The Merchant of Venice con la regia di Trevor Nunn

Lo spettacolo del National Theatre dal Cottesloe all'Olivier

Pubblicato il 14/02/2003 / di / ateatro n. 049

Al Teatro Olivier di Londra il 21 febbraio anteprima di Love’s Labour’s Lost, con la regia di Trevor Nunn. Si tratta dell’ultima regia di Trevor Nunn come direttore del National Theatre. Nunn è stato direttore artistico della Royal Shakespeare Company dal 1968 al 1986, quando era stato costretto a dimettersi, dopo le accuse di aver commercializzato la compagnia con produzioni da West End, come i fortunatissimi Cats, Nicholas Nickleby (1981) o Les Miserables. Nel 1992 aveva ben sei spettacoli sulle scene del West End. Direttore del National Theatre dal 1997 (avrebbe dovuto mantenere la carica fino al marzo 2003), anche in questo caso, è stato accusato dalla stampa di arricchirsi vendendo ai teatri commerciali le produzioni del National Theatre. All’atto delle dimissioni, Trevor Nunn ha lasciato al teatro un fondo di 4 milioni di euro, destinati all’allestimento di nuove opere.
Tra le produzioni del National firmate Trevor Nunn, A Streetcar Named Desire, The Coast of Utopia, South Pacific, The Relapse, My Fair Lady, Albert Speer, Summerfolk, The Merchant of Venice e Troilus and Cressida.

Vera Cantoni, laureata brillantemente in Lettere presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ci illustra in questo saggio lo spettacolo di Nunn The Merchant of Venice; la Cantoni ha analizzato le due diverse versioni dello spettacolo, quella realizzata al Cottesloe (di cui ha potuto visionare il prompt book) e quella dell’Olivier (esiste anche un film tratto dallo spettacolo, per la regia dello stesso Nunn e realizzato per la televisione britannica, ricostruito in set). Si tratta anche di due spazi scenici estremamente diversi: lo “Shakespeare da camera” pensato per il Cottesloe è stato necessariamente trasformato per l’Olivier a causa dellla enorme differenza di grandezza del palco.
Vera Cantoni ha cercato di definire alcuni “macro temi” e il loro trattamento registico nelle due versioni: il rapporto con il testo (il numero di versi troncati, sospesi, o ancora spostati o attribuiti a un altro personaggio), l’utilizzo dello spazio scenico, la recitazione, i costumi, la posizione del pubblico, l’immagine dell’ebreo Shylock. L’opera di Shakespeare ha spesso offerto lo spunto per parlare a teatro dei problemi legati al razzismo, alla non integrazione delle minoranze o di soggetti a rischio di emarginazione. (n.d.r.)

Gli spettacoli che nascono nel contesto di un teatro stabile inglese, a meno che siano inseriti in specifici progetti di tournée, sono in genere destinati a legare tutta la propria durata ad un unico spazio scenico, e così doveva essere in origine anche per Il mercante di Venezia messo in scena nel 1999 da Trevor Nunn con l’NTEnsemble99. Un enorme successo di pubblico e critica ha però spinto il National Theatre a riprendere lo spettacolo in una sala più capiente, ma anche strutturalmente diversa, poco dopo la data di chiusura prevista, un’interessante “riapertura” a metà strada fra un semplice prolungamento delle repliche ed un vero e proprio secondo allestimento della medesima messinscena: al primo la avvicina la quasi totale identità del cast, in direzione opposta muove l’adattamento ad un luogo scenico completamente diverso, con modifiche ancor più radicali di quelle normalmente richieste da una tournée, che in genere visita teatri relativamente omogenei per struttura e dimensioni. Quando poi, l’anno successivo, le stesse ragioni hanno spinto a produrre una versione filmata dello spettacolo per la televisione e il mercato dello home video, per alcuni aspetti si è tornati alle scelte iniziali, e per altri sono stati necessari nuovi cambiamenti.

