Via Crucis

Lettera da un amico lontano

Pubblicato il 06/06/2003 / di / ateatro n. 053

consulenza storica Camillo Brezzi
studi e ricerche Fabio Masi e Francesca Botti

Firenze, Piazza della Signoria
26 maggio 2003, in memoria della strage del 27 maggio 1993


E nonostante tutti gli sforzi creativi, il passato poté essere tenuto a bada solo in maniera imperfetta.
Rohinton Mistry, Un equilibrio perfetto

[prologo]

Sotto quale re, doge o imperatore combattemmo questa guerra di cui fummo involontario campo di battaglia? E quando scoppiò, la guerra? Qualcuno la dichiarò, oppure ci trovammo al fronte senza che nessuno ci avesse detto niente?
Tutti abili, ci ritrovammo tutti, sì, al fronte ed il fronte era dappertutto: Milano, Brescia, Roma, Reggio Calabria, Bologna, Palermo, Ustica, Capaci, Firenze. Nessuno si sarebbe salvato e tutti finimmo col piangere i nostri morti e quel dolore – che lento, cupo, toglieva il fiato – ci fece rapidamente comprendere che nessuno poteva sentirsi al sicuro. Anzi… ogni piazza, ogni auto, aeroporto, stazione avrebbe potuto in qualunque momento trasformarsi nel prossimo campo di battaglia, per l’inattesa disfida.
Questo volevano: che non ci sentissimo più al sicuro.
In nome di chi?
In difesa di chi?
Per difenderci da che cosa?

Eccomi qui questa sera con la lettera di un amico.

[ricordi nella nebbia]

Carissimo Sandro,

ti scrivo in questa notte di maggio. Ti scrivo per ricordare.
Ma io ho le idee confuse e più ancora i ricordi, nella nebbia incerta di tutte le storie che ci hanno sfiorato. Nella nebbia di tutto quello che ci è stato tenuto nascosto, raccontato a metà o svelato troppo tardi.
Ciononostante, stasera dobbiamo provare a ricordare.

E sì, io mi ricordo di un cecchino che uccide a caso, senza un solo motivo per mirare a una persona, a un treno o a una città, piuttosto che a un’altra. Ma lo fa, indifferente, quasi annoiato, fumando sigarette su sigarette. Questo gli hanno ordinato: seminare il panico, inviare avvertimenti scritti con un nuovo alfabeto, stroncare indagini ed esistenze, assassinare la speranza. Finché un altro cecchino – che sta in posizione migliore della sua e viceversa sa benissimo a chi deve mirare e chi deve colpire – fa fuori anche lui. Niente di personale, ovviamente, gli ordini non si discutono. E le amicizie non sono mai per sempre.

Mi ricordo che un giorno la guerra è scoppiata, le persone hanno cominciato a cadere. Prima molto lontano, in una piana coperta di ginestre, il primo di maggio di molti anni fa; poi sempre più vicino… sempre più vicino… anche qui, sì, sventrando persone, simboli, palazzi e una terra che sogna e coltiva mondi migliori di questo.

Eppure mi ricordo che un tempo esistevano due luoghi dove morire non era un problema: dentro il gioco di un bambino – ci giocavi tu a ‘indiani e cowboy’? hanno cominciato ad imbrogliarci che eravamo così piccoli… – oppure in teatro. In entrambi i casi bastava smettere e tutti i morti si rialzavano. Fino al giorno in cui ci siamo accorti che in questo teatrino c’era uno strappo nel cielo di carta e nemmeno giocare dormire sognare ci è bastato più, per crederci in salvo.

Mi ricordo quando ancora c’era un futuro. Eravamo pieni di dubbi e speranze. Ora, da questo punto di vista, è tutto più semplice.

In questa notte di fine maggio, forse è giusto provare, ancora una volta, a raccontare.
Raccontare cosa? No, la domanda giusta questa volta è ‘raccontare come?’.
Uno di miei maestri – tu lo conosci certamente, si chiama Giuliano Scabia ed anche lui passa buona parte della sua fragile vita in Toscana – mi ha spiegato un giorno che ogni racconto ha la forma di qualcosa.
E’ vero.
Questo racconto, mio carissimo amico, ha la forma di una via Crucis. Ascolta.

Via Crucis

[prima stazione]

Perché la prima stazione è il bacio, di Giuda, e una condanna, a morte, e di come qualcuno se ne lavò le mani, qualcuno si tappò le orecchie, e ad altri la bocca fu chiusa, per sempre. Lo chiamarono “atlantico”, quel patto e servì a difendere la nostra libertà.
Ma sotto quel bacio, si nascosero anche fratelli, compagni d’arme, gladiatori, generali, luogotenenti, uffici riservati, servizi segreti, uomini di stato, uomini di mafia, uomini di massoneria. Hanno scritto la storia. Usando sangue, per inchiostro, misto a pianto.

