Junk Modernity

Una intervista con Strupper della Mutoid Waste Company

Pubblicato il 13/01/2003 / di / ateatro n. 048

Sono una tribù di creativi riciclatori, esempi viventi della “junk modernity”, provocatori urbani auto-confinati lungo un fiume largo come uno sputo, fangoso e melmoso, sono meccanici artisti e artisti meccanici, teatranti, performers, musicisti, figli dell’ondata industriale, filosofi della spazzatura mutante.
Sono la Mutoid Waste Company, un gruppo in continua espansione o contrazione numerica, che del riciclaggio ha fatto una fede e della mutazione del mondo circostante, una pratica di vita. Percorrono l’Europa su improbabili macchine mutanti, hanno il loro quartier generale a Santarcangelo, fra carovan, case di lamiera, rottami e pezzi meccanici.
E tra un camion a forma di teschio, una moto-ape e il fiume gorgogliante, sotto una veranda di lamiera e sopra un divano di pneumatici, ci accoglie Strupper per riferirci sul gospel della mutazione e sulla Macchina del Temp(i)o, installazione realizzata per la Fiera dell’artigianato metropolitano di Torino.

Come si è formata la M.W.C.?
“I nostri fondatori, Joe Rush e Robin Cook, vengono dalla scena del punk londinese. Hanno incominciato a fare teatro di strada e sculture utilizzando materiale di recupero. Io li incontrai nel 1984, quando nacque la M.W.C. Da allora le persone sono cambiate: ogni tanto arriva qualcuno, si ferma con noi per una manciata di anni e poi riparte perché la sua carriera artistica o la sua vita lo conducono altrove. Ad esempio Robin è a Londra e Joe in Australia, io a Santarcangelo”.

Cosa facevate all’inizio?
“Non avevamo un posto dove vivere e quindi occupammo luoghi abbandonati, spazi che riempivamo della nostra presenza e dei nostri rottami. Modificavamo tutto ciò che la società buttava, inebriandoci di questa capacità: ridavamo vita a ciò che era morto, dimostravamo che non c’era un unico modello esistenziale. Giravamo l’Inghilterra su uno scuolabus bruciato, con una maschera di fibre di vetro a forma di teschio sul cruscotto. Poi le cose sono diventate più complicate: ci sgombravano dall’oggi al domani e non riuscivamo a portar via i nostri rottami e le nostre sculture. Per questo diventammo nomadi in tutta l’Europa e sempre per questo, negli anni ’90, ci fermammo a Santarcangelo. Non siamo diventati stanziali: il campo mutoidi è solo un quartier generale in cui accumulare rottami in attesa di una nuova vita, in cui fare tappa prima di ripartire”.

Cos’è cambiato?
“I rottami sono sempre la nostra fonte di sostentamento: li vendiamo per mangiare, li usiamo per vivere e viverci, per fare riparazioni o sculture animate. Come allora la filosofia della M.W.C. è mutare e essere mutati. Ma con gli anni le nostre sculture sono diventate sempre più complesse e le animazioni più movimentate, utilizziamo molta più tecnologia e abbiamo fondato la Zombi Beat, un gruppo di percussioni (ricavate da rottami) che accompagnano ogni accadimento con un tappeto sonoro di rumori, che ogni volta improvvisiamo in base all’ambiente o alla reazione del pubblico”.

Chi acquista le vostre opere?
“Discoteche, pub, compagnie cinematografiche, artisti, industrie, videoclip. Negli anni abbiamo fatto di tutto: sculture animate per concerti (Vasco Rossi), materiale scenico per film (Ligabue, Da Zero a Dieci e Wim Wenders, So near yet so far) animazione per sfilate di moda (Daniel Poole), per discoteche (Cocoricò di Riccione, Matis di Bologna, Cyborg di Roma…), per feste, show, fiere e festival”.

La Mutoid Waste Company è a Torino, fino al 23 febbraio, per la celebrazione del centenario dell’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna del 1902. Occupa l’ex maneggio della Cavallerizza Reale, nell’ultima sezione del centenario, “Artigianato metropolitano”, con una installazione che sintetizza e oltrepassa le precedenti linee creative, La macchina del Temp(i)o. Cosa aspetta il visitatore, una volta varcata la porta del tempio?
“Entra in una dimensione che è sintesi del tempo, scandita da quattro ingranaggi meccanici, quattro orologi messi a nudo, ognuno dotato di un ritmo proprio. Tra un meccanismo e l’altro il pubblico scivola, sviscera e svela le forme. Solo allora, dopo che l’occhio si è abituato a denti metallici e rotelle arrugginite, riconosce nei macchinari una pressa centenaria, una clessidra, una vecchia sega. A quel punto si è già compiuto il viaggio dentro il tempo, a ritroso fino all’utilizzo primario di quei rottami, quando scandivano una vita di lavoro, prima di essere abbandonati e dimenticati”.