1. La scenografia

A subire i cambiamenti più evidenti è stata la scenografia, come era inevitabile poiché le tre versioni dello spettacolo corrispondono ad altrettanti luoghi diversi per dimensioni (una sala per un massimo di 300 posti, una da 1150, e la virtuale illimitatezza del video) che per disposizione (un teatro tipo studio, uno “ad arena”, e di nuovo una situazione indefinita con le riprese sul set).

Più specificamente il Cottesloe, in cui è nata questa messinscena, è una sala rettangolare relativamente piccola che grazie ai sedili mobili può essere articolata di volta in volta in maniera diversa ridistribuendo le zone destinate al pubblico e agli attori secondo le scelte di registi e scenografi. In questo caso (vedi la figura 1) il pubblico occupa la parte centrale dei due lati più lunghi della sala su tre livelli, mentre lo spazio scenico include le due estremità e la zona al centro della sala, compreso uno stretto passaggio fra i posti a sedere su entrambi i lati, nonché il terzo lato all’altezza delle prime gallerie: agli spettatori è così concesso uno spazio minimo, rispetto alle potenzialità dell’auditorium, mentre sono i luoghi scenici ad occupare l’intera sala, circondando il pubblico su tre lati.

Alla diversità strutturale dell’Olivier, che riprende lo schema dei teatri classici, con koilon, orchestra e proskenion, si è unita per Il mercante di Venezia una particolare scelta nel suo utilizzo, tendente a limitare piuttosto che ad espandere i luoghi scenici. L’ “orchestra” infatti è stata ricoperta con un piano d’ardesia trasformandola in una sorta di proscenio, in modo tale da ottenere un palcoscenico paragonabile a quelli dei teatri all’italiana, rispetto al quale le estremità delle gradinate sono posizionate come dei palchi di proscenio (vedi la figura 2).

Nel caso delle riprese televisive infine non vi sono inquadrature o movimenti di macchina che permettano di ricostruire il set nel suo complesso: le scelte di montaggio sfruttano la possibilità del video di non definire i luoghi in cui è ambientato.

La scenografia originaria prevede tre aree costituenti all’interno della spazio scenico un sistema quasi a luoghi deputati: Belmont, il Ghetto, i luoghi pubblici. Tali zone possono sovrapporsi ampiamente, e anche arrivare a occupare tutto lo spazio a disposizione, ma appaiono comunque generate da un punto preciso. Il palazzo di Portia si colloca sul lato della comune, ed è caratterizzato da pochi pezzi di arredamento art déco, mentre illuminazione e rumori possono ricrearne la veranda (II.1, V.1). All’estremità opposta, la casa di Shylock e i suoi dintorni: la parete è occupata quasi interamente da saracinesche abbassate, per gli interni cala dall’alto una lampada rossa decorata con una stella di David e vengono eventualmente introdotti dei semplici mobili (una sedia, un tavolino). Nell’area centrale si sviluppano invece i luoghi pubblici: tavolini e sedie rappresentano per metonimia un caffè; con l’aggiunta di un pianoforte, una batteria e un microfono, un night-club; luci e suoni evocano il molo su cui è ambientata III.1; il tribunale è reso con una scrivania e una poltrona per il doge, un tavolo per gli avvocati e alcune sedie che strutturano lo spazio definendo inequivocabilmente il posto dell’imputato, del pubblico, e così via. La pavimentazione riproduce lastre di marmo variegate per colore e dimensioni e rimane costante per l’intero spettacolo, modificata solo dalle diverse illuminazioni. Sedie, tavolini e oggetti sono portati in scena e fuori dai protagonisti stessi, e gli unici elementi automatizzati visibili sono la lampada della casa di Shylock e il dipinto klimtiano che copre la parete di Belmont nelle scene degli scrigni.

