(83) 22/04/05

Siate curiosi, leggete ateatro
L'editoriale di ateatro 83
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and1
 
Anteprima di "Hystrio 2/2005": la scena del caos
Una scheda su Teatro Aperto
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and20
 
L'amarezza del comico
Una conversazione con Toni Servillo
di Andrea Lanini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and25
 
Un Cristo scandaloso
Il Gioia di Mauro Aprile
di Fernando Mastropasqua

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and32
 
Il racconto della musica
Ancora su Busker's Opera di Robert Lepage
di Giangilberto Monti

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and38
 
Da Grotowski all'hacker art
L'incontro con Jaromil a Cascina (Pisa), marzo 2005
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and40
 
Né l’uno né l’altro: l’immagine tra parola e suono
Intervista a Paolo Rosa sulla regia di Neither, musiche di Morton Feldman e libretto di Samuel Beckett
di Andrea Balzola

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and41
 
Muti si dimette, esplode la crisi della Scala
Dopo mesi di tira e molla, tutti perdenti nel pasticciaccio scaligero
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and80
 
La morte di Giovanni Paolo II "attore di dio"
Una nota sul Karol Wojtyla, pontefice, attore e drammaturgo
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and81
 
Ciao, Renzo: è scomparso il fondatore del Teatro Tascabile di Bergamo
Renzo Vescovi, fondatore del TTB e animatore della vita culturale bergamasca, scomparso ieri
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and82
 

Mai morti alla Spezia
di www.cut-up.net

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and84
 
Radicale e imprevedibile: la Biennale Teatro 2005 di Romeo Castellucci
Presentata a Milano insieme alla Biennale Danza e alla Biennale Musica
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and85
 
www.dramma.it: le novità di aprile
Testi, tesi, materiali, concorsi, recensioni...
di www.dramma.it

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and86
 
E' nata l'Associazione per il Teatro Italiano
Assemblea il 18 aprile al Teatro Due di Roma
di 'Associazione per il Teatro Italiano artisti, operatori e tecnici

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and87
 
Santarcangelo dei Teatro 2005: l'avant programme
Dal 1° al 10 luglio
di Santarcangelo dei Teatri

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro83.htm#83and88
 

 

Siate curiosi, leggete ateatro
L'editoriale di ateatro 83
di Redazione ateatro

 

ateatro 83 si annuncia frizzante e variegato, come sempre e più di sempre.
Questa volta non vi tedieremo con le nostre solite lagne sul triste stato delle cose: lo sapete anche voi, i dati delle sovvenzioni 2004 sono ancora top secret, i fondi per la cultura nel nostro sono sempre di meno, forse con il rimpasto governativo Franco Zeffirelli diventa il nuovo ministro dei Beni Culturali eccetera eccetera.
Invece in questo numero niente di tutto questo, invece qualche spezia per incuriosirvi. Sul rapporto tra teatro e letteratura (complice Teatro Aperto), o tra teatro e musica (complici Samuel Beckett e Studio Azzurro ma anche Robert Lepage), tra Grotowski e l’hacking (complice Jaromil)… E poi qualche ulteriore anticipazione sui festival dell’estate, a cominciare dalla attesissima e misteriosa Biennale veneziana di Romeo Castellucci e da Santarcangelo 35, mentre proprio in queste settimane si decide il nome del futuro direttore della rassegna romagnola (pare che a Londra i soliti bookmaker accettino scommesse).
Ma in ateatro 83 non c’è solo questo, se ci bazzicate un po’ magari scoprite qualcosa di ancora più interessante e curioso: un documentario che ha per protagonista Cristo, la vocazione teatrale di Karol Woityla, Toni Servillo che medita sull’amarezza del comico.
Però prima di Indice di ateatro 83 vi ricordiamo qualche libro che non potete perdere:

# Il meglio di ateatro, a cura di Anna Maria Monteverdi e Oliviero Ponte di Pino;
# Sandro Lombardi, Gli anni felici;
# Andrea Balzola-Anna Maria Monteverdi, Le arti multimediali digitali.

Se non li avete ancora comperati… vergognatevi!!!


 


 

Anteprima di "Hystrio 2/2005": la scena del caos
Una scheda su Teatro Aperto
di Oliviero Ponte di Pino

 

E' uscito il nuovo numero di "Hystrio". Tra i numerosi materiali, questa scheda su Teatroaperto.

A Milano, dopo i cupi e sanguinosi anni Settanta, quando nacquero diversi teatri destinati a segnare i successivi decenni (Franco Parenti, Elfo, Out Off), l’euforia consumista di moda, televisione e pubblicità dei “dorati anni Ottanta” sembrava aver fatto definitivamente piazza pulita, come se in città non ci fosse più il terreno per far nascere nuove realtà. Invece questa ecologia in apparenza devastata ha cominciato imprevedibilmente a produrre una piccola galassia di gruppi e compagnie. Nate e cresciute fuori dai circuiti e dalle strutture consolidate, più vicine alla marginalità dei centri sociali che al centro della città, in un proliferare febbricitante e semiclandestino di corsi e workshop (secondo le regole non scritte della formazione e autoformazione del nuovo teatro), queste realtà erano per certi aspetti vicine a quei “Teatri Novanta” che avrebbero segnato l’emergere di una nuova generazione teatrale, destinata a notevole fortuna.
Curiosamente, in quella Milano, in quei gruppi, c’era persino chi alla scena ci arrivava piuttosto tardi, dopo percorsi professionali ed esistenziali molto lontani dal canone, quasi a conferma di un bisogno di teatralità latente e che è riuscito a diventare vocazione solo dopo una sorta di conversione. E’ il caso di Andrea Facciocchi, fotografo folgorato dall’Odin Teatret e fondatore di Extramondo; e di Renzo Martinelli, corridore motociclista diventato regista di Teatro Aperto sulla scia dell’incontro con Danio Manfredini e della frequentazione di un outsider della scena milanese come Mario Montagna, animatore del Teatro i. E come spesso accade, la nascita del gruppo nel 1993 è il frutto di un incontro. In questo caso, il legame con Federica Fracassi, giovane attrice di temperamento e di forte presenza formatasi alla Paolo Grassi di Milano.
A caratterizzare il percorso di Teatro Aperto è il constante confronto con testi non teatrali, narrativi, e in particolare con la scrittura femminile: Marguerite Duras e Alda Merini per Lenti in amore (1995-96), Clarice Lispector per Cuore d’infinita distanza (1997), Sarah Kane per Omaggio a Sarah Kane (2001), Anna Maria Ortese per La lente scura (2003). A emergere in primo piano non è mai l’aspetto direttamente narrativo, quanto piuttosto il tessuto e il respiro delle frasi, il tentativo di evocare e costruire una materialità fatta solo di parole, l’appropriazione fisica del testo da parte dell’attore, e il rapporto che tutto questo può creare con lo spettatore. E’ un terreno esile e fragile, che vive di atmosfere, sempre sospeso tra la ricerca di una precisione assoluta e la costruzione di tensioni che non possono trovare l’espressione della logica e della razionalità.
Di conseguenza assume un ruolo determinante la cornice, il luogo in cui si inserisce questo vibrante respiro-parola: non a caso una delle interpretazioni più intense di Federica Fracassi è la Teresa di Lisieux della Santa, 2000, la cui voce è ridotta nell’intero spettacolo a un respiro-rantolo. E’ dunque costante l’attenzione allo spazio: a volte può quasi diventare una macchina che genera questo corpo-respiro, in altre occasioni è animato da vere e proprie trovate scenografiche a effetto, come la tavola meticolosamente imbandita con argenti e cristalli per gli spettatori ospiti, mentre l’attrice monologa completamente nuda su uno sgabello in Legittima difesa (1998); o come la grande nuvola che nel colpo di scena finale invade lo spazio della Santa. In questa ottica possono forse essere inserite anche le performance con cui Teatro Aperto misura lo spazio con una rombante motocicletta (Quel m2 mai visto, 1999, ispirato a Bing di Beckett). E’ dunque una poetica che tende a intrecciare e contaminare letteratura e arti visive, con una forte attenzione agli aspetti musicali, e alle sonorità della parola.
Negli ultimi anni, il lavoro del gruppo è stato assorbito dal lavoro sull’opera di Antonio Moresco con il Progetto Caosmologia. A propiziare l’incontro è stata la messinscena della Santa, il breve testo teatrale che lo scrittore ha dedicato a Teresa di Lisieux, uno dei progetti selezionati dal Teatro di Roma in occasione del Giubileo del 2000. E’ seguito un lungo corpo a corpo con Canti del caos, il megaromanzo in progress di cui sono usciti finora i primi due volumi (per Feltrinelli e Rizzoli), per un totale di diverse centinaia di pagine. Già la mole dell’opera, oltre al suo carattere torrenziale, aperto, proliferante e provocatorio fino al limite dello scandalo, spesso programmaticamente metaletterario o meglio antiletterario, può dare l’idea della complessità di un percorso che ha portato a tre tappe spettacolari – o meglio, a tre prove di attraversamento dell’opera, tre possibili sezioni del corpo del romanzo, tre tentativi di dare una struttura chiusa a uno strabordante magma affabulatorio (grazie al poderoso lavoro di Dramaturg di Elena Cerasetti e Federica Fracassi). Per cominciare, una riduzione secondo i canoni di una drammaturgia quasi tradizionale, con un alter ego dell’autore-protagonista a tessere un filo narrativo con i suoi dilemmi di scrittore, ma già contrapposto a un nutrito coro di attori pressoché immobili che sospingono lo spettacolo verso la conquista della musicalità. La seconda tappa, nel luglio 2003 a Santarcangelo dei Teatri, è costruta intorno a un coro di cantanti professionisti, che tessono un autentico tappeto sonoro di vocalizzi, dal quale si staccano via via gli assoli; mentre lo spazio scenico è occupato da un mare di mattoni che nelle loro diverse configurazioni tracciano una geografia dell’ordine e del disordine, fino all’epifania finale, un perdersi e ritrovarsi nell’energia cosmica. Nell’ultima tappa, Kamikaze, nel 2004 per il “Progetto Petrolio” a Napoli, entra in gioco anche l’attualità, con una chiara allusione ai guerriglieri ceceni che hanno occupato il Teatro Na Dubrovka a Mosca: anzi, siamo proprio in un covo di terroristi che stanno pianificando l’azione definitiva – proprio perché scollegata da qualunque causa specifica, salvo appunto un cortocircuito insieme apocalittico e vitalistico, autodistruttivo e forse misticamente illuminante.
Da qualche mese Teatro Aperto gestisce a Milano una piccola sala, il Teatro i: anche nella programmazione: oltre al teatro si apre a musica e letteratura, giornalismo e cinema, accanto a interventi sul terreno politico e sociale. Il gruppo si presenta così come realtà di frontiera, con un baricentro forte ma pronto a ibridazioni e contaminazioni che ne arricchiscano progressivamente la poetica e la tavolozza, in un costante percorso di ricerca.


