Il teatro delle interfacce

Focus on Emanuele Quinz

Pubblicato il 24/06/2002 / di / ateatro n. 037


Théâtre des interfaces è il titolo di una delle sezioni di Digital performance, il libro curato da Emanuele Quinz e recentemente pubblicato in Francia per conto dell’associazione Anomos. Puntuale ricognizione tra quelle sperimentazioni artistiche della scena internazionale che tentano un’integrazione con i media, Digital performance si presenta come un’antologia molto “variegata” di artisti e autori (critici o teorici) provenienti da ambiti culturali e contesti produttivi piuttosto differenti. Tra gli artisti: Dumb Type, la Socìetas Raffaello Sanzio, Robert Lepage, Stelarc, Giacomo Verde, Roberto Paci Dalò. La prima parte riprende temi dal convegno Nouvelles Interfaces pour la danse (Parigi 2000) e ospita testi di Andrea Menicacci, Flavia Sparacino, Robert Wechsler/Palindrome Inter-Media Performance Group e un’intervista a Scott Delahunta. Si tratta di interventi che espongono le più diverse applicazioni alla danza del sistema motion capture. Il corpo come hyperinstrument, esempi delle sperimentazioni del Medialab del Mit, tra cui Dance space di Flavia Sparacino e Instrumented footwear for interactive dance (interfaccia per suono e movimento) di Joe Paradiso.
Nella seconda parte si parla di interfacce che permettono di estendere la definizione di “ambiente sensibile” alla scena anzi, a tutto il luogo teatrale, poiché le nuove tecnologie dell’interattività modificano sia le modalità di azione del performer che la qualità della visione dello spettatore, estesa ad una condizione di “immersione totale”, come chiarisce lo stesso curatore:

“L’environnement n’est pas seulement l’espace qui entoure un sujet, mais tout le complexe de conditions physiques et relationnelles dans lequel le sujet se trouve, agit, se définit. Le spectateur, autant que l’acteur se trouvent à l’intérieur de la nouvelle scène: sujets donc d’un nouvel univer où ils ne se confrontent plus simplement avec des textes, avec des objets ou des systèmes informatiques, mais aussi avec d’autres sujets”.

Argomento centrale nel volume, la “scène numérique” i cui esempi sono divisi in base al rapporto con un ambiente reale oppure virtuale (dalle videoambientazioni interattive di Studio Azzurro all’Intelligent stage di Robb Lovell al V. R. Theatre di Mark Reaney e alla sua recente la produzione A Midcyber Night’s dream).
Sono proprio le tecnologia dell’interattività, afferma Quinz, a permettere di recuperare l’a(u)r(c)a perduta: l’immediatezza, la trasparenza, la relazione tra scena e platea:

“La perte de l’aura ne se caractérise pas seulement comme une tranformation de l’interprète qui devient un élément parmi les autres de la machine de représentation, mais surtout comme clivage de la co-présence entre acteur et spectateur, comme explosion du “hic et nunc”. Le rapport à la technologie (la caméra, l’ècran) remplace le rapport directe entre acteur et spectateur. A tel point que, comme le souligne Benjamin, la distinction entre eux n’est plus substantielle mais fonctionnelle. La médiation technique s’oppose et empeche l’immèdiateté du corps. Mais avec l’interactivité, cette perspective se renverse: l’oeuvre retrouve une forme d’immédiateté…Immédiateté de l’action, du feedback interactif, de la transparence de l’interface, de la relation corps/environnement, qui n’est pas seulement celle de la scène (de la performance, du théâtre et de la danse) mais aussi celle de la vie”.