Nell’Olivier invece i fondali vengono sostituiti, o meglio in genere sovrapposti, facendoli scorrere su ruote in un breve momento di buio fra una scena e l’altra, mentre i pezzi d’arredamento vengono cambiati dalle comparse in costume di camerieri. Il passaggio a questa sala ha comportato modifiche riconducibili sostanzialmente a due differenze fra i palcoscenici: le dimensioni e l’orientamento. Dalla prima, accentuata fra l’altro dal fatto che l’Olivier venga usato sempre nella sua interezza, mentre il Cottesloe risultava quasi diviso in diversi luoghi deputati, discendono il frequente aumento delle distanze fra i diversi elementi scenografici (per esempio in I.2 e III.4), la moltiplicazione di tali elementi (per esempio tavolini e sedie nei vari caffè e club) e nel caso dell’arredamento di Belmont la scelta di mobili dello stesso stile ma più voluminosi (una poltroncina al posto di una sedia e così via). Il problema dell’orientamento presenta una certa ambiguità, giacché esso risulta univoco nell’Olivier, dove il pubblico è disposto solo ad un lato del palco, ma molteplice nel Cottesloe, dove gli spettatori occupano due lati opposti, e per di più solo nella zona centrale. Resta comunque indiscutibile che i due teatri richiedano in questo senso una diversa disposizione degli elementi scenici, in particolare in relazione alle pareti di fondo: nell’Olivier una, sul lato più lungo, ineludibile, nel Cottesloe due, sui lati più corti, e con la possibilità di limitare l’azione al centro della scena, senza alcun fondale. Ne conseguono scenografie talvolta semplicemente ruotate di 90° (il tribunale in IV.1), talvolta interamente ridisposte. È questo in particolare il caso delle scene degli scrigni (II.7, II.9, III.2), la cui ambientazione ha un che di solenne e rituale, ancorché prettamente laico: due inginocchiatoi, una copia della prima parte del Fregio di Beethoven di Klimt (L’anelito alla felicità), una tenda dal soffitto a terra, che inizialmente copre il mobiletto sui cui tre ripiani trasparenti sono poste le possibili scelte. La rigorosa geometria della disposizione di questi elementi ha dovuto subire notevoli modifiche per essere adattata ad un palco completamente diverso, come dimostrano le figure 3 (Cottesloe) e 4 (Olivier). Alla disposizione in profondità, che sottolinea il percorso dai due inginocchiatoi agli scrigni e al quadro, inizialmente nascosti come il cuore e la parte più sacra di un tempio, si sostituisce sul palco più vasto una composizione tendenzialmente bipolare, con gli scrigni e gli inginocchiatoi in posizione quasi simmetrica e solo il dipinto a sottolineare la preminenza dei primi. Anche la tenda non li cela più a sguardi indiscreti, sostituita all’inizio delle scene interessate dalle cameriere schierate, schermo ben più umano e meno imponente.

Per quanto riguarda i passaggi da una scena alla successiva il video segue decisamente l’uso televisivo e non documenta in alcun modo le modifiche al set, staccando invece da un’immagine ad un’altra completamente diversa. I problemi di dimensione e orientamento sono in questo caso risolti dalla libertà dei movimenti di macchina e dalla possibilità di delimitare uno spazio di dimensioni varianti da una scena all’altra, per cui da questo punto di vista il video può rappresentare una sorta di scelta incondizionata di regista e scenografo: luoghi più circoscritti per le stanze del palazzo di Belmont, per la casa di Shylock e per il bar del Ghetto (I.3), più vasti per gli esterni e il tribunale; la disposizione di oggetti del Cottesloe per la scena degli scrigni, ma con la possibilità di variarne la prospettiva, che poi nelle scene del tribunale fa sì che non si possa parlare affatto di un orientamento della scena. Più in generale, i luoghi del video sono meno definiti, dal momento che quasi mai ne viene data un’inquadratura complessiva né vengono descritti dai movimenti di macchina, che al contrario tendono a frammentarli rendendoli difficilmente riconoscibili. Questa scelta fa parte di una tendenza generale a cercare una sorta di equilibrio fra le esigenze della televisione e quelle originarie dello spettacolo teatrale, per cui le scenografie usate sono spesso le stesse per luoghi diversi, come in teatro, ma inquadrature, illuminazione e montaggio collaborano nel renderle difficilmente riconoscibili, così come si mescolano elementi di stilizzazione teatrale e di realismo televisivo. Una sorta di compromesso è realizzato ad esempio nelle molte scene ambientate in caffè e locali notturni. Si è accennato al fatto che in teatro essi sono rappresentati per metonimia da pochi tavolini con sedie, talvolta solo uno. Per le riprese, tali elementi vengono moltiplicati fino a raggiungere un numero credibile, ma nello stesso tempo la stilizzazione teatrale viene in parte mantenuta col non arricchire la scena di altri elementi (quali un bancone o simili): anche nel caso delle stanze di I.2 e III.4, in cui sono aggiunti alcuni pezzi di arredamento, essi arrivano a soddisfare la necessità di non lasciare troppi spazi vuoti nell’immagine, senza peraltro costituire un tutto realistico.