 


 

L'amarezza del comico
Una conversazione con Toni Servillo
di Andrea Lanini

 

In molte delle sue commedie Eduardo De Filippo ha osservato con la lente della drammaturgia un interno familiare, le sue dinamiche, gli attriti generazionali, i silenzi e gli sguardi che diventano chiaro indizio di qualcosa che non funziona più, o che mai ha funzionato. Anche nel matrimonio che lega Peppino Priore a Rosa, i protagonisti di Sabato, domenica e lunedì (leggi la recensione di ateatro, sembra essere calato il silenzio: ma è un silenzio definitivo? E il lieto fine che sembra riaprire i giochi è davvero uno spiraglio di speranza, o va letto come quei finali mozartiani in cui si sorride per nascondere una smorfia di amarezza? Lo abbiamo chiesto a Toni Servillo, interprete di Peppino Priore e regista di questa fortunata e pluripremiata ripresa della commedia eduardiana (al suo fianco, nel ruolo di Rosa, c’è la bravissima Anna Bonaiuto, attrice eclettica e da sempre un vero punto di riferimento per i Teatri Uniti): dopo aver portato sul palco L’avaro e Il misantropo di Molière, Servillo ha indagato le sfumature drammaturgiche di un’opera che lo stesso De Filippo adorava recitare. L’attore e regista napoletano porta in scena la famiglia Priore dal 2002, ma le oltre 350 repliche di Sabato, domenica e lunedì si sono integrate con gli impegni dettati dall’altro suo grande amore: il cinema, arte che Servillo frequenta da sempre (molto apprezzata la sua interpretazione in Le conseguenze dell’amore, film di Paolo Sorrentino). Con lui non si poteva non parlare anche di cinema.

Peppino e Rosa parlano di tutto pur di non parlare di niente: alla fine si decide di dare una svolta alla vita. Ma è vera intimità, vera pace?

No, il finale è tutt’altro che lieto. Il nostro spettacolo cerca di restituire una lettura più amara rispetto alla semplice riconciliazione, al volersi bene un po’ sentimentale. Eduardo dipinge un’ipotesi routiniera dell’amore che non è sconosciuta a nessuna coppia, e alla quale lui, senza insistere in maniera pedante, accenna più volte nel testo.

Allora, qualcosa si è rotto per sempre: arrivare a dirsi “pane al pane e vino al vino”, come si preannuncia nel dialogo risolutore, non servirà a molto…

In una lunga didascalia che precede quel dialogo si dice che i due si danno un lungo sguardo. Leggo quello sguardo come la comprensione del fatto che un rapporto, in certe fasi della sua storia, può essere caratterizzato da momenti di rancore, di disprezzo, di disistima, e che non è mai facile farlo funzionare. L’amarezza che proviene da questa presa di coscienza è ciò che cerchiamo di portare sul palco, il tratto sul quale puntiamo l’attenzione.

Anche in questa commedia del ’59 si ripete il miracolo dei “finali aperti” eduardiani: basta cambiare la sfumatura di una battuta perché il senso dell’opera intera ribalti la sua prospettiva…

E’ vero, questo finale può avere anche altre letture, e ciò deriva dal fatto che quella di Eduardo è una scrittura d’attore che funziona come la musica: il modo di interpretare una nota può far risuonare un significato diverso. Eduardo è un uomo di spettacolo a tutto tondo, e si inserisce in quella tradizione in cui è molto importante l’oralità che c’è tra il testo, la regia e la recitazione. Nel suo lavoro c’è un rimando continuo sia all’esperienza della parola in palcoscenico sia alla parola scritta. Eduardo è sia un uomo di libro sia un uomo di scena: la sua scrittura si muove attraverso questi due ambiti. Ma non bisogna dimenticare – per non perdere per strada parti della storia dello spettacolo – che Eduardo era anche un uomo che guardava al botteghino; la sua impresa richiedeva dei rischi che venivano affrontati in prima persona. Probabilmente anche per questo molte conclusioni di Eduardo possono essere leggibili come lieto fine; ma se si guarda più in profondità - analizzando magari le poche cose che ci ha lasciato scritte o l’aneddotica che riguarda la sua biografia - si trova il vero sguardo di questo autore: uno sguardo amaro e lucido, profondamente velato di pessimismo nonostante la sua grande fiducia nell’uomo. Questo tratto fa parte della sua modernità e va tratto fuori dalle pastoie della convenzione, o (cosa ancora peggiore) dal vanitoso tentativo di confrontarsi con Eduardo sul piano attoriale – tentativo destinato per chiunque a concludersi con un insuccesso, perché la classe di Eduardo resta inimitabile. Quando ho cominciato a lavorare sui testi di Eduardo, ho creduto subito nel drammaturgo, cercando di tenere su un piano separato la sua lezione di attore: per interpretare Peppino ho cominciato dalla drammaturgia per costruire un personaggio vergine. Ritengo che De Filippo abbia scritto almeno dieci capolavori, di cui quattro sono delle vette assolute: Sabato, domenica e lunedì è una di queste, e mi è molto cara anche da un punto di vista affettivo, visto che l’ho portata sulla scena almeno 350 volte! Mi ha dato molto e si è presa molto della mia vita. Un’altra vetta è sicuramente Questi fantasmi: bisogna tornare a Molière per trovare una comicità che abbia un’origine tanto angosciosa, e questo da tutti i punti di vista, compresi l’inconscio, la finzione con se stessi. Eppure da questa giacitura angosciosa emerge un riso irresistibile.

De Filippo e Molière: due grandi drammaturghi-attori che hanno saputo osservare la vita e raccontarla attraverso personaggi universali ed eternamente attuali. Che cosa hanno in comune?

Sento un filo rosso che unisce queste due sensibilità. Entrambi lavoravano per un teatro subito scritto per la scena, saltando a piè pari qualsiasi tipo di drammaturgia che avesse solo valore letterario, e le loro personalità racchiudevano la drammaturgia, la recitazione e la regia: erano due uomini di teatro assolutamente completi. Ma la cosa più affascinante, sul piano umano, di Eduardo e Molière è che l’origine di una profonda comicità è in entrambi un’altrettanto profonda disperazione: ed essa si esalta e si svela quando passa attraverso l’esperienza viva dell’attore sul palcoscenico. Questo è particolarmente vero per Eduardo: il suo corpo, la sua vita, tutta la sua esistenza si identifica col teatro in sé. Eduardo è veramente uno che ha sottratto alla vita qualsiasi altra ipotesi, per farsi totalmente teatro. A Molière ho sempre pensato come a un Totò del Seicento, capace di far sbellicare dalle risate la corte e l’intera Parigi ma anche di scrivere alcuni dei versi più belli e intensi – basta pensare alle tirate di Alceste o di Tartufo - della letteratura francese.

Parliamo della scenografia: anche di questo aspetto ti sei occupato personalmente…

Il lavoro sulla scenografia ha unificato il mio lavoro su Molière con quello su Eduardo: sono dieci anni che non faccio più uno spettacolo dietro il sipario. Nel Tartufo ho portato il pubblico direttamente sul palcoscenico, e nel Misantropo e in Eduardo uso una pedana (che poi è sempre la stessa: questa pedana avrà fatto 500 recite!) che ha una forte gettata verso la platea, in modo che gli attori siano il più vicino possibile al pubblico. Credo che il teatro sia, più che qualcosa da vedere, da ascoltare: credo che lo spettatore sia fondamentalmente qualcuno che ascolta dei corpi che parlano. E’una cosa diversa dalla passività del vedere soltanto: tento allora questa strada – non sono il primo e certo non sarò l’ultimo a farlo – di non separare il palco dal pubblico; cerco di potenziare l’illusione che tutto il mondo sia fuori e che per 3 ore ci si trovi a casa Priore. Il teatro dovrebbe sempre essere così: fatto della magia che fa sì che, per convenzione, tuto il resto del mondo resti fuori e che dentro ve ne sia un pezzo che ne risulti metafora.

Quali sono i motivi che ti hanno spinto a scegliere proprio questo testo di Eduardo?

L’ho scelto per le sue tematiche, per la sua capacità di tratteggiare un ritratto di un’Italia che per certi versi anticipa e profetizza quella che conosciamo oggi. Eduardo mette al centro della sua indagine l’italiano medio e una certa piccola–media borghesia così responsabile di tante arretratezze e sconsideratezze, di tanti passi falsi fatti dal nostro paese che non ha mai conosciuto una grande borghesia trascinante. Dal testo emerge il profilo spietato di un’Italia che dopo appena quindici anni si allontana – solo con un atteggiamento di rimozione – dalla tragedia del secondo conflitto mondiale, e che con allegria e sconsideratezza va verso il boom economico. In quel momento, un paese che aveva una vocazione agricola cambia completamente e vede sparire tradizioni e abitudini. Raccontando queste dinamiche, il teatro di Eduardo ha la capacità di essere sempre “teatro”: non è mai foriero di messaggi noiosi pur essendo sempre sociale e politico, non è mai ideologico e formale. E’semplicemente “realista”, di un reale che si porta sempre dietro la crudeltà della vita. Eduardo appartiene intimamente a quel realismo, ed è un realismo che spesso sconfina anche nelle zone della follia, del mistero, della complessità della macchina inconscia: ma è profondamente legato ad una condizione dell’uomo che è universale, politica e sentimentale allo stesso tempo.

La tua sensibilità d’artista passa anche attraverso il cinema: come definiresti il rapporto che lega cinema e teatro?

Direi che cinema e teatro sono come un marito e una moglie che devono necessariamente dormire in camere separate: le loro molte affinità hanno bisogno del loro spazio, ed è necessario che i loro ambiti rimangano distanti. Ma la preparazione di un attore che fa teatro oggi non può prescindere dalla lezione di grandi attori di cinema, come ad esempio De Niro o Al Pacino. Sarebbe come vivere fuori dal mondo. L’attore di teatro ha un rapporto intimo col personaggio, che coltiva poi anche nel tempo delle repliche – per molti versi ancora più importanti delle prove. Quando si fa cinema è più importante il ruolo rispetto al lavoro sul personaggio: e il ruolo lo si costruisce interpretando tutte le variabili che si presentano tra i vari set, e a causa dell’interazione con la realtà stessa.

Anna Bonaiuto è una grande signora Priore: due parole su questa importantissima compagna di viaggio…

Trovo che Anna sia la più straordinaria attrice della sua generazione: ha una incredibile versatilità che le permette di interpretare Ibsen e Marivaux, Eduardo e Pinter, Bernard e Molière con la stessa facilità, senza mai ripetere il calco dell’imposizione di se stessa, ma anzi rinnovando sempre il gusto di nascondersi dietro i personaggi. Anna è da sempre un’ attrice di riferimento per Teatri Uniti.

