradizionale.

Cosa NON E' la Tv della Comunità:
Non è un insieme di laboratori video in cui si produce qualsiasi tipo di video.
Non è un insieme di laboratori che forniscono documentazioni video o prodotti istituzionali ad enti locali.
Non è un service gratuito per chi realizza video a basso costo.
Non è un laboratorio che produce video promozionali per associazioni e enti o video commerciali.
Non è un progetto occupazionale che darà lavoro se non come ricaduta su un piccolo numero di persone.

La TV della Comunità E':
Innanzi tutto una TELEVISIONE, che presuppone linguaggi, modelli produttivi e un pubblico con spazio a sperimentazioni e innovazioni, quindi un infinito campo d'azione da esplorare e inventare.
In secondo luogo è televisione DELLA COMUNITA', ovvero strumento per dare voce a chi non ce l'ha e strumento di costruzione di relazioni tra persone e quindi veicolo di costruzione di comunità.
Una televisione che sia espressione del territorio e della comunità sul territorio.
Una Tv che ripensa il locale
Una Tv partecipe e partecipata dalle istanze del territorio, che puntando al "think global & act local"
Una Tv visibile sul territorio con proiezioni in luoghi pubblici, in tv, sul web.
Un canale di comunicazione bidirezionale.
Una Tv da considerare un importante momento di FORMAZIONE
Le prime sperimentazioni
Nel 2001-2002 sono stati avviati due progetti sperimentali di modelli produttivi "dal basso" in collaborazione con Zenit Arti Audiovisive, società di produzione attiva anche nel campo della didattica dell'audiovisivo.

UndergroundTV
Underground TV è un programma televisivo realizzato interamente dagli studenti delle scuole medie superiori di Torino e provincia, all'interno di un percorso di educazione ai media.
Nell'anno scolastico 2001-2002 sono state realizzate 6 puntate con 10 scuole di Torino e provincia.
L'iniziativa ha coinvolto circa 150 ragazzi e una ventina di insegnanti.
Underground TV ha inoltre attivato un laboratorio parallelo per la Fiera Internazionale del Libro 2002, con la realizzazione di un video-giornale quotidiano realizzato dagli studenti e diffuso sull'emittente Quartarete e all'interno del sito della Provincia di Torino.
Nel corso dell'anno scolastico 2002-2003 sono state altre 6 nuove puntate del programma. La nuova serie, presenta una struttura più articolata che potenzia il carattere di intrattenimento della trasmissione. Ogni puntata contiene un inserto proveniente da un paese straniero e realizzato da coetanei al fine di stimolare il confronto tra esperienze e punti di vista diversi.

Scena/ri di sostenibilità.
E' un laboratorio audiovisivo realizzato in collaborazione con il Laboratorio Territoriale per l'Educazione Ambientale di Torino. I partecipanti, provenienti da 5 associazioni ambientaliste, hanno realizzato in prima persona una serie di reportage sul tema della sostenibilità ambientale, dotandosi degli strumenti teorici e pratici di base che presiedono al ciclo completo di produzione di un reportage.
Il percorso formativo è stato incentrato sulla riflessione attorno alla comunicazione sociale con particolare attenzione al genere del reportage televisivo. I prodotti sono stati presentati al Festival Cinemambiente. L'esperienza è stata poi ripetuta nel 2002-03.

Modelli stranieri
Community Television. Il fenomeno della community television si è sviluppato negli Stati Uniti a partire dagli anni '70, parallelamente alla diffusione delle tecnologie leggere di ripresa video e della tv via cavo.
All'interno del modello americano, dominato dai grandi network privati, costituisce il fondamentale spazio di accesso ai media e alla comunicazione di massa per le istanze provenienti dalla società civile.
La programmazione è orientata ad un modello di tv di servizio radicata nella comunità e sul territorio, con prevalenza di programmi di informazione indipendente/controinformazione, informazioni sul territorio, programmi educativi, sulla salute o d'informazione gestiti direttamente da associazioni e gruppi di interesse.
Il modello operativo della community television mira a fornire ai cittadini le conoscenze necessarie alla realizzazione di prodotti televisivi attraverso una fase di formazione, al fine di renderli in grado di produrre essi stessi programmi che vengono poi realizzati e trasmessi.
Esperienze di community television, diverse secondo i contesti in cui sono nate ma unite dall'idea di accesso pubblico ai media, sono presenti in Inghilterra, Germania, Francia, Austria, Belgio, Olanda, Danimarca, Paesi Scandinavi, Australia, Canada, Brasile, Uruguay, Guatemala, Nuova Zelanda.
BTV - Barcelona TV. La televisione della città di Barcellona, rappresenta un modello di TV locale pubblica che raccoglie le istanze provenienti da istituzioni, associazioni e cittadini. BTV dà spazio non soltanto all'informazione sul territorio, ma anche alla sperimentazione sui linguaggi e alla creatività giovanile. Attraverso scelte di programmazione originali e una forte identità stilistica, BTV è diventata un punto di riferimento per la città.

Linee guida delle attività nel 2005
Messa in regime del format e produzione seriale.
Raccogliendo l'esperienza della puntata zero, il gruppo di lavoro che si è formato diventa una troupe televisiva al servizio della comunità; in collaborazione con enti locali e associazioni sul territorio, si progettano alcune puntate su vari temi riguardanti la comunità locale; si promuove poi sul territorio l'evento nel suo duplice aspetto: la ripresa live in un luogo pubblico e la trasmissione della puntata; la Tv della Comunità diventa così visibile nel momento in cui si fa e nel momento in cui si trasmette.

Ciclo formativo di base
Corso base inerente progettazione, ripresa e montaggio indirizzato a singoli ed associazioni che vogliano produrre contenuti per la Tv della Comunità; ricerca e archiviazione di materiali esistenti sul territorio.

Coordinamento e Produzione
Progettazione del palinsesto; Forum di presentazione progetti: momento di condivisione e discussione dei progetti in funzione del palinsesto a cui partecipano singoli e gruppi della videocommunity e progetti portati dai laboratori; sviluppo e accompagnamento dei progetti: i progetti presentati al forum vengono approfonditi in incontri con esperti al termine dei quali si decide la realizzabilità del progetto; produzione dei progetti: nel caso in cui il laboratorio dell'Istituto Avogadro sia oberato, alcuni progetti non legati alle realtà territoriali si realizzano nei laboratori territoriali; formattazione delle puntate per la messa in onda.

Formazione
Corso per videoreporter; Ciclo di incontri di approfondimento tecnico ed editoriale.

Attività di promozione generale
Ufficio stampa per la promozione del progetto e del palinsesto; Creazione di eventi di networking coordinati sul territorio: proiezioni, convegni e incontri pubblici; Realizzazione sito internet.

Progettazione
Attivazione di un gruppo di lavoro permanente per la progettazione e il fund raising, che in collaborazione con i soggetti della videocommunity (associazioni, case di produzione, enti), elabora progetti che integrino progressivamente la Tv della Comunità (elaborazione su bandi specifici nazionali ed europei, elaborazione di progetti che coinvolgano più soggetti della videocommunity, collaborazioni con l'Università, eccetera).


 


 

Architettura & Teatro in seminario a Reggio Emilia
23-24 ottobre al Teatro della Cavallerizza architetti, scenografi e registi a confronto
di Fondazione I Teatri di Reggio Emilia

 

Architettura & Teatro

Seminario internazionale
sulle relazioni fra progetto di architettura dei teatri e arti sceniche

Reggio Emilia
Teatro Cavallerizza
23 24 Ottobre 2004



Il 23 e 24 ottobre 2004 si terrà a Reggio Emilia, nel Teatro Cavallerizza appena ristrutturato, un seminario internazionale che affronterà un argomento di fondamentale importanza e attualità: il rapporto tra il teatro, inteso come macchina per la produzione dello spettacolo dal vivo, macchina complessa e dalle esigenze molteplici, e la progettazione architettonica.

Promotore la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività culturali-DARC, della Regione Emilia Romagna, dello IUAV.