In conclusione si può dire che le scenografie, pur adattate alle diverse situazioni, siano state validamente mantenute in linea con la loro concezione iniziale.

2. Le comparse e la posizione del pubblico

Cambiamenti affini a questi ultimi si possono riscontrare nel cast: il realismo richiederebbe la presenza nei locali pubblici di altri personaggi oltre a quelli al centro della vicenda, e nella stessa direzione pesa nell’Olivier la necessità di riempire uno spazio scenico molto più vasto di quello del Cottesloe, nel quale le comparse sono veramente pochissime. Nel complesso, tuttavia, l’horror vacui televisivo e le esigenze di un palco più vasto non hanno vanificato l’essenzialità stilizzata della messinscena originaria, i personaggi aggiunti sono pochi, e in quasi tutti i casi non sono altro che la moltiplicazione di figuranti presenti fin dall’inizio. L’eccezione che salta subito agli occhi sono i “magnifici” previsti da Shakespeare per la scena del tribunale (IV.1), eliminati nel primo teatro ma reintrodotti nelle altre due versioni, dai quali si può prendere spunto per una riflessione più ampia. Si tratta di figure mute, in qualche modo ambigue perché da un lato dotate di autorità e dall’altro private di ogni potere concreto dalla sostanziale estraneità all’azione: autorevoli testimoni, giudici impossibilitati ad eseguire la loro sentenza. Questa descrizione non può non ricordare il ruolo che ha in questa fase il pubblico, che partecipa emotivamente al processo, ne giudica i protagonisti, ma non può intervenire nella loro vicenda, anche se quella scena si svolge proprio per lui ed ha in lui il suo interlocutore privilegiato. Se poi si prende in considerazione la posizione attribuita ai seggi dei senatori sulla scena dell’Olivier vi si trova una chiara conferma di questa interpretazione: al posto dei giurati nel Cottesloe ci sono degli spettatori, ciascuno interpretando questo ruolo per quelli di fronte e al tempo stesso rispecchiandovisi egli stesso. Ciò non è possibile, naturalmente, nell’Olivier, sia per il numero che per la collocazione degli spettatori, e tanto meno nel caso delle riprese televisive, per le quali spazio e tempo degli spettatori sono necessariamente diversi da quelli degli attori.

Il coinvolgimento degli spettatori in questa scena spinge poi a considerare tutte le altre, e a notare come tutte le scene ambientate in luoghi pubblici si svolgano nel Cottesloe nella parte centrale della sala, con tavolini e sedie posti sullo stesso piano e a breve distanza dai sedili del pubblico, così trasformato nella comunità veneziana che quei luoghi frequenta. Il ruolo affidato in questo modo agli spettatori non è peraltro connotato da particolari legami con una parte dei personaggi. In particolare se nelle scene ambientate nei caffè e nel cabaret (I.1, II.2, II.4, II.6, II.8) il pubblico condivide gli svaghi dei giovani veneziani (e in particolare in II.6 si trova a guardare lo stesso spettacolo e a ridere delle stesse battute, il cui oggetto è Shylock), in I.3 costituisce la popolazione ebraica del ghetto. D’altra parte al pubblico non è concessa alcuna possibilità d’intervento, e i senatori al processo rappresentano anche questo aspetto della condizione spettatoriale, indignandosi o solidarizzando con gli esseri umani che osservano ma senza mai poter esprimere con parole o azioni efficaci le loro opinioni.

