The Next Thing – Quali confini per la ricerca?

Presentazione

Pubblicato il 15/02/2002 / di / ateatro n. 029

Al Teatro Studio di Scandicci, i Kinkaleri lavorano a un progetto che ci pare interessante, articolato in una serie di spettacoli e in una giornata d’incontro.
Qui di seguito un documento che presenta il senso dell’iniziativa, una serie di materiali preparatori (ai quali vanno aggiunti il saggio di Luigi De Angelis e la risposta di Oliviero Ponte di Pino, pubblicato sulla rivista “Lo Straniero” e su “ateatro”) e (in fondo) il programma della rassegna.

 
All’inizio degli anni novanta e precisamente dal 1990 al 1993, circolava in libreria una rivista dal titolo “Luogo Comune con delle scarne e bellissime copertine.
Questo bimestrale nell’editoriale del primo numero dichiarava “Questa rivista ritiene plausibile, anzi conveniente, una critica radicale ai modi di pensare e delle forme di vita oggi prevalenti. E’ finito il tempo in cui si poteva soltanto limitare il disonore”.
Niente di nuovo rispetto alle tante riviste di antagonismo politico e culturale che riverberando dagli anni sessanta giungono ancora oggi fino a noi.
Successivamente precisava “La critica della società fondata sul lavoro salariato deve evitare, però, ogni nenia nostalgica sui movimenti di massa del passato. La rivista si attiene scrupolosamente ai soggetti, alle mentalità, alle forme di vita, ai modi di produrre e comunicare che rappresentano l’esito estremo della modernizzazione e dello sradicamento da qualsivoglia precedente tradizione.”
Lo scarto proposto diventava subito interessante; non era il solito dichiararsi “altro dal mondo e dal dominio: questa sua ambizione risultava evidente.
“La rivista é ambiziosa. Non mero contenitore di inquietudini teoriche, né orgoglioso e appartato “dissi e salvai l’anima mia. Suo proposito dichiarato é incidere sul senso comune, contribuendo dunque a modificare la più immediata percezione della realtà sociale. Ad immagini familiari intende sostituire altre immagini che familiari lo possono diventare. Disinteressata a speciali squisitezze, la rivista ha la pretesa di far intravedere, corrodendo gli attuali, altri possibili luoghi comuni. Prendere a proprio oggetto il “senso comune già implica una scelta di merito. In tal modo, infatti, si privilegia l’insieme dei fenomeni nei quali viene vista la totale coincidenza tra produzione e cultura, modelli operativi e immagini dal mondo, tecnologie e tonalità emotive. …Nella situazione che è nostra, il cui sapere e la comunicazione linguistica sono divenuti materia prima dei processi di lavoro, i cosiddetti “fatti dell’esistenza quotidiana si presentano come viluppi teorici; e, rispettivamente, le “idee non rispecchiano lo stato delle cose, ma ne sono una componente.”
Un progetto folgorante che cercava di inserirsi tra le pieghe delle cose, un tentativo di costruire un tessuto di pensiero adagiato e confuso nella struttura stessa di una società complessa.
Concludeva in modo meraviglioso “E’ prossimo il momento in cui ricominciare a essere realisti. Ben sapendo che realismo, oggi, significa pensare in modo paradossale ed estremo. Che attenersi ai fatti, richiede un’immaginazione fuor di misura.”
La rivista cessò le pubblicazioni nel 1993.
Degli anni novanta sappiamo tutto: il disegno compiuto di una società che ha delegato alla rappresentazione di se stessa tutto il sistema culturale, occludendo gli spazi residui per l’introduzione di nuovi “luoghi comuni.
Ogni modificazione non ha portato a ramificazioni che fossero specchio della complessità dell’esistente, bensì ogni evento è risultato piegato e spiegato nelle regole ferree dello spettacolo integrato. La creazione del gusto.
La sostituzione della realtà con la rappresentazione di essa ha reso possibile soltanto la ripetizione di schemi consolidati dove anche un linguaggio “destrutturante è stato accettato nella sua aurea di novità solo nella possibilità di renderlo parlante e sfruttabile per le stesse lunghezze d’onda.