Reggio Emilia storicamente è una città di teatro, anzi di tre teatri, il Valli, l’Ariosto, la Cavallerizza che definiscono il perimetro di una delle sue piazze principali; la città ha sempre posto una particolare cura nel continuo lavoro di ristrutturazione e adeguamento dei propri spazi teatrali, e, da sempre sensibile al tema del rapporto tra città, architettura e spazio teatrale, ha promosso anche momenti di riflessione su questi temi: due convegni negli anni Ottanta sono serviti a fare il punto su Antico teatro e nuova tecnica e su Teatri storici e nuovi teatri.

E oggi ritorna in primo piano l’esigenza di una riflessione sul tema del rapporto tra architettura del teatro e arti della scena, dopo due decenni in cui in Italia si sono realizzati numerosi interventi di restauro ed è stato costruito un discreto numero di edifici teatrali, per la prosa e per l’opera lirica, e alcune sale da concerto; tali interventi hanno messo in evidenza un rapporto spesso problematico tra architettura e teatro.
Queste difficoltà sono da mettere in relazione alla complessità del processo di costruzione di nuovi teatri, una complessità dovuta alla molteplicità di figure interessate, che coinvolgono non solo l’ambito del teatro e dell’architettura ma anche l’ambito politico e istituzionale.
In alcuni paesi, tuttavia, questo dialogo è presente da tempo, sino a istituzionalizzarsi – come nel caso britannico – in organismi di coordinamento che seguono il lavoro di edificazione e restauro dall’ideazione alla realizzazione. Il rischio, nel caso contrario, è che la mancanza di un dialogo efficace produca risultati insoddisfacenti sia per coloro che ‘fanno’ il teatro, sia per coloro che lo fruiscono.

Il seminario di Reggio Emilia intende, in primo luogo, favorire questo dialogo mettendo di fronte architetti e progettisti di teatro, uomini di teatro (registi, scenografi, musicisti, coreografi, tecnici ecc.) e personalità del mondo politico-istituzionale. Un incontro dove le ‘ragioni’, i punti di vista di ogni ambito coinvolto possono esprimersi e confrontarsi.

Al convegno parteciperanno Iain Mackintosh (codirettore del Theatre Projects Consultants, Londra), Marco De Michelis (architetto e storico dell’architettura, Università Iuav di Venezia), Jean-Guy Lecat (scenografo, direttore tecnico e consulente di teatro), Renz Van Luxemburg (ingegnere acustico e architetto, Eindhoven), Anna Merlo (aziendalista, Università Bocconi, Milano), Carla di Francesco (Direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Lombardia), Kenneth Frampton (architetto, Columbia University, New York), Mario Botta (architetto, Lugano), Vittorio Gregotti (architetto, Milano), Klaus Kada (architetto, Graz), Mauro Meli (Direttore Divisione Teatro alla Scala, Milano), Francesco Giambrone (già sovrintendente Fondazione Teatro Massimo di Palermo), Roberto Favaro (musicologo), Giacomo Manzoni (compositore), Frédéric Flamand (coreografo, Charleroi), Virgilio Sieni (coreografo, Firenze), Graham Vick (regista, Birmingham), Peter Stein (regista, Roma), Romeo Castellucci (regista, Societas Raffaello Sanzio), Luciano Damiani (scenografo, Roma), Pier Luigi Pizzi (regista e scenografo, Venezia), Margherita Palli (scenografa, Milano), Maurizio Balò (scenografo, Firenze), Walter Le Moli (Direttore Teatro Stabile di Torino), Santiago Calatrava (ingegnere, architetto, Valencia), Pierre Boulez (compositore, Parigi), Moni Ovadia (Attore e autore)

Il progetto del seminario Architettura & Teatro è a cura di Daniele Abbado, direttore artistico del Teatri di Reggio Emilia, di Antonio Calbi, Silvia Milesi, Susi Davoli, Lorenzo Parmiggiani

Segreteria organizzativa: Susi Davoli, Lorenzo Parmiggiani
Info: I Teatri di Reggio Emilia
Piazza Martiri 7 luglio
42100 Reggio Emilia

tel ++39 0522 458912, 458939
e-mail:davoli.s@iteatri.re.it
e-mail:parmiggiani.l@iteatri.re.it
www.iteatri.re.it
www.recfestival.it

sponsor Tecton, Orion, Max Mara, Te.Ma
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ARCHITETTURA & TEATRO
Seminario internazionale
sulle relazioni fra progetto di architettura dei teatri e arti sceniche


Il seminario, promosso dalla Fondazione I Teatri, si terrà a Reggio Emilia, Teatro Cavallerizza il 23 e 24 Ottobre 2004

Patrocini
Ministero per i Beni e le Attività culturali- Darc
Università IUAV di Venezia
Regione Emilia Romagna

Contributi
Ministero per i Beni e le Attività culturali
Regione Emilia Romagna

Collaborazione di
DIARIO
Il SAGGIATORE


Programma
Sabato 23 ottobre 2004 ore 10-13

RELAZIONI INTRODUTTIVE

Iain Mackintosh
(Codirettore del Theatre Projects Consultants, Londra)
Who designs our Theaters?A look at past, present and future

Marco De Michelis
(Architetto e storico dell’architettura, Università IUAV di Venezia)
Come riformare lo spazio teatrale

Jean-Guy Lecat
(Scenografo e consulente alla progettazione di teatri, Parigi)
Toute simplicité est très sophistiqué

Renz L.C.J.Van Luxemburg
(Ingegnere acustico e architetto)
Is acoustics only a matter of reflection?


LE RAGIONI DELLA LEGISLAZIONE E DELL’ECONOMIA

Carla Di Francesco
(Direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Lombardia)
La legislazione tra tutela e innovazione

Anna Merlo
(Aziendalista, Università Bocconi di Milano)
Aspetti economico-finanziari e gestionali dei nuovi spazi teatrali


Sabato 23 ottobre 2004 ore 15-19
LE RAGIONI DELLA COMMITTENZA

Mauro Meli
(Direttore della Divisione Teatro alla Scala, Milano)
Tre casi a confronto: Cagliari (Teatro Lirico), Milano (Teatro alla Scala), Torino (Lingotto)



LE RAGIONI DEL TEATRO, LE RAGIONI DELL’ARCHITETTURA
Primo dialogo
Coordinano Silvia Milesi, Antonio Calbi

Kenneth Frampton
(Architetto e storico dell’architettura, Columbia University di N.Y.)
Intervista video

Santiago Calatrava
(Architetto-ingegnere)
Forma, funzione, tecnologia

Peter Stein
(Regista)
Creare spazi per messinscene, costruire edifici per il teatro

Mario Botta
(Architetto)
La ristrutturazione del Teatro alla Scala

Pierre Boulez
(Compositore)
Intervista video

Vittorio Gregotti
(Architetto)
Rappresentazione

Walter Le Moli
(Direttore Teatro Stabile di Torino)
Tra la regia e la direzione

Pier Luigi Pizzi
(Regista e scenografo)
Luoghi teatrali storici e altri luoghi per il teatro

Giacomo Manzoni
(Compositore)
Le ragioni del pubblico

Maurizio Balò
(Scenografo)
Scenografie: per quale teatro?