Questo è evidentemente l’aspetto dello spettacolo che più è stato messo a rischio dal trasferimento all’Olivier e poi in televisione, con un graduale allontanamento, fisico e psicologico, degli spettatori dagli attori. Tuttavia bisogna riconoscere che grazie ad un consapevole sforzo di mantenere il rapporto stretto fra scena e platea che si era creato nel Cottesloe, l’intimità della messinscena è rimasta in gran parte intatta, anche sfruttando le possibilità proprie dei nuovi contesti (ad esempio nelle riprese lo sguardo in macchina).

3. La recitazione e il trucco

Il mutato rapporto con il pubblico nelle diverse situazioni si manifesta naturalmente anche nell’impostazione della recitazione e nei suoi cambiamenti. I due teatri hanno in comune il fatto che non è possibile nascondervisi, nel caso del Cottesloe per la minima distanza che separa il pubblico dagli attori, nel caso dell’Olivier perché la scena è quasi circondata dalle gradinate su tre lati. Tuttavia ben più grosse sono le differenze dovute alle dimensioni, che impongono nell’Olivier voci più potenti, movimenti più chiari ed ampi, e insomma una generale enfatizzazione e semplificazione della recitazione. Personaggi come Morocco e Arragon, le cui parole e azioni avevano già “dimensioni” notevoli, non vi hanno dovuto subire grosse modifiche, ma il lavoro più sottile su Shylock, Portia o Antonio è stato sicuramente appiattito e “teatralizzato” nello spostamento, per non parlare degli ammiccamenti del clown. Più ambiguo è l’effetto sulla recitazione del passaggio alle riprese televisive: senz’altro le distanze si restringono di nuovo, superando in vicinanza il Cottesloe stesso con la possibilità dei primi piani, ma ciò non si traduce esclusivamente in una recitazione ancora più intima e sotto le righe. Il mezzo televisivo, infatti, riduce la distanza dell’immagine ma aumenta quella della persona in sé, se così si può dire, e quest’osservazione teorica è tutt’altro che sterile: la mancanza della compresenza fisica, così come i limiti imposti alla visione da inquadrature e montaggio, annullano tutta una serie di mezzi espressivi legati, ad esempio, alla prossemica tridimensionale della scena, e richiedono di conseguenza un cambiamento non sempre in direzione di una maggiore interiorizzazione. L’interpellazione dello spettatore si deve esplicitare con uno sguardo in macchina, dal momento che non vi è altro modo di avvicinarsi al pubblico, e se i gesti possono essere ridotti e sfumati rispetto a quelli richiesti da un teatro come l’Olivier, i volti in primo piano richiedono un’intensificazione espressiva che concentri nel viso quanto comunicava sulla scena l’intero corpo.

Un cambiamento connesso a quelli recitativi è sicuramente avvenuto nel trucco degli attori, ma è quello su cui meno si può dire: obiettivo delle modifiche è infatti, in questo caso, il renderlo in generale impercettibile o comunque apparentemente immutato. Nel video i costumi, le pettinature e il trucco dei personaggi cambiano molto di più fra le scene, non essendo condizionati da pressanti esigenze di velocità di mutamento, ma rimangono sostanzialmente in linea con le scelte della messinscena teatrale. Un caso particolare è dovuto non tanto ai diversi mezzi a disposizione nei due casi quanto alle loro diverse convenzioni e regole di opportunità. Tubal in scena sfoggia una lunga barba rossa, folta e non molto curata, che rimanda allo stereotipo comico dell’ebreo assai diffuso nel teatro inglese fra sedicesimo e diciottesimo secolo, mentre in televisione appare perfettamente rasato, e per di più bruno di capelli. Senz’altro il trucco adottato per questo personaggio in teatro sarebbe risultato troppo pesante in televisione, ma ciò che si verifica non è un suo alleggerimento, bensì la sua completa scomparsa. La spiegazione di questo mutamento non risiede dunque nel diverso codice estetico, bensì nel diverso codice morale: anche se nei fatti Tubal non riproduce certo quella macchietta razzista, il politically correct televisivo non permette nemmeno di citarla sul piano dell’immagine, neanche per confutarla.

