Le recensioni di “ateatro”: Gli angeli dello sterminio

di Giovanni Testori, Longanesi, Milano, 1992

Pubblicato il 10/04/2003 / di / ateatro n. 051

Giovanni Testori è uno dei rari milanesi ancora disposti a dissociarsi, indignarsi per quel che è stato della sua città. Uno dei pochi ad aver preso esplicitamente posizione a favore dei “paria”, degli esclusi dal grande banchetto degli anni Ottanta, che gli altri liquidavano (e liquidano) con l’indifferenza e un’alzata di spalle. Uno degli ultimi a manifestare un sentimento desueto come la pietà.
Da sempre, fin dai titoli (Roserio, via MacMahon…), i suoi libri parlano di Milano. Anche l’ultimo, breve Gli Angeli dello Sterminio (Longanesi, lire 19.000) è ambientato a Milano, ed è anche – e forse soprattutto – un libro sulla propria città amata e odiata.
La Milano degli Angeli dello Sterminio non è più la città delle periferie misere e nebbiose, abitata da una umanità di umiliati e offesi. Un città in cui si intessevano rapporti sociali che – certo – erano fondati anche su sopraffazione e dominio, ma offrivano pur sempre una rete in cui costruire la propria identità, e dunque intrecciare storie, speranze, sofferenze, sogni d’amore o di riscatto, tragedie o patetiche farse.
Tutto questo, con gli anni, è scomparso. Spazzato via o semplicemente svaporato. La Milano dei primi libri di Testori, che affondava le sue radici in Manzoni e Gadda, Porta e Tessa, non esiste più. Non ne sopravvivono né il ricordo né la nostalgia. Milano appare oggi come una città dove le strade non hanno più un nome, e dove anche le persone hanno perso il loro nome e il loro volto. Dove le esistenze quotidiane sono state compresse in meccanismi sempre più invasivi, da un senso del tempo di crescente voracità, che incombe muto a svuotare i rapporti di ogni umanità, che divora pause, ritmi, respiri in un carosello nevrotico e istericamente narcisista.
Il processo che ha trasformato la città in un guscio di metropoli inquieto, insoddisfatto, impaurito, a Testori oggi non interessa: ha semplicemente scelto di tirarsene fuori, di mettersi in disparte, rifugiandosi nel ruolo di critico visionario e di ispirato profeta. Dalla distanza che lo separa dalla realtà, emerge la visione di un’altra Milano: stravolta, sfregiata, sfigurata dalla peste come nei Promessi sposi. Naturalmente senza più Cardinal Borromeo, senza progetto d’amore tra Renzo e Lucia, senza più neppure un Innominato. Solo il delirio chimico-biologico della malattia. Putrefazione, crani spaccati, bellezze deturpate, lacerazioni, spappolamento. Fuoco, crolli, disastri. Nessuna punizione appare sufficiente per questa novella Sodoma. Nessun rimedio può guarire la sua malattia senza nome che richiama la peste di Marsiglia evocata da Artaud.
Quella della profezia testoriana è una città ormai senz’anima – in questo non troppo diversa da quella vera – e insieme tanto deformata da sembrare una Beirut o una Sarajevo. Popolata da individui soli con le proprie pulsioni – sesso, morte – che hanno rigettato persino la pietà per la propria sorte. Sprofondati nel delirio o nella frenesia dell’autodistruzione, trovano se stessi solo nell’atrocità del dolore, nel freddo della morte.
Le presenze che popolano livida allucinazione sono poco più di fantasmi, destini schiacciati sul loro assurdo capolinea. Dalla folla di zombi emergono appena i tratti di un uomo che si è suicidato gettandosi nella tromba delle scale, di un ragazzo vittima di un incidente stradale che dalla cella dell’obitorio lancia le sue maledizioni, di un carcerato impazzito…
La rivolta che distrugge la città non nasce dagli esclusi, dai margini della società: non è animata da alcun senso di giustizia, non ha rivendicazioni. Esplode folle e rabbiosa dal fondo di una galera, e non trova resistenza in una civiltà dove la morale si è irrimediabilmente sfaldata. Perché, aldilà della scintilla che l’innesca, il disastro viene da questo vuoto, da quest’assenza, da questa incoscienza di sé: una cecità morale che rende indifesi, che brucia la dignità in un’ansia di salvezza individuale che porta al disastro collettivo.
Nell’apocalisse degli Angeli dello Sterminio non esiste possibilità di riscatto etico o teologico, personale o collettivo. Nausea, angoscia, disgusto si sono ribaltati nella voluttà di una catastrofe temuta e invocata. La testimonianza procede obliquamente, quasi compiaciuta della sua ambiguità, disseminando teatralmente i punti di vista, in una scrittura che si mette in scena per frammenti e mediazioni. Ammicchi e invettive chiamano in causa il lettore come testimone e coimputato. Tecniche tipiche dell’avanguardia, con sfoghi espressionistici, raccontano una storia di decadenza che ammicca alla serie B hollywoodiana: horror, catastrofico, splatter (senza dimenticare che per molti, storicamente, l’orrore milanese è iniziato un 12 dicembre di molti anni fa, in piazza Fontana).
I grumi della scrittura ripercorrono le tracce di un cupo zapping. Agguati da film western. Video e computer. Gelosie, violente misoginie. Aborti nel sottotetto. Terremoti, incendi. Virus. Rivolta e fuga dei detenuti. Droga. Demenza collettiva. Morti viventi (la reliquia del Santo che spezza la teca per unirsi all’esercito di scheletri che sfila per strade). Bande di individui senza volto né ragione, pura volontà di potenza fanatica e dissennata: come la gang di motociclisti, gli “Angeli dello Sterminio” del titolo, ultima insensata abiezione e assurda speranza di redenzione.
Fino all’ultima immagine, rubata all’inquietudine a buon mercato d’un film di fantascienza: quando dalle infami rovine, dai resti della Cattedrale, s’alza un ectoplasma bianco, enorme. Ma, di fronte a questa visione, il narratore, testimone forse compiaciuto, certamente impotente, non riesce più a sostenere neppure il proprio timido ruolo. Non sapremo dunque se si tratta dell’Anticristo, o di una miracolosa redenzione. L’unica certezza è, per ora, che la salvezza non può venire dagli uomini: né dalle loro azioni insensate, né dai loro anchilosati sentimenti.

Pubblicato originariamente sul “manifesto” il 17 luglio 1992.




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