[seconda stazione]

La seconda stazione è una corona di spine e una croce, imbottita di esplosivo, che trasforma un piccolo aereo in stella cometa che illumina il cielo e indica la strada, che l’Italia deve seguire, senza “rròmpere i cògliòni”, senza inventarsi strani accordi con i Russi e con gli Arabi, senza preoccuparsi troppo di gas naturale e altre “minchiaaate” simili: la scelta dell’Italia è il petrolio americano ed il petrolio americano sarà il nostro futuro. Cosa vuole questo democristiano dimmerda? ma non ha proprio capito niente?!
Enrico Mattei si dissolve in una bastarda notte di tempesta, il 23 ottobre di quarant’anni fa, esploso in volo. Di lui, del pilota dell’aereo e di un giornalista che volava con loro restano minuscole tracce di ossa e carne, che soccorsi molto premurosi hanno lavato con estrema cura, per offrire loro pietosa sepoltura. E cancellare per sempre ogni traccia ed impronta degli assassini e del loro esplosivo.

[terza stazione]

…e la terza stazione è un tavolo.
Sotto il tavolo qualcuno ha lasciato una valigia, un atroce vaso di Pandora dal quale in un pomeriggio d’inverno fuggì anche l’ultimo male: la paura, il panico, il terrore. Strategia della tensione fu il suo nome.
Una lunga e dolorosa teoria di morte e di pianto: 2 dicembre 1969, Milano, Piazza Fontana, Banca Nazionale dell’Agricoltura, sedici morti e novanta feriti… avanti! 13 maggio 1973, a Peteano esplode una Cinquecento, muoiono tre carabinieri accorsi dopo una telefonata anonima… avanti! 17 maggio, quattro giorni dopo, bomba alla questura di Milano di via Fatebenefratelli, quattro morti e quarantacinque feriti… avanti! 28 maggio 1974, Brescia, piazza della Loggia, manifestazione sindacale, altra bomba, otto morti… avanti! 4 agosto 1974, due mesi dopo, treno Italicus, San Benedetto Val di Sambro: dodici morti e quarantotto feriti… avanti! …avanti! …avanti!

[quarta stazione]

…e la quarta stazione
è un volto, che nessuna Veronica potrà più asciugare. Un volto distrutto e schiacciato, spappolato dai pneumatici di un’automobile che gli passa sopra. E’ il volto di Pier Paolo Pasolini, un poeta, assassinato perché sapeva. Assassinato perché la precisione profetica delle sue parole ebbe il peso di una condanna. Perché gli occhi di chi sa vanno chiusi per sempre. E la memoria calpestata.

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe.
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili della strage di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l’aiuto della CIA (e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia) hanno creato una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e in seguito, sempre con l’aiuto e l’ispirazione della CIA, si sono ricostituiti una verginità antifascista.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.

[quinta stazione]

…e la quinta stazione è una madre che di nascosto nutre il figlio.
Il figlio è Peppino Impastato, che fu fatto esplodere come un terrorista dinamitardo sui binari di un treno, fatto uccidere da Tano Badalamenti, ‘Tano Seduto’.
Lui, Peppino, cacciato dal padre, protetto dalla madre.
Lui, Peppino Impastato, ucciso poche ore prima di Aldo Moro.
Lui, Peppino, con la sua radio.
Lui, Peppino Impastato, che alla mafia oppose la bellezza.


[sesta stazione]

…e la sesta stazione è una cabina telefonica: un uomo parla, senza emozione, l’altro prima non capisce, poi respira pesante… piange… per favore, non a me, piange… questo calice… non a me… troppo tardi… te la ricordi quella voce?

