A pranzo con le Ariette

Seguito da un Frettoloso diario da Santarcangelo

Pubblicato il 27/07/2001 / di / ateatro n. 016

Guardavo il Teatro da mangiare? delle Ariette, a Santarcangelo, e mi veniva da piangere. Ho trattenuto le lacrime, mi sembrava una reazione sproporzionata e fuori luogo.
Ero in una bella casa, con una stupenda vista sulle colline romagnole (e dal giardino si vedeva persino il mare!). Seduti come me intorno al tavolo c’erano venti-venticinque persone, tra cui alcuni amici. Sapevo più o meno il lavoro che stavano facendo Paola, Stefano e Maurizio, me ne avevano parlato gli amici, avevo letto qualcosa e visitato il sito.. Alla mattina li avevo già incontrati, erano le nove e mezza – stavano già tirando la foglia, pulendo le carote… – e mi ero detto: “Che simpatici!”. Adesso mi stavano preparando un pranzo ottimo (e per di più con ingredienti rigorosamente biologici), raccontavano la loro storia, e sentivo le lacrime inumidirmi lo sguardo.
Mi sembrava una reazione eccessiva, la mia – peggio, in contrasto con la situazione in cui mi trovavo, tra cose che amavo: cibo, teatro, amici … E, ingrediente che non guasta mai, c’era perfino un pizzico d’autoironia, in quel loro raccontare. Poi ho scoperto che la stessa emozione – una commozione travolgente, persistente – l’hanno provata molti altri spettatori delle Ariette. Non tutti quelli con cui ho parlato, ma quasi.
Così ho pensato di scrivere questa lettera, agli amici delle Ariette – e per chi avesse voglia di leggerla.
Quando ci siamo tutti si sistemati ai nostri posti, Paola, al suono dell’Internazionale, con il pugno alzato, ha cominciato a raccontare che, dopo la caduta del muro nell’89, avevano abbandonato il teatro, avevano scelto il silenzio e si erano messi a fare i contadini, in una valle sulle colline sopra Bologna, a Castello di Serravalle. E io – e noi – avevamo iniziato a mangiare le verdure del loro orto, come antipasto, e a divorare quel pane (“Cotto sul testo”, spiegava Stefano) e bere quel vino.
Nel frattempo, mentre questo strano pranzo procedeva tra brandelli di vecchi spettacoli e ricordi personali, tra informazioni sull’esperienza contadina e sul cibo (rigorosamente biologico!) che ci veniva servito, si srotolava anche la ritualità del cibo: la preparazione e la cottura, i piatti e le bottiglie portate in tavola (e spezzare il pane, e versare il vino). Quei gesti che ripetiamo mille volte, ogni giorno, e che senza che ce ne accorgiamo possono assumere una potenza magica: perché mettono in relazione il microcosmo e il macrocosmo, la più privata delle esperienze con la catena dell’essere.
La più privata delle esperienze… Perché le Ariette ci confidano anche esperienze molto personali, private – vere: il rapporto con gli animali della fattoria (guardiamo le foto che Paola ha fatto girare tra i commensali), il fatto di avere o non avere avuto bambini…
Mentre ascolto queste confidenze, e intanto continuo a mangiare e butto giù un altro sorso di vino per distrarre le lacrime e stordirmi un po’, penso: “Non importa tanto quello che dicono o fanno, che sia bello o che sia brutto, possono essere bravi attori o cani” (mentre “teatralmente” sono bravi e astuti – efficacissimi, a giudicare dalla mia commozione). “Ma non importa: l’importante è quello che sono, e perché sentono il bisogno di fare quello che fanno”.
(C’è un rumore sapiente, a un certo punto: quello dei gusci di noci o mandorle che vengono spezzati…)
Perché è un gesto estremo, quello di mettersi così a nudo, senza filtri, senza porsi un limite. Forse un po’ ambiguo, verrebbe da dire, nell’epoca del Grande fratello, anche se qui ci sono certo delle diversità: in primo luogo c’è il tentativo di trasmettere un’esperienza (e a pochi ospiti). Poi c’è come un aspetto di espiazione, di dolorosa confessione pubblica. E, ancora, c’è chiaro il fatto di operare in un ambito estetico come quello del teatro, anche se ai suoi margini, come per ridefinirne i confini rimescolando l’arte con la vita.