Roberto Favaro
(Musicologo)
Spazio e musica: un rapporto incrociato


Domenica 24 ottobre ore 10-13
LE RAGIONI DELLA COMMITTENZA

Francesco Giambrone
(Sovrintendente della Fondazione Teatro Massimo dal 1999 al 2002)
Il caso Palermo: la storia di un teatro che riapre


LE RAGIONI DEL TEATRO, LE RAGIONI DELL’ARCHITETTURA
Secondo dialogo
Coordinano Antonio Calbi, Silvia Milesi

Graham Vick
(Regista)
Intervista video

Klaus Kada
(Architetto)
Il teatro di St. Polten

Romeo Castellucci
(Regista)
Il volume di un teatro come promessa

Frédéric Flamand
(Coreografo)
Danzare lo spazio

Moni Ovadia
(Autore, attore e regista)
Dalla piazza al teatro e ritorno

Virgilio Sieni
(Coreografo)
C’è un problema in fattoria

Margherita Palli
(Scenografa)
Intervista video

Luciano Damiani
(Scenografo)
Un teatro dell’impossibile: il Teatro di Documenti


PROSPETTIVE PER IL FUTURO E CONCLUSIONI
Coordina Daniele Abbado
Marco De Michelis, Jean-Guy Lecat, Iain Mackintosh, Renz L.C.J.Van Luxemburg


 


 

Romanzesche avventure di donne perseguitate nei drammi fra Quattrocento e Cinquecento: il teatro medievale a convegno
A Roma dal 7 al 10 ottobre
di Associazione Centro Studi sul Teatro Medievale e Rinascimentale

 

ASSOCIAZIONE CENTRO STUDI SUL TEATRO
MEDIOEVALE E RINASCIMENTALE


XXVIII Convegno Internazionale
7-10 Ottobre 2004
Salone Parrocchiale della Basilica di San Saba
Via San Saba 19, Roma


"Romanzesche avventure di donne perseguitate
nei drammi fra Quattro e Cinquecento"


Dal 1976 il Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale, presieduto dal Prof. Federico Doglio, lavora alla riscoperta e riproposta di testi e eventi che hanno caratterizzato le diverse e multiformi fasi storiche della letteratura drammatica italiana.

Il 7, 8, 9 e 10 Ottobre 2004 nel salone parrocchiale della Basilica di San Saba si svolgerà la ventottesima edizione del Convegno Internazionale, organizzato dal Centro Studi e promosso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Istituti Culturali e Direzione Generale per lo Spettacolo dal vivo. Si tratta di un appuntamento di estremo interesse per studiosi e appassionati del teatro medioevale e rinascimentale, che, come sempre, ai seminari e ai dibattiti affianca uno spettacolo teatrale che illustri efficacemente l’argomento trattato.

Il tema del Convegno quest’anno è Romanzesche avventure di donne perseguitate nei drammi fra Quattrocento e Cinquecento, e deriva da un’arcaica matrice narrativa popolare che ha per protagoniste donne ingiustamente perseguitate che sopportano eroicamente mutilazioni e condanne mortali, fino al ristabilimento dei loro diritti grazie all’aiuto della Divina Provvidenza. A discutere questo tema secondo le diverse competenze scientifiche saranno, assieme allo stesso Prof. Federico Doglio, docenti delle maggiori università nazionali ed estere - storici delle letterature classiche, rinascimentali, delle arti figurative, della musica, della drammaturgia, della condizione femminile – tra i quali, Walter Lapini (Università di Genova), Maurizio Bettini (Università di Pisa), Y. Foher-Janssens (università di Ginevra), Gabriella Zagri (Università di Bologna), Max Siller (Università di Innsbruck), Antonio Stabile (Università di Losanna), Angelo Rusconi (Università di Milano), Nicole Forti (Università di Roma).
Gli argomenti a confronto nei vari incontri - che si susseguono ogni mattina a partire dalle ore 10 e il pomeriggio a partire dalle 15.30 - vanno dalla Persecuzione e rivincita nelle eroine del teatro greco (7 Ottobre, mattina) a Esuli, martiri, spodestate: forme di persecuzione civile ed ecclesiastica tra il XV e il XVI secolo (8 Ottobre, mattina), passando Dalle fanciulle perseguitate shakespeariane alla figura tragica della Duchessa d’Amalfi (9 Ottobre, pomeriggio), fino alle Streghe, martiri e eroine: la persecuzione delle donne nell’arte italiana fra Quattro e Cinquecento (10 Ottobre, mattina).

Il testo teatrale scelto per illustrare il tema del Convegno è Stella, una delle quattro "rappresentazioni" toscane della fine del Quattrocento, meno nota di Santa Uliva, e assente da secoli dalle scene. Stella è una tipica storia ‘a ottave’, e narra le vicende di una principessa perseguitata dalla matrigna invidiosa, che dopo fughe rocambolesche da Parigi alla Borgogna, e dopo aver avuto mutilate le mani, viene salvata e miracolata per intervento della Madonna. A mettere in scena ogni sera questa ‘favola’ popolare, che precorre la notissima Biancaneve, sarà il regista Luciano Alberti, con la fiorentina Compagnia delle Seggiole.
Dal 7 al 10 ottobre alle 21.00 presso la Basilica di San Saba, ingresso gratuito.

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ASSOCIAZIONE CENTRO STUDI SUL TEATRO
MEDIOEVALE E RINASCIMENTALE
XXVIII Convegno Internazionale

Basilica di San Saba
Via San Saba 19, Roma
7, 8, 9, 10 Ottobre 2004 – ore 21.00


Compagnia delle Seggiole

Stella
ovvero, la meno nota delle quattro storie anonime toscane del quattro-cinquecento
su martirio e salvezza di giovinette perseguitate


regia di
Luciano Alberti

Dal 7 al 10 Ottobre, la Basilica di San Saba ogni sera alle 21 sarà il suggestivo luogo per la rappresentazione di Stella, testo tradizionale di un anonimo fiorentino della fine del Quattrocento, che è stato scelto dall’Associazione Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale – presieduto dal Prof. Federico Doglio - per illustrare il tema del XXVIII Convegno Internazionale su Romanzesche avventure di donne perseguitate nei drammi fra Quattrocento e Cinquecento, che si terrà ogni giorno nel salone parrocchiale della stessa Basilica.
Stella è una storia ‘in ottave’ tipica della linguistica quattrocentesca fiorentina, e narra le vicende di una giovane e bella principessa perseguitata dalla matrigna invidiosa. Dopo mille disavventure e fughe rocambolesche da Parigi alla Borgogna, e dopo aver subito un vero e proprio martirio – addirittura la mutilazione delle mani – Stella viene salvata e miracolata per intervento della Madonna. Questa ‘favola’ popolare è una delle quattro rappresentazioni ‘sacre’ del quattro-cinquecento toscano – tra cui la più nota è Santa Uliva di Copeau – che narrano le avventure di giovinette ingiustamente perseguitate, condannate, mutilate, che alla fine vengono sempre reintegrate nei loro diritti grazie all’aiuto della Divina Provvidenza. La chiesa paleocristiana di San Saba fornisce la giusta atmosfera per dare vita a questa vicenda, che si svolge tra due regge, a Parigi e in Borgogna, ed un bosco fantastico che si estende illimitatamente tra le due.
Stella ha alcuni tratti archetipici della novellistica europea, ad esempio della notissima Biancaneve, e oltre al dramma contiene in sé elementi favolistici ed elementi comici, che saranno messi in luce dalla regia e dalla narrazione di Luciano Alberti, assieme agli attori e musici della fiorentina Compagnia delle Seggiole. All’entrata e all’uscita di chiesa tutti canteranno, fuori testo, una delle tante laudi alla Vergine pervenuteci dalla Firenze di cinque secoli fa. Nel cast, oltre a Teresa Fallai ("Stella"), a Maurizio Lombardi (il figlio del Duca di Borgogna) e a Elena D’Anna (la Regina), gli attori Marcello Allegroni, Fabio Baronti, Sandro Carotti, Marco Castagnoli, Margherita Cavalli, Eskandar Haddadi, Silvia Vettori e i musici Gian Luca Lastraioli, Andrea Benucci, Marco Castagnoli, Martino Noveri. I costumi sono di Micol Joanka Medda, l’allestimento è di Massimo Carotti, mentre gli elementi scenici sono a cura di Nadia Cavallini.

Luciano Alberti, già critico musicale, direttore artistico del Maggio Musicale Fiorentino, dell’Accademia Chigiana di Siena, del Festival Puccini di Torre del Lago. In veste di direttore artistico del Teatro Comunale di Firenze ha avviato alla regia lirica nomi prestigiosi come De Simone, Ken Russell, Vitez, Jancso, Olmi, Monicelli, accomiatandosi dall'Ente con una Traviata diretta da Kleiber e messa in scena da Zeffirelli.
La Compagnia delle Seggiole nasce nel 1999 dall’incontro di attori provenienti da varie città toscane e con esperienze pluriennali nel settore teatrale. Tutte le sue scenografie sono costituite da sedie oppure, in rarissime occasioni, da qualche elemento scenico.