Come ricordi l’epoca che vide la nascita dei Teatri Uniti?

Con grande entusiasmo. Credo che uno degli spettacoli più belli che abbiamo fatto è proprio Teatri Uniti. L’atmosfera degli anni Settanta – il decennio in cui si colloca la nostra formazione – era stimolante: c’erano le esperienze dei gruppi, persone che si mettevano insieme all’università o addirittura al liceo e che il teatro se lo inventava ovunque fosse possibile farlo. Tutto, nel bene e nel male, era carico di ideologia: essa ti chiedeva di stare dalla parte giusta per ragioni morali, umane, intellettuali.

Non è difficile intuire che i tempi sono cambiati molto: come vedi oggi la figura dell’attore?

Oggi l’attore è molto spesso un pagliaccio senza testa che si presta a un’eco infinita di rispecchiamenti con la società (che, pronta, glieli rimanda indietro) che hanno basi fondamentalmente consumistiche e che raramente rappresentano un’esperienza interiore. Se tu, per strada, domandi a qualcuno di dirti il nome di un attore, ti possono arrivare le risposte più svariate: quando io ero un ragazzo e cominciavo, per me un attore era Volonté, era Mastroianni… oggi c’è il rischio che qualcuno ti faccia il nome di un presentatore televisivo. Attualmente chi fa teatro con determinazione è uno che si oppone a questa barbarie, anche se non so con quale risultato. Chi continua a partire a ottobre e a tornare a casa a maggio per portare in giro uno spettacolo, è a tutti gli effetti un paladino del teatro: è qualcuno che crede in qualcosa che è umano e che va salvato dalla disumanità. C’è ancora tantissima gente che fa un lavoro di volontariato culturale: purtroppo, anche certa sinistra non si rende conto di questo sforzo, e preferisce continuare a proporre modelli vincenti o che fanno più chiasso. E’ una lotta molto dura, anche perché gli incoraggiamenti di uno stato che ancora confonde il teatro d’arte col teatro commerciale non possono che essere minimi. In Francia, invece, una distinzione tra realtà così diverse esiste.

Dall'archivio di ateatro, intervista a Toni Servillo (1996).


 


 

Un Cristo scandaloso
Il Gioia di Mauro Aprile
di Fernando Mastropasqua

 

In una intervista di qualche anno fa Eugenio Barba, chiarendo la distanza tra arte e cultura, portò l’esempio del crocifisso: in chiesa davanti ai fedeli genuflessi in preghiera è simbolo ma anche vivente rappresentazione di un fenomeno culturale, lo stesso crocifisso esiliato dal suo altare e deportato in un museo si trasforma in un oggetto estetico. Bisogna aggiungere che la museificazione di un fenomeno culturale a volte può verificarsi anche senza il trasferimento di un oggetto di culto dalla sua sede naturale religiosa in una esposizione museale dove la contemplazone estetica lo spoglia dei caratteri sacri. Spesso il Cristo è museificato nella stessa sede santificata o addirittura nella festa del culto che gli viene dedicata. Un processo di imbalsamazione anticipa quella museale, che riduce l’icona sacra a “cosa” e a “merce”. Pensiamo alla devozone “turistica”, alla tradizione ripetuta per inerzia, depauperata dei significati che sono alla base di una compartecipata riunione festiva.



Il Cristo (Gioia) e la Madonna (Addulurata), centro della riflessione di Mauro Aprile nel suo film ‘U Gioia. Jaloffra e Filuvespri. Il Gioia. Garofani e Siesta, viventi durante la settimana santa a Scicli (Ragusa), mostrano il lacerante rapporto tra morte e resurrezione, ferita profondamente radicata in Sicilia come in tutta l’area del Mediterraneo. Ma lo scandalo è proprio quello del Cristo, non più simbolo di passione per una rigenerazione spirituale con tanto di benedizione ecclesiale e rimandata alla fine del tempo, quanto impulso vivente di resurrezione collettiva, già evidente in quel sorgere dietro l’altare della statua del Cristo, come nuovo sole per l’umanità, come scandaloso uomo tutto e uomo vivo.
L’occhio di Aprile è in questo senso anche visione critica, riflessione antropologica sulla festa. Gioia è l’uomo vivo, la carne dell’uomo che si esalta nella gioia della resurrezione – un atto empio quanto rigorosamente evangelico per colui che si dice figlio dell’uomo – qui ed ora, prima e a dispetto della morte e di ogni morte. Non più Cristo Risorto, commenta Aprile, ma Gioia e Uomo vivo, questa resurrezione si presenta come urlo-grido-parola (vuci) di carne umana in gioia e la massa partecipante trova in questo simulacro la voce nuova di rinascita carnale.
Il Gioia è la testimonianza della verità della distinzione di Eugenio Barba tra cultura viva e rigor artis. In questa festa il Cristo è creatore di un processo culturale che si rinnova e trasforma oltre la canonica celebrazione. Nessun museo potrebbere accogliere Il Gioia e Aprile evita che il video possa a sua volta imporsi come museificazione, investendo con raffinato linguaggio la cultura del Novecento, da Deleuze a Bacon. Lo spettatore è costretto a rispecchiarsi in un’immagine composita quanto seducente nella quale la cosiddetta cultura popolare, come il Cristo risorto si fa resurrezione della carne vivente dell’uomo, raccoglie, dipana e di nuovo scioglie i fili di cui è intessuta la cultura tout court.
Le feste non sono le esibizioni scimmiesche in moderni zoo del turismo e della mercificazione, Cristo non abita il tempio invaso dai mercanti, anche se mercanti di immaginette sacre, che egli stesso aveva violentemente scacciato. Lo scandalo sta proprio qui e l’esempio più eloquente è in quei macellai (uccièri), attori di un’orrenda legittimata carneficina nei mattatoi, che nella festa fanno i portantini del simulacro del Cristo. L’operazione registica assomma scandalo a scandalo intrecciando, mutilando con vibranti tagli degni degli uccièri, esaltando l’ebbrezza della festa con quella del pensiero che non è museificabile, nonostante i tentativi di rinchiuderlo in ospitali fattorie dell’arte.
Così lo stesso Aprile racconta il suo lavoro:

“In questo modo la grande rappresentazione popolare (l’organismo etno-antropologico della festa) viene costantemente disorganizzata e amputata da un diagramma di cattura di regia che si dispiega in umorismo picaresco (sull’exemplum della scrittura-virus di William S. Burroughs), in scavo e moltiplicazione metalinguistica e in verticalizzazione della materia audiovisiva (sulla linea del cinema inorganico di Carmelo Bene e del martirio della materia-cinema alla Brackhage). Dai tagli e dalle perforazioni eseguite sulla superficie del linguaggio (la via dell’Esausto di Samuel Beckett nell’incontro di Gilles Deleuze), e per via di astrazione cromatiche (Malevic-Klein-Jarman), e per via figurale sulla pura visibilità (Bacon), si liberano una serie di forze universali quali l’erotismo e la morte, il dolore e la gioia, la triste e cupa elaborazione del lutto e il folgorante e ilare giubilo della resurrezione dei corpi. In questo modo e per dirla infine con un celebre verso eliotiano che ritorna centrale in tutto il video, ci ritroviamo continuamente davanti all’ineluttabile trittico di “and birth and copulation and death”. In questo senso, il ritornello musicale e logo-visivo, che è nel grembo di questa Sicilia-Isola dell’insonnia, diventa insonnia dell’Isola tutta”.

Programma della manifestazione

La manifestazione è a cura dell’Associazione Orsa di Torino, del Museo del Cinema e del Dams – Università di Torino.
Il film: ‘U Gioia. Jaloffra e Filuvespri. Il Gioia. Garofani e Siesta di Mauro Aprile Zanetti [Video b/n e colore; Durata 63’; Suono 5.1; Produzione Zanetti-Macauda-Marbea, Italia 2002-03; Distribuzione E.G.S. Entertainment], sarà presentato al Cinema Massimo nei giorni 5 e 6 maggio. Agli incontri con l’autore (ore 20.30), parteciperanno alle conversazioni sui temi ispirati dall’opera “Lo scandalo e la festa” e “Il corpo in immagine”: Edoardo Fadini, Antonio Attisani, Fernando Mastropasqua, Federica Villa, Giaime Alonge, Franco Prono. Interverrà Sandro Peticca, montatore del suono del film. Per il 6 è prevista inoltre la partecipazione di Vinicio Capossela.


 


 

Il racconto della musica
Ancora su Busker's Opera di Robert Lepage
di Giangilberto Monti

 

Torniamo a parlare dello straordinario Busker's Opera di Robert Lepage, un regista (e uno spettacolo) cui abbiamo già dedicato molto spazio (come vedete dai link riportati qui sotto).

80.18 Libri & altro: la prima monografia italiana su Robert Lepage
Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, pref. di O. Ponte di Pino, Pisa, BFS, 2004, pp. 159, €15.00
di Fernando Mastropasqua

78.8 Peter & Robert, rock e teatro in tour
Il teatro di Robert Lepage nei concerti di Peter Gabriel
di Andrea Lanini

75.15 Una tecnica del destino
Prefazione a Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 2004
di Oliviero Ponte di Pino

75.14 Dal teatro alla rete al libro
Il teatro di Robert Lepage: un percorso di ricerca
di Anna Maria Monteverdi

57.60 Robert Lepage porta in Europa il nuovo allestimento della Trilogie des dragons
La recensione della prima edizione dello spettacolo (1991)
di Oliviero Ponte di Pino

46.8 attore-specchio-macchina
Robert Lepage regista e interprete
di Anna Maria Monteverdi

20.4 A proposito di Hamlet: Wilson e Lepage
Il saggio di Andy Lavender Hamlet in pieces
di Anna Maria Monteverdi

6.6 La scena trasformista di Lepage
La face cachée de la lune
di Anna Maria Monteverdi

Abbiamo chiesto un parere sullo spettacolo a Giangilberto Monti, cantautore, drammaturgo, scrittore, che in questi anni in Italia sta esplorando forme inedite di teatro musicale (o meglio, come capirete, di rapporto tra teatro e musica).


