Una lettera a Antonio Moresco su Artaud, Hitler, la Socíetas Raffaello Sanzio (& altro)

in occasione della pubblicazione de L'’invasione

Pubblicato il 13/01/2003 / di / ateatro n. 048

In questo testo ho cercato di riordinare quello che ho detto il 17 dicembre al Teatro dell’’Elfo, in occasione della presentazione della raccolta di saggi di Antonio Moresco L’’invasione, di recente pubblicata da Bompiani.

“[Arthur Adamov] parlava del fascino di Artaud che, lo scrisse anche, gli è morto tra le braccia. E nonostante questo non ha mai potuto capire se e fino a che punto la follia di Artaud fosse della stessa natura di quella di Amleto. Non tanto nel senso che la follia di Artaud fosse una ‘finzione’ messa in atto per raggiungere uno scopo, ma piuttosto nel senso che, come nel caso di Amleto, si trattasse di una follia per difendersi.”
Andrea Camilleri, L’’ombrello di Noè. Memorie e conversazioni sul teatro, p. 243.

Caro Antonio,
volevo provare a mettere ordine nelle idee un po’’ confuse che avevo cercato di esprimere, in maniera forse brusca, l’’altra sera al Teatro dell’Elfo. L’’invasione mi ha senza dubbio coinvolto e provocato, ci sono alcune posizioni sulla letteratura italiana dove sono d’accordo con te, su altre ho idee un po’ diverse. Ma nella lettura mi sono ovviamente concentrato sull’ampia parte del libro dedicata al teatro – circa un quarto del totale – che mi ha spinto a farmi e a farti un paio di domande.
Prima però – credo che possa aiutarci a capire quello che scrivo – devo dichiarare una affinità generazionale e biografica, per così dire, anche se anagraficamente ci separano dieci anni. Io non ho mai militato in un gruppo politico (forse era già tardi), ma ci siamo formati tutti e due in un momento in cui la politica aveva un ruolo centrale – un certo tipo di politica, quella che pensava e sperava utopicamente di poter cambiare il mondo da cima a fondo. Di certo questo “spirito del tempo” ha segnato e cambiato le vite di molti di noi. Quella stagione è finita – per me alla fine degli anni Settanta, più o meno in coincidenza con il rapimento e l’’omicidio di Aldo Moro. Dopo varie esperienze e seguendo strade diverse, ci siamo dedicati – diciamo così – alla cultura e alle arti, alla letteratura e al teatro. (Anche qui, facendo cose diverse, ma per molti aspetti – credo – all’interno di un sentire comune, di quelli che provocano le liti più feroci.)
Condivido anche le tue frequentazioni teatrali – quelle che citi nell’Invasione: per cominciare la Socíetas Raffaello Sanzio, alla quale dedichi molte pagine e una lucida presa di distanza; Renzo Martinelli e Federica Fracassi di Teatro Aperto, che hanno portato sulle scene due tuoi testi, La Santa e I canti del caos, in messinscene dove, secondo me, avevano grande potenza scenica due figure che non articolavano verbo, Federica che “respirava” Teresa e Monica incinta che materializzava la tensione degli “esordi”; e Werner Waas, che aveva presentato alla Maratona di Milano un primo abbozzo del tuo Firmamento.
Ho condiviso anche la tua passione per Artaud, con il quale ingaggi un autentico (ed emozionante) corpo a corpo, commentando frase dopo frase il suo manifesto del teatro della crudeltà.
Insomma, abbiamo tirato diversi fili in comune. Proprio per questo cerco di tenere nella massima considerazione quello che scrivi – e se mi capita di trovare una parola su cui non sono d’accordo – come quell’”artificialmente” riferito proprio ad Artaud, che leggo verso la fine di pagina 181 – mi sembra giusto dirtelo.
Prima di arrivare a quella parola, devo tuttavia cercare di capire meglio il contesto in cui è inserita, non per passione filologica – ma per spiegare prima di tutto a me stesso perché non mi ci sono ritrovato, in quell’avverbio.
Le pagine che dedichi al teatro possono essere lette come una difesa del teatro di parola, contrapposto alle esperienze delle avanguardie post-moderne, ai loro anatemi contro il linguaggio (la Parola) a favore del gesto, dell’immagine, dell’inarticolato, dell’urlo (qualcuno l’aveva chiamato proprio così: il Teatro dell’Urlo). E’ una posizione che ha nobili antecedenti. In Italia basti pensare a Pier Paolo Pasolini (che tu citi) e a Giovanni Testori, che non a caso sono tra i massimi autori di teatro italiani del secondo Novecento. (Di recente Giovanni Raboni sul “Corriere” aveva sottolineato la qualità e vitalità della scrittura drammaturgica dei “non drammaturghi”, ovvero narratori e soprattutto poeti.)
In questo Artaud rappresenta certo un punto di svolta nella storia dello spettacolo del Novecento: di fronte a un teatro considerato al massimo “illustrazione”, ovvero l’’”arredamento” di un capolavoro letterario preesistente, il teatro ha dovuto e voluto affermare la sua autonomia di arte. Il grido di battaglia del Teatro della Crudeltà è stato raccolto e rilanciato da una schiera di artisti – con qualche decennio di ritardo, a partire da Grotowski, dal Living, da Brook negli anni Sessanta. Fino appunto a quella Socíetas Raffaello Sanzio che rappresenta il bersaglio dialettico contro cui ti scagli (con tutto il rispetto e l’affetto nati da stima e amicizia), perché rifiuta “la Parola”, e perché si ispira – in maniera esplicita, letterale – proprio ad Antonin Artaud e alle sue teorie.
Dunque Artaud, intorno al quale ruota tutto il filo del discorso.