Il Professor Franco Tritto?
– Sì, chi parla?
– Senta, indipendentemente dal fatto che lei abbia il telefono sotto controllo, dovrebbe portare un’ultima ambasciata alla famiglia.
– Ma chi parla?
– Lei è il professor Franco Tritto?
– Si ma io voglio sapere chi parla.
– Brigate Rosse.
– Eh?
– Va bene? Ha capito?
– Sì…
– Non posso stare molto al telefono quindi dovrebbe dire questa cosa alla famiglia, dovrebbe andare personalmente, anche se il telefono ce l’ha sotto controllo non fa niente, dovrebbe andare personalmente e dire questo: “Adempiamo alle ultime volontà del… del Presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’Onorevole Aldo Moro”, lei deve comunicare alla famiglia.
– Sì…
– che troveranno il corpo dell’Onorevole Aldo Moro…
– Sì…
– in via Caetani.
– …in via?
– …Caetani che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Va bene?
– Sì…
– Lì c’è una Renault 4 rossa, i primi numeri di targa sono N5…

[Qui Tritto comincia a singhiozzare]

e non posso…
– non può ?!… Dovrebbe per forza…
– ..per cortesia no….
– …eh… mi dispiace… se lei telefona… verrebbe meno all’adempimento delle richieste che aveva fatto espressamente il Presidente…
– …parli con mio padre la prego…

[silenzio]

Una Renault Rossa… ma allora io non ce l’avevo la televisione a colori e solo un corpo abbandonato, di scuro vestito, la testa reclinata, nel bagagliaio di un’auto nera – non rossa! – con centinaia di persone intorno, mi resta nei ricordi. Più l’amaro, d’un grande inganno.

[settima stazione]

…la settima stazione è un uomo morto che cammina.
Un giusto. Ignaro di tutto.
Nessuno potrà mai spiegare perché la croce fu poggiata sulla sua spalla. Nemmeno lui ne chiese ragione.
Era solo un avvocato, non un magistrato, non un politico, né tanto meno un rivoluzionario. Giorgio Ambrosoli, procuratore fallimentare dei crimini fraudolenti del mafioso piduista Michele Sindona. Fece solo il suo lavoro e per questa imperdonabile colpa fu da tutti abbandonato.
“Uomo-morto-che-cammina”: non abitano solo nel braccio della morte delle carceri dell’impero. Talvolta se ne vanno ignari, o pensierosi, per la strada, dopo aver accompagnato i figli a scuola, o prima di rientrare a casa, la sera, a piedi o in bicicletta, pronti ad essere falciati.

[ottava stazione]

…e l’ottava stazione è una profezia mantenuta, vesti strappate e divise, è l’espoliazione sistematica di una terra, di un popolo, di uno stato.
E’ un feroce banchetto al quale sono seduti i caimani, generali e luogotenenti che nella carne affondano i denti. Impuniti ingrassano, unti e volgari. Iene ed avvoltoi spolpano il cadavere che altri hanno già spremuto. Uccidono e già brillano loro gli occhi, per il fiero pasto. E per quelli che verranno.
Un’unica grande famiglia fatta di amici, amici degli amici, fratelli e sorelle, metastasi che corrodono le persone e le cose e l’anima del mondo. Per governare più impunemente un maestro venerabile, Licio Gelli, firmò con loro un “Piano di rinascita democratica”. Perché dovevano liberarsi di alcuni ostacoli:

a) i partiti politici democratici, dal PSI al PRI, dal PSDI alla DC al PLI. La disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi sembra sufficiente a permettere ad [nei quali dobbiamo avere] uomini di buona fede e ben selezionati per conquistare le posizioni chiave necessarie al loro controllo.
b) la stampa, che va sollecitata a livello di giornalisti attraverso una selezione che tocchi soprattutto: Corriere della Sera, Giorno, Giornale, Stampa, Resto del Carlino, Messaggero, Tempo, Roma, Mattino, Gazzetta del Mezzogiorno, Giornale di Sicilia per i quotidiani; e per i periodici: Europeo, Espresso, Panorama, Epoca , Oggi, Gente, Famiglia Cristiana. La RAI-TV va dimenticata;
c) i sindacati, sia confederali CISL e UIL, sia autonomi, nella ricerca di un punto di leva per ricondurli alla loro naturale funzione anche al prezzo di una scissione e successiva costituzione di una libera associazione di lavoratori;
d) il Governo, che va ristrutturato nella organizzazione ministeriale e nella qualità degli uomini da preporre ai singoli dicasteri;
e) la magistratura, che deve essere ricondotta alla funzione di garante della corretta e scrupolosa applicazione delle leggi;
f) il Parlamento, la cui efficienza è subordinata al successo dell’operazione sui partiti politici, la stampa e i sindacati.