Ciò che più colpisce nell'allestimento del canadese Robert Lepage ispirato alla Beggar’s Opera di John Gay (Londra 1728) da cui Brecht e Weill prenderanno poi spunto per la loro versione (Die Dreigroschenoper, Berlino 1928) non è solo la varietà degli stili musicali utilizzati dagli attori-performers - l'intera gamma della "popular music" (rock, blues, country, ska, reggae, disco e rap) e della world music, fino alle contaminazioni tra jazz, elettronica e musica classica - o lo straordinario eclettismo dei suoi interpreti, ma la capacità di raccontare la storia del bandito tutt'altro che gentiluomo Mackie Messer con la successione pura e semplice delle canzoni.
Un modello seguito da pochissimi in Europa continentale e da nessuno in Italia, dopo la scomparsa dell'opera lirica; una sorta di musical perfetto che Andrew Lloyd Webber rincorre da tempo, ispirandosi pesantemente e non a caso alle arie operistiche più note, costruendo drammoni popolari e successi multimediali. Ed è abbastanza naturale che questo lavoro di assoluta modernità provenga dal Canada, un melting pot di cultura europea e"invasioni barbariche" nordamericane.
L'originalità di Lepage è quello di forzarne il lato ironico sfruttando proprio l'espressività musicale: le liriche sono a volte deliberatamente banali, le esecuzioni vocali sono scopiazzate dai maledetti della pop music (da Sid Vicious a Kurt Cobain), dalle popstar anglosassoni (Elton John e Celine Dion) o dai grandi crooner scomparsi (Dean Martin e Frank Sinatra), e la messinscena si ispira alla tecnologia videomusicale, cosicché l'effetto finale è una gigantesca parodia dell'industria musicale e della cultura pop televisiva, che nulla toglie alla drammaticità del racconto e alla denuncia di una società dominata da una corruzione globalizzata, ma spesso l'accentua.
Dopo la visione di questa messinscena nella nostra provinciale Milano (e va dato atto al Piccolo della bontà della proposta) spero si smetta di voler cercare a tutti i costi una differenza tra teatro, canzone, musica-teatro o teatro-musicato e si accetti che nel terzo millennio una storia possa essere raccontata in molti modi possibili, senza doverla ingabbiare in vuote categorie.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Da Grotowski all'hacker art
L'incontro con Jaromil a Cascina (Pisa), marzo 2005
di Anna Maria Monteverdi

 

Politeama di Cascina (organizzazione: Ass. Zonegemma-La Città del Teatro); Auditorium Dialma Ruggiero (La Spezia-Ass. Zonegemma e Cut up).

L'incontro è folgorante, uno di quegli incontri che ti fa "resettare il sistema", rispetto a una serie di luoghi comuni sull'arte e sul digitale.



L'incontro con Jaromil, rasta coder abruzzese, programmatore GNU/Linux, è anche un incontro con un linguaggio di codici e gerghi: crashare, spammare, hackerare, bloggare, playare... E' sorprendente vedere questo ventisettenne che a 12 anni aveva già cominciato a programmare, a “bucare sistemi” e a essere "bustato" dalla "postale", come si dice in gergo. Jaromil, fondatore nel 2000 del network di autoproduzioni dyne.org, è da tempo conosciuto nell'ambiente tecnoartistico mondiale o meglio della rete senza confini della comunità informatica e artistica perché attivissimo nel campo della creatività applicata alla creazione di software liberi (non solo free, cioè non solo gratuiti) per manipolazione video in tempo reale, da impiegare per veejaying o scenografie digitali (FreeJ), streaming audio-video e radio web (MusE). Dalle BBS all'hasciicam alla software art fino alla programmazione open source in sistema GNU/Linux. Suo è il famoso virus software o forkbomb per l'esposizione I love you-Museo di arti applicate di Francoforte. Tutte le sue creazioni sono liberamente disponibili in rete sotto licenza GNU General Public License (Fondazione per il Software Libero).



Si è connesso in rete molto giovane, nel 1991 (Neuromante, BBS): era un hacker ed è attualmente uno degli "hacker evoluti" che hanno applicato la creatività e l'intelligenza dell'hackeraggio in un campo come quello del software libero. Un sistema chiuso ti permette solo di stare dentro le regole, il punto di vista hacker è come forzarlo. Anche grazie a Jaromil la figura dell'hacker è diventata quella del programmatore puro e rigoroso, che opera diversamente e contro le regole delle multinazionali dell'informatica come la Microsoft e in generale contro i programmi proprietari, provando a ridefinire il "campo operativo" dell'informatica applicata all'arte e all'attivismo. Un incontro con la filosofia open source modifica la percezione dell'arte e la funzione dell'artista. Edmond Couchot afferma che nell’era del digitale l'opera viene generata da due autori: uno a monte e uno a valle, un programmista-progettista e uno spettatore-attuatore. Quello che sostiene implicitamente Jaromil è che nel mondo del software libero non esistono più confini autorali e limitazioni: un programma creato e riversato in rete secondo il principio del copyleft ha un'estensione creativa fuori dal controllo di colui che lo ha generato: può arrivare ad avere centinaia di migliaia di altri potenziali nuovi autori-attori-attuatori che possono modificarlo rigenerando un flusso di dati e mantenendo pubblico il codice sorgente.




Uno dei motti storici e che vale ancora è che non abbiamo né re né regole, crediamo nel consenso approssimativo e nel codice che gira. Io ho cominciato con i computer relativamente giovane, a 12 anni, poi ho iniziato a smanettarci. Ho cominciato a far parte di una comunità di persone che si scambiava libri: avere un compilatore costava tanto, un libro sull'assembler era carissimo. Era l'epoca delle BBs, prima di Internet; ci si connetteva con i numeri di telefono. Non c'era il tcp, la comunicazione passava attraverso la rete Matrix: le mail ci mettevano un giorno ad arrivare; si faceva il polling dai vari nodi per passarci i materiali. Fidonet era la rete ufficiale fondata da Vertigo con moderatore e varie aree di discussione dalla politica alla letteratura. Erano tempi in cui anche il teletext era un modo di comunicare. La Fidonet era un po' "stronza" perché ti moderava. Altri che erano contrari a questa censura fondarono Cybernet con aree di discussione cyberpunk. Altre reti erano RPGNet (sul role playing) e Peacelink. Un po' quello il contesto, quello cybernet. La cosa che mi ha spinto ad avere a che fare con il computer è stata la passione, la curiosità di sapere come funzionano, invece quello che mi ha portato al software libero è l'idea di avere il codice. Con i sistemi attuali in commercio non c'era libertà di imparare i codici. Ho iniziato ad avere a che fare con la Demo Scene, una scena molto competitiva ("Assembly" in Finlandia; The Italian Gathering – TIG - nel ’96, ‘97 e ‘98 che abbiamo organizzato a Pescara) in cui i programmatori non si scambiavano facilmente i codici, ma c'erano i team, le competizioni... I Demo sono programmi che girano in tempo reale in C: li lanci dal computer e si creano suoni e immagini. Non sono file audio messi sopra un video. Era la macchina stessa che generava suono e immagine in sincrono. L'idea è fare le cose migliori usando minor memoria possibile. A parte il fatto che erano competizioni, esibizioni di programmazione ma erano anche e soprattutto luoghi di scambio importanti. Sono ancora esistenti queste competizioni addirittura per Commodore 64 che stanno tornando in auge. Sono scene underground di crescita, di scambio. Il software libero non è però mai entrato in questi ambienti. Non è prassi.

All'inizio, quando facevi hackeraggio, davi un valore politico a questa pratica? Avevi una intenzionalità ideologica?

Sono stato "bustato" presto. Insomma, mi hanno preso. Da allora ho smesso di bucare sistemi, anche se era interessante: una delle ultime “visioni” quando bucavo sistemi erano 30 macchine che insieme mandavano musica. Facevo delle radio pirata nelle macchine che bucavo. Ma ne sono uscito bene. Ho smesso di fare cose per cui potevo essere preso; l'hacking è "metterci le mani dentro", riuscire a modificare le dinamiche di certi sistemi.
Prima che intenzionalità ideologica penso che sia stato un fatto di attitudine, insieme a un interesse e a una perversione per la macchina. L'hacking oggi è storpiato, ha sempre un significato negativo, dispregiativo. Ma chi buca lo fa spesso senza neanche sapere le conseguenze... Il sedicenne che "smanetta" con il computer è interessato al mezzo, sviluppa il suo piccolo mondo... Dove sta il problema? Si sta parlando di sistemi proprietari venduti con contratti di assistenza carissimi che la gente paga e che appunto un sedicenne riesce a bucare. Buchi nel sistema Microsoft!
L'open source è ormai una cosa accettata. Una comunità scopre il bug, lo aggiusta, segue un flusso che ha a che fare anche con chi buca, con l'hacker. Chi fa sicurezza nelle aziende non mi venga a dire che non ha mai bucato! I virus come puoi averli conosciuti, altrimenti? Ammetti che c'è una bellezza nel fare virus, è... opera lirica! Nell'ambito dell'hacking non è tutto bianco e nero, ci sono varie sfumature.

Hai cominciato a collaborare in ambito artistico con la programmazione, i primi lavori in che direzione andavano?

Ho un rapporto di immediatismo con le macchine: se ci sei ci sei, ma se non ci sei... Come per il teatro! Tra le prime rappresentazioni teatrali autoprodotte c'era uno spettacolo che si chiama Tubo catodico che parla della tv e di come questa ci condiziona... Lo portiamo in giro ancora.



Lo abbiamo fatto al Kaos tour di Roma e due anni fa a Bari grazie a Alessandro Ludovico di "Neural", poi in Austria a Graz presso ESC.mur.at.
Si tratta di una proiezione e di una messa in scena di un uomo qualsiasi; Francesco Paolo Isidoro che aveva studiato Commedia dell'Arte con Bogdanov e Claudia Contini, con la maschera neutra rappresenta l'uomo qualunque; poi un hacker gli entra nella tv... Per lo spettacolo che ancora rappresentiamo, prendiamo il segnale tv dove siamo e lo elaboriamo con il programma di Free j; sul video stesso posso applicare degli effetti per rappresentare le interferenze degli hacker aggiungendo le voci di Artaud e Burroughs. Un teatro di interferenze. Abbiamo fatto anche il sito http://tubocatodico.dyne.org. Volevamo fare un "manuale" di questo spettacolo, proprio come un manuale di una televisione per spiegare come mettere in scena lo spettacolo. "Fai questo, metti la scena così, il video"... Una specie di canovaccio open source.

Altre collaborazioni in teatro?

Ho lavorato con Roberto Paci Dalò e Isabella Bordoni. Sono artisti che stimo tantissimo. Da loro ho imparato come si sta a teatro, come si suda a fare a teatro, come si montano le luci. Con Giardini Pensili ho fatto una vera “esperienza teatrale sul campo”. La mia collaborazione era in veste di programmatore video (Animalie, Metamorfosi, Affreschi e Il Cartografo); in generale sono dell'idea che la tecnologia a teatro vada affrontata con spessore, senza rassegnarsi a ciò che esiste, creare qualcosa di nuovo rispetto alle esigenze. In precedenza di teatro avevo letto Grotowski. Beh, non solo lui! Ma mi piaceva soprattutto lui... e il Living Theatre. Dopo aver rinunciato a un lavoro d'ufficio che non sopportavo, sono partito per l'Austria; mi sono scontrato con questa cultura mitteleuropea lavorando all'Ars Electronic Center, sezione Future Lab.