A quanto ne so (sto lavorando a memoria), il primo testo importante pubblicato di Antonin Artaud sono le lettere a Jacques Rivière, allora direttore della “Nouvelle Revue Française”, alla quale il giovane poeta aveva inviato alcuni dei suoi testi. Rivière gli aveva risposto con grande gentilezza: caro giovane scrittore, le sue liriche sono interessanti, però c’è qualcosa che non va, qualcosa che non mi convince. Forse era una lettera di circostanza, una di quelle lettere di gentile rifiuto che gli editori a volte inviano agli scrittori in casi del genere (siamo entrambi esperti in materia…). Forse Artaud non capì. In ogni caso rispose a Rivière che sì, era vero, in quelle poesie c’era un problema, e lui ne era assolutamente consapevole: perché c’era come uno scollamento tra il suo pensiero e la sua espressione verbale – una frattura insanabile. Forse – verrebbe da pensare – era il germe della sua follia. Forse c’era addirittura una consonanza con le riflessioni che in quel periodo conduceva Ludwig Wittgenstein – quello che pochi anni prima, prigioniero di guerra a Cassino, aveva concluso il suo Tractatus con una senza insieme banale e misterica: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” – e su questa sorta di stallo Witggenstein stava continuando a interrogarsi ossessivamente, intessendo meditazioni e giochi filosofici sul rapporto tra realtà e sensazione, tra pensiero e linguaggio.
Artaud e Rivière continuarono a scriversi per qualche tempo, finché Rivière non propose di pubblicare la loro corrispondenza, che a quel punto gli pareva molto più importante e interessante di quegli abbozzi poetici.
Per tutta la vita, fino all’ultimo, Artaud ha lottato contro l’inadeguatezza del linguaggio: i suoi balbettamenti, le glossolalie intorno a cui ruotano i suoi ultimi testi sono un tentativo – folle, disperato, velleitario – di trovare una “lingua del pensiero”.
Questo è uno dei due corni del mio dilemma.

