Metamorfosi elettroniche

oVMMO : : ovidiometamorphoseon

Pubblicato il 01/09/2002 / di / ateatro n. 041

Prima del mare e della terra e del cielo che tutto ricopre, unico e indistinto era l’aspetto della natura in tutto l’universo, e lo dissero Caos, mole informa e confusa, nient’altro che peso inerte, ammasso di germi di cose mal combinate. Nessun Titano ancora donava al mondo la luce, né Febe ricolmava crescendo la sua falce, né la terra, trovato il proprio equilibrio, stava immersa e sospesa nell’aria, né Anfitrite aveva proteso le braccia a recingere i lunghi orli della terraferma. E per quanto lì ci fosse la terra, e il mare, e l’’aria, instabile era la terra, non navigabile l’onda, l’’aria priva di luce: nulla riusciva a mantenere una sua forma, ogni cosa contrastava le altre, poiché nello stesso corpo il freddo lottava col caldo, l’umido con l’asciutto, il molle col duro, il peso con l’assenza di peso.

Così Ovidio, in apertura delle Metamorfosi, per introdurci nel colossale poema cinematografico in cui ogni verso, come un fotogramma, è ricco di stimoli visuali in movimento, in cui il tempo che domina è l’assoluto presente, dove tutto avviene sotto i nostri occhi e i fatti incalzano frenetici a ribadire che ogni distanza tra noi e la narrazione ci è per sempre negata. La stessa materia magmatica, lo stesso horror vacui che domina lo spazio del poema, attraversa oVMMO a firma XEAR.org, lo spettacolo andato in scena al Festival AVIGLIANA SOGNA 2002 nella sezione “Visioni Sonore, sincronismi… live theatre/live sound”, tenutosi ad Avigliana (TO) dal 13 al 27 luglio; organizzazione e scelte artistiche a cura di Opus rt Servi di Scena.
La session per tecnologie audio e video di e con Mauro Lupone, Massimo Magrini, Marco Sodini e Giacomo Verde sviluppa partiture visive e sonore elettroniche sospese su percorsi di creatività digitale a veicolare derive acustiche di inesplosa sonìa, spettri di frequenze microtoniche ed incerte sedimentazioni segniche. Le misteriose e tecnologiche macchine sonanti, composte da sintetizzatori e da software per l’elaborazione informatica del suono (l’interfaccia ad infrarossi, azionata dal programmatore e musicista noise Massimo Magrini/Bad Sector, è qualcosa di così sorprendente che il pubblico stenta a capire che di musica live si tratta), interagiscono con una complessa videomacchina scenica operante sul principio del loop. Una telecameracamera digitale inquadra un computer portatile sul cui schermo trans-corrono sequenze catturate in diretta dalla webcam rivolta allo spazio scenico. Su questo flusso ininterrotto di ripresa, il tecno-artista Giacomo Verde interviene per tutta la durata della performance sovrapponendo oggetti e riflessi ottenuti da un lucido trasparente appoggiato sullo schermo, generando immagini trasmesse in videoproiezione sul fondale fluorescente. Il tutto rigorosamente live, a riconferma che le nuove tecnologie dell’interattività e della multimedialità, quando sono in grado di modificare la modalità di azione del performer e la fruizione dello spettatore, producono un cortocircuito sinestetico davvero avvolgente, un ambiente sensoriale di ricezione modificato e continuamente automodificantesi capace di recuperare tutta l’aura e la magia di una moderna e ipertecnologica opera d’arte totale.
 

