27 anni dopo

Incontro con Peter Schumann

Pubblicato il 14/11/2002 / di / ateatro n. 045

Massimo Schuster ha fondato e dirige il Théâtre de l’Arc-en-Terre con sede a Marsiglia.
 
E’ la prima volta da ventisette anni che torno nel Vermont. Appena ho lasciato New York in autobus, e ancor più una volta passata la fermata di White River Junction, fermata lunga, dove c’è tempo per mandar giù un sandwich alla plastica e per bere un caffé alla spremuta di calzino, ho avuto la netta impressione d’aver fatto un salto indietro nel tempo. Questa è un’altra America, di quelle che non si vedono normalmente al cinema, e che anche quando si vedono è solo di sfuggita, perché non c’è niente da vedere per l’occhio della cinepresa, solo alberi, colline e cielo. New York è lontanissima.
Ho preso l’autobus per viaggiare come viaggiavo allora. Non è nostalgia (odio la sensazione molle e appiccicaticcia della nostalgia), è voglia di vedere, come si vede a poker. Vedere da dove vengo, vedere quanto la memoria mi ha tradito nel corso degli anni, vedere come quelli coi quali vivevo allora vivono oggi, che dischi ascoltano, che libri leggono, cosa pensano dell’Irak e del buco nell’ozono, che spettacoli fanno, se vanno a teatro, se preferiscono Harrison Ford o Bruce Willis, o magari Spike Lee, tutto, insomma.

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L’autobus mi lascia a Barton. Qualche decina di case di legno, un general store che vende di tutto (ma soprattutto birra e articoli agricoli), un diner che ha ragione a non chiamarsi ristorante anche se ci si mangia, visto che è una specie di reperto archeologico scappato da un film degli anni trenta, un benzinaio. Viene a prendermi una giovane occhialuta che non conosco, con una vecchia Ford che tiene su col fil di ferro. Nei pochi chilometri di tragitto mi spiega che fa parte della ventina di stagisti che sono venuti a passare un mese con il Bread and Puppet. Tutto attorno a me è campagna verde. Natura bugiarda, che vuol farmi dimenticare l’interminabile inverno, che da queste parti sembra durare secoli. Come dicono i vecchi del posto, qui ci sono solo due stagioni, l’inverno e luglio, ha ha ha.
Me li ricordo i 35° sotto zero, il silenzio ovattato dei campi notturni sui quali camminavo con le racchette ai piedi per andare a passare la serata con una bella Jennifer, o Judy, o Johanna, dopo una giornata di prove spossanti, con addosso quattro maglioni, tre paia di calze, due berretti di lana uno sopra l’altro, a muovere marionette di cinque metri dentro il granaio che ci serviva da sala-prove invernale (d’estate s’andava nei prati), con le mani dentro certi guantoni imbottiti da contadino che solo l’America aveva potuto inventarli così grossi e così brutti.
Poi mi ricordo anche l’invasione delle acque, verso aprile/maggio. Un mese da Polesine anni cinquanta, ad andare di canoa per attraversare il prato, oppure a infilarsi quegli stivaloni da pesca che ti arrivano su fino alle cosce, per passare sul ponte completamente sommerso, aldilà del quale si era saggiamente parcheggiato l’autobus con su le marionette e i costumi per la tournée.
E mi ricordo anche delle faticate del mese prima, quando gli aceri si mettevano a pisciare linfa come ubriachi e che bisognava andare dall’uno all’altro, sempre con quelle stramaledette racchette, tirando la slitta con su la botte che poco a poco si riempiva, e poi via, fradici di sudore, a portare tutto quel liquido bendidio alla sugar house, a metterlo dentro certi pentoloni che mi ricordavano quelli dove mia madre faceva scaldare l’acqua per il bagno della domenica mattina, e a far bollire per ore e per giorni, fino a ridurre il volume della linfa di quaranta volte e ad ottenere quella suprema delizia che è lo sciroppo d’acero.

