Il corpo della parola

I Testori di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi

Pubblicato il 15/09/2001 / di / ateatro n. 019

Debutta in questi giorni a Benevento L’Ambleto, il nuovo atteso Testori di Sandro Lombardi (protagonista) e Federico Tiezzi (regista). Questo saggio, dedicato al percorso di Lombardi e Tiezzi nella drammaturgia di Testori, è stato scritto per il catalogo di “Oltre 90”, la rassegna che ospiterà lo spettacolo a Milano tra poche settimane.
Un set di 4 CD Lombardi-Testori è stato pubblicato di recenti da Rai-Eri.

Tanto per cominciare, bisogna subito dire che Giovanni Testori è uno dei più importanti drammaturghi italiani, perché ha trovato una soluzione al grande problema del nostro teatro – non l’unica soluzione possibile, certo, ma almeno una soluzione convincente e praticabile.
Il problema è ovviamente l’assenza di un italiano parlato teatralmente convincente – una lingua reale, effettivamente parlata, che possa suonare viva e credibile. Così i nostri scrittori hanno attinto alle radici dialettali (a partire dalle grandi tradizioni teatrali, dal veneto di Goldoni al napoletano di Eduardo), oppure si sono in qualche modo “inventati” la loro lingua, da Alfieri (che Testori stesso portò in scena come regista) a Pirandello (che peraltro aveva iniziato a scrivere in siciliano). Lungo il primo filone, il dialetto promette una naturalezza che l’italiano parlato non ha mai avuto – almeno fino all’avvento della neolingua televisiva. Nel secondo, una parola cristallizzata attraverso procedimenti poetici intellettuali persegue la forza della suggestione musicale oppure l’impatto di una comunicazione logicamente impeccabile.
L’operazione condotta da Testori a partire dalla “Trilogia degli Scarrozzanti” non sceglie né l’una né l’altra strada, o meglio le fonde nella ricerca di una parola che non sia solo segno ma che affidata all’attore possa diventare anche gesto, azione, corpo.
Certamente il dialetto – in qualche modo lingua materna – è uno degli ingredienti su cui lavora la sua scrittura, e sembra fornire spesso la polpa di questa ur-lingua. Tuttavia quello di un Testori dialettale è un equivoco parallelo a quello che aveva accompagnato gli inizi della sua carriera di scrittore e che lo inseriva nel clima neorealista dell’epoca: basta però seguire la parabola dei protagonisti – meglio, delle protagoniste, a cominciare dall’Arialda – dei suoi primi testi per cogliere la struttura profonda del percorso degli eroi delle sue opere più mature.
Perché nell’impasto testoriano non si trova solo un dialetto, peraltro ricostruito a posteriori: vi s’intarsiano anche altre lingue vive (a cominciare dal francese e dall’inglese) e morte (soprattutto la lingua della liturgia, il latino, com’è ovvio). Va subito precisato che siamo distanti anche dal mosaico barocco e dalle ironiche stratificazioni di dialetti e gerghi attraverso cui Gadda interpreta e fotografa la molteplicità del reale e le sue cangianti sfaccettature. Nel caso di Testori – che non a caso eccelle nell’arte del monologo-confessione – la prospettiva è invece sostanzialmente soggettiva e introspettiva. Fino a condensare e oggettivare a volte l’ossessione di un personaggio in un tic linguistico che diventa il sintomo di un’ossessione, come accade con la maniacale “s” privativa dello Sfaust. Perché questo impasto è sottoposto a una metodica torsione espressionista, grazie anche alla facilità con cui la lingua italiana coltiva il proliferare di prefissi e suffissi (accrescitivi, diminutivi, spregiativi…). Infine il tutto viene magistralmente ricomposto in una forma chiusa, poeticamente e musicalmente inevitabile.
Non si tratta dunque di una regressione verso il dialetto, ma di un processo costruttivo che per quanto riguarda l’aspetto formale si può accostare ai metodi destabilizzanti delle avanguardie novecentesche; e che si fa carico della crisi del soggetto di cui quelle stesse avanguardie sono il sintomo alla ricerca di una nuova soluzione: sospingendo ogni volta il personaggio fino al punto di rottura, fino alla soglia della dissoluzione e della morte, per ritrovare lì, in quel punto estremo, la possibilità di trovargli un senso – secondo il paradosso esplorato da Samuel Beckett, ma cercando una soluzione nell’intreccio tra l’Io, il Padre, la Madre e l’Altro.