Ingresso gratuito


 


 

Siete ancora in tempo per la XII Biennale dei Giovani Artisti
Il bando scade l'11 ottobre, appuntamento a Napoli nel 2005
di Zone Attive

 

E’ prorogato all’11 ottobre il bando di partecipazione alla XII Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo che si svolgerà a Napoli nel 2005.

Zone Attive - da sempre osservatorio attento e costante dello scenario giovanile in movimento - ricerca e promuove la cultura emergente attraverso tutti i suoi progetti, investendo nel talento dei giovani e ponendosi come interlocutore privilegiato e punto di riferimento. Dopo la recente esperienza del festival enzimi, con cui da nove anni fa da catalizzatore della qualità e della vitalità artistica emergente, Zone Attive per conto del Comune di Roma ha il compito di operare una selezione a livello nazionale per il settore della Biennale dedicato alle arti visive e a livello regionale per le sezioni di musica, spettacolo, narrazione e immagini in movimento.

Entro lunedì 11 ottobre i giovani artisti, in età compresa tra i 18 e i 30 anni, potranno ancora inviare i loro progetti, che saranno poi valutati dalle giurie di settore appositamente istituite. E’ possibile scaricare il bando di partecipazione collegandosi al sito www.bjcem.org.
La Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo è la più prestigiosa vetrina della creatività giovanile per l’intera zona euro mediterranea , con sette aree artistiche in cui sviluppare il proprio talento e la propria fantasia. Dopo l’edizione del ’99, realizzata a Roma da Zone Attive, la Biennale torna in Italia,organizzata dalla Provincia di Napoli con il contributo della Regione Campania e il sostegno del Comune di Napoli.
Dal 22 aprile al 1 maggio 2005 il capoluogo partenopeo si trasformerà in un laboratorio di inventiva, di vita, di ricerca e di sperimentazione, dove centinaia di artisti italiani avranno l’opportunità concreta di essere protagonisti e di confrontarsi con gli altri provenienti da 25 paesi diversi ,tra cui la ‘Nazione Rom’ che partecipa per le discipline di musica e narrazione.
Il tema di questa edizione della Biennale è la "Passione", proposta attraverso cinque declinazioni, ciascuna delle quali in grado di coglierne un aspetto distintivo : tentazioni (la spinta passionale); ideali (la sublimazione passionale); conflitto (lo scontro di passioni; comunicazione (lo scambio di passioni); paura (l’altra faccia della passione).


Per informazioni: tel. +39 06 492714200 – e-mail: info@zoneattive.com


 


 

Luca De Fusco risponde a Franco D'Ippolito
Sul "Libro bianco degli stabili"
di Luca De Fusco

 

30 settembre 2004

Gentile Oliviero Ponte di Pino,

in riferimento all’articolo di Franco D’Ippolito intitolato “Gli Stabili danno i numeri”, siamo grati della precisa attenzione con cui i dati del nostro Libro Bianco sono stati esaminati.
Ci sarà modo mi auguro di confrontarci sui ragionamenti di carattere generale e i direttori dei teatri stabili non avranno difficoltà ad avanzare anche delle critiche a se stessi e al lavoro svolto.
Lo scopo di questo Libro Bianco, che non veniva realizzato da sei anni, era invece quello di raccogliere dei dati sull’attività dei Teatri Stabili Pubblici nel 2003, e su questi desidero fare alcune precisazioni.
Nel Capo V (disposizioni finali) art.23 (disposizioni transitorie) comma 5 del D.M. 27.02.2003 è prevista una deroga ai minimi di attività fino al 31 dicembre 2003 secondo cui le giornate recitative possono essere 120 invece di 130 e le giornate lavorative 4.000 invece di 5.000. Per cui i dati indicati nel Libro Bianco di 4.266 giornate lavorative per il Centro Teatrale Bresciano e di 4.060 per il Teatro Metastasio di Prato rientrano nei minimi indicati dalla normativa. Inoltre, anche le 126 giornate recitative indicate per lo Stabile del Veneto rientrano nei minimi; ciò nonostante avete giustamente individuato un vero e proprio errore tecnico dato che le recite di produzione dello Stabile del Veneto non sono come scritto 126, bensì 249 (di cui 72 in sede, 169 fuori sede e 8 all’estero).
La ringrazio ancora per l’attenzione prestataci.
Con i migliori saluti

Luca De Fusco
Presidente
Associazione Nazionale Teatri d'Arte Drammatica
Teatri Stabili Pubblici


 


 

In anteprima per ateatro l'inizio di Predisporsi al micidiale, il nuovo spettacolo di Alessandro Bergonzoni
Con le date della tournée
di Alessandro Bergonzoni

 

Debutta tra pochi giorni a Bologna il nuovo spettacolo di Alessandro Bergonzoni Predisporsi al micidiale. Ecco in anteprima l'inizio del testo, e poi le date della tournée. Imperdibile.

Mentre un chierichetto confonde sacrestia con carestia e muore di stenti durante la messa.

Mentre il centro esatto del dolore viene mancato almeno per una volta.

Mentre durante una operazione molto delicata si formano gocce di sudore sulle ali di un angelo custode, e non si sa se custode del chirurgo o del paziente.

Mentre qualcuno sta per farsi pazzo con la stessa velocità con cui si fa giorno.

Mentre alcune statuine del presepe si decidono e prendono la via del mare per una breve vacanza lontana dal muschio.

Mentre un pianista prende il coraggio a quattro mani e decide di suonare con un altro pianista.

Mentre un pompiere decide di dar fuoco ad una casa per ritrovare una sua vecchia fiamma.

Mentre un pinguino così, intervistato a caldo, taglia corto, perché onestamente anche se non fosse intervistato così a caldo per lui sarebbe stato meglio…

Mentre alcuni spiriti fanno la riverenza ai propri corpi e viceversa.

Mentre l’inutile tentativo di un ingoiatore di cactus si risolve come al solito in un nulla di fatto.

Mentre il rinoceronte Casimiro sta sudando sette camice per mettersene una.

Mentre il terzo segreto di Fatima viene miracolosamente rivelato ad un sordo.

Mentre per scongelare un presepio del polo lo mettono a bagnomaria.

Mentre un tarlo agitato tutte le notti per dormire si prende un Tavol.

Mentre in una maternità un signore sta per diventare zio e fuma sigarette a basso contenuto di nipotina.

Mentre un neonato petomane innaffia la rosa dei venti.

Mentre finisce l’ossigeno di un subconscio.

Mentre una gatta prima di andare a dormire non sa dove ha messo la micia da notte.

Mentre l’ombelico stanco che si è perso in un giardino pubblico non vede l’ora di trovare una pancina.

Mentre una mosca bianca scia con un giglio nel culo per non farsi notare.

Mentre un astronauta pluriomicida viene condannato alla pena di Marte.

Mentre per chi perde i genitori si cerca di organizzare una corsa storica per distrarsi un po’ e a nessuno viene in mente di meglio che chiamarla: Orfanatrophi.

Mentre da un buon egocentrico che soffre d’insonnia non ci si può aspettare che la cura del sono.

Mentre lo smemorato angosciato decide di farsi un nodo alla gola per ricordarsi di respirare.

Mentre la donna dal destino sconvolto scopre di soffrire di Vagine a Pectoris.

Mentre un pedone razzista attraversa la strada camminando solo sulle strisce bianche.

E mentre un postino maleducato mette le mani sulla patta e grida "Pacco!!!"

Mentre un millesimo di secondo prima di un frontale tutti si accorgono anche di aver sbagliato strada, mi accorgo che se un pollo guida un aereo può tranquillamente prendergli fuoco un'ala che lui comunque atterrerà sempre di coscia o di petto).