4. Il testo

La riduzione del testo per le riprese televisive è stata complessivamente di 600 versi (equiparando un verso e una riga di prosa nell’edizione Arden) sui 2417 totali. In termini di tempo lo spettacolo teatrale durava circa tre ore, intervallo escluso, mentre la videocassetta è di 161 minuti: dunque i tagli riguardano in maggioranza le parti parlate, piuttosto che l’azione muta. Ciò può costituire una conferma del fatto che obiettivo principale del video è la registrazione di questa specifica messinscena, piuttosto che una generica resa televisiva del Mercante di Venezia, nonché dell’importanza assunta dall’azione muta nella regia di Trevor Nunn. La piccola differenza di durata spinge inoltre a pensare che l’abbreviazione non fosse l’unico scopo (e forse nemmeno quello principale) di tale operazione. Dall’esame delle parti scartate emerge infatti ben più forte la tendenza a semplificare, non solo il testo (l’eliminazione di passi dall’interpretazione controversa si potrebbe dare quasi per scontata), ma anche i personaggi e i loro rapporti. In genere sono state eliminate le complesse sequenze di immagini che caratterizzano soprattutto i monologhi piuttosto che i momenti di dialogo, e se questa scelta potrebbe essere letta anche come il sacrificio sull’altare della funzionalità di tutto ciò che può essere giudicato ornamentale, a parte il fatto che la poesia non è certo un elemento accessorio nell’economia del teatro shakespeariano, le conseguenze dei tagli operati non possono essere ignorate, e l’analisi di alcune di esse mostra come si prestino ad altre coerenti interpretazioni.

Innanzitutto non è trascurabile che la parte di Shylock, per molti versi il protagonista dello spettacolo, sia notevolmente meno ridotta delle altre (circa 40 versi su quasi 350), e con un unico taglio esteso: 11 versi in I.3, la narrazione dell’episodio biblico dell’espediente di Giacobbe. Le modalità con cui questo monologo viene accorciato esemplificano fra l’altro un’interessante tecnica utilizzata anche altrove nelle riprese: è Antonio a interrompere Shylock con la sua osservazione. In questo modo alla perdita di un brano più o meno lungo di testo corrisponde invece una nuova occasione espressiva, in questo caso per esempio dell’insofferenza di Antonio per Shylock.

Assai proficuo risulta il confronto fra due personaggi dai ruoli paralleli, Morocco e Arragon, i due pretendenti sfortunati di Portia. Il primo perde circa il 37% dei suoi versi, il secondo il 19%, una differenza che non può non saltare all’occhio. Per spiegarla si potrebbe ricorrere al fatto che in origine la parte di Morocco è molto più lunga, e i diversi tagli la rendono grosso modo equivalente a quella di Arragon, ma basterebbe a spingere in direzione contraria il fatto che alle scene di Morocco, il primo a tentare la sorte nella scelta dello scrigno, è attribuito il compito di spiegare il funzionamento di questo rito, mentre ogni illustrazione dello stesso nella scena di Arragon è una pura ripetizione (dal punto di vista degli spettatori, ovviamente). La scena di Arragon, tutto considerato una di quelle meno ridotte, è però stata piuttosto uniformemente giudicata la più divertente dell’intero spettacolo (le uniche voci di dissenso fra i recensori riguardano non la sua capacità di suscitare il riso, bensì le modalità e le cause di tale divertimento), ed è difficile scartare l’ipotesi che sia stato il suo carattere ai limiti del farsesco a preservarla intatta. Morocco, invece, è un personaggio problematico, almeno per la nostra sensibilità, e tutt’altro che comico. La messinscena teatrale ha risolto i problemi posti dal suo ruolo in chiave di commedia sofisticata, soluzione tutt’altro che pacifica e soprattutto tendente a complicare la psicologia sia del principe che di Portia, e che sfrutta in maniera funzionale i lunghi e complessi discorsi di Morocco (come del resto fa anche, in tono comico, la scena di Arragon). Per le riprese televisive invece la scelta è stata più semplicemente di tagliare il verso più critico (II.7.79, la conclusione razzista di Portia) e ridurre drasticamente i monologhi del principe, evitando ogni possibile questione a costo di ledere la portata della scena.