Che progetti seguivi?

Avevo progettato un programma con Linux che consisteva in un tavolo interattivo per bimbi, con proiettore, video interattivi che raccontavano il futuro sulla base di risposte date dai bambini, se ci sarebbero stati o no i dinosauri, come sarebbero gli uomini...
In genere però cerco un approccio più direttamente politico. MuSE Multiple Streaming Engine per esempio è un programma libero per farsi "radio pirata" da casa. Con MuSE il progetto era di mettere dentro Mp3, ti colleghi al server tipo http://radio.autistici.org e puoi fare streaming. Io lavoravo con Fundamental Radio che trasmetteva a Linz.

Qual è la filosofia del programma libero e quale la caratteristica dei tuoi software?

Oggi tutti i prodotti, liberi o no, tutti i sistemi offrono gratuitamente il player, ma se vuoi produrre devi pagare: è uno schema per una fruizione “consumistica”. La tv la puoi accendere, la radio pure, ma non puoi parlare! Ora con Internet puoi parlare. MuSE si caratterizza proprio come programma che ti permette di parlare, di fare in rete una radio, c'è un codice sorgente, tutto software libero, c'è pure il live stream!
http://streamtime.org è un progetto di Radio Reedflute in collaborazione con Rastasoft, sviluppato con artisti e attivisti dall'Iraq e da ogni parte del mondo. Streamtime è un network of media attivisti impegnati ad assistere media locali soprattutto in aree di crisi come l'Iraq e a connetterli. Nasce da una collaborazione allargata e ispirata anche al mio progetto precedente; è da pochi giorni on line e serve per fare nascere radio streaming anche a Bagdhad; il 2 aprile abbiamo provato insieme con giornalisti, a streammare il Festival di poesia "Merbed" insieme con Salam Khedher, un poeta di là che fa un programma settimanale su una radio indipendente, Radio Nas. Il Festival si è tenuto però per motivi di sicurezza a Bassora. Non c'è spazio per qualcosa di civile a Baghdad. Così il due aprile dynebolic.org ha dato spazio e visibilità ai blogger di Baghdad con cui abbiamo rapporti diretti e che hanno una propria voce. Per il resto da questa parte siamo in una campana di vetro, ci raccontano quello che vogliono sulla guerra. Personalmente non sono mai stato a Baghdad, ma ho operato in zone di guerra, in Palestina, da cui il mio progetto di net-art http://farah.dyne.org.

A proposito dell'asciicam: come funziona e come è nata l'idea?

La web cam collegata al computer ti permette di trasformare in codice ascii, cioè in caratteri e lettere della tastiera, un frame video. Il programma si preoccupa di salvare il file e mandarlo on line: se eri collegata alla pagina ti cambiava l'immagine. Free J invece prosegue l'esperienza di MuSE. E' un software che raccoglie le cose che ho fatto in teatro; l'ho usato per Tubo catodico. E' un algoritmo, Si possono aprire video, si possono mettere in trasparenza, si possono mandare avanti e indietro, si possono mettere i testi, si possono aggiungere parole, ruotare immagini. Una programmazione procedurale del video. E' un'interfaccia “old school”, alla vecchia maniera, come sui computer di 10 anni fa, tutta di testo.

Racconti la storia del codice-virus poetico?

Le bombe logiche o forkbombs esistono nel campo dell'informatica da piu' di dieci anni... forse pure più di venti... Sono programmi che crashano il computer; il sistema riproduce se stesso in modo esponenziale finché termina le proprie risorse. A Berlino a Transmediale qualche anno fa venne premiata una certa opera di software art che era in realtà una forkbomb che mandava una frase lunghissima sullo schermo mentre i computer crashavano. Alex Mac Lean era quello che vinse con quella forkbomb. Feci presente alla giuria la mia opinione: che per me per giudicare l'opera devi guardare alla bellezza del codice che in questo caso era orrendo. Ho fatto allora una Bomba logica - una forkbomb ristretta in meno lettere possibili - che è il codice-virus che attacca i sistemi Unix, per l'esposizione I love you, Museo di arti applicate di Francoforte che il direttore chiamò "opera poetica". Questo:

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E da allora è in mostra permanente al Museo di Francoforte. (Due punti è la funzione della memoria che cresce in modo esponenziale)

Che cosa è invece Dyne:bolic?

Dyne:bolic è la distribuzione attraverso un cd che ti permette di cominciare a conoscere GNU/Linux senza installare, Linux cosa che per la maggior parte delle persone è difficile. Gira su tutti i computer, vecchi Pentium 1, su computer che non hanno hardisk... Serve ai veejay per fare audio e video, per editare audio e video, per fare immagini 3 d, sistemi di videoconferenza. Nasce da collettivi quali autistici/inventati.org, FreakNet.org, Olografix.org, Dyne.org e riassume un po' di esperienze. L'ultima versione è stata scaricata e pubblicata in 500.000 copie.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Né l’uno né l’altro: l’immagine tra parola e suono
Intervista a Paolo Rosa sulla regia di Neither, musiche di Morton Feldman e libretto di Samuel Beckett
di Andrea Balzola

 

Nei mesi di novembre e dicembre 2004, e una ripresa prevista per luglio 2005, è stato prodotto e rappresentato dal prestigioso ente lirico tedesco Staatsoper Stuttgart il “monodramma per soprano e orchestra” Neither di Morton Feldman, composto nel 1976 su libretto originale di Samuel Beckett, con il soprano Petra Hoffmann, progetto artistico e messinscena multimediale di Studio Azzurro, regia di Paolo Rosa. Uno spettacolo che, nonostante la rarità dell’esecuzione e la radicale novità dell’allestimento scenico, ha avuto uno straordinario successo di pubblico e di critica in Germania, in Italia come al solito l’evento è passato sotto silenzio.
Mentre in Italia i grandi enti teatrali e lirici continuano a essere, anzi lo sono ancor più che in passato, ostinatamente refrattari a produrre opere contemporanee e favorire la ricerca, soprattutto nel campo in continua espansione delle tecnologie multimediali, i nostri artisti più innovativi, da Raffaello Sanzio a Motus e Studio Azzurro, trovano all’estero un’ammirata attenzione e una lungimirante committenza. In questo caso, la richiesta fatta dallo Staatsoper al gruppo milanese di Studio Azzurro, già protagonista di memorabili messinscene di teatro musicale in collaborazione con il compositore italiano Giorgio Battistelli (prevalentemente realizzate all’estero) con l’uso pionieristico di proiezioni video e ambienti interattivi, ha assunto i caratteri di una vera e propria sfida, considerando la qualità assolutamente scarna della partitura musicale di Feldman e il brevissimo testo appositamente scritto da Beckett che è come un concentrato della sua poetica (lo pubblichiamo dopo l'intervista).




Morton Feldman, compositore statunitense dell’avanguardia post-bellica, ispirato dall’insegnamento di Cage e prematuramente scomparso nel 1987, è uno dei maggiori innovatori della notazione musicale contemporanea, le sue partiture miravano a un’assoluta essenzialità e a una rarefazione metafisica. L’incontro con Beckett è stato perciò non a caso uno dei punti culminanti della sua produzione…

Quando Feldman incontrò Beckett a Berlino nel 1976, per chiedergli un libretto da musicare, lo scrittore mise subito le cose in chiaro: “Signor Feldman, l’opera non mi piace”.
“Non le do torto”, replicò Feldman.
“Non gradisco che i miei testi vengano musicati”, ribadì Beckett.
“Sono perfettamente d’accordo con lei. Infatti, è raro che io utilizzi un testo. Ho scritto molti pezzi per voce, ma sono senza parole”.
“E allora”, chiese Beckett”, che cosa vorrebbe da me?”
Dopo qualche esitazione, Feldman rispose che si aspettava “la quintessenza”. Il “libretto” di Beckett, in effetti, appare come la distillazione dell’intima sostanza di tutto il suo lavoro, la sua sintesi, la sua suprema astrazione. La natura di questa astrazione, e le sue conseguenze sul piano teatrale, sono state il primo oggetto della nostra riflessione.

La poetica di Beckett è una spietata spogliazione, quasi sempre venata di un’ironia che come diceva Kiekegaard è “figlia del nulla” e perfino di un’imprevedibile tenerezza per una condizione umana di assoluta precarietà e di “metafisica” solitudine. La scrittura di Beckett registra un’attesa senza meta e conduce oltre i limiti del soggetto, in una continua oscillazione tra percezione soggettiva e sguardo oggettivo, tra personale e impersonale, tra gesto concreto e visione astratta. Il primo problema è stato dunque per voi quello di mettervi in rapporto non tanto con un soggetto identificabile nel testo ma, al contrario, con la sua assenza, con la sua imprendibilità.

Infatti, siamo partiti dall’analisi del testo. Sintomatica, ad esempio, è la quasi totale assenza di verbi di modo finito (con l’eccezione di close e part, nel terzo “verso”) e – di conseguenza - di un soggetto grammaticale identificabile. Nessuno dice “io”, “lui”, “lei”. Le “azioni” (o le situazioni) vengono sistematicamente espresse in modo indiretto (to and fro, from… to…), spesso attraverso verbi al participio, al gerundio. Chi sta parlando? Di chi, di che cosa? Chi si muove “avanti indietro nell’ombra”? Chi viene “chiamato e richiamato”? Neither ci parla di una condizione. Ma la condizione di chi?
Il testo è una sorta di resoconto intorno allo stare al mondo non di questo o di quell’individuo, ma dell’uomo in generale, dell’esserci. A descriverlo è una voce che non parla in prima, né in seconda, né in terza persona. Uno dei problemi che si pongono a una messa in scena del testo musicato (ma già alla sua messa in musica) deriva dalla inevitabile incarnazione di un dire impersonale, astratto, disincarnato, asessuato. L’ambiguità e l’astrattezza del testo, programmaticamente perseguite da Beckett, rischiano di essere vanificate, o quantomeno compromesse, dalla concreta singolarità dell’esecutore sul palco, Si trattava per noi di restituire a Neither il suo carattere astratto, di neutralizzare la presenza dell’interprete, di evitare che occupasse la posizione centrale di un personaggio, di un soggetto “lirico”. Per questo abbiamo deciso di non collocare la cantante sul palcoscenico, ma di farla affiorare dalla buca dell’orchestra. La voce che ragiona intorno a self, unself e neither, cercando di dire l’indicibile, di dare un nome alla nostra “unspeakable home”, è separata, come esiliata da ciò che contempla e descrive.