Così costruita, questa lingua immaginaria risulta sempre decentrata, instabile, elastica, lontana da qualunque parlata reale, effettiva. Può diventare viva solo ed esclusivamente se un attore se ne appropria: se la usa, se vi s’immerge, se se ne appropria al termine di un autentico combattimento. Per farlo deve compiere il tragitto che separa la sua lingua naturale da questa parola eccentrica, in un movimento simmetrico rispetto a quello compiuto da Testori per plasmarla. Solo con questo gesto l’attore – “colui che agisce” – può incarnare la parola, e ritrovarsi in essa, in una naturalezza che è recupero di una dimensione personale, intima, originaria. E al tempo stesso questa parola si rivela perfettamente formalizzata, oggettiva – perché in essa risiede la verità estrema dell’essere umano. Da parte dell’attore è un atto d’amore e di lotta, un’autentica incarnazione, dove risuona la necessità profonda del teatro di Testori: la sua natura di rito, e quasi di sacramento.
Non è un mistero che Testori abbia scritto i suoi capolavori in stretto rapporto con due interpreti come Franco Parenti e Franco Branciaroli. Due straordinari sodalizi (con Branciaroli lo stesso autore calcò addirittura le scene, fungendo da “spalla” per In exitu ma soprattutto esibendosi con particolare coraggio in una performance straordinaria ma poco vista, Verbò), con testi che sembravano concepiti su misura (dove “su misura” non significa che Testori si sia limitato a usare le loro qualità e capacità tecniche, ma che ha saputo cogliere l’attore che c’era in loro – a loro stessa insaputa – per trasformarlo in qualcos’altro, sospingendolo oltre i suoi limiti) per due interpreti indubitabilmente “lumbard”. Con risultati di folgorante interesse, ma anche con il rischio di limitare la portata del suo lavoro, riducendolo a un ambito locale, seppur di altissimo livello, e perpetuando l’equivoco di una drammaturgia in sostanza dialettale.
Il lavoro condotto in questi anni da Sandro Lombardi e da Federico Tiezzi (con la preziosa consulenza di Giovanni Agosti), in un progetto di ampio respiro e dedizione, con quattro spettacoli prodotti nel giro di pochi anni, ha cambiato e sta cambiando la nostra percezione dell’incandescente laboratorio testoriano. Da un lato ne ha sottolineato l’importanza e il valore, compiendo un’esplorazione che nessuno dei grandi teatri stabili del nostro paese ha mai pensato di affrontare: ed è riuscito a imporre definitivamente l’autore nel canone della drammaturgia italiana. Per raggiungere questo obiettivo, ha dovuto sgombrare il campo da pregiudizi limitativi e fuorvianti, per non parlare delle preclusioni ideologiche che hanno ha lungo marginalizzato l’autore e dei pregiudizi che lo catalogavano come “poco vendibile” ai botteghini.
Le interpretazioni di Sandro Lombardi, nella loro precisione di lettura, rappresentano un’autentica operazione critica. L’aderenza al testo, alle sue strutture grammaticali e sintattiche, la umile e meticolosa chiarificazione del senso, il rispetto del ritmo e dei metri – insomma, quel porsi al servizio dell’opera che è il presupposto delle sue interpretazioni – consentono ogni volta, frase dopo frase, parola dopo parola, gesto dopo gesto, quel misterioso rito d’incarnazione laica che è forse la prerogativa più peculiare dell’attore. Proprio in questa riappropriazione della parola si riaccende ogni volta la dinamica che la lingua di Testori richiede ai suoi interpreti.
Sul versante dell’attore, il lavoro registico di Federico Tiezzi è stato un costante esercizio di semplificazione e quasi di purificazione – o meglio, di concentrazione dell’energia. Al contempo, per ogni spettacolo ha costruito una rete di segni di limpida contemporaneità, attingendo al repertorio di esperienze e di immagini dei Magazzini. Anche in questo sta il senso di un’operazione insieme critica e creativa: creare costanti cortocircuiti tra il linguaggio teatrale di Testori e le sperimentazioni del teatro contemporaneo.
Peraltro nel percorso esistenziale e poetico di Lombardi-Tiezzi e di Testori si trovano alcuni punti di tangenza, anche se in prospettive radicalmente diverse. Basti pensare, per esempio, al ruolo che hanno l’esperienza del limite e della trasgressione: per gli uni vissuta come portato delle esperienze “liberatorie” degli anni Sessanta e Settanta, per l’altro inscritta nella logica cattolica del peccato. E ancora alla costante consapevolezza del gioco teatrale, con la sua aura insieme tragica e ironica, assoluta e beffarda, metafisica e stracciona: da un lato affinata nel periodo del teatro “analitico-esistenziale”, e in particolare nella scoperta della convenzionalità di ogni gioco linguistico ispirata da Wittgenstein e al suo Tractatus, spesso citato dal Carrozzone degli anni Settanta; mentre dall’altro riecheggia tutta la problematica barocca del Gran Teatro del Mondo. E’ anche in queste convergenze che si può misurare la ricchezza del progetto, e l’energia che trasmette ogni sera Sandro Lombardi ai suoi spettatori.

Oliviero_Ponte_di_Pino




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