Anche se per certi versi datata (ulteriore motivo di approfondimento), la citazione di una rivista degli anni novanta è risultata per noi luogo importante di riflessione su ciò che in questi anni abbiamo visto morire: la possibilità di un’esistenza impegnata nella definizione della realtà e di un linguaggio che potesse essere non soltanto rappresentazione.
Il tentativo di aprire una discussione partendo da queste considerazioni nasce da un bisogno di esercitare un pensiero rispetto al presente: ricominciare ad essere realisti, appunto.
Un invito costruttivo che non può prescindere dal legame indissolubile che, nella situazione attuale, pone in stretta relazione la cultura e la comunicazione linguistica, attribuendo ad entrambe un ruolo centralissimo in ogni piega del processo produttivo.
In uno scenario in cui “l’agire comunicativo corrisponde essenzialmente “all’agire produttivo, é possibile ripensare interamente un’idea adeguata di linguaggio? Quali sono i suoi margini di “libertà?
Questo forse coinvolge un ripensamento generale a partire dai tanti problemi che stanno dentro alla nostra tradizione culturale. Se diventa possibile assumere questa domanda con un certo grado di realismo, o comunque di capacità esplicativa, la situazione dell’oggetto da analizzare viene complicata enormemente investendo la totalità delle azioni in stretta relazione con i temi dell’autonomia, dell’originalità e della creatività.
Da questa ipotesi di lettura l’insieme del “senso comune non può non essere attraversato: la fitta rete di convenzioni, formule, formalizzazioni, quell’insieme cioè di modi di un pensiero che si é condensato come patrimonio in movimento sulla base del quale solamente un gesto ulteriore e cosiddetto irripetibile si può innestare.
Proviamo a restringere il campo e guardare più da vicino un sistema come quello delle “politiche culturali che nello stato attuale si è conquistato uno straordinario potere di trazione nel dibattito pubblico e nella diffusione globale degli avvenimenti. Potere conquistato riempiendo il vuoto lasciato dalle mancate parole di chi produce e di chi accoglie, riempito dalle opinioni e dai dibattiti tra operatori culturali che non inseguono l’opera ma la desiderano perennemente accanto a loro e a quel pubblico che tra le proprie occupazioni mantiene anche “l’ora d’aria dell’intrattenimento.
Nella mancata acquisizione di un potere che fosse consapevole e necessario per esistere da parte di produttori e “traghettatori del sistema delle arti sceniche stanno molte delle dinamiche in levare dell’ultimo decennio. Ovvio, tutto segue il corso del tempo, ma crediamo che nessuno si possa permettere una scomparsa della dialettica in questioni delicate come quelle dell’arte e della rappresentazione. Pena l’inutilità totale di ogni fare non concesso al mercato.
Se ci riferiamo ad un ambito teatrale, e più specificamente agli esiti più audaci dell’esperienza contemporanea definiti come “ricerca o “sperimentazione, intese cioè con un fare che trova la propria dimora in quella zona di confine in cui ogni esperienza è intrisa di ambivalenza, risulta evidente il mancato rinnovamento di un sistema che, in relazione alla complessità, ha semplificato il suo sguardo nel tentativo di recuperare un’unità ormai senza senso. Soprattutto gli anni novanta hanno assecondato la deriva pensando che bastassero la messa in atto di formule per la diffusione, delle nascite miracolose, degli eventi, delle ondate successive senza che si affondasse nel profondo la mancanza di spinta ad un rinnovamento degli sguardi e di conseguenza del sistema produttivo.
Un’arte che si pensava aperta, con nessuna identità specifica da difendere o salvaguardare, pronta a riflettere le versioni contrastanti a partire dalle molteplici visioni del mondo, si è scoperta prigioniera di uno spazio chiuso, invalicabile, seppure per certi versi ancora dorato.
La superproduzione di senso e di spettacolo ha neutralizzato in partenza qualsiasi volontà disgregatrice operata all’interno dei linguaggi teatrali e della scena: le piccole intuizioni sono state riassorbite sulla base di un bisogno di aderenza a principi di riconoscibilità.