Del resto questa non è una novità. Molta arte del Novecento si è affilata a distruggere il confine che separa l’arte e la vita. Trasformare la nostra esistenza, il mondo intero in un’opera d’arte (per certi aspetti, ci hanno provato anche Hitler e Stalin). E simmetricamente assimilare la realtà, anche nei suoi aspetti più minimi e degradati, all’opera d’arte. Forse è proprio sull’onda di questo estetismo, di questa generosa confusione tra l’anima e la forma (come avrebbe detto Lukács, che le Ariette, prima della caduta del muro, avranno certamente letto) che l’arte moderna ha perso il senso della tragedia.
Invece, davanti a questo strip tease dell’anima (e di una storia individuale e collettiva, generazionale), penso: “Questa è la cosa più tragica che ho visto in questi anni”, anche se poi non c’è assolutamente nulla di tragico, anzi: per certi aspetti, scherzo tra me e me, potrebbe essere un’idea promozionale per qualche ristorante per palati fini e colti, il “pranzo spettacolo”, magari con qualche cabarettista…
Cerco di sorridere, e invece sono qui, turbato e commosso, perché quella che mi si srotola davanti è la mia storia. E sento – e mi fa male – come sono piccole, e fragili, le nostre vite. La mia, proprio come quella di Stefano, Paola, Maurizio, che mi stanno raccontando la loro esperienza, e come quella di chi siede accanto a me, intorno al tavolo. In fondo quella che raccontano le Ariette è la storia di una generazione, della mia generazione, che aveva creduto di poter cambiare il mondo, che s’illudeva di aver trovato gli strumenti per farlo (un po’ anche di aver trovato una chiave ideologica per riuscire a farlo, e in questo è una generazione diversa da quelle che sono venute dopo), e che a un certo punto s’è accorta che questo strumento non serviva, che il mondo andava in tutta un’altra direzione, e che la loro vita, e il loro destino, stava andando verso l’autodistruzione o verso una di quelle secche della storia dove non accade più nulla, o almeno così pare. Per certi aspetti, non è un errore: è una colpa. Una tragedia individuale e di popolo.
Ma che coraggio ci vuole per assumerla su di sé, questa colpa (insomma, per dire che non è stata un’ingenuità giovanile, che non sono stati i cattivi maestri, che non è l’eterogenesi dei fini: è la mia colpa). E che disperazione ci vuole per decidere di cercare in questo modo il senso del proprio destino. Così, in pubblico, collettivamente, come se di suo, questo destino, nel suo semplice e puro esistere, un senso non lo potesse più avere, più trovare.
Questo, credo, è il senso tragico dell’esperienza che sto vivendo oggi, insieme alle Ariette e ad altri 25 commensali. Questo Teatro da mangiare? ci immerge nel flusso della vita – un pranzo, il ciclo delle stagioni cui rimandano i prodotti della terra – e da questo caos cerca di estrarre una forma, un segno.
(Intanto faccio queste riflessioni, sui taglieri posti tutt’intorno al tavolo, Stefano arrotola la sfoglia che ha iniziato a tirare alla mattina, prende il coltello e inizia ad affondarlo con precisione antica.)
Come nelle tragedie antiche, la colpa resta, ma viene portata alla luce. Ma la catena della colpa, a questo punto, può forse essere spezzata? (Ma intanto, a chiudere lo spettacolo delle Ariette, si sente cantare Je ne regrette rien, naturalmente…)
Così, mentre finisco di scrivere e rileggere questi appunti, su uno strano e ottimo pranzo, ho nella testa le impressioni ancora confuse di quello che è successo in questi giorni a Genova, e di tutte le memorie che mi ha riportato alla luce, dagli anni Settanta, e delle lotte e delle tragedie di quegli anni, e di come è cominciata e di come è andata a finire, e di come tante cose fossero orribilmente prevedibili. E mi chiedo allora se questa tragedia – la tragedia che le Ariette hanno vissuto e rivissuto – debba ancora una volta ricominciare a sorgere dal ribollire confuso della vita, dei suoi slanci, delle sue ingenuità e della sua ottusa ferocia. O se noi, in qualche modo purificati da quello che abbiamo vissuto e visto, dalla forma fragile che ha trovato la nostra esperienza, possiamo essere solo testimoni – un po’ cinici (e dunque disincantati e lontani), un po’ nostalgici (e magari pronti a ributtarci nella lotta a ogni sventolar di bandiere). O se nel nostro destino possiamo ancora cercare un punto d’equilibrio tra le ingenuità e il disincanto.
Intanto, per adesso, a voi delle Ariette grazie della vostra storia e delle vostre tagliatelle, e a chi ha avuto la pazienza di leggere si qui, la voglia di sapere che ne pensate.