In non pochi casi sono stati scartati i momenti in cui un personaggio manifesta aspetti apparentemente contraddittori del suo carattere. In III.4 ad esempio è stata conservata la battuta che può far ridere il pubblico (vv.61-62), ma nessun altro spazio è lasciato all’espressione della dimensione del gioco nel piano di Portia (vv.65-78): l’eroina che va a salvare l’amico del marito non si può soffermare sull’aspetto divertente della sua missione. Nella scena precedente viene espunto invece il riferimento alla complessità della situazione sul piano economico-politico, che riguarda la rivalità economica di Antonio e Shylock ma soprattutto la ragion di stato e gli interessi economici della Repubblica (vv.21-31). Con la scomparsa della bugia di Jessica a Shylock (II.5.43-44) il tema del padre ingannato rimane confinato ai discorsi di Shylock stesso.

Tutta la linea tematica riguardante la fuga di Lorenzo e Jessica appare del resto piuttosto sacrificata per la rimozione della quasi totalità del loro dialogo in III.5, per la quale forse si sommano le due principali motivazioni di taglio osservate: l’eliminazione di passi in cui la ricchezza formale e poetica esorbiti nettamente dalle necessità informative e la rimozione o semplificazione di aspetti contraddittori nel ruolo dei personaggi. Lorenzo e Jessica sono figure inevitabilmente difficili, in quanto principali autori di un inganno e di un furto, ma nello stesso tempo guidati, almeno apparentemente, da una sensibilità amorosa e cortese, e insomma al centro di una scelta sofferta e problematica. La messinscena teatrale enfatizzava la drammaticità della loro situazione con il finale, mantenuto nelle riprese televisive, e i tagli operati nella loro sceneggiatura non vanno in direzione di una contraddizione di quelle scelte, ma tendenzialmente ne riducono il peso diminuendone l’impatto sul piano quantitativo.

Un’altra “vittima” della drastica riduzione di III.5 è il clown Launcelot, in assoluto il personaggio la cui parte è stata maggiormente ridotta. I dati nel suo caso diventano anche più significativi se si considera il fatto che il suo ruolo non risponde affatto a quelle caratteristiche di ricercatezza poetica che sembrano motivare molte semplificazioni. Inoltre il suo è un ruolo unico, e non inserito in una collettività come quella costituita dai giovani veneziani che, al di là delle singole personalità individuali, permette in alcuni casi di considerare complessivamente l’espressione di un punto di vista comune, attutendo così l’impatto dei tagli. A favorire una riduzione della sua parte si possono osservare la sua limitata partecipazione alle vicende principali e la sostanziale estraneità di tono rispetto al resto della commedia, giocata su intrecci e dialoghi brillanti piuttosto che su gag e battute, ma queste caratteristiche non bastano certo a spiegare un cambiamento di proporzioni simili, tanto più che la diversa comicità di Launcelot è stata resa sostanziale dalla messinscena coll’attribuirgli uno specifico ruolo di intrattenitore. Piuttosto sembrerebbe determinante la difficoltà di rendere nelle riprese l’apparenza di improvvisazione delle sue “prodezze”, i suoi ammiccamenti, la fisicità delle trasformazioni nel modo di parlare e di muoversi, l’effetto spiazzante dei suoi giochi sugli altri personaggi e sul pubblico, tutto un insieme di caratteristiche legate alla compresenza di attori e pubblico e alla libertà convenzionale della tradizione del clown che non può non cozzare con la diversità di situazione ed il realismo televisivo. Inoltre, e su un piano più banalmente concreto, Launcelot sembra risentire del generale ridimensionamento della trama legata alla famiglia di Shylock, di cui principalmente fa parte.