Poi, nel tuo saggio su Artaud, fai un’altra mossa decisa. Prendi qualche frase di Artaud e qualche frase di Mein Kampf, e trovi una serie di innegabili affinità e parallelismi. Allora tiri il pugno, un bel diretto alla bocca dello stomaco di Artaud e del lettore.

“Accidenti, com’è andato più avanti di te sul tuo stesso terreno! Ti ha preso in contropiede, ti ha fatto le scarpe! Non c’è qui dentro tutto l’uso terroristico pubblicitario della pompa che annichilisce e soggioga e demolisce le precedenti strutture mentali e di pensiero, le dinamiche di potere pubblicitario che dominano in mille modi e forme questa epoca? E che si basano tutte su un punto di partenza che non è mai esplicitamente dichiarato, o che viene mascherato sotto la demagogia della ‘comunicazione’, e cioè che l’uomo è profondamente influenzabile, e che, come nelle tecniche militari e di guerra, bisogna prima disintegrare e accecare le sue difese per poterlo poi soggiogare…
No, non ti preoccupare, non ti sto dicendo che sei come Hitler, ti sto solo dicendo che, su questa strada, c’è stato, c’è e ci sarà sempre chi è andato e andrà infinitamente, radicalmente e con spaventosa coerenza e possesso di mezzi più avanti di te”.

Il tema non mi è nuovo. Questa estate, a Volterra, credo che Martin Wuttke abbia fatto uno spettacolo proprio sul parallelismo Artaud-Hitler. Più in generale, il rapporto tra le avanguardie artistiche e i regimi totalitari resta un nodo irrisolto e non abbastanza studiato. C’è stata la vergognosa (e tu dirai inevitabile, avanguardia per avanguardia) adesione dei futuristi al fascismo. C’è stata più in generale la pretesa dei regimi hitleriano e stalinista di risolvere a modo loro il rapporto arte-vita, che è senza dubbio uno dei temi chiave delle avanguardie, con le sue parole d’ordine in apparenza speculari, in realtà diversissime: far entrare la vita, la realtà nell’arte/far entrare l’arte nella vita, nella realtà. Da un certo punto di vista Hitler e Stalin hanno portato alle più estreme conseguenze questa aspirazione, come massimi artefici di quelle “opere d’arte totali” che avrebbero dovuto essere il Terzo Reich e l’Unione Sovietica, destinate a modellare e redimere, anche dal punto di vista estetico, sia il mondo sia le vite dei popoli che li abitavano – previo azzeramento fisico delle avanguardie artistiche, naturalmente. (Sul tema era illuminante il provocatorio saggio del critico dell’arte russo Boris Groys, Lo stalinismo e l’opera d’arte totale.)
Dunque la tua provocazione sull’equivalenza Artaud-Hitler affonda in un punto assai sensibile. Se non che, poco dopo, affondi un altro pugno, un gancio sinistro da ko. Perché Artaud si affretta subito a dire che lui è solo un artista, che quella è solo cartapesta, che

“sia l’alchimia sia il teatro sono infatti arti, per così dire, virtuali, tali cioè da non contenere in se stesse né il loro obiettivo, né la loro realtà”.

E tu, di rimando:

“Accidenti, che emozione! La montagna dell’‘originario’ e del ‘sacro’ ha partorito il topolino del ‘virtuale’!”

Un uno-due che manderebbe al tappeto chiunque. Anche se, viene da rispondere (e glielo concedi anche tu), Artaud non ha partorito né i Lager né il Gulag. Artaud – a differenza di Hitler e soci – non voleva “soggiogare” proprio nessuno. Voleva sì “annichilire e demolire le precedenti strutture di pensiero”, come provano a fare molte opere d’arte, in genere quelle che non si limitano a cantare la bellezza inevitabile del presente e che non vogliono parlare solo a se stesse. Ma per aprire inediti spazi di libertà e altre possibili strutture di pensiero, meno vincolate alla logica del principio di realtà – di quella “ideologia della realtà” che oggi ci sta schiacciando: non siamo certo nel migliore dei mondi possibili, ma nel mondo reso necessario dalle leggi del mercato, e dunque dobbiamo accettarlo.
Con questo il problema non viene certo risolto, anzi, ma la mia seconda domanda – il secondo corno del dilemma – può iniziare ad avere contorni meno indefiniti.