 

Un frettoloso diario da Santarcangelo

Mercoledì. Partenza tra le sei e le sette da Milano. Arrivo a Santarcangelo verso le dieci e mezza, e nello spiazzo assolato del parcheggio, proprio dietro il tendone del Circo Inferno Cabaret, come l’anno scorso, incontro Paolo con la macchina di Tournée (la trasmissione di Raitre per cui devo curare qualche diretta in questi tre giorni romagnoli) e la sue belle decalcomanie di Radiotre.
A mezzogiorno, più o meno, primo collegamento in diretta con Angelo Generali e Aurelia Camporesi (c’era anche Petra, piccola piccola sotto un sole che uccide) sull’Aida da stalla (i testi glieli ha trovato Remo Melloni, gran custode dei segreti dei burattini). L’anno scorso, sempre per Tournée avevo usati i testi del babbo di Aurelia, Piero, come leit-motiv dei collegamenti e mi sembra di buon auspicio ripartire da qui. Poi arrivano, sempre in diretta, Luigi e Marco di Fanny & Alexander, con il disco delle musiche di Luigi Ceccarelli per il loroRequiem. Insomma, da tutte e due le parti teatro e musica. Nell’insieme sole a picco, su quello spiazzo sterrato, da far colare il cervello fuori dalle orecchie.
Svaporato, chiedo aiuto a Cri (alias Cristina Ventrucci): arriverà un meraviglioso gazebo (che pone qualche difficoltà ai solerti addetti al montaggio, che evidentemente non hanno fatto molto campeggio) che ribattezzo PalaTournée: riparerà l’inviato & gli ospiti dal micidiale sole romagnolo.
A pranzo con Renato (Palazzi) – obbligatorie le tagliatelle di Zaghini – che racconta delle disavventure del suo bel libro kantoriano.
Primo pomeriggio, gita verso Gambettola, nella gita ho imbarcato anche (promettendogli una sorpresa) Domenico Castaldo. Perché a Gambettola, un paesino di tre anime dove (oltre a Pascucci, che produce lini con metodi di stampa vecchi di secoli) c’è la Tecnogym, uno dei più grossi produttori mondiali di attrezzi per il fitness e la wellness (o la fitness e il wellness?). Anzi, è il secondo (tra i primi 15 del settore, gli altri 14 sono USA) ma tra poco – dicono – diventerà il primo. Sono curioso di capire come reagisce un artista del corpo come Domenico, di cui apprezzo il rigore, a una cultura del corpo così diversa dalla sua. Insomma, ho un piano – anche se tutti gli altri componenti della missione sono mooolto perplessi.
Ci accoglie il dottor Cicognani, il boss delle Pr Tecnogym, ha da fare, ci chiede di aspettare, chiedo di aspettare nella palestra dove ci sono tutti gli attrezzi – decine e decine, per tutti i muscoli (anche quelli che non hai). Quando torna (dopo approfondito collaudo delle macchine da parte dei santarcangiolesi) ci racconta della storia dell’azienda, della sua filosofia, del segreto delle vittorie di Schumacher (i piloti di Formula 1 a ogni curva si beccano uno schiaffone da 3,5-4 G (ovvero 3,5-4 volte la forza di gravità), e all’uscita le pulsazioni schizzano in alto, perciò si è fatto fare un attrezzo apposito) e ci illustra le nuove macchine – che hanno la struttura fatta di tubi ovali. Perché mai ovali?, chiedo. La risposta di Cicognani è la riprova dell’efficacia del metodo Tecnogym: il nostro Virgilio mi indica un manifesto; “Perché per noi l’ovale è la forma perfetta, la forma dell’intelligenza” (attenzione: non è importante se sia vero o no, l’importante è fartelo credere), poi perché una forma smussata diminuisce i microtraumi di chi va in palestra, e infine perché così gli attrezzi sono più facili da pulire (per i più tonti: a colpirmi è il mix di metafore e esigenze pratiche, di principi estetico-filosofici e preoccupazioni quotidiane). Per quanto riguarda l’intervista, mi sembra funzioni (giudicheranno domani gli ascoltatori di Radiotre).