 
Al centro di questa entità spettacolare densa, ibrida ed immersiva (sicuramente unica nel panorama italiano della scena multimedia) sta un corpo/voce d’attore (un convincente Marco Sodini) a sua volta presenza metamorfica in bilico tra lontananza e inneità, biomacchina impegnata in un raffinato studio sulla gestualità – il corpo come iperstrumento su cui intervenire e sperimentare – e con la dizione del testo di Ovidio, quest’ultima molto classica e curata. L’elaborazione drammaturgica, dello stesso Sodini, procede secondo un metodo analogico e visuale, dando vita ad una puntuale ritmica scenica in cui la partitura gestuale è saldamente legata al montaggio delle sequenze narrative. Ciò assicura quell’effetto di continuità e mobilità del tutto, quel senso di trapasso universale della materia, che da sempre costituiscono lo stigma del barocchismo di Ovidio, la nota distintiva della sua visionarietà postmoderna. Ma la varietà tumultuosa dei mitologemi ovidiani è resa, in oVMMO, da una pluralità di proposizioni polisensoriali, da un florilegio di sollecitazioni ibride che restituiscono il senso di permeabilità dei media, della loro instabilità, della loro reversibilità. La spazializzazione del suono, ora bianco rumore elettronico e informativo, ora nero rumore di fondo, torbido come la pece a scandire un tempo assoluto e metropolitano, è resa nelle immagini del videofondale da un fluire montante di giochi cromatici in cui si delinea sempre più la ricerca di una simultaneità plastica e sensitiva che, attraverso la poetica del frammento, evolve verso ritmi astratti e bidimensionali.
Giacomo Verde è tra i primi videoartisti italiani a realizzare opere di arte interattiva e net-art; il suo lavoro si caratterizza per “riflettere, sperimentando ludicamente, sulle mutazioni tecno-antropo-logiche in atto” ed ha come costante la creazione di connessioni tra i diversi generi artistici. Gli oggetti di scena, dicevamo, filmati dalla videocamera con perizia chirurgica e digitalizzati sul fondo in configurazioni geometrizzanti di compatta e accesa stesura cromatica, sono oggetti ‘poveri’, di uso quotidiano. La macchina, cui si avvicinano con grazia pulsante o zigzagando a ritmi convulsi, li trasfigura condensandoli in nodi e grovigli a rilievo dai colori violenti, in iridescenti e luminosissimi graffiti dalla densità variabile. Ecco allora un sasso di fiume divenire dorata esplosione fauvista in omaggio-richiamo all’Icaro di Matisse, la figura librantesi a mo’ di nube colorata entro la spazialità densa e sconfinata. Ecco ancora certi ninnoli infantili e ludici, come le festose cartine dell’uovo di Pasqua, farsi arazzi dai ritmi danzanti, dalla giocosità coriandolare e dalla poligonale allegria. Il processo formale è tutto additivo, ogni colore sostenendo gli altri in un crescendo espressionista di straordinaria forza plastica, secondo un metodo scompositivo a tasselli policromi che ricorda i contrasti scintillanti di argento, oro e smeraldi dei Boulevards di Gino Severini (si pensi al Dans du Pan-Pan à Monico o a certe Danseuses coperte di lustrini e paillettes) o, ancora, la propagazione e moltiplicazione dell’immagine generata dai quadri di Delaunay. La rappresentazione del dinamismo avviene in termini ottico-percettivi: gli oggetti scanditi in piccoli poligoni si spezzano, perdono segmenti, si frastagliano nel riverberare caleidoscopico di luci triangolari, nel tentativo di restituire allo spettatore un impulso dinamico puro, svincolato dalla sua origine oggettuale e che, attraverso il continuo variare delle radiazioni luminose, imprima una metamorfosi alla forma. Una scatoletta a foggia di cuore ci appare dapprima come pura esplosione di rosso vermiglio a fare da sfondo allo strazio amoroso di Orfeo, la campitura larga di colore a densità cangiante attraversata da repentini guizzi porpora. E’ soltanto nella scena finale che lo sfavillante cuoricino, dalle apparenze di festa irreale, si mostra nel suo valore d’uso ed emerge, a quel punto, stranamente focalizzato, ingrandito come in una tavola scientifica, quasi a voler rivelare la magia illusionista della ripresa in macro. Ad ulteriore riprova del portato stilistico di spoliazione, l’episodio dell’infelice cantore di Tracia non viene mai menzionato: esso è piuttosto agito plasticamente quando Marco Sodini/Orfeo, dimostrando grande sapienza attoriale, si blocca in posa isometrica e si gira in slow-motion a cercare sul fondo la sua Euridice. L’uomo, distante, sospende la versificazione del testo in una pausa di stupore e memoria e si sofferma a giocare sul filo dell’intenzione; è il mistero che nasce quando si realizza la presenza integrale di un attore. Nel frattempo l’improvvisazione musicale propone inaspettate texture di sintesi (suoni vetrosi e graffiati che provengono dalle più svariate fonti cibernetiche quali generatori di segnali radio, contatori geiger, sensori per la misurazione del battito cardiaco) giustapposte, in spregiudicata alternanza, a uno stralcio riconoscibile dell’Orfeo di Monteverdi. Il sound che ne scaturisce possiede una musicalità deviata e assurda che nasce dal campionamento del rumore di fondo scollato e restituito in sovversiva libertà sonora. In una conversazione successiva con Mauro Lupone (sound designer e docente di computer music), scoprirò che il suo lavoro si focalizza sul processamento del suono in digitale e sulla disgregazione morfologica dello stesso, ottenuta con tecniche miste tra cui processi di granulazione (Csound del MIT) per accentuare l’instabilità e la precarietà latente nel materiale sonoro.
 