Predisporsi al micidiale: la tournée

ottobre 2004  
gio14BolognaTeatro Duseore 21.00
ven15BolognaTeatro Duseore 21.00
sab16BolognaTeatro Duseore 21.00
dom17BolognaTeatro Duseore 21.00
mar19BolognaTeatro Duseore 21.00
mer20BolognaTeatro Duseore 21.00
gio21BolognaTeatro Duseore 21.00
ven22BolognaTeatro Duseore 21.00
sab23BolognaTeatro Duseore 21.00
dom24BolognaTeatro Duseore 21.00
novembre 2004
gio4GenovaTeatro Politeama Genoveseore 21.00
ven5GenovaTeatro Politeama Genoveseore 21.00
sab6GenovaTeatro Politeama Genoveseore 21.00
mer10PiacenzaTeatro Municipaleore 21.00
ven21Rovereto (TN)Auditorium Fausto Melottiore 21.00
mar16FerraraTeatro Nuovoore 21.00
sab20UdineTeatro Nuovo Giovanni da Udineore 21.00
sab27VeronaEstravagario Teatro Tendaore 21.00
mar30RiminiTeatro Novelliore 21.00
dicembre 2004
ven3Reggio E.Teatro Valliore 21.00
sab4Reggio E.Teatro Valliore 21.00
gio9FirenzeTeatro Pucciniore 21.00
ven10FirenzeTeatro Pucciniore 21.00
mar14ForlìTeatro Diego Fabbriore 21.00
gio16San Giov. PersicetoTeatro Faninore 21.00
ven17NovaraTeatro Cocciaore 21.00


 


 

Luzi, Tiezzi & Lombardi: Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini in scena a Siena
Repliche a Firenze e Roma
di Compagnia Lombardi-Tiezzi

 

Compagnia Lombardi - Tiezzi
Comune di Siena - Assessorato alla Cultura

Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini
di Mario Luzi
uno spettacolo di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi

Narratore David Riondino
Simone Martini Sandro Lombardi
Giovanna, la moglie Marion D’Amburgo
Donato, il fratello, pittore Massimiliano Speziani
Giovanna, moglie di Donato Clara Galante
Ragazzo di bottega Alessandro Schiavo
Studente di teologia Fabio Mascagni
Musico Massimo Signorini
Luciano Bellosi Luciano Bellosi


Siena - Teatro dei Rozzi - 8/9 ottobre 2004

Firenze - Saloncino del Teatro della Pergola - 26/28 ottobre 2004
Roma - Teatro India - 5/6 dicembre 2004



Dopo la felice collaborazione per uno spettacolo sul Purgatorio dantesco (Prato, 1990), Federico Tiezzi chiese a Mario Luzi di scrivere un testo per Sandro Lombardi. Nel periodo di gestazione del lavoro, Luzi aveva accarezzato l’idea di un monologo attorno a Simone Martini… Le cose andarono poi diversamente e il testo sul grande pittore senese prese una piega più lirica che drammatica, mentre fu un altro artista del colore, Jacopo da Pontormo, ad essere incarnato da Lombardi, nello spettacolo Felicità turbate, presentato nel 1995 al Maggio Musicale Fiorentino.
E’ dunque con il senso di un destino che si compie che oggi gli stessi protagonisti si trovano, grazie a un progetto formulato e promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Siena, di fronte al compito di trasformare in teatro questo "dramma in forma di poesia", nel quale Luzi immagina l’ultimo viaggio del pittore da Avignone alla natìa Siena. Questo pellegrinaggio, mosso dalla nostalgia eppure mai nostalgico, è anche un viaggio alla riscoperta del mondo e un percorso di purificazione. Questo viaggio è inoltre, come sempre in Luzi, una tappa sulla via della conoscenza e della comprensione delle cose.
Pietro Citati ha sottolineato "con quale dono straordinario, questo poeta apparentemente tutto chiuso in sé, diventa acqua, aria, etere; e condivide ogni battito, ogni scivolio, ogni risalita, ogni movimento" delle creature, quelle creature che non sono altro che "cose e visi, che Luzi ama per la loro limitatezza, finitezza, concretezza, singolarità, persino miseria, con un affetto che la distanza metafisica scalda invece di intiepidire."
In questo nuovo incontro con il poeta, Federico Tiezzi intende dispiegare in piena spettacolarità la pregnanza scenica immanente al testo, attribuendo dunque dei corpi e dei volti ai personaggi della storia: Simone, la moglie Giovanna, il fratello Donato e la moglie di lui "bella e strana", un ragazzo di bottega, uno studente di teologia infine per raccontare attraverso il teatro (e nell’incontro di musica, pittura, immagine, parola) la poesia, insieme umanissima e astratta, di questo poemetto narrativo: il tempo degli uomini e delle cose, la sororalità delle stagioni, il ritmo musicale della cadenza dei giorni, la malattia, il sonno, la maternità e la vecchiaia e la città di Firenze e quella di Siena, i fiumi e le campagne: la natura nel suo rapporto con gli uomini, l’artista nel suo rapporto con la storia, la malattia e la guarigione nel rapporto dell’uomo con la propria vita terrena e spirituale.
Alla figura di un Narratore (David Riondino) spetta il compito di traghettare il racconto da una stazione all’altra: sorta di presentatore epico che annuncia le varie tappe di un viaggio che è insieme concreto e metafisico. A Sandro Lombardi è affidato il ruolo di Simone: un protagonista tutto contemporaneo, forse più vicino a un artista del novecento che non a un pittore medievale. Legati alla contemporaneità sono anche i personaggi che ruotano intorno a Simone, secondo una scelta di regia che radica la figura dell’artista antico nelle parole dell’oggi, le inquietudini e i sogni del pittore nella memoria di giovinezza e maturità del Luzi uomo e poeta, la preziosità dei fondi oro nella sostanza figurativa e poetica del nostro tempo.

Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini è realizzato con il contributo di Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Banca Monte dei Paschi di Siena, Regione Toscana.


 


 

La sentenza sul caso Benedetti-Pedullà
Intorno alla ricostruzione del "caso Martone"
di Redazione ateatro

 

Ne avevamo dato notizia in ateatro 42: il professor Walter Pedullà aveva querelato (chiedendo un milione di euro di danni) Carla Benedetti e l'editore Bollato Boringhieri per la ricostruzione del "caso Martone", pubblicata nel volume Il tradimento dei critici (ne trovate traccia in ateatro 36.3).
Il tribunale di Torino ha respinto la richiesta: la sentenza (che pubblichiamo qui di seguito) parla di “legittimo esercizio della libertà di critica” e accenna al fatto che una simile materia “forse avrebbe potuto trovare un più pertinente ambito di sfogo in una sfera diversa da quella giudiziaria”: in altre parole, sarebbe stato più opportuno rispondere alla critica sullo stesso terreno, argomentando pubblicamente le proprie ragioni.

SENTENZA N. 32986/04 (Fasc. N. 7230/ 02, Cron. N 1996/04, Rep. N.61613)

22 giugno 2004


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI TORINO
SEZIONE IV CIVILE

II giudice istruttore Antonio Carbone, in funzione di giudice unico, ha pronunciato la seguente


SENTENZA

nella causa civile iniziata con atto di citazione notificato in data 2-6.8.02, iscritta al n. 7732/02 di R.G., promossa da:

PEDULLÀ Walter

elettivamente domiciliato in Torino, corso Vittorio Emanuele II n. 76, presso lo studio dell'Avv. Luisella Collu che lo rappresenta e difende unitamente agli Aw.ti Nicolo Lipari, Marcello Mole e Bruno Capponi come da delega in atti;
Attore

contro

BENEDETTI Carla
elettivamente domiciliata in Torino, via Susa n. 31, presso lo studio degli Avv.ti Marino Bin e Luciano Mittone che la rappresentano e difendono unitamente all’ Avv. Alberto Mittone come da delega in atti;
Convenuta

e contro

BOLLATI BORINGHIERI EDITORE s.r.l.

in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata In Torino, corso Stati Uniti n. 62 presso lo studio degli Avv.ti Tiziana Gerlin Baldizzone, Maria Cristina Ottavis e Matteo Maria Riscossa che la rappresentano e difendono come da delega in atti;
Convenuta
Oggetto
: diffamazione a mezzo stampa.