E’ come se il soggetto in scena diventasse non un personaggio ma un’azione: la ricerca di qualcosa di irrapresentabile, invisibile. E questa ricerca trova il suo “medium” nella luce.

Ad essere messa in scena è – fin dall’inizio - un’assenza, una mancanza: l’assenza, la mancanza di un Personaggio, di un Protagonista, di un Soggetto. Nel preludio, un faro disegna lo spazio che lo attende al centro del palcoscenico; in quel cerchio, nessuno si presenta. Il vero protagonista è la luce. E’ lei, nella prima parte, a generare le immagini, a creare sotto i nostri occhi quel mondo – oscillante tra self e unself, tra inner e outer shadow - che nella seconda parte cancellerà. L’altro protagonista è il movimento: un cammino che solo in apparenza procede, in realtà un incessante va-e-vieni, un eterno pendolo da un bagliore all’altro, da un polo all’altro dell’ombra, dal self all’unself, in direzione non di una meta ma di un arresto (“halt for good”); lì si rivela – cancellata ogni immagine, ogni ombra, ogni bagliore - la luce su neither, la “unspeakable home” che tutto comprende e accoglie.

Anche il palcoscenico è vuoto, è la luce che lo riempie di presenze e azioni virtuali, facendosi generatrice di immagini, miraggi che evocano il mondo beckettiano: la sedia a dondolo, il topo, l’uccello in gabbia, l’uomo nel letto, i passi, le scale, l’albero, oggetti quotidiani…

Le immagini presenti nel testo di Neither sono poche, e volutamente indefinite: ombre, bagliori, luci. Puntando alla “quintessenza” che Feldman gli chiede, Beckett rimuove i mille oggetti quotidiani, le mille presenze materiali che popolano i suoi romanzi, i suoi versi, il suo teatro. Li rimuove, e li presuppone: l’ossessiva oscillazione tra io e non io, tra un rifugio e l’altro, ad esempio, non può non far pensare al movimento ostinato e vano di quella sedia a dondolo che si ritrova in molti lavori, da Murphy a Rockaby. Questa e altre immagini che abbiamo messo in scena – il topo, l’uomo nel letto, i passi, le scale - attingono all’universo beckettiano, riscoperto e riletto attraverso la lente di Neither, e rimesso in opera attraverso i codici propri dei mezzi multimediali che utilizziamo. Ciò che mettiamo in scena attraverso questi mezzi non sono simulazioni, immagini che rimandano a cose, bensì “cose-immagine” dove al valore di rappresentazione si aggiunge e si evidenzia l’immagine in sé, la sua grammatica, la sua sostanza fisica fatta di trasformazione di forma, dilatazione di spazio, manipolazione del tempo. Immagini che vengono depositate sul palcoscenico così come affollano lo scenario della nostra quotidianità e si depositano nei nostri immaginari caratterizzando questa epoca. Proprio nella differenza tra la spogliata fisicità del mondo cui si riferiscono Beckett e Feldman e la impalpabile virtualità che respiriamo oggi, abbiamo cercato di inserire il nostro punto di vista.

Jean Luc Godard diceva che il cinema deve essere pensato e fatto per immagini, le immagini non devono tanto raccontare una storia ma sono esse stesse una narrazione che non ha la stessa logica e la stessa essenza di quella letteraria. Studio Azzurro ha sempre cercato, nella trasversalità delle sue opere tra arti visive elettroniche, cinema e teatro, una nuova modalità di narrazione visiva che procede per micro-eventi e micro-associazioni, variabili in relazione all’attenzione e alla partecipazione emotiva, immaginaria e mentale dello spettatore. Nel contesto di Neither, che rompeva qualsiasi linearità di racconto, e che forse negava la possibilità stessa di un racconto, che ruolo hanno svolto le immagini proiettate?

Come il testo di Beckett, anche la musica di Feldman ci presenta l’impossibilità di una narrazione, di una vicenda tradizionalmente intesa. Feldman rifiuta ogni sviluppo teleologico dei materiali: ciascun episodio si aggiunge al precedente senza che questo lo abbia “preparato”. Tutto sembra ricominciare ogni volta daccapo. Neppure i luoghi musicali più riconoscibili creano orizzonti di attesa determinati: anche nei momenti più intensi, la loro tensione resta chiusa in se stessa, non preme in direzione di uno scioglimento, non promette un esito. I frequenti interludi hanno appunto la funzione – come il compositore ha dichiarato - di “rompere la continuità causa-effetto”. Le nostre immagini operano nello stesso orizzonte di senso: la “storia” che mettono in scena è quella del loro stesso inesplicato emergere, del loro ricorrere, ripresentarsi e sparire, è la storia della luce che incessantemente le genera, le mette in movimento e le cancella.

Questo incessante manifestarsi e dissolversi delle forme e delle figure dalla vacuità della scena non solo evoca una metafisica di radici orientali, sicuramente interiozzata in Feldman dall’estetica musicale del suo maestro Cage e non estranea allo stesso Beckett, ma richiama una metafora del teatro, come non luogo, cornice di un vuoto che ospita le epifanie della manifestazione.

Lo spettacolo si dovrebbe ambientare in un luogo indicibile stretto tra due rifugi. Indicibile e dunque, in linea di principio, irrapresentabile. Ma quale luogo è più irrapresentabile di uno spazio scenico: nessun luogo e infiniti potenziali luoghi tutti insieme. La nostra scena è dunque il teatro stesso. La buca dell’orchestra, la pedana, le luci, il pubblico, il buio. Senza alcun significato metateatrale, solo elementi fisici che rimandano a certo universo beckettiano: la buca riempita dai suoni che imprigiona la cantante, richiama figure ricorrenti come il personaggio che spunta appena da un bidone, da una giara, da una duna o dal fango (vedi End Game, Happy Days, Commedia, eccetera). La pedana inclinata del palcoscenico utilizzata come piano di supporto per le proiezioni orizzontali. La platea, luogo di un’ultima vana ricerca di una luce che viola, immaginando il mistero del buio della “unspeakable home”.



Neither
libretto di Samuel Beckett, musiche di Morton Feldman, direzione: Roland Kluttig, drammaturgia: Sergio Morabito, Klaus Zehelein, soprano: Petra Hoffmann. Progetto video e drammaturgia multimediale : Studio Azzurro; regia: Paolo Rosa; fotografia e luci: Fabio Cirifino; sistemi tecnologici: Stefano Roveda; scenografia: Stefano Gargiulo (Mubeiò); Costume: Berna Todisco (Mubeiò); assistenza alla regia: Elisa Giardina Papa; consulenza letteraria e drammaturgica: Umberto Fiori; produzione esecutiva: Laura D’Amore; operatore video: Mario Coccimiglio; montaggio video: Antonio Augugliaro; assistente al montaggio video: Matteo Bini; collaborazione al montaggio video e 3D: Marco Barsottini, Lorenzo Sarti, Daniele De Palma; collaborazione al progetto e al montaggio: Gianluca Beccari; sistemi informatici – hardware: Dario Gavezotti, Alberto Bernocchi Massagli; responsabile tecnico dell’allestimento multimediale: Emanuele Siboni; allestimento video: 235 Media; relazioni esterne: Delphine Tonglet. Coordinamento organizzativo: Reiner Bumke (Studio Azzurro) Axel Wirths (235 Media).
Opernhaus – Stuttgart 2004/2005.



Samuel Beckett – Neither (Né-uno-né-l’altro) (1976)
Libretto per la musica di Morton Feldman

avanti indietro nell’ombra dall’ombra interna a quella esterna
--
dall’io impenetrabile all’impenetrabile non-io tramite né-uno-né-l’altro
--
come tra due rifugi illuminati le cui porte una volta stavano dolcemente vicine,
una volta distolte dal separarsi ancora dolcemente
--
chiamato e richiamato e rispedito via
--
incurante del cammino, intento a questo bagliore o all’altro
--
inavvertito rumore di passi unico suono
--
poi finalmente fermo davvero, davvero assente da sé e dall’altro
--
allora nessun suono
--
allora dolcemente la luce imperitura su quell’inavvertito né-uno-né-l’altro
--
dimora indicibile


(trad. di Umberto Fiori)


 


 

Muti si dimette, esplode la crisi della Scala
Dopo mesi di tira e molla, tutti perdenti nel pasticciaccio scaligero
di Redazione ateatro

 

Riccardo Muti non è più il direttore artistico del Teatro alla Scala.
Le sue dimissioni sono arrivate il 2 aprile, al culmine di una delle più gravi crisi del prestigioso teatro lirico milanese.
Della vicenda ateatro 82 parla nel suo editoriale, altre info sul "pasticciaccio brutto della Scala" - in effetti un piccolo dossier sulla vicenda - si possono leggere nei forum.


 


 

La morte di Giovanni Paolo II "attore di dio"
Una nota sul Karol Wojtyla, pontefice, attore e drammaturgo
di Redazione ateatro

 

E' scomparso la sera del 2 aprile 2005 Karol Wojtyla, nel suo ventiseiesimo anno di pontificato.
Il giovane Wojtyla ha avuto un rapporto non episodico con il teatro, soprattutto negli anni dell'occupazione nazista della Polonia. Nel libro autobiografico Dono e mistero ricorda i suoi esordi teatrali: "Nel periodo del ginnasio ero preso soprattutto dalla passione per la letteratura, in particolare per quella drammatica, e per il teatro. A quest'ultimo m'aveva iniziato Mieczyslaw Kotlarczyk, insegnante di lingua polacca…".
Nel 1938, quando Wojtyla fu costretto a lasciare Wadowice per andare all’Università a Cracovia, continuò a tenersi in contatto con il suo maestro ed amico attraverso lettere frequenti. Poi, dopo l’invasione della Polonia da parte dei nazisti, anche Kotlarczyk dovette fuggire a Cracovia e andò a vivere da lui con la moglie Sofia. "Abitavamo insieme", scrive Wojtyla in Dono e mistero. "Io lavoravo come operaio, lui inizialmente come tranviere e, in seguito, come impiegato in un ufficio. Condividendo la stessa casa, potevamo non solo continuare i nostri discorsi sul teatro, ma anche tentarne attuazioni concrete, che assumevano appunto il carattere di teatro della parola. Era un teatro molto semplice. La parte scenica e decorativa era ridotta al minimo; l'impegno si concentrava essenzialmente nella recitazione del testo poetico".
Ben presto la casa di Wojtyla, nel seminterrato in via Tyniecka, a Cracovia, divenne una scuola. Nelle due stanze dove vivevano Karol, suo padre e i coniugi Kotlarczyk, alla sera arrivavano altri amici, attori, registi.
Le prove si tenevano il mercoledì e il sabato, nella cucina gelida, illuminata da una candela. I giovani attori arrivavano guardinghi, alla chetichella, temevano un'irruzione o una retata dei nazisti. Mantenere il segreto intorno a quegli incontri teatrali era indispensabile; si rischiavano altrimenti gravi punizioni da parte dei nazisti e anche la deportazione nei Lager. Le recite avvenivano in case private, davanti ad un ristretto gruppo di conoscenti e di invitati, i quali avevano uno specifico interesse per la letteratura ed erano, in qualche modo, degli "iniziati". In quegli anni tutti i suoi amici erano certi che il giovane Karol sarebbe diventato un grande attore e un ottimo regista.