Per il collegamento delle 18, telefonata in diretta con Bruno Gambarotta (è una storia lunga, l’anno scorso ha scritto un pezzo su Tournée che finiva più o meno “Diavolo d’un Ponte di Pino, fai venir voglia di andare a Santarcangelo”), e così ieri sera è venuto qui a parlare di Dame Frances Yates, dell’arte della memoria e della mensa Rai di Torino con le sue polpette assassine…), e intervista a Gene Gnocchi e alla capra che gli fa da spalla nel suo nuovo spettacolo (Dentro il teatro la capra crepa…, ma noi siamo ancora fuori…). L’immagine non dev’essere male: una macchina Rai con il baule spalancato, lì dietro un gazebo e, seduti sulla panchetta di ferro arroventata dal sole del tramonto, io e Gene, e lì accanto – non siamo riusciti a metterla sotto la panca – la capra…
In piazza incontro Massimo (Eusebio), che si occupa dell’aspetto musicale (e che mi fornisce i brani musicali per collegare i vari servizi), mi porta da Graziano Spinosi, che fa lo scultore e che intervisterò domani. Si gode il tramonto dal bar, mi sgrida subito perché sono andato alla Tecnogym (“Non ci sono i sindacati”), mi racconta che lui è di Gambettola, che da piccolo s’arrampicava sempre sui mucchi del ferrovecchio (adesso per le sue sculture lavora soprattutto il ferro…).
Dopo lo spettacolo di Gene (o meglio, il primo pezzo del suo prossimo spettacolo) al tendone, scendo a Igea Marina per lo spettacolo di mezzanotte, Se la nuì di Alfonso Santagata (che si esibirà con una aggressiva magliettina panterata rossa). Arriviamo nella vecchia colonia, poco lontano dal mare, nell’intenso odore dei fiori in decomposizione. Un edificio abbandonato da anni, costruito negli anni Trenta – e a forma di M, come Mussolini. Alfonso ci ha ambientato uno divertente e sfrangiato noir, la colonia è diventata un albergo a ore (ma il centralinista smista anche le ambulanze), nella hall si scontrano marginali e sbandati, che si espongono e si scontrano con violenza e ironia. Man mano che veniamo condotti nelle varie stanze, l’edificio si anima di visioni, al secondo piano è una lunga sequenza onirica, fatta di suggestioni e scarti improvvisi. Se la nuì è il sogno di una tribù di marginali, è un incubo e insieme utopia. C’è qualche ingenuità nella recitazione di alcuni tra gli interpreti più giovani, per certi aspetti il racconto procede per frammenti e suggestioni, ma intanto il luogo e le atmosfere per un paio d’ore portano in un altrove dove ancora vibrano – forse per l’ultima volta, in un mondo sempre più normalizzato – i sentimenti.
Giovedì. Sono le otto e mezza quando scendo a far colazione, c’è Goffredo (Fofi), parliamo del rilancio della sua (ultima, per ora) rivista, “Lo Straniero”, mi chiede se voglio esserci anch’io, accetto volentieri, senz’altro: spesso mi capita di non essere d’accordo con i suoi giudizi, a volte ho l’impressione che basti avere un po’ di (fragile) successo per passare subito nella sua lista dei cattivi, a volte mi sembra voler spiegare un po’ troppo agli artisti quello che è giusto che facciano, e però è una persona generosa che ama quello che fa, ed è capace di rimettersi in discussione, continua a cercare, cerca ogni volta di costruire relazioni e rapporti, è ancora in grado di entusiasmarsi e di indignarsi.
Poi di corsa a intervistare le Ariette, che hanno iniziato a tirare la sfoglia per il loro Teatro da mangiare? Mi sembrano simpatici e veri, domani sarò qui a pranzo, ospite loro. Mi faccio spiegare bene cosa c’è da mangiare (e mi confidano la ricetta del sugo delle loro epiche tagliatelle – ma non riuscirò a mandarla in onda).
Corro a montare i servizi con Paolo (sotto il sole a picco), a un certo punto dalla Radio Svizzera Fattorini mi chiama per un’intervista sulla Maratona di Milano (tra due giorni!!!). In diretta arriva Alfonso, poi uno via l’altro i servizi sulla Tecnogym e sulle Ariette.
A pranzo con Massimo Marino (ri-tagliatelle!), gli spiego (almeno ci provo) perché a questo punto mi sento poco coinvolto nel progetto di “Art’o”, dopo di che Massimo. E poi intervista a Fulvio Liberatore e Giovanna Fellegara che hanno spiegato (in convegno) come farsi dare soldi per la cultura (se volete saperne di più, provate Nofret