Un occhio di riguardo, inoltre, è rivolto a quelle esperienze teatrali (definite dallo stesso Quinz dei “classici”) di integrazione, scenografica e drammaturgica, con le nuove tecnologie: Robert Lepage, Dumb Type, Barberio Corsetti con Studio Azzurro. Un’incursione anche nel teatro che usa il live cinema (Blue Stories di Paci Dalò) e il web (Connessioni remote di Giacomo Verde ).
In questa seconda sezione, interventi di natura storico-critica: Andrea Balzola (Videodrammaturgie: dal videoteatro/videodanza alla drammaturgia ipermediale in Italia) ricorda le “origini” del videoteatro italiano e traccia una storia dell’evoluzione della scrittura scenica, soffermandosi su alcuni esempi di “drammaturgia ipertestuale”, tra cui Storie mandaliche in cui lo stesso Balzola è impegnato nella veste di drammaturgo. In Storie mandaliche (che raccoglie l’eredità del tele racconto) lo spettatore teatrale, collocato dentro il cerchio mandalico, entra dentro la narrazione, nel crocevia di tutte le storie, e nel labirinto della scrittura ipertestuale nella sua forma non lineare e non sequenziale, con le immagini e i suoni in continua trasformazione generati da un software, il Mandala system.
Altri interventi: Robb Lovell (A bluprint for using a reactive performance space), artista, tecnico e studioso di “interactive theatre” espone nel libro le tappe di costruzione di un interactive media environment. Un esempio di reactive performance space è stato da lui creato in Arizona e ha preso il nome di “Intelligence Stage”.
E inoltre Franck Bauchard (Théâtre des interfaces), Paolo Atzori (Hypertextual Dramaturgy), Carla Bottiglieri (Conversation avec Romeo Castellucci), Anna Maria Monteverdi (La tecnologia è la reinvenzione del fuoco. Conversazione con Robert Lepage), Keiko Courdy (Dumb Type, un corps interfacé entre signal et noise), Paolo Atzori (Hypertextual dramaturgy), Antonio Pizzo (Drammaturgia procedurale).
 

 
6 domande a Emanuele Quinz

1. Dall’Italia alla Francia, una cattedra all’Università di Parigi 8, la creazione dell’associazione Anomos, collaborazioni con artisti sperimentatori e con i massimi esponenti della critica e dell’estetica dei nuovi media, due libri sulle arti sceniche elettroniche e digitali di cui uno interamente dedicato alla danza. Puoi raccontarci il tuo percorso, la tua formazione?

E’ il percorso di un nomade: una tensione inquieta mi porta a cambiare continuamente settore. In realtà, quello che mi interessa sono i contatti, gli incroci tra le arti. Cerco quindi ogni volta di partire da un punto di vista diverso: ho studiato composizione al conservatorio, poi mi sono laureato in lettere con una tesi sulla poesia visiva, mi sono occupato di arte contemporanea e di cinema, sto finendo un dottorato in musicologia ed estetica, insegno al dipartimento di danza.
Affascinato dallo spirito “rivoluzionario” delle avanguardie, ho avuto modo di incontrare e di seguire da vicino diverse personalità che mi hanno davvero marcato, come John Cage, Grotowski, Greenaway, Lynch, Stelarc. Anche Anomos nasce da una serie di incontri importanti.
L’avventura di Anomos inizia nel 1995 a Bolzano, quando con Raimondo Falqui decidiamo di creare un quadro istituzionale per le nostre attività di ricerca e di sperimentazione artistica. Nel 1998, insieme al compositore Jacopo Baboni Schilingi e ad Anne-Gaille Balpe, abbiamo fondato la sede parigina, che si occupa più specificamente di arti tecnologiche, con l’obiettivo di riunire un gruppo di artisti e di ricercatori interessati all’impatto delle tecnologie nelle arti. Architetti, musicisti, videoartisti, programmatori hanno cominciato a reagire: prima di tutto, Anomos è un’energia. Immediatamente, abbiamo ricevuto il sostegno di diverse personalità, da Maurice Benayoun e Pierre Lévy (che tra l’altro è stato presidente di Anomos fino al 2000) e di qualche istituzione. Da allora, il gruppo continua a crescere, le attività si moltiplicano, l’energia si propaga.

2. Quale è attualmente la maggiore attività dell’Associazione e quale la sua struttura?

La struttura è una conquista recente. Fino all’anno scorso Anomos funzionava come un collettivo, basato a Parigi, con una rete espansa e internazionale di collaboratori. Ora disponiamo di un ufficio e di due persone che si occupano a tempo pieno della coordinazione e dell’amministrazione. Sempre quest’anno, con Armando Menicacci e e Andrea Davidson abbiamo fondato MediaDanse Lab, un laboratorio che si occupa della ricerca sulle relazioni tra la danza e il digitale, e che nasce dalla collaborazione con il Dipartimento di Danza dell’Università Paris 8. In questo momento, la danza è al centro di molte delle nostre attività, è un settore in enorme fermento. L’équipe di Mediadanse sta lavorando a diversi progetti di ricerca e di consulenza per centri coreografici, compagnie, festival. Inoltre, MediaDanse dirige all’Università Paris 8 otto corsi, sia pratici che teorici: dall’Estetica del digitale alla Videodanza interattiva, dai Software per la danza ai sistemi di Motion Capture.
Parallelamente, Anomos sta sviluppando anche altri settori, in particolare musica, architettura e moda.
In questo momento stiamo concludendo la quinta serie di “Face au Présent”, incontri interdisciplinari informali che hanno luogo al Webbar (sempre a Parigi) e prepariamo i prossimi volumi di “Anomalie”, la nostra collezione di pubblicazioni tematiche sulle arti digitali.
In settembre, durante il festival Villette Numérique (enorme festival di arti elettroniche che coinvolgerà tutto il parco della Villette), Anomos animerà un Media Lounge, uno spazio di discussione e di sperimentazione, in cui il pubblico potrà incontrare gli artisti presenti alla manifestazione e partecipare a una serie di happening.
Per noi, è molto importante legare la riflessione teorica alla sperimentazione pratica. Alla ricerca e alla creazione poi è necessario aggiungere una dimensione d’informazione e di formazione: abbiamo bisogno di conoscere quello che succede, quello che è successo, per poter aprire nuove prospettive.
Credo che il mondo di quelle che vengono chiamate le arti digitali, sia troppo spesso impigliato in una superficialità e in un’ignoranza pericolosa.