Qui di seguito, alcune informazioni sull'attività drammaturgica e poetica del pontefice (che per la pubblicazione usò spesso pesudonimi come Andrzej Jawien, Stanislaw A. Gruda, Piotr Jasien).

I primi scritti di Karol Wojtyla risalgono a quando aveva 19 anni, nel 1939: sono i versi «Sulla tua bianca tomba» per la madre e un Magnificat, mentre l’anno successivo compone i drammi David, andato perduto, Giobbe e Geremia, pubblicati in Poesie e drammi (1980), incentrati sulla ricerca del senso dei tragici avvenimenti storici che stavano interessando il paese: durante l’occupazione tedesca della Polonia debutta come regista, drammaturgo e organizzatore durante l'occupazione tedesca della Polonia con il Teatr Rapsodiczny, il Teatro Rapsodico clandestino dell'Università Jagellonica di Cracovia. Nel 1949 scrive il dramma Fratello del nostro Dio (1949; pubblicato nel 1979, rappresentato nel 1980), ispirato alla vicenda di Adam Chmielowski (santificato nell'89), e dedicato al confronto tra il gesto estetico e l'azione etica, alla possibilità e alla necessità di una conciliazione tra la concreta partecipazione ai processi storici (incarnata dal protagonista, Fratello Albert), la libertà (l'ignoto rivoluzionario) e la realizzazione dei valori (l'artista Max).
La bottega dell'orefice (pubblicato nel 1960, rappresentato nel 1979) è - nelle parole dell'autore - una «meditazione sul sacramento del matrimonio» in forma di dialogo-monologo.
Nel 1987 La bottega dell'oreficeè diventato anche un film con la regia di Michael Anderson e Burt Lancaster nei panni del protagonista, poi un radiodramma con Raul Grassilli, Walter Maestosi, Anna Buonaiuto e Milena Vukotic, oltre ad aver avuto varie realizzazioni teatrali anche in Italia. Giobbe è stato messo in scena da Ugo Pagliai e Paola Gassman nel 1985, con la regia di Zanussi.
Nel 1997 Krzysztof Zanussi ha realizzato una versione cinematografica di Fratello del nostro Dio, protagonisti Piotr Adamczyk e Riccardo Cucciolla.
L'intera opera drammaturgica di W. è ispirata ai principi del teatro-parola di Mieczyslaw Kotlarski. Il futuro pontefice (Giovanni Paolo II) ha dedicato al teatro rapsodico quattro saggi critici, comparsi sul settimanale “Tygodnik Powszechny” sotto lo pseudonimo di Andrzej Jawienie negli anni tra il 1952 e il '61: vi si sottolinea il ruolo della parola come proto-elemento in un teatro che vede la fabula ridotta a semplice illustrazione di una problematica, e l'attore alla sua incarnazione.
Nel 2003 con il titolo Trittico romano, pubblicato dalla Libreria editrice vaticana, sono uscite le sue meditazioni in forma poetica. Il Trittico si chiude con la parte dedicata alla Cappella Sistina, che propone uno sguardo sul senso dei conclavi e sulla morte: «La stirpe, cui è stata affidata la tutela del lascito delle chiavi, si riunisce qui, lasciandosi circondare dalla policroma Sistina, da questa visione che Michelangelo ci ha lasciato. Era così nell'agosto e poi nell'ottobre, del memorabile anno dei due conclavi (il 1978, ndr), e così sarà ancora, quando se ne presenterà l'esigenza, dopo la mia morte. (....) E' dato all'uomo di morire una volta sola e poi il Giudizio. Una finale trasparenza di luce. La trasparenza degli eventi. La trasparenza delle coscienze».
Nel 2001 e nel 2003 Bompiani ha pubblicato, a cura di Giovanni Reale, l'opera omnia letteraria e tutti i testi filosofici e i saggi integrativi, scritti nell’arco del trentennio che va dal 1948 (anno della laurea in teologia presso l'Angelicum di Roma) all'ottobre 1978 (quando fu eletto papa). Se il volume sulle opere letterarie, scrive il professor Reale, «forniva un ritratto a tutto tondo del Wojtyla " poeta" (...) la filosofia wojtyliana si muove certamente nel solco della tradizione classica, e in particolare aristotelica-tomista, ma essa viene arricchita, da un lato, con l'esperienza della mistica carmelitana e, dall'altro, con gli strumenti della fenomenologia husserliana e scheleriana. L'attenzione e l'analisi sono rivolte soprattutto all'uomo come soggetto conoscente e libero».
Un ulteriore tassello della produzione letteraria di Karol Wojtyla si è aggiunto nel settembre 2004 con «Le poesie giovanili», del periodo precedente alla sua vocazione sacerdotale, pubblicate in edizione italiana, in un volume edito dalle Edizioni Studium, in collaborazione con l'università Lumsa di Roma. Le poesie sono proposte con l'epistolario relativo agli anni 1939/40.

Pasqua 2005, una delle ultime immagini del papa: Giovanni Paolo II guarda sul video la folla che segue la Via Crucis al Colosseo che guarda sul video Giovanni Paolo II che guarda sul video la folla che guarda...


 


 

Ciao, Renzo: è scomparso il fondatore del Teatro Tascabile di Bergamo
Renzo Vescovi, fondatore del TTB e animatore della vita culturale bergamasca, scomparso ieri
di Redazione ateatro

 

E’ scomparso ieri sera, in seguito a una polmonite fulminante, Renzo Vescovi, dal 1973 alla guida del Teatro Tascabile di Bergamo e negli ultimi decenni animatore della vita culturale e teatrale della sua città.
Con il suo gruppo, dopo il successo del primo spettacolo, presentato anche alla Biennale di Venezia del 1975, L'amor comenza, che proponeva testi medievali insieme a canti, giochi acrobatici e danze, si fece subito tramite e portavoce in Italia delle visioni teatrali di Jerzy Grotowski e dell'Odin Teatret di Eugenio Barba, diventando un punto di riferimento per il terzo teatro nel nostro paese.
Negli ultimi anni, l’interesse del gruppo si era concentrato sul teatro classico orientale e sulla danza Orissi, continuando in ogni caso a proporre spettacoli di strada con ampio uso di trampoli e numeri acrobatici, sulla scia di Invito alla festa (1977).
La camera ardente sarà allestita presso la sede del Teatro tascabile, ex Monastero del Carmine, P.za Mascheroni - angolo Via Boccola, Città Alta.
I funerali avranno luogo mercoledì 6 aprile alle ore 10.30 nella Chiesa della Madonna del Carmine partendo dalla sede del Teatro Tascabile.


 


 


Mai morti alla Spezia
di www.cut-up.net

 

Il debutto di Mai morti alla Maratona di Milano, con la prima versione del testo.


 


 

Radicale e imprevedibile: la Biennale Teatro 2005 di Romeo Castellucci
Presentata a Milano insieme alla Biennale Danza e alla Biennale Musica
di Redazione ateatro

 

E’ difficile immaginare come potrà essere la Biennale Teatro 2005, che Romeo Castellucci ha presentato a Milano sotto l’insegna Pompei. Il romanzo della cenere. Perché tutti i gruppi invitati sono cresciuti e lavorano fuori dai circuiti dei festival (e in genere dai normali circuiti teatrali). Perché il fattore comune è, nelle parole dello stesso Castellucci, la radicale messa in discussione del concetto di rappresentazione. Perché nessuno di essi parte dall’illustrazione di un testo (nella tradizione dell’avanguardia), e perché l’uso delle nuove tecnologie – quella che Castellucci ha definito “una moderna superstizione” – è vicino alla zero. Perché tra gli artisti chiami direttamente dal direttore per l’anno 2005 della prestigiosa istituzione veneziana ci sono diversi “non teatranti”, artisti visivi o del suono, chiamati a misurarsi con la dimensione teatrale.
Ed è difficile anche perché il metodo di reclutamento, per così dire, è stato assai curioso, semplice e radicale come nello stile della Societas Raffaello Sanzio: un bando in forma di una semplice lettera cui hanno risposto circa 700 tra gruppi e compagnie di cinque continenti, in una sorta di grande censimento dell’off mondiale.
Insomma, una ricognizione sulla necessità e sul senso del teatro, oggi, che non parte dalle grandi istituzioni della scena e dai maestri riconosciuti, ma va a scavare nei margini, nelle pieghe nascoste, là dove il teatro è insieme una necessità e un problema irrisolto.
Così per 11 giorni, dal 15 al 25 settembre, l’Arsenale diventerà per undici giorni una città del teatro, con decine di performance, installazioni, spettacoli, la griglia in cui raccontarsi, appunto, un “romanzo della cenere”: quel romanzo che i singoli spettacoli, con il rifiuto della centralità del testo e la problematizzazione della rappresentazione, vogliono eludere e che dunque ogni spettatore dovrà provare a ricostruire partendo dalla propria esperienza.

Il prgramma completo nella pagina dei Festival di ateatro.

Altre info e avant-programme sul sito della Biennale.


 


 

www.dramma.it: le novità di aprile
Testi, tesi, materiali, concorsi, recensioni...
di www.dramma.it

 

Online il nuovo numero di www.dramma.it

Il dramma del mese è "Storie di scorie" di Ulderico Pesce. Lo spettacolo è in scena, fino al 24 aprile, al Teatro dell'Orologio di Roma.
Il libro del mese è: "Autori in scena" di Tiberia De Matteis.
Pubblicate due nuove tesi di laurea nella sezione Saggi e tesi : "Tra scrittura e scritture. La drammaturgia italiana al passaggio del terzo millennio" di Chiara Alessi e "Medea madre assassina" di Silvia Bertoldo
Nella sezione "Finestre" l'ultimo numero delle newsletter di Ateatro e la newsletter di aprile del Teatro di nessuno.
Tra gli ultimi arrivi della libreria virtuale, nuovi interessanti testi.
Scaricabili i bandi dei numerosi premi drammaturgici di prossima scadenza tra cui l'attesissimo "Premio Riccione".
Ecco le prossime novità italiane al debutto. Se vuoi segnalarne di nuove
E' sempre possibile iscriversi on line al corso a distanza di drammaturgia nella prospettiva del Teatro totale.