Le logiche di mercato e le politiche culturali hanno semplificato i processi privilegiando le identità tra l’opinione diffusa e la sua aderente rappresentazione.
Il tutto paradossalmente alla luce dei tanti richiami alla sperimentazione e all’interazione dei linguaggi che vari bandi di finanziamenti pubblici fanno continuamente propri, appellandosi al rinnovamento della forma spettacolare in riferimento alla contemporaneità.
Invece di mancare la scena come progetto e ordine permanente del disordine che permette di allungare lo sguardo, sono mancati i luoghi e le volontà collettive di continuare a tenere aperti i recinti. Sono mancati gli spazi, i luoghi dell’azione, sono mancate le persone, i rischi e le responsabilità, sono mancate le volontà, é mancato il linguaggio ed ogni volta é un ripartire da zero.
E’ necessaria la “ricerca?
Una riflessione indispensabile che nella sua analisi sfugga tanto all’esaltazione generalizzata e consolatoria delle molteplicità, quanto all’identificazione nostalgica delle appartenenze: non cadere nella nostalgia per modelli che furono o nel nuovismo a tutti i costi.
Un’analisi che include una attenta riconsiderazione del concetto di “tradizione inteso come trasferimento di un patrimonio, di un sapere, operato da mediatori che assicurano questo collegamento.
“Il mediatore si situa in una zona intermedia sul bordo; é una figura di confine, abitatore del luogo di passaggio”. In questo senso tutta l’arte è continua mediazione: dall’artista all’opera dall’opera allo spettatore, ma anche dall’opera a chi la osserva e dallo spettatore a chi la agisce. “Nella mediazione qualcosa cambia posto, ma noi non sappiamo cos’è: non necessariamente il mediatore possiede ciò che passa di mano”.
Il problema del rapporto tra nuovo e tradizione potrebbe essere indagato a partire da una riflessione sull’assenza e sul mancato rinnovamento di testimoni attenti, capaci di proteggere e gestire il trasferimento di conoscenze, che in questi anni ha caratterizzato la più recente esperienza pubblica e culturale in Italia.
Agghindati con il gergo tecnocratico dell’informatica THE NEXT THING, quali confini per la ricerca? vuole essere l’occasione di discussione a partire da queste tracce che sono il risultato di itinerari di sviluppo, incroci di riflessioni e letture a volte forse troppo generiche ma assolutamente non programmate; il tentativo particolare di questa occasione é la riapertura alla possibilità di certe parole.
Occorre quindi un’opera ambiziosa: interrogarsi sulle forme di vita che si delineano, allorché decade l’intero sistema di appartenenze, ruoli, identità.
Riferendoci a quell’area della sperimentazione informatica dove l’oggetto della ricerca rinuncia a qualsiasi tipo di definizione, THE NEXT THING vuole parlare della possibilità, ma soprattutto della necessità di esistenza nella situazione attuale, di un vuoto a perdere, un luogo di confine in cui l’operato artistico possa trovare relazione con ciò che non é immediatamente riconducibile. Un tentativo che a partire dalle esperienze anomale di questi ultimi anni dove il concetto di “messa in scena é andato ben oltre alla sola tradizione teatrale, possa dar forma e voce a partire dalle numerose interpretazioni del presente.
Rinunciare per definizione alla stretta identità tra un pensiero e la sua rappresentazione, impiegare in modo produttivo questa discrepanza per cercare qualcosa che non può essere proposto in partenza.
“Possiamo forse pensare una sorta di appropriazione dell’improprio, cioè un diverso afferramento di ciò che ci è dato in forme che noi non consentiamo e che però, in qualche modo, evidenziano e concentrano una possibilità che può sembrare nuova e preziosa?”
Proponiamo e lanciamo la discussione, coscienti che sia solo l’inizio, interessati a vederla continuare in altri luoghi ed in altri tempi.

Kinkaleri




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