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Mi dirai : – Ma come ? Ti ho chiesto di parlarmi del Bread and Puppet, che conosci bene, visto che ci hai lavorato per diversi anni all’epoca d’oro dei primi anni settanta, e tu mi parli di racchette e di sciroppo d’acero ?
Sì, ti parlo di racchette e di sciroppo d’acero, e potrei parlarti di zucchini e di pomodori colti nell’orto dietro casa, o dei primi tentativi di farci la nostra birra casereccia (uno schifo), o delle galline nel pollaio, che sarebbe lo stesso. Perché c’è una cosa da capire prima di tutto, che il Bread and Puppet è una compagnia contadina. E i contadini vivono al ritmo delle stagioni e vanno a letto presto. E’ gente che appena arriva la primavera già pensa a tagliar legna per l’inverno dopo; gente che va in città il meno possibile e quando ci va ha sguardi sospettosi; gente che si lava quando c’è da lavarsi, ma che non sta lì a perdere delle mezze ore davanti allo specchio per coprirsi la faccia di creme svizzere; gente che non può permettersi il lusso dei cittadini, che alle 8 vanno a lavorare e alla sera tornano a casa, o che lavorano undici mesi e il dodicesimo lo passano al mare; perché in campagna, almeno in quella vecchia e povera come qui, nel nord del Vermont, dove le facce sono quelle dei pionieri del Mayflower e le unghie nere, il lavoro e la casa, e le vacanze, e le domeniche, e tutto il resto, fanno una sola cosa.
Non è sempre stato contadino, il Bread and Puppet, anzi è nato proprio a New York e non avrebbe potuto nascere altrove. Ma Peter Schumann, lui sì che è sempre stato contadino, almeno nell’anima. Bastava sentirlo raccontare della sua Silesia natale, e di sua madre, che cuoceva il pane settimanale nel forno comune del paese, disegnandogli sopra col coltello un sole, per poterlo distinguere, al momento di sfornare, da quello delle altre madri di famiglia che lo cuocevano insieme a lei, quel pane duro e nero, pesante e nutriente, quel pane così intransigente che quando, anni più tardi, ne offrivamo dei pezzetti al pubblico, dopo averlo fatto cuocere in qualche panetteria di Parigi o di Berlino, col panettiere che ci guardava come fossimo matti, e certe volte anche nel forno di casa del direttore del teatro dove eravamo, vedevamo gli spettatori, uno dopo l’altro, metterselo in bocca e poi, dal primo boccone, dividersi in gruppi diversi, quelli che ritrovavano un gusto antico, quelli che “Ma che divertenti questi Americani che ci offrono il pane nero”, quelli che lo spettacolo sarà anche bellissimo però il pane fa proprio schifo, ecc. ecc.
Ed è proprio fuggendo da New York con moglie, cinque figli e qualche migliaio di marionette, all’inizio degli anni settanta, che Peter è diventato ancora più contadino, perché la città l’aveva conosciuta e adesso se ne andava via di sua spontanea volontà, voltando le spalle al successo e alla carriera, all’istituzionalizzazione e alla beatificazione.
Sì, lo so che queste son cose che si dicono dopo, e che sul momento non ci si rende mai conto fino in fondo delle decisioni che si prendono. Ma quell’andarsene via dalla città (e che città!) nel primo trimestre millenovecentosettanta, quando si era invitati nei più prestigiosi teatri e festival del mondo, quando si era considerati, insieme a Grotowski e al Living, come le più grandi star internazionali, quelli che stavano rivoluzionando la storia del teatro, andarsene a finire nel nord del Vermont, che è come dire al di là da Eboli, per viverci, mica come quelli che andavano un mese in Sardegna, due in India e tre nel Mato Grosso per studiare le culture popolari, farci su uno spettacolo e organizzarci un bel convegno sotto la direzione di un professore dell’università di Malmö, per viverci, per piantar patate come si fanno spettacoli e per far spettacoli come si colgono cavolfiori, beh, ci voleva una bella dose di coraggio, o di follia, o di intransigenza, o magari di paura, ma comunque una bella dose di qualcosa.