Nel pomeriggio, con Cristina andiamo in pellegrinaggio al campo della Mutoid Waste Company, proprio qui dietro, accanto al Marecchia. Sculture e rottami, case mobili, capannoni (autentico Mad Max). Bello e duro. Gironzoliamo, piglio qualche appunto radiofonico. La cosa incredibile è che in questo luogo automarginalizzato e desolato, arriva un furgone della Ducati e lascia giù una preziosissima cassa di ricambi, che servono a costruire un incredibile cane meccanico. (Anyway, ancora ferro…) Poi passo nello studio di Graziano (Spinosi) che è proprio lì dietro: in realtà è una vera e propria bottega di fabbro ferraio, con tubi e tondini, saldatrici e paranchi, e scheletri di sculture. Quando Graziano parla del ferro, di come lo salda, di come invecchia, capisci che per lui è vivo. Le sue sculture nascono in serie: ci sono per esempio serie di libri illeggibili (legati, inchiodati, incisi, e nell’ultimo, il settimo, dalle pagine sbuca una mano che non si capisce se sia stata rinserrata lì dentro o se stia finalmente per uscirne). E una serie di pennelli-pugnali, l’arte è per certi aspetti una lotta, può far male – soprattutto però, mi vien da pensare, a chi la fa davvero…
Appena finita la trasmissione (per l’occasione, oltre a Spinosi, ho sequestrato anche Daniela e Enrico dei Motus, che stanno sistemando la loro Visio gloriosa proprio là sopra, allo Sferisterio), corro a vedere un pezzo (solo un pezzo) dello spettacolo di Garabombo T., Virus, che racconta la scoperta del virus dell’Aids. O meglio, della sua non-scoperta, come cercano di spiegare Alessandro Pozzetti (che è anche il narratore) e Domenico Ferrari. Teatro di narrazione – ancora una volta, la scena diventa forse un mezzo per cercare di capire quello che la scuola e i mass media non riescono più a trasmettere. Non so se sia giusto chiedere al teatro questa funzione di supplenza, ma siccome un altro dei temi che mi affascina di questi tempi è il rapporto tra teatro e scienza (vedi nell’archivio di “ateatro” lo spazio dedicato alla trilogia di Rossotiziano), domani a mezzogiorno in trasmissione chiamerò loro e Mimmo Sorrentino, che qui a Santarcangelo ha portato il suo Da Mistretta a Gödel (il modo di lavorare di Mimmo mi stimola: si capisce che non gli interessa tanto il teatro di per sé, sembra sempre che arrivi dall’esterno del teatro per usarlo per qualche suo fine, come se fosse un pretesto e insieme un esperimento scientifico, quasi: e allora ecco la ragione di certe ingenuità, ma anche il senso della necessità dei suoi lavori. E siccome è una persona intelligente e riflessiva, i risultati possono essere sconcertanti, magari discutibili, ma non banali).
Poi in pullman verso la cava di Torriana (mi ricordo di averci visto un lavoro di Thierry Salmon, sono passati diversi anni, ormai…) per il Requiem che Fanny & Alexander hanno presentato pochi giorni fa a Ravenna Festival (dovevano farlo dentro il cimitero, alla fine l’hanno fatto appena fuori). Anche adesso che il gruppo si è molto allargato, Luigi e Chiara rimangono ostinatamente fedele al nucleo della sua ispirazione iniziale: un rito adolescenziale di amore e morte. E però è affascinante misurare l’evoluzione e la maturazione della forma di questa favola feroce e autodistruttiva, soprattutto nel rapporto con il pubblico. In Ponti in core il cerchio della scenografia (un teatrino anatomico) inglobava gli spettatori – isolati in scranni – intorno ai due protagonisti; nella Turchinità della fata il cerchio isolava nello sfondo l’azione dei protagonisti, che lo spettatore-voyeur poteva osservare attraverso una specie di occhio. Ora, dopo Romeo e Giulietta (e dopo l’esasperata frontalità della Turchinità della fata), il cerchio si è insieme aperto all’infinito, fino a diventare una parete rosso sangue; e insieme chiuso – perché il regno delle ombre, quello dove Psiche incontra Eros, o il regno delle ombre, rimane oltre questa parete definitiva, invisibile agli spettatori. Per certi aspetti