 
La sensibilità cromatica, davvero raffinatissima, ed il vitalismo luministico non sono le uniche note su cui si gioca il repertorio iconico dello spettacolo: immagini sporche, dai colori acidi di pellicola graffiata emergono su di un supporto inchiostrato, imitando turbini materici da frottage di elementi disparati, campionando in questo modo anche la casualità del segno. Lo spazio coagula in striature digitali; il segno si appresta a divenire erosione lasciando intravedere chiazze di écriture a campiture sabbiose, organiche nervature, coaguli ematici, strane infiorescenze di sfavillanti mitocondri. La psicogeografia dello spettatore si popola di ombre elettroniche, di linee rumoristiche inarmoniche caratterizzate dalla permanenza di gomitoli sonori, di bassorilievi di interferenze luminose flesse in zone chiare e oscure. L’ambiente sonoro, decriptato dall’evidenza del grafico, è dato adesso da arrovellii, da cirri mutevoli e industriali, dal rumore che resiste all’estinzione della fabbrica, ai suoi ritmi alienanti, ossessivi, lancinanti. E’ un giacimento di immagini e suoni che si richiama alla scena industrial (quella dei primi Einstürzende Neubauten o dei Throbbing Gristle), ai gruppi che perseguirono la sperimentazione musicale servendosi di materiali di recupero, riproponendo sul versante sonoro l’utilizzo di tecniche di bricolage e di cut-up mutuate dai dadaisti e da W.Burroughs. Appare chiaro che il principio di rottura asignificante che diede via alla guerra dell’informazione – la musica divenendo un pretesto per comunicare a più livelli, per utilizzare diversi media e diversi network in strategia catastrofica contro il sistema ed i suoi stessi simboli – è lo stesso principio di connessione dell’eterogeneo che informa l’andamento anarchico di questa tecno-performance. Un fenomeno spettacolare ibrido e difforme che, attraverso l’uso contrastivo dei supporti impiegati, attraverso il travaglio e la saturazione di materiali eterogenei, giunge ad un’affascinante transcodifica dei generi. La manipolazione dei testi, trattati alla stregua di cellule intercambiabili ed usati come reagente l’uno dell’altro, produce infatti una profonda contaminazione tra codici letterari, iconici e sonori; lo spiazzamento che ne deriva è dovuto alla complessità dell’ambiente fisico e relazionale, al rapporto di instabilità tra corpo reale, figure virtuali e ambiente di risonanza.
 

 
La vera complessità di questo evento/spettacolo risiede però soprattutto nella grazia che gli deriva dalla sua semplicità; anche il dispositivo scenico, nella scarna essenzialità del décor, sembra congegnato ad arte per palesare il tecnologico, per suggerire una poetica della trasparenza nel rapporto tra scena e platea. La mediazione tecnica infatti, rimpiazzando il rapporto tra i personaggi o quello esclusivo tra attore e spettatore, fa sì che l’opera ritrovi un’immediatezza nella trasparenza dell’interfaccia, nel feedback interattivo degli strumenti di scena. Ciò è ravvisabile nella postazione stessa dei tre tecno-artisti – operanti con macchine informatiche a vista – il cui performarsi interattivo comporta una definizione della scena come luogo della compresenza, della contiguità dell’azione, delle strategie di connessione. La conseguenza più immediata di questa pienezza è la materializzazione di un piano di pura immanenza dove i ruoli gerarchici sono contraddetti o azzerati, dove si realizza uno stato di divenire assoluto. Ascolto e visione sono puro accadere. La curva emozionale intensa che accompagna lo spettatore durante lo svolgersi dello spettacolo, declina infine verso un’apertura percettiva amplia e indefinita. E’ a questo punto che lo sguardo sensibile si affaccia su remoti paesaggi interiori e le metamorfiche presenze sintetiche assumono i contorni di trascendentali agnizioni, di immaginali attraversamenti dell’anima.
 
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Alessandra_Giuntoni




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