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Gli spettacoli di Peter Schumann non sono fatti per durare. Come il pane, o gli zucchini dell’orto, sono fatti per essere mangiati. Ma, intendiamoci, non buttati giù come uno schifoso hamburger che ci si affretta poi ad annegare dentro megasorsate di Coca-Cola, no. Gli spettacoli di Peter Schumann sono fatti per essere mangiati lentamente, come il suo pane, con calma. E soprattutto con compassione, perché quel pane lì non è mai lo stesso, capita che venga fuori un po’ troppo acido, o con troppa crosta, ma non importa, lo si mangia lo stesso perché, si sa, il pane non si butta via, e poi quello di domani verrà meglio. Allora, sì, è capitato anche a me come a tanti altri di vedere e magari anche d’essere dentro uno spettacolo di Peter che, diciamolo pure, faceva anche un momentino schifo. Ma non importa, perché anche quello è necessario, quella traccia di marcio sulla melanzana, quel buco nella ciliegia, quell’odore di merda che sarà anche ecologico però odore di merda resta. Tutto è necessario, per il Bread and Puppet, perché tutto fa parte di tutto e che non c’è nessuna separazione tra la vita di tutti i giorni e il teatro, nessuna differenza tra segare alberi nel bosco e fare uno spettacolo, ché se non seghi gli alberi con cosa te lo costruisci il teatro per farci gli spettacoli se non sei supersponsorizzato?