Questa volta, a differenza delle precedenti, non presentate l’oggetto nella sua nuova immediatezza, ma svelate anche la rinascita, il momento religiosamente delicato in cui l’oggetto esce dall’oblio del tempo per recuperare un ruolo nel mondo, quell’attimo infinitesimale in cui la cosa morta si libra dall’alito del suo creatore…
“Grazie a delle telecamere che hanno filmato il periodo dell’installazione, proiettiamo la genesi dei quattro ingranaggi su due monitor. Mettiamo a nudo la mutazione e anche gli spazi di proiezione sono spogliati dalle paratie laterali: i fili elettrici, il tubo catodico, tutto si mostra attorcigliato come viscere”.

La rinascita, il miracolo di una nuova vita è certificato doppiamente: dalle immagini del processo di creazione e da quelle, alternate, dello sguardo degli spettatori.
“Chi assiste è ripreso da piccole telecamere: il suo tempo, diventa quindi il tempo dei rottami, il suo presente è catturato e ingabbiato dalla macchina che lo proietta nel passato e a suo piacimento lo riporta nel presente. La dimensione del futuro, al contrario, è vissuta dallo spettatore nel più tradizionale dei modi, grazie alla musica che lo accompagna durante il viaggio. Il giorno dell’inaugurazione la Zombie Beat ha creato un tappeto di rumori, partendo dal ritmo di ogni singolo orologio: ha acceso l’ingranaggio e si è sintonizzato su quella base per definire una strofa e aggiungere – come in un grande concerto – le successive strofe, ognuna dettata dal ritmo dell’ingranaggio. Una scala di percussioni, sintonizzate in un crescendo emotivo, preludio di ciò che accadrà, interrotto da qualche incursione meccanica: il suono amplificato degli ingranaggi dei quattro orologi”.

Questa volta è assente il fuoco. La sua forza distruttrice era incompatibile con la vitalità della Macchina del Temp(i)o?
“Non abbiamo incendiato nulla solo perché non abbiamo avuto il tempo per realizzare una performance del genere, rispettando la sicurezza dei visitatori. In ogni caso per noi il fuoco rappresenta la forza vitale, non quella distruttrice: è ciò che purifica i rottami del passato, li fonda e li piega a nuova vita, è simbolo di quello scenario urbano, che dall’84 non solo insceniamo, ma viviamo”.

La Mutoid Waste Company nacque a Londra nel 1984 per iniziativa di Joe Rush e Robin Cook, che fondarono una compagnia teatrale alternativa, le cui esibizioni consistevano in spettacoli animati da giochi di fuoco, musica rumorista e installazioni nate dall’arte del riciclaggio. La compagnia praticava e pratica tuttora una sorta di opera d’arte totale, vivendo fra camper modificati e autobus riciclati in un ambiente che ricorda film di culto come Mad Max e Waterworld.
Dopo pochi mesi dalla fondazione entrò nella comunità Strupper, punk inglese che guidò la migrazione della M.W.C. in Italia fino a Santarcangelo di Romagna, dove approdarono nel 1990. L’occasione era data dal Festival , dove la compagnia presentò una lunga parata d’insoliti automezzi: Fiat 500 trasformate in carrarmati, un camion degli anni ’50 mutato in dinosauro… La compagnia s’innamorò del paese e il paese della compagnia, tant’è che da allora occupano un’ex cava lungo il fiume Marecchia. Qui vivono e lavorano, mutando e lasciandosi mutare. Qui creano le loro opere riciclate come l’ultima installazione – Il temp(i)o metalmeccanico – realizzata per la mostra dell’Artigianato Metropolitano, esposizione inter nazionale di arti applicate nei palazzi di Torino fino al 23 febbraio 2003.
L’installazione della M.W.C. occupa la Cavallerizza Reale, in via Verdi 9.

Stefania_Parmeggiani




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