Il tuo rifiuto del teatro ha ottime ragioni (basterebbe il fatto che sei stato iniziato alle scene da uno spettacolo – puro teatro di Parola – con Giulio Bosetti…). E il rifiuto della parola a teatro è certo ottuso – infatti gli estremismi del “teatro immagine” anni Settanta che bandiva completamente il testo, a sottolineare la propria vocazione anti-letteraria, sono stati abbandonati abbastanza presto. Del resto, malgrado tutte le dichiarazioni del gruppo, è difficile non leggere gli spettacoli della Socíetas Raffaello Sanzio come testi – anzi, sia la loro memorabile Orestea sia la terza parte (sebbene muta) del loro testamentario Genesi, oltre che un testo (uno spettacolo-testo che si può leggere e anche scrivere come un testo, e Romeo Castellucci l’ha fatto) sono addirittura un puntuale e meticoloso commento a un testo preesistente.
Ecco, tu hai questa fede nella parola. Nella parola con la minuscola, o meglio ancora nelle parole. Sei evidentemente convinto – e la tua pratica di scrittura lo dimostra, anche nei suoi eccessi – che tutto possa essere ricondotto alla parola. Attacchi Artaud:

“Prima separi artificialmente la parola dal resto per poi ricostruire o inventarti un’unità ‘sacra’, totalizzante e sintetica”.

Io non so se in Artaud questa separazione fosse davvero “artificiale” o se non fosse invece un fatto drammatico, il nucleo di una follia autentica. Peraltro, poco dopo questo “artificialmente”, per dargli una forza incontestabile, alla fine del tuo corpo a corpo con Artaud ne tracci un ritratto feroce e divertente, per ridicolizzare quella sua “pazzia così consapevole di sé, così ‘estetica’, così ‘francese’”.
Ecco, questa è la mia prima domanda. Sei davvero sicuro che quella follia fosse una maschera? La frattura che ha ossessionato la vita di Artaud non può esistere, è solo la patologia di un folle assai coreografico?

La seconda domanda è un po’ più vaga, forse, ma riguarda le conseguenze della pratica artistica. Artaud non sta facendo politica, sta facendo qualcosa di diverso e lo dice con chiarezza:

“Abbiamo bisogno di un’azione vera, ma senza conseguenze pratiche.”

Così Artaud rischia, ma si salva: non diventerà né Hitler né Stalin. Però al tempo stesso si de-responsabilizza – anche se non può garantire rispetto agli usi impropri delle sue tecniche. Anche noi, in qualche modo, ci siamo de-responsabilizzati: non facciamo politica, scriviamo…
Però sappiamo anche che ogni nostra azione ha un peso, un valore e un effetto politici, è inevitabile. Allora, la mia seconda domanda. Dobbiamo davvero tenere separate arte e vita? E’ la soluzione classica, anti-avanguardistica, evita le trappole della politica e della propaganda – ma solo in apparenza. E’ un rifugio precario, e quando i tempi diventano difficili è poco più di un alibi.

Ecco, sono queste le due domande che hanno iniziato a girarmi per la testa dopo aver letto Invasioni.
Ti ho invidiato, perché hai una fede più forte della mia nel potere salvifico delle parole, nella loro autosufficienza. O almeno questa è l’impressione che mi dai. Mentre io – in fondo – non so da dove nascano davvero le parole, né che potere abbiano né dove possano sfociare. Più ci penso, meno lo so. E continuo a tremare, a interrogarmi.
Santa Maria Maggiore, 24-25 dicembre 2002

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