Le novità della sezione Drammaturgie :
Visita l'archivio completo degli articoli e recensioni pubblicati (oltre 320). Grazie ad un motore di ricerca potrai trovare facilmente ciò che ti interessa.
Gli articoli: "L’illusion comique di Pierre Corneille: un discorso sul teatro e sulla realtà" di Maria Dolores Pesce, "Fabrizio Bajec: primo canto per una rivelazione" di Tiziano Fratus., "La parola contesa" di Daniela Pandolfi.
Le numerose recensioni (a cura di Maria Dolores Pesce, Daniela Pandolfi, Tiziano Fratus, Vincenzo Morvillo, Maurizio Giordano, Sara Greco e Marcello Isidori) tra cui vi segnaliamo: "Lettera allo sposo" di Botho Strauss, "Nome di battaglia Lia" di Renato Sarti, "Storie di scorie" di Ulderico Pesce, "Italiani cincali" di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta, "Amleto in farsa tragedia" di Ugo Chiti, "Scemo di guerra" di Ascanio Celestini, "Lamìa" di Luisa Stella, "Iniziali BCGLF" di Lindo Ferretti e Barberio Corsetti.
E poi non dimenticare i comunicati stampa, i , l'archivio dei siti teatrali, quello dei traduttori teatrali, scrivi una scena del copione interattivo, le scuole di scrittura teatrale, la Bacheca spettacoli, i cartelloni teatrali.


 


 

E' nata l'Associazione per il Teatro Italiano
Assemblea il 18 aprile al Teatro Due di Roma
di 'Associazione per il Teatro Italiano artisti, operatori e tecnici

 

Cari amici e colleghi,

è finalmente nata l'Associazione per il Teatro Italiano artisti, operatori e tecnici.
Gli impegni dell'Associazione saranno numerosi e speriamo tutti di poter diventare un interlocutore significativo nel dibattito sul futuro dello spettacolo dal vivo in Italia.

Abbiamo firmato in tanti l'appello al centrosinistra, le nostre istanze sono arrivate a tutte quelle forze politiche che si stanno battendo per capovolgere la politica oscurantista della maggioranza di governo. Il percorso è ancora lungo e la situazione del nostro teatro estremamente preoccupante.

Ci attende, quindi, una mobilitazione sui temi che più ci stanno a cuore e dovremo essere in tanti, sia per poter discutere ed elaborare una proposta ricca di contenuti, sia per poter opporci significativamente a scelte non condivisibili.

E' per questo che siete tutti invitati a partecipare all'assemblea del 18 aprile al Teatro Due di Roma, ore 17, il cui ordine del giorno sarà:

1) presentazione dell'Associazione (e del suo sito web) e informazione sulle sue finalità;
2) tesseramento e determinazione della quota associativa annuale;
3) proposta nomina soci onorari;
4) preparazione dell'assemblea di lunedì 9 maggio in cui si discuterà dell?evoluzione della situazione politica e di un convegno-seminario sui problemi del teatro italiano, organizzato dalla nostra Associazione, da tenersi prima dell'estate;
4) varie ed eventuali.

Vi preghiamo caldamente di passare parola a quanti più colleghi; in questa fase di avvio del dibattito e del nostro lavoro abbiamo bisogno di ampliare il più possibile i nostri contatti con tutti gli artisti, i tecnici e gli operatori del teatro italiano.

Un caro saluto a tutti voi,



Alberto Ardizzone, Maricla Boggio, Benedetta Buccellato, Micaela Esdra, Antonio Francioni, Rosa Menduni, Mario Missiroli, Beppe Navello, Walter Pagliaro, Giuditta Peliti, Ubaldo Soddu.


 


 

Santarcangelo dei Teatro 2005: l'avant programme
Dal 1° al 10 luglio
di Santarcangelo dei Teatri

 

Santarcangelo dei Teatri
International Theatre Festival
35^ edizione

1 – 10 luglio 2005

La 35^ edizione del Festival Internazionale di Santarcangelo dei Teatri si terrà dall’1 al 10 luglio 2005 a Santarcangelo di Romagna, con la direzione artistica di Silvio Castiglioni e la collaborazione di Andrea Nanni, Silvia Bottiroli e Massimo Eusebio.

L’immagine della 35^ edizione, un intreccio di fili sottili, è una “scultura leggera” realizzata con aghi e crini di cavallo dalla giovane artista tedesca Christiane Löhr (“Kleine Landschaft” 2005) ed esprime il segno di Santarcangelo 2005 che, osservando e ascoltando quel che sta accadendo sulla scena italiana e straniera, lontano dai grandi palcoscenici, individua tragitti nuovi o inconsueti, tenaci e fragili insieme. Non a caso il programma è costituito in gran parte da lavori di artisti emergenti, capaci di mettersi in gioco alla ricerca di linguaggi inediti, anche se non mancano progetti di realtà consolidate che sentono il bisogno di confrontarsi con stimoli sempre nuovi. “Un festival -dichiara la direzione artistica- che dà spazio a incontri inaspettati sottolineando la necessità di scambi fecondi per un naturale ricambio, non solo generazionale, del panorama artistico cercando, con tenacia e senza sottrarsi alla sfida della fragilità, un contatto reale tra scena e platea”.

“La scena è un coltello puntato alla gola della realtà", prosegue la direzione artistica, che lancia uno sguardo a tutto campo sulla relazione tra “la scena e l’altro”. In particolare emergono due ambiti d’osservazione: la scena e le arti, l’incontro fra teatro, danza e performance con musica e arti visive, e la scena e la società, quando il teatro si fa spazio civile per riflettere con forme nuove sulla complessità del quotidiano.



La Tragedia Endogonidia della Socìetas Raffaello Sanzio.

Tra i protagonisti dell’incontro fra scena e arti, precisamente fra scena e musica spicca uno dei gruppi più prestigiosi del panorama italiano, Socìetas Raffaello Sanzio, con la prima assoluta dell’VIII Crescita della Tragedia Endogonidia, un concerto teatrale creato con il compositore americano Scott Gibbons, autore di musiche originali per il gruppo di Cesena dal 1998. Un’altra prima assoluta è quella di MK, elemento di punta della nuova danza italiana, che nel progetto Sostanza sonora, coprodotto con Santarcangelo, dialoga con la formazione musicale Esc, mentre uno dei gruppi culto degli anni ’90 Fanny e Alexander presenta due tappe dichiaratamente “concertistiche” del progetto “Ada, cronaca familiare” da Vladimir Nabokov: Adescamenti e Vaniada, per strumenti e voci.
Un DJ set che non concede tregua scandisce Fine, spettacolo di Luca Camilletti (Kinkaleri) per la Compagnia Laboratorio Nove che “include”, secondo la dicitura usata per le tracce musicali di un CD, Le presidentesse di Werner Schwab. Fra teatro, canto e musica si snodano anche i lavori di due inedite formazioni, quella di Cristian Ceresoli e Antonio Pizzicato, in scena con Voce sola e quella di Federica Santoro e Daniela Cattivelli (Cane) che in Psicosi delle 4 e 48 e Preludio mescolano i versi shakespeariani del Tito Andronico all’ultimo testo di Sarah Kane, tra installazioni, performances, ambienti sonori e glamour.
Nel percorso fra scena e arti visive spicca il nome di uno degli ospiti più importanti della 35^ edizione, il coreografo portoghese João Fiadeiro, giovane maestro della nuova danza, ammirato in tutta Europa, per la prima volta in Italia con I am here, dove il corpo diventa materia pittorica su di una tela bianca, in un curioso “action painting” che si ispira all’immaginario dell’artista portoghese Helena Almeida, chiamata a rappresentare il Portogallo alla Biennale di Venezia. Altri due lavori ai confini fra le arti sono quelli di due inedite formazioni: Luisa Cortesi e Massimo Barzagli, una danzatrice e un artista visivo che in Di stanze si aggirano negli ambienti di una casa anni ’70, dal salotto al bagno, e il duo Eva Geatti e Nicola Toffolini, una performer e un artista visivo giovanissimi che presentano due progetti – Avvisaglie di un cedimento strutturale e, in prima assoluta, Prove di condizionamento –, targati Cosmesi, formazione vincitrice della sezione spettacolo del Premio Iceberg.



Amid the clouds.

A segnare l’incontro fra scena e società si collocano invece altre prestigiose ospitalità, in primis quella del giovane regista e drammaturgo iraniano Amir Reza Koohestani, in prima nazionale con Amid the clouds, una storia sull’immigrazione, quella di Imour e Zina che attraversano il mare per arrivare alla “terra promessa” dell’Occidente. Mentre fra identità e differenza si muovono due prime assolute: L’omosessuale o della difficoltà di esprimersi di Copi, seconda tappa di Egum Teatro nel mondo dell’autore argentino, prodotta da Santarcangelo dei Teatri, e Le cose sottili nell’aria di Massimo Sgorbani, interpretato dall’inedita formazione Lucia Ragni e Antonio Iuorio.
Teatro Persona, in prima nazionale con Theresienstadt, racconta della “città che Hitler regalò agli ebrei”, Raimondo Brandi in Security osserva da vicino l’11 settembre e le strategie geopolitiche dell’attentato, Patrizio Esposito nel progetto fotografico Monitor Iraq 1991 – 2003 racconta con delle polaroid come i media hanno raffigurato la guerra in Iraq.

La particolare attenzione dedicata da Santarcangelo dei Teatri ai nuovi linguaggi e ai nuovi artisti si consolida anche nella relazione con tre manifestazioni rivolte agli emergenti e alla giovane scena, il Premio Scenario, il Premio Iceberg e il Premio Ustica, i cui vincitori saranno ospitati nell’ambito della 35^ edizione. Tra i nomi già resi noti quelli relativi al Premio Iceberg, di cui, oltre al già citato Cosmesi, il festival ospiterà Francesca Proia (segnalata dalla giura del premio bolognese) con Buio luce buio e Qualcosa da Sala (prima assoluta).

La programmazione musicale si snoda all’insegna della contaminazione, fondendo musica elettronica, da discoteca, jazz, pop, etnica con concerti di livello internazionale e gruppi provenienti da Giappone, Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Italia, Portogallo, Angola, Senegal, Algeria e India, mentre il Circo Inferno Cabaret è protagonista di “identità liquide”, un nuovo progetto di incontri sul tema delle identità individuali e collettive che si determinano nelle dimensioni spazio temporali del nostro presente.

Per informazioni www.santarcangelofestival.com tel. 0541.626185


 



Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
copyright Oliviero Ponte di Pino 2001, 2002