CONCLUSIONI DELLE PARTI

Per parte attrice.
Voglia il Tribunale, contrariis reiectis, delibati nella condotta dei convenuti gli estremi dell'illecito penale di diffamazione aggravata commessa a mezzo stampa ed ex art. 57 c.p. ovvero dei delitti che verranno ravvisati dall'Ufficio e valutata comunque la natura di illecito extracontrattuale ex art. 2043 c.c. posto in essere dalla Prof. Benedetti con lo scritto di cui è causa, nonché dalla Casa Editrice direttamente o a titolo di concorso, condannare i convenuti in solido tra loro al risarcimento dei danni morali e non patrimoniali cagionati al Prof, Pedullà dai fatti dedotti nel presente giudizio, da liquidarsi tutti in via equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c. in somma di euro 1.000.000 o in quella diversa ritenuta di giustizia ed attualizzata al momento della decisione; con condanna, altresì, alla pena pecuniaria ex art. 12 I. 47/48, anch'essa di liquidarsi secondo giustizia, e pubblicazione dell'emananda sentenza- a spese dei convenuti e a cura della parte attrice-su tre i quotidiani da Individuarsi dal Tribunale e sui settimanali Panorama e l'Espresso, salvo altri.
In subordine, ove ritenesse di non poter così statuire allo stato degli atti, voglia ammettere la prova per testi capitolata nella memoria ex art. 184 c.p.c. del 29.5.03 (...).
In ulteriore subordine, qualora ritenesse doversi ammettere anche le prove testimoniali articolate dalla difesa della Prof. Benedetti nella memoria del 29.5.03, ammettere a controprova i medesimi testi indicati dianzi.
Con vittoria delle spese di lite.


Per la Prof. Benedetti
Voglia il Tribunale, contrariis reiectis, assolvere la convenuta da ogni avversaria domanda.
Con il favore delle spese ed onorari di causa.

Per la Bollati Boringhieri s.r.l.
Voglia il Tribunale, contrariis reiectis,
1. respingere tutte le domande proposte contro la Bollati Boringhieri, mandando assolta la convenuta da ogni domanda, pretesa e/o responsabilità;
2. con il favore delle spese, diritti ed onorari di giudizio.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 26.8.02 il Prof. Pedullà evocava in giudizio la Prof. Benedetti e la Casa Editrice Bollati Boringhieri chiedendone la solidale condanna al risarcimento dei danni riportati in conseguenza della diffamazione a mezzo stampa della quale si assumeva vittima in relazione al contenuto del capitolo intitolato "II potere che ognuno conosce e nessuno racconta. Il Caso Martone" contenuto nel saggio "II tradimento dei critici".
I convenuti si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto della domanda avversaria, contestata sia nell'an che nel quantum debeatur.
Tutte le partì producevano documenti.
La natura della causa non comportava l'espletamento di attività istruttorie.
Precisate le conclusioni definitive all'udienza del 30.3.04, la causa veniva trattenuta per la decisione alla scadenza dei termini di cui all'art 190 c.p.c.


MOTIVI DELLA DECISIONE

Sotto il profilo processuale, si deve prendere atto che l'attore non ha depositato entro il termine assegnato all'8.5.04 né la comparsa conclusionale, né il proprio fascicolo di parte che, essendo stato depositato solo II 27.5.04 (come da timbro della Cancelleria sulla copertina), risulta Inutilizzabile. La presente pronuncia è pertanto basata esclusivamente sugli atti prodotti dai convenuti, peraltro in larga parte identici a quelli originariamente prodotti dall'attore e comprensivi dello scritto per cui è causa.
E' parimenti inutilizzabile la memoria di replica attorea nella parte in cui non presenta il contenuto sostanziale proprio di tale atto, bensì quello di una tardiva comparsa conclusionale.
Il Prof. Pedullà ha evocato in giudizio la Prof. Benedetti e la Casa Editrice Bollati Boringhieri ritenendosi diffamato dal contenuto del capitolo 7 del saggio intitolato "Il tradimento dei critici", redatto dalla prima ed edito dalla seconda.
Nel valutare il tenore dello scritto appare opportuno richiamare, preliminarmente, l'indirizzo giurisprudenziale assunto in materia della Suprema Corte (Cass. 9746/2000) seppur con occasionale riferimento all'attività giornalistica.
"È necessaria, quindi, la continenza nell'esercizio di questo diritto sia nel suo contenuto (continenza sostanziale), sia nel modo in cui esso si estrinseca (continenza formale). Continenza sostanziale è quella per la quale i fatti narrati debbono corrispondere a verità. Evidentemente non si può trattare di verità assoluta, ma di verità soggettiva perché la cronaca di accadimenti ritenuti soggettivamente veri e il riflesso soggettivo del fatto che non ci sia stata narrazione di fatti immaginari (frase testualmente riportata: n.d.e.). Continenza formale è quella per cui l'esposizione dei fatti deve avvenire misuratamente. Essa coincide con i limiti al diritto di cronaca che deve essere contenuta negli spazi strettamente necessari all'esposizione dei fatti. Bisogna, peraltro, considerare che le espressioni adoperate nella narrazione dei fatti non si possono fondare su parametri universali e oggettivi, sicché la continenza formale deve essere verificata in stretta aderenza al contesto nel quale deve operare.
" Diverso dal diritto di cronaca è il diritto di critica, pur trovando anch'esso il suo referente costituzionale nell'alt. 21 Cost. ed integrando un'esimente della diffamazione, ove esercitato nei limiti suoi propri. " In generale la critica, compresa quella che si traduce in scritti; si risolve in una interpretazione di fatti, di comportamenti e di opere dell'uomo e, per sua natura, non può essere che soggettiva, cioè corrispondente al punto di vista di chi la manifesta. In altri termini la critica, astrattamente considerata, presuppone già la conoscenza del fatto - notizia, con tutti i requisiti ad esso relativi.
"Naturalmente anche chi esercita il diritto di critica è tenuto al rispetto della realtà storica del fatti oggetto del suo giudizio, ma ciò non comporta che questi, prima dì esprimere il proprio dissenso, debba fornire una narrazione puntuale ed esaustiva delle vicende.
"La critica non mira ad informare, ma a fornire giudizi e valutazioni personali.
" Rimangono validi, in relazione al diritto di critica in sé considerato, i requisiti della pertinenza, e cioè dell'interesse pubblico alla conoscenza di quell'interpretazione dei fatti o delle opere dell'uomo, nonché quello della correttezza formale dell'esposizione (cosiddetta continenza).
" Come ogni diritto, anche il diritto di critica non può essere esercitato se non entro limiti oggettivi fissati dalla logica concettuale e dall'ordinamento positivo.
" Ritiene il Collegio che da questo principio non si può trarre, tuttavia, l'illazione che la critica sia sempre vietata quando può offendere la reputazione individuale e che occorre, quindi, andare alla ricerca di un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con l'interesse che non siano introdotte limitazioni alla libera formazione del pensiero costituzionalmente garantita.
" Il bilanciamento sta nel fatto che per la critica, diversamente dalla cronaca, sussiste il limite dell'interesse pubblico o sociale ad essa stessa attribuibile quando si rivolge a soggetti che tengono comportamenti o svolgono attività che richiamano su di essi l'attenzione dell'opinione pubblica.
" Detto interesse sociale non attiene alla conoscenza del fatto oggetto di critica (come nel diritto di cronaca), essendo detta conoscenza del fatto presupposto della critica e, come tale, fuori da essa (per cui è sufficiente il solo richiamo del presupposto per poi impostare lo sviluppo argomentativo dell'osservazione critica), ma attiene a quel particolare giudizio critico e, quindi, anche alla fonte da cui esso proviene.
" Mentre è necessario che i fatti su cui si appunta la critica siano veri (continenza sostanziale, nella cronaca attinente all'oggetto e nella critica attinente al presupposto), non è necessario che la critica sia esatta, purché risponda agli altri requisiti suddetti.
" In pratica accade, peraltro, che la narrazione di fatti determinati (cronaca) sia esista insieme alle opinioni (critica) di chi la compie, in modo da costituire allo stesso tempo esercizio di cronaca e di critica.
" In questi ultimi casi la valutazione della continenza (sostanziale e formale) non può essere condotta attraverso I soli criteri sopra indicati, che sono essenzialmente formali, ma si attenua per lasciare spazio all'interpretazione soggettiva dei fatti, che sono raccontati per svolgere le censure che si vogliono esprimere (v. Cass. 22.1.1996, n. 465)".