Restando nell’ambito dei non molti personaggi direttamente legati a Shylock, merita un accenno Tubal, che in III.1 perde solo 5 versi, ma di un certo interesse. Si tratta infatti del momento tragicomico in cui le sue parole, mischiando notizie della fuga e degli sperperi di Jessica a informazioni sulle perdite di Antonio, causano nell’amico un’alternanza di sentimenti opposti. Da una parte, coerentemente con le modifiche apportate all’aspetto di Tubal, viene così cancellato il riferimento alla tradizione comica dello stereotipo teatrale dell’ebreo, dall’altra viene del pari eliminato un momento importante del percorso di Shylock. Nel corso di questa scena, sia nel dialogo con Salerio e Solanio sia in quello con Tubal, sono per la prima volta associati la fuga di Jessica con Lorenzo e la probabile inadempienza di Antonio, con un effetto di crescendo ritmico dato dagli scambi fra i due argomenti, nelle seconda parte ben più frequenti. Poiché la scena si chiude (e con essa la prima parte dello spettacolo teatrale) con la prima azione di Shylock contro Antonio, è inevitabile vedere, almeno in un’interpretazione come questa, che non fa di Shylock una semplice incarnazione del male e della crudeltà, la graduale affermazione della possibilità di vendicarsi una volta per tutte su di Antonio. In questa ottica, è drammaticamente molto interessante che a tale sviluppo contribuiscano gli amici di Antonio, che vorrebbero difenderlo, e l’unico amico di Shylock, dall’inizio alla fine contrario a tale vendetta. Drastica appare quindi la riduzione di questo personaggio, cui invece la messinscena aveva dato uno spessore superiore a quello attribuitogli dal testo con l’aggiunta del suo muto ma significativo intervento al processo.

La scena del processo

In conclusione, i cambiamenti apportati al testo per il video ne variano notevolmente gli equilibri secondo tre principali vettori, naturalmente fortemente connessi fra di loro. Per cominciare, la tendenza a rendere relativamente più asciutto il dialogo ha per effetto un appiattimento dei personaggi per i quali la ricchezza poetica è un tratto caratterizzante, come Morocco, Lorenzo, la coppia costituita da Portia e Bassanio rispetto a quella formata da Nerissa e Gratiano, nonché un generale smussamento della contrapposizione fra il mondo cortese e quello mercantile. Di molte figure, inoltre, risultano in ombra i tratti di ambiguità. Per finire, e per molti aspetti come risultato delle due tendenze appena sintetizzate, assume una netta preminenza la trama “giudiziaria” (indicativo il fatto che la lunghissima scena del processo abbia perso solo un decimo dei suoi versi), sia sul piano contenutistico, data la riduzione degli spazi dedicati a quella sentimentale, sia su quello strutturale, con la semplificazione delle possibili contraddizioni psicologiche in favore di una più chiara consequenzialità di atteggiamenti ed azioni.

Conclusioni

Nel complesso la vicenda del Mercante di Venezia diretto da Trevor Nunn costituisce un esempio positivo di come un’idea di messinscena possa mantenere intatto il suo spirito, pur perdendo gradualmente la vicinanza col pubblico che ne era fondamento, grazie allo sforzo di conservare anche in un teatro meno intimo e poi nelle riprese televisive l’atmosfera e l’atteggiamento che da quella strettissima prossimità erano nati. Il suo percorso può però esemplificare anche il pericolo che nel passaggio dalla scena al video non viene dalle diverse condizioni e tecniche, bensì dalle esigenze specifiche della televisione, che tende a richiedere una sorta di semplificazione dello spettacolo, non per l’impossibilità di realizzarlo nella sua forma originaria bensì per adeguarlo al minore impegno intellettuale che presuppone nello spettatore. Ancora una volta, insomma, al lodevole tentativ

Vera_Cantoni




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