3. La scena digitale. Nuovi media per la danza (Marsilio, 2001) è un coraggioso tentativo di fare ordine nel vasto panorama di produzioni coreografiche tecnologiche che concilia l’aspetto tecnico descrittivo a quello storiografico e teorico. Troviamo interventi di studiosi come Scott Delahunta e di danzatori come Roberto Castello, “tecnoartisti” come Massino “Contrasto” Cittadini con il suo lavoro sul Mandala System. Come ti sei orientato tra produzioni e autori, quale è stato il filo rosso che li ha uniti?

La Scena digitale è un libro engagé, un cantiere. All’origine, il volume doveva limitarsi alla pubblicazione dei cinque interventi di un convegno, realizzato a Bolzano nel 1999. In seguito, molti altri autori ci hanno inviato dei contributi; il fatto è che non esistono pubblicazioni in questo settore, e i diversi ricercatori e coreografi sentono la necessità di fare il punto, di conoscere le altre realtà, di tentare delle sintesi, delle analisi. La selezione si è fatta piuttosto naturalmente, i progetti di danza e tecnologie non sono ancora così numerosi. Il problema è che troppo spesso, la funzione delle tecnologie è semplicemente decorativa. I progetti che ci intessano sono invece quelli in cui gli apporti del digitale creano una nuova scrittura coreografica o drammaturgia, dei nuovi dispositivi scenici, delle nuove relazioni con lo spettatore.
Inoltre, nel volume abbiamo voluto dare spazio ad un’indagine a più voci sulla “scena” italiana. In Italia, c’è un nucleo di artisti e ricercatori, purtroppo spesso ignorato dalle istituzioni e dal pubblico, che sta aprendo delle prospettive davvero promettenti.
In questo momento, con Armando Menicacci, stiamo lavorando alla versione francese del volume, e ci rendiamo conto, due anni dopo, che molte cose sono cambiate. Ma allo stesso tempo, ci appare sempre più chiaro che l’impresa era davvero necessaria.

4. Digital Performance, concepito in tre lingue: italiano, francese e inglese, tratta in maniera sistematica di autori e registi che hanno utilizzato i media in un’ottica di sempre maggiore integrazione con la scena, attraverso le loro stesse testimonianze o descrizioni analitiche dei loro lavori, offrendo un panorama sia “storico” che attuale delle più significative sperimentazioni di interactive theatre e di media enviroment (da Mark Reaney a Robb Lovell) con uno sguardo anche alle tecnologie web. Puoi raccontarci quale era l’intenzione del libro?

L’obiettivo di Digital Performance è di cercare di leggere il presente, secondo due prospettive: da una parte guardando al passato, documentando i percorsi storici importanti che precedono direttamente le esperienze attuali (come le scenografie di Polieri, la stagione del video-teatro italiano, etc.); dall’altra cercando di individuare le direzioni future.
Stelarc, Dumb Type, Robert Lepage, Romeo Castellucci, Barberio Corsetti e Studio Azzurro sono, nel loro campo dei pionieri, sono già divenuti dei “classici”. Le loro ricerche sono preziose perché indicano delle strade da seguire, propongono nuove (e riuscite) definizioni dell’opera spettacolare, coreografica o teatrale.
Ma esiste una generazione più giovane di artisti, programmatori e ricercatori, che apre ulteriori vie alla sperimentazione scenica: attraverso le possibilità offerte dalla rete e dalla connessione remota (Verde, Atzori), attraverso l’utilizzo delle Realtà Virtuali (Reaney), del video interattivo (Paci Dalò), attraverso le interfacce integrate e i wearable computers (Palindrome, Saracino, Paradiso), o ancora attraverso l’Intelligenza artificiale (Pizzo).