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Il teatro che Peter si è costruito sembra più un granaio. E’ tutto di legno. Qualche hanno fa quelli del Bread sono andati nel bosco lì di fianco a selezionare gli alberi destinati a diventare teatro. Li hanno segati, han tirato via rami e foglie, hanno pulito per bene i tronchi, e poi li hanno messi ad asciugare per un anno. L’estate dopo si sono costruiti un teatro.
Stasera, venerdì, c’è spettacolo. S’intitola Oratorio per il G8. La sala è piena. C’è posto per duecento persone sulle panche. Sono quasi tutti del posto, contadini, artigiani, insegnanti. Vengono qui da anni. Ce n’é che fanno parte del coro che si riunisce tutti i giovedì sera sotto la direzione di Elka, la moglie di Peter. Praticamente tutti si sono trovati almeno una volta dentro una marionetta gigante, in occasione di una parata, o di uno spettacolo all’aperto, o di una manifestazione no-global. Non c’è pavimento, è terra battuta. Non ci sono proiettori, né quinte, né sipario, né fondale. Non ci sono americane, non c’è arlecchino. Non c’è proprio niente. Mi viene piuttosto da pensare a qualche vecchio film di John Ford, magari con Henry Fonda, con tutta la gente del paese che si riunisce in chiesa per decidere qualcosa. La community, parola sacra negli Stati Uniti.
Inizia lo spettacolo. In scena ci sono una quarantina di persone che muovono dei grandi bassorilievi in cartapesta grossolanamente dipinti a tozze pennellate nere. Peter suona il violino, o almeno ne estrae dei suoni, lancinanti. I bassorilievi oscillano. Una lampada fissata su una pertica di quattro metri che un manipolatore muove vigorosamente dall’alto in basso e da destra a sinistra “illumina” vagamente la scena. D’un tratto mi rendo conto di dove sono. Sono dentro un quadro di Goya, una delle pinturas negras, o una delle incisioni dei Disastri della guerra, dentro un mondo di premonizioni apocalittiche e d’implacabile denuncia della stupidità della violenza, sono circondato da mostri mangiatori di bambini e distruttori di città, da streghe che ballano sarabande infernali, da asini in calore col cazzo ritto e da caproni squartati, da poveri soldati da niente fatti a pezzi come manzi. E quando un minimo di testo viene a sovrapporsi a quelle immagini potenti, capisco che sono a Genova, un anno prima, e che quei mostri si chiamano Bush e Blair e Chirac e Berlusconi, e che la loro mostruosità non nasce da una visione semplicista della politica o da un manicheismo infantile che vuole che da una parte ci sono i buoni e dall’altra i cattivi, ma dai trenta milioni d’Africani che hanno l’AIDS e non si possono curare perché i laboratori farmaceutici vogliono fare sempre più soldi, dai milioni d’Irakeni che muoiono di fame per via d’un embargo tanto stupido quanto assassino, dai milioni di contadini rovinati dalle culture transgeniche, dalle centinaia di migliaia di schiavi cinesi, filippini e haitiani che fabbricano scarpe Nike e magliette Calvin Klein, dai Palestinesi chiusi come topi dentro città fatte di sabbia, dai motoscafi sovraccarichi di Kurdi e di Pakistani che attraversano l’Adriatico, dalle folle di orfani che sniffano colla sotto i ponti autostradali di São Paulo, dalle ville in Costa Smeralda, dai panfili a Saint Tropez e dai ranch in Texas, dalle volgarità del sabato sera su Canale 5, dagli stipendi di Michael Jordan e dai cachet di Schwartzenegger, dai morti dei telefilm, dai morenti dei tubi di scappamento, e soprattutto, soprattutto! dagli anestetizzati degli stadi, delle code sull’autostrada e dei treni pendolari. E Peter Schumann me li mette tutti lì sotto gli occhi, come liberati dalle astrazioni statistiche, riumanizzati, ridiventati uno più uno più uno, una vita più una vita più una vita, con quella sua straodinaria capacità di fermare il tempo, di arrestare per un attimo la corsa folle nella quale siamo tutti intrappolati da mattina a sera, la corsa che solleva quel polverone di pseudo-progresso che finisce coll’impedirci di guardare e di vedere. Ma tutto questo non è un comizio, è teatro, théâtre brut, teatro fatto di rifiuti urbani e di foglie, di rami, di pezzi di corteccia, d’acqua e di sabbia.
Quando si tratta di evocare la morte di Carlo Giuliani, il no-global ucciso mentre si accingeva a scagliare un estintore su una jeep della celere, Peter mette un estintore in scena. Lo appoggia per terra, sulla terra battuta. Alla maniglia è fissata una cordina d’un metro o poco più, che un ragazzo tiene in mano. Peter si abbassa, raccoglie due sassolini, li batte tre volte l’uno contro l’altro, tic tic tic. Al terzo tic il ragazzo dà un colpo secco sulla cordina e l’estintore cade, morto. I due allora si allontanano, poi tornano, ognuno con un badile, e sotterrano l’estintore. Nessuna emozione in quei gesti da operai, solo il ripetersi di un rituale antico. E Carlo Giuliani è sepolto per davvero sotto i nostri occhi di spettatori allibiti.
Ho raramente visto un’immagine così forte in teatro, una sintesi così lucida, così intrisa di pietas e al tempo stesso di combattività. E non me ne importa niente di sapere se questo è teatro o agit-prop o Dio sa cosa, non me ne importa niente di valutare il professionalismo o l’approssimazione della regia o dell’interpretazione (non c’è niente da interpretare, solo un estintore da coprire di terra). Quel che vedo è qualcosa di talmente quintessenziale e virulento, sotto quella sua forma balorda e primitiva, che non posso non portarmelo via come un’interrogazione sul mio essere uomo e cittadino, e anche come una forza insperata, un incitamento a vivere meglio, con più coraggio, più vicino alla realtà viva e vera, più insensibile alle virtualità della televisione e dei dotti colloqui dei professionisti della professione.
Ventisette anni dopo, ritrovo il Bread and Puppet che avevo conosciuto e del quale avevo fatto parte, con la stessa esigenza estetica tutta tesa a rendere concrete le astrazioni giornalistiche che trasformano le nostre vite in curve statistiche. E in questo sovrapporsi di bellezza estetica e di contenuti tragicamente quotidiani ritrovo il Teatro, l’unico che valga la pena, quello che parla di me come in altri tempi ha parlato di Polinice, di Giocasta, o di Rosencrantz e Guildenstern, con la stessa voce, con lo stesso silenzio, con la stessa compassione.

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Un mese dopo, vanno giù le torri e l’America s’accorge che non è sola al mondo. Io sono già di ritorno a casa, a Marsiglia. Un amico di Nuova Delhi mi manda per e.mail l’articolo di Arundhati Roy. Ancora qualche mese e José Bové va a trovare Arafat assediato dai carri armati di Sharon. I famigerati 8 si riuniscono di nuovo, in una sperduta cittadina turistica canadese. Io giro per l’Europa raccontando la battaglia di Roncisvalle e la morte del prode Orlando.
Resistere, resistere, resistere.

Massimo_Schuster




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