Nella fattispecie per cui è causa non appare revocabile in dubbio che lo scritto della Prof. Benedetti, così come il più ampio lavoro in cui si inserisce, costituisca esercizio del diritto di critica, come desumibile sia dall'intrinseco contenuto del capitolo, sia dal tenore dell'intero saggio.
Non è, inoltre, dubitabile l'esistenza di un interesse sociale secondo l'accezione accolta dalla richiamata giurisprudenza, vertendo lo scritto su un personaggio - il Presidente del Teatro Stabile - e su una materia - la gestione di uno dei più importanti teatri italiani e le sottostanti logiche di potere - di indubbio interesse pubblico (Cass. 465/96) a nulla rilevando -in senso contrario - la circostanza che il capitolo per cui è causa possa apparire parzialmente "fuori tema" rispetto al titolo del saggio e agli altri capitoli (estraneità che dipende dalla chiave di interpretazione soggettiva del lettore e può essere, peraltro, esclusa ove ci si ponga nella prospettiva dell'autrice, implicita ma non per questo meno chiara).
Risulta, parimenti, soddisfatto il requisito della continenza formale poiché il capitolo risulta espresso con modalità espressive sufficientemente contenute e non gratuitamente offensive ancorché incisive od enfatiche, ma pur sempre entro i canoni letterari inevitabilmente connaturati ad un saggio inteso quale libera espressione del pensiero critico.
La valutazione della continenza sostanziale impone, invece, una più approfondita disamina del capitolo.
Esso si apre con una doverosa precisazione dell'autrice, la quale non ha preteso di esporre circostanze oggettive da lei direttamente appurate ma ha fatto espresso riferimento alla lettera di dimissioni di Mario Martone dalla carica di Direttore Artistico del Teatro Stabile di Roma, pubblicata sul quotidiano La Repubblica, e alle polemiche che hanno avuto eco giornalistica nei mesi successivi. Nella premessa la Prof. Benedetti ha aggiunto di aver conservato copia dei relativi ritagli di giornale osservando che "forse non sono completi, però ce n'è abbastanza per dar forma a una storia".
Risulta dunque chiaro dalla premessa che le informazioni e le circostanze fattuali assunte a fondamento delle argomentazioni critiche e delle considerazioni personali dell'autrice non hanno alcuna pretesa di verità oggettiva verificata dalla medesima autrice, ma derivano esclusivamente dalle notizie riportate dalla stampa, cioè da scritti dai quali la stessa autrice, al pari di qualunque lettore di quotidiani e periodici, poteva legittimamente trarre le proprie valutazioni soggettive.
In questa prospettiva, esplicitata dalla stessa autrice, la veridicità Intrinseca delle circostanze riportate negli articoli di stampa citati nel saggio appare priva del rilievo Indicato dall'attore: la Prof. Benedetti, proprio perché si limitava ad assumere tali scritti come spunto di riflessione menzionandoli compiutamente, non era infatti tenuta ad una verifica del loro contenuto vale a dire dell'esattezza delle dichiarazioni verbali e scritte rilasciate dai protagonisti dello scontro in seno all'Istituzione (il Direttore Artistico Martone, il Presidente Pedullà e tutti i personaggi politici e dello spettacolo dì contorno) ma, al più, ad una delibazione sull'autenticità delle interviste e degli scritti dei medesimi, peraltro mai contestata.
Rientrava, per contro, nell'esercizio del diritto di critica la facoltà della Prof. Benedetti di aderire ad una delle due contrapposte tesi e di assumere, del tutto legittimamente, una posizione favorevole all'ex direttore Martone basandola su una lettura fortemente soggettiva - ma non manifestamente irragionevole - delle interviste e delle notizie divulgate dalla stampa e, in particolare, delle informazioni sulle sorti economiche del Teatro Stabile durante la Direzione artistica di Mario Martone.
Tali notizie, per come riportate e presentate, potevano effettivamente trarre in equivoco il lettore sia per l'imprecisione della terminologia usata, sia per il "contesto" (essendo assunte a motivo o pretesto di conflitto personale tra i personaggi interessati), sia per l'inesigibilità dal lettore medio di quelle conoscenze contabili necessarie per cogliere con maggior accuratezza la reale situazione economica dello Stabile di Roma prospettata dal Prof. Pedullà.
Si può dunque comprendere perché la Prof. Benedetti, leggendo l'articolo comparso sul Corriere della Sera del 4.11.2000 sormontato dal sottotitolo "II bilancio è in rosso", abbia colto nelle dichiarazioni del Prof. Pedullà riportate dal giornalista il convincimento che il Prof. Pedullà lamentasse una situazione economica compromessa addebitandola proprio a Mario Martone, tale essendo il senso delle frasi "La verità è che Martone se ne va perché gli abbiamo più volte chiesto di correre ai ripari in una situazione che stava precipitando sul piano del bilancio. Negli ultimi mesi è stato un disastro: siamo sotto le previsioni di ricavi di più di 300 milioni".
Analoghe deduzioni si potevano ragionevolmente e legittimamente trarre dall'Intervista pubblicata sul Messaggero del 4.11. 2000, laddove II Prof. Pedullà ha parlato reiteratamente di "pesante, preoccupante flessione delle presenze e degli incassi" denunciando di essere già "a circa 350 milioni in meno rispetto alle pur non ottimistiche previsioni di introito annotate in bilancio" e portando alcuni esempi di assoluta sproporzione tra costi e introiti di programmazione.
La Prof. Benedetti, che non era tenuta ad effettuare ricerche analitiche attraverso la disamina dei bilanci né quale lettrice né quale autrice di un testo ove tali articoli venivano fedelmente riportati per estratto, può dunque essersi comprensibilmente sorpresa leggendo, su La Repubblica del 21.4.01, che il bilancio del Teatro Stabile di Roma relativo al periodo della gestione Martone era stato approvato in pareggio e che non sussisteva il "paventato deficit" che aveva scatenato le polemiche all'epoca delle dimissioni del Direttore Artistico.
Ancorché il quotidiano abbia assunto una posizione trasparentemente vicina a quella di Mario Martone - come evincibile dalla rassegna stampa prodotta delle parti - la notizia era vera ed i bilanci in atti lo confermano. Appare legittimo, per questo motivo, lo stupore manifestato dalla Prof. Benedetti che, nella prospettiva del comune lettore, ha colto la discrepanza tra iI pareggio di bilancio e quella situazione di dissesto desumibile dalle dichiarazioni del Prof. Pedullà così come divulgate dalla stampa e interpretabili secondo il senso comune.
E appare, conseguentemente, legittimo il giudizio critico formulato dalla Prof. Benedetti la quale, dopo aver premesso la possibile incompletezza delle proprie fonti giornalistiche e averle menzionate analiticamente, ha elaborato proprie considerazioni che, proprio In quanto basate su dati dichiaratamente "relativi", non possono assumere ad affermazione di verità agli occhi del lettore del saggio.
In questa chiave interpretativa - corrispondente ai canoni letterari del pamphlet e presumibilmente ben avvertibile dai lettori del saggio, che per la materia trattata deve presumersi destinato ad un pubblico assai selezionato e preparato - si può giustificare il sospetto dell'autrice secondo la quale il Prof. Pedullà avrebbe lasciato credere il falso quando aveva dichiarato ai giornali un deficit di bilancio di 350 milioni al precipuo fine di contrastare la Direziono Artistica di Mario Martone inducendolo alle dimissioni. Il carattere manifestamente critico del saggio legittima, parimenti, le ulteriori considerazioni della convenuta, da leggersi non nella prospettiva dell'ingiusta accusa ma in quella dello sfogo polemico e dell'Iperbole letteraria volta ad enfatizzare una deduzione legittimamente ricavabile dal materiale informativo al quale la Prof. Benedetti - saggista e non giornalista -aveva attinto senza essere tenuta, per la propria veste e per la natura del saggio, ad ulteriori e più approfondite verifiche che le avrebbero permesso di risolvere nei termini spiegati dall'attore l'apparente contraddizione tra quanto da lui precedentemente dichiarato alla stampa e le risultanze del bilancio. Il resto del capitolo costituisce, ancor più manifestamente, esercizio di critica: in base ai richiamati presupposti la Prof. Benedetti seguendo una chiave di lettura assolutamente e chiaramente personale ha ripercorso le vicende dello scontro allora in atto tra le due più alte cariche del Teatro Stabile prendendo le difese - con legittima faziosità - dell'ex Direttore artistico: proprio la manifesta partigianeria dell'autrice rappresenta, anzi, la miglior garanzia avverso il paventato carattere diffamatorio dello scritto in quanto la sua palese adesione alle tesi di una delle parti contrapposte costituisce, per il lettore medio e non prevenuto, motivo di estrema prudenza nel vaglio del capitolo e nella ponderazione delle tesi formulate dalla Prof. Benedetti, peraltro con alcuni incisi che rammentano il carattere soggettivo e non apodittico delle considerazioni esposte ("(...) si può immaginare che (...)"; "(..) questa storia in effetti parrebbe spiegare un po' più delle altre (...)"; "(...) il Presidente RAI (...) stava conducendo una battaglia probabilmente personalistica per salvare la propria poltrona (...)" ecc.).
Analoghe considerazioni possono essere svolte con riferimento alle considerazioni sull'appello del 105 "intellettuali" In favore del Prof. Pedullà, laddove le osservazioni critiche, ancorché espresse in modo assai incisivo, non sembrano degenerare in mera diffamazione soprattutto ove si considerino le premesse della stessa autrice circa la legittimità degli Interventi con i quali il Prof. Pedullà avrebbe acquisito nei confronti dei predetti "Intellettuali" quel potere - da intendersi come ascendente o forza di condizionamento - del quale, secondo la ricostruzione chiaramente personale dell'autrice, si sarebbe avvalso per raccogliere le adesioni all'appello: adesioni la cui effettiva natura risulta, del resto, parzialmente esplicitata dalle successive precisazioni di alcuni firmatari riportate dall'autrice e non espressamente contestate dalla controparte.
Per le ragioni che precedono si deve ritenere che il capitolo in esame, letto e valutato nella sua interezza (Cass. 9743/97), risulti effettivamente distinto da una notevole asprezza di toni, da un'innegabile faziosità e da contenuti Impliciti, ma rientri comunque - per sua natura, per la trasparente parzialità e per la chiara esplicitazione dei presupposti informativi - nel legittimo esercizio della libertà di critica in una materia che, per quanto deducibile dalle difese di tutte le parti, riguarda non tanto e non solo la gestione del Teatro quanto, piuttosto, la "politica dello spettacolo in un conflitto tutto intestino ad un medesimo schieramento che, forse, avrebbe potuto trovare un più pertinente ambito di sfogo in una sfera diversa da quella giudiziaria.
Queste ultime considerazioni, l'estrema discrezionalità valutativa inevitabilmente insita nella presente pronuncia e la possibilità - non .denegatele a priori - che lo scritto sia intenzionale atto di partecipazione a quel conflitto e non mera espressione critica da parte di un soggetto terzo e autonomo costituiscono giusto motivo di integrale compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.
il giudice istruttore in funzione di giudice unico, definitivamente pronunciando, disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione,