5. Quanto, secondo te, gli artisti stanno effettivamente contribuendo – e ne hanno consapevolezza – a modificare la percezione-visione del mondo attraverso la lente della tecnologia e a divulgare ed estendere questioni nodali come il concetto di virtuale e di interattività oltre la sfera puramente estetica?

Ci troviamo davanti ad un nuovo orizzonte, ad un territorio inesplorato. L’introduzione di una nuova tecnica o tecnologia provoca sempre una violenta scossa sismica nel sistema delle arti, seguita spesso da altre scosse di assestamento: la creazione artistica cerca di definire nuovi linguaggi. Il digitale, in particolare permette delle forme di convergenza e di dialogo tra i diversi codici artistici, prima considerate come pura utopia. Questa è la dimensione più sotterranea dello scambio interattivo: il dialogo tra i codici (grazie all’isomorfia del “meta-codice” digitale). Allo stesso modo, la dimensione più apparente, quella del dialogo tra sistemi informatici e soggetti umani richiede una riconfigurazione globale delle strutture dell’opera e delle posture dei diversi soggetti implicati.
In ogni caso, non serve a niente ostinarsi ad annunciare il cambiamento (o ancora peggio, denunciare l’ennesimo declino dell’umanesimo, l’ennesima catastrofe), senza approfondire, senza cercare di decifrarlo. Dobbiamo cercare di disegnare la mappa dei nuovi territori. Credo che in questo momento (ma forse è sempre stato così), gli artisti con i loro esperimenti (spesso precari e provvisori) vedano più chiaro che i critici. Sono soprattutto più liberi da pregiudizi. Nella maggior parte dei casi, la critica non è ancora riuscita a sottrarsi a dei modelli analitici inadatti e superati, e rischia di inalare nel pubblico dubbi e inutili rimpianti, paralizzando il grande fermento che anima il mondo della creazione. Altro punto, credo che i critici sottovalutino il pubblico. L’arte interattiva ha delle enormi potenzialità di coinvolgimento, anche estetico e questo il pubblico lo capisce, i critici troppo spesso fanno finta di non accorgersene. Da parte loro, gli artisti devono superare il livello superficiale di un’interattività meccanica e della poetica del gadget, passare da un’estetica reazionale ad un’estetica relazionale.

6. A Firenze poco tempo fa mi parlavi della differenza di impostazione che nel libro si nota dalla “scuola” critica o storico-critica italiana rispetto a quella francese e americana. Quale ti sembra più efficace?

Si tratta di metodologie e quindi di stili diversi. In Digital Performance, i vari saggi critici sono davvero rivelatori di questa diversità: da un lato, gli autori italiani mantengono il loro rigoroso impianto storicistico e direi, filologico; dall’altra i francesi, più leggeri, sfiorano i concetti e avanzano a colpi bruschi d’intuizione; gli americani infine seguono il modello del “paper” scientifico: abstract – che mi sono permesso di eliminare – ipotesi di base, dimostrazione, conclusioni. Forse per riassumere, possiamo dire che gli italiani hanno un approccio storico, i francesi letterario (quasi poetico) e gli americani scientifico. Ma questa è un’analisi superficiale. Quello che è interessante, è verificare quali punti questi approcci privilegiano e forse tentare una mediazione. Da un lato ci rendiamo conto che è necessaria un’indagine storica, capace di esibire le radici nascoste delle pratiche e delle poetiche attuali. E’ necessario tracciare una linea che dalle avanguardie storiche porta al contemporaneo (e magari oltre): ciò ci permette di identificare le pulsioni che sono alla base delle configurazioni attuali del sistema delle arti. Ci permette di capire non solo cosa cambia con le tecnologie, ma soprattutto cosa resta, malgrado le tecnologie.
Allo stesso tempo, non bisogna trascurare l’aggiornamento continuo sulle evoluzioni tecnologiche.
E al di là di questo, bisogna evitare che la complessità del contesto e delle ramificazioni convergenti ci impediscano di cogliere l’intuizione poetica degli artisti. In ogni caso, oggi è ancora forse troppo presto per poter giudicare realmente quello che sta succedendo. Per quello che mi riguarda, sono alla ricerca di un equilibrio tra queste diverse esigenze, ma mi rendo conto che sono troppo implicato, sono troppo “dentro”.
E’ il classico dilemma, chi scrive non vive, chi vive non scrive. In questo momento, preferisco vivere.
 

 
Full Play copyright (c) P. Atzori.

Anna_Maria_Monteverdi




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