è una mitologia privata che prova e diventare epica. Ed è anche straordinariamente serio e appassionante il lavoro condotto con Luigi Ceccarelli, che ha costruito un tessuto sonoro di grande forza e suggestione. È un tema che mi affascina, quello del teatro musicale: e di questi tempi ci stanno lavorando in molti, con chiavi insolite (oltre a Ceccarelli, che ha già musicato la travolgente Alcina): dal Monteverdi della Raffaello all’Orfeo a fumetti di Pippo Del Corno, dal Woyzeck di Giorgio Barberio Corsetti, e poi – su un piano diverso – i Sud Sound System per De Cataldo, il lavoro di cui mi parla Extramondo su Hamletmaschine… Insomma, un tema da approfondire… Dopo di che, nel Requiem per certi aspetti la fabula resta in secondo piano rispetto all’impatto visuale e sonoro; e riemergono echi della Raffaello (il coniglio-psicopompo rubato all’Alice di Carroll…) e dell’Alcina: ma forse più che di influenze, è forse il terreno comune.
È l’una, vado a intervistare Enzo Moscato: stanno provando le luci a Villa Torlonia, debutta domani sera. È qualche anno che non ci vediamo, a Milano viene sempre più di rado (una vergogna), mi fa piacere abbracciarlo, è in grande forma, il suo trittico Ritornanti è uno degli eventi del Festival.
Venerdì. In mattinata montiamo quello che ho registrato, dopo la diretta corro su in collina, dalle Ariette (tri-tagliatelle!!!), ho raccontato le mie impressioni in una specie di lettera aperta. Alle sei in trasmissione arriva Alessandro Ramberti (ovvero Fara Edizioni), legge in diretta un passo dei Promessi Sposi tradotti in romagnolo (che Manzoni abbia fatto qualche risciacquo anche da queste parti?) per spiegare da dove arrivano Guerra e Baldini… E poi Renata (Molinari), che parla della specificità del “modello romagnolo” non solo e non tanto in termini di estetica, ma anche di modelli organizzativi.
Finita la diretta, di corsa a Longiano per Le Argonautiche dove Domenico Castaldo e i suoi quattro attori raccontano la missione di Giasone e dei suoi alla scoperta del Vello d’Oro. Anche qui a colpirmi è la serietà del lavoro, davvero impressionante: la costruzione di un linguaggio del corpo, fatto di gesti, suoni e respiri, un vero e proprio codice, una grammatica e una sintassi di estremo rigore, in cui tradurre la storia – qualunque storia, verrebbe da dire. Ci sono un’attenzione, una cura dei particolari, un’abilità e un’inventiva nell’uso dei pochi oggetti, una fluidità nel passaggio da una situazione all’altra, da una scena all’altra che commuovono. È un teatro povero in apparenza (cinque attori, pochissimi oggetti) ma in realtà ricchissimo, perché crea un mondo con un sospiro, con una pausa. E ricco di un’energia solida e pura. Verrebbe voglia di inventare una poesia che potessero raccontare, trovare una nuova drammaturgia per quei corpi-segni.
Ma adesso basta, domattina devo partire presto, alle cinque comincia la Maratona, si andrà avanti fino all’alba… E mentre mi addormento penso a quello che ho potuto vedere di questo Santarcangelo XXXI. So delle difficoltà che hanno avuto Silvio (Castiglioni) e Massimo (Marino) a condurre in porto questa edizione, so che in queste condizioni produrre spettacoli ed eventi è impossibile (si può fare qualcosa solo sulla base di lunghe amicizie e militanze comuni), e alla fine i segni di vitalità ci sono, qualcosa continua a accadere. Non manca qualche strizzatina d’occhio al grande pubblico (Bruno, Gene, Angela Finocchiaro, la lanciatissima Luciana Littizzetto), di questi tempi necessaria per tenere insieme la baracca ma anche per dimostrare che anche il comico ha la sua dignità. Ma anche la sensazione che per fortuna resta ancora uno spazio in cui vedersi e incontrarsi, che esiste ancora un tessuto di relazioni e di rapporti – nel fragile mondo del teatro – che rende possibile uno scambio di esperienze.

 

 

 

Oliviero_Ponte_di_Pino

2001-07-27T00:00:00




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