respinge la domanda proposta da PEDULLÀ Walter nei confronti di BENEDETTI Carla e della CASA EDITRICE BOLLATI BORINGHIERI;

dispone l'integrale compensazione delle spese di causa.

Cosi deciso in Torino il 4.6.04.
Il giudice unico

Sentenza depositata ai sensi dell’art. 133 c.p.c. in data 22 giugno 2004-09-26


 


 

Il Premio Tuttoteatro.com “Dante Cappelletti” a A.V. dell'Associazione Culturale Narramondo
Selezionato tra 8 progetti finalisti
di www.tuttoteatro.com

 

Scommessa vinta quella del Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche "Dante Cappelletti: sabato 2 e domenica 3 al Teatro Valle di Roma sono stati veramente in tanti gli spettatori venuti a seguire gli 8 progetti finalisti di questo riconoscimento nato per stimolare e sondare la creatività della scena.
L'alta qualità degli studi presentati sul palco, ha sottoposto la giuria ad un soddisfatto imbarazzo nella scelta del vincitore. Alla presenza del Presidente dell'Eti Domenico Galdieri, dell'Assessore alle Politiche Culturali del Comune di Roma Gianni Borgna, del Sindaco di Piancastagnaio (Si) Fabrizio Agnorelli e della famiglia di Dante Cappelletti, i € 6000,00 di sostegno alla produzione sono stati assegnati, a maggioranza, al progetto A.V. di Associazione Culturale Narramondo, gruppo di giovanissime artiste che si è distinto, come sottolineato nella motivazione «per la qualità drammaturgica, la messa in scena e l’interpretazione, capaci di trarre veri momenti di emozione teatrale da un tema, quello della lotta armata degli anni 70 e 80, oggetto di rimozione collettiva e pregiudiziale rifiuto di un’analisi approfondita. I due punti di vista, quello della studentessa e quello della brigatista, scoprono assieme un mondo rimosso e l’insensatezza dell’omicidio politico. La giuria ha apprezzato in particolar modo la bravura delle due interpreti e l’efficacia del montaggio scenico, vista soprattutto la giovane età della compagnia».
La giuria, presieduta dal Sindaco di Roma Walter Veltroni e formata da Roberto Canziani, Gianfranco Capitta, Massimo Marino, Renato Nicolini, Laura Novelli, Aggeo Savioli e Mariateresa Surianello, ha inoltre attribuito due segnalazioni: a NELLA MUSICA C’È TUTTO, MEGLIO STARE FERMI di Maurizio Rippa «Per l’originale riflessione sul disagio e le reazioni dell’interprete all’impatto con la scena, resi come partitura di parole, musica e canto, e fusi dalla grande capacità di presenza dell’interprete - autore». E ad OPERA NOTTE di Dionisi Compagnia Teatrale «per la qualità del progetto drammaturgico, caratterizzato da una scrittura contemporanea che assume una pluralità di punti di vista per descrivere la vita notturna di una grande città attraverso lo sguardo appassionato di una donna».
La partecipazione del pubblico, la diversità e la forza dei progetti finalisti - che hanno messo a confronto artisti e gruppi affermati con giovani realtà emergenti, da Compagnia Babbaluck e Teatro dei Sassi a Festina Lente Teatro, da Lucia Ragni a Scena Verticale e Zonegemma - sono stati segnali positivi dell'esito di questa iniziativa dedicata alla memoria del critico e studioso Dante Cappelletti, nata nel solco del suo lavoro appassionato e rigoroso, aperto al confronto e capace di captare i segnali del nuovo.
Patrocinato dall’ETI - Ente Teatrale Italiano, dal Comune di Roma – Assessorato alle Politiche Culturali che ha sostenuto il riconoscimento, realizzato in collaborazione con il Comune di Piancastagnaio (Si), la Provincia di Siena e la Comunità Montana Amiata Senese, il Premio Tuttoteatro.com tornerà il prossimo anno a raccogliere e segnalare quanto agita e rende viva la scena contemporanea, e seguirà - con quanti lo hanno sostenuto - il procedere dei progetti visti al Valle quest'anno, per non perdere l'occasione di promuovere concretamente l’arte dal vivo.


 



Appuntamento al prossimo numero.
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