[nona stazione]

la nona stazione è un orologio fermo.
Ore 10 e 25.
2 agosto 1980, stazione di Bologna.
Sala d’aspetto. Seconda classe.
In un giorno affollato di partenze e di vacanze.
Un’altra valigia e 85 morti. Per distrarre l’opinione pubblica da qualcosa di molto grave che in Italia si sta preparando e che non si può dire.
Per distrarre l’opinione pubblica, l’opinione pubblica viene sterminata. Ridotta al silenzio. Al pianto. Come un padre sprofondato in una poltrona con gli occhi sbarrati e senza più parole. Come una madre che cucina e piange.
Come un giudice che non capisce perché i colpevoli non debbano essere scoperti:

L’opera di inquinamento delle indagini appare così imponente e sistematica da non consentire alcun dubbio sulle sue finalità: impedire con ogni mezzo l’accertamento della verità. Se ciò è vero, e non sembra si possa minimamente discuterne, diviene legittima sul piano rigorosamente logico una seconda proposizione: soltanto l’esistenza di un legame di qualche natura tra gli autori della strage e gli autori dei tentativi di depistaggio può spiegare un simile comportamento. O perché la strage fu eseguita dai primi su mandato degli altri o perché la strage, benché autonomamente organizzata ed eseguita, rientrava in un comune progetto politico, la cui gestione richiedeva necessariamente che non fossero scoperti gli autori…


[decima stazione]

…e la decima stazione è un unico, lungo, lunghissimo e disperato funerale di uomini della legge e della democrazia, condannati a morte e giustiziati. Boris Giuliano, commissario, cadde sotto il piombo della mafia il 21 luglio 1979, dieci giorni dopo Giorgio Ambrosoli. Anche lui stava procurando fastidio a Michele Sindona. Avanti! Poi fu la volta del giudice Cesare Terranova, assassinato a Palermo il 25 settembre 1979. Avanti! 6 gennaio 1980, giorno della Befana, che tutte le feste porta via, porta via anche il presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, giustiziato di fronte a moglie e figli. Avanti! Emanule Basile, capitano dei Carabinieri, successore di Boris Giuliano nell’indagine su Michele Sindona, sparato di fronte a moglie e figlia, il 4 maggio 1980. Avanti! Gaetano Costa, procuratore della Repubblica (ma quale Repubblica?) a Palermo, giustiziato per la stessa indagine il 6 agosto 1980: ma quanto era potente, questo Sindona, ma chi è?! che dio lo stramaledica. Avanti! Pio La Torre, deputato, ucciso insieme al suo autista, il 30 aprile 1982. Avanti! Carlo Alberto dalla Chiesa, Prefetto di Palermo, sparato con moglie e agente di scorta, il 3 settembre 1982. Rocco Chinnìci 1983… avanti! Ninni Cassarà 1985… avanti! Il commissario Montana 1986… avanti! Rosario Livatino, il giudice bambino 1990… avanti! Libero Grassi 1991… avanti! Sì, avanti, fino al 1992 quando Palermo divenne Beirut e tutta la città fu inchiodata alla croce e al pianto… avanti! Giovanni Falcone, sull’autostrada, a Capaci, il 23 maggio insieme alla moglie ed agli agenti di scorta, saltati per aria, esplosi, dilaniati, fatti a pezzi… avanti! Paolo Borsellino con i suoi ragazzi, zio Paolo… 19 luglio 1992, Palermo, via d’Amelio. Autobomba. 15 settembre 1993: don Pino Puglisi viene ucciso a Palermo: ha il tempo di sorridere ai suoi assassini e dire “me lo aspettavo”.
Dio, Dio mio… perché mi hai abbandonato?!

[undicesima stazione]

…e l’undicesima stazione sono le donne, le mogli, le madri, le figlie. E’ Rosaria Schifani in chiesa, di fronte alla bara di Giovanni Falcone, di fronte alla bara di suo marito, Vito Schifani, agente di scorta. Te la ricordi? Ti ricordi quelle parole spezzate dal pianto: “Io vi perdono però vi dovete mettere in ginocchio”. Io la sogno di notte, Rosaria Schifani ed il suo senso di giustizia, incalcolabile e senza prezzo – e come tutte le cose che non si possono vendere o comprare, totalmente priva di valore, secondo le vigenti regole di mercato.
E Rita Atrìa, la piccola Rita, il dolore più grande: ha diciassette anni, orfana di padre sparato dalla mafia, orfana del fratello, sparato dalla mafia. Decide di parlare e racconta tutta la
mmèrda di Partanna, la città mattatoio, dove esiste solo la mafia. E parla, abbandonata dalla madre e dal fidanzato, parla: racconta tutto quello che una ragazzina non dovrebbe nemmeno capire o vedere.

Sono la sorella di Atrìa Nicolò, ucciso a Montevago il 24 giugno 1991. Mi presento alla Signoria Vostra per fornire notizie che riguardano episodi e circostanze legate alla morte di mio fratello ed all’uccisione di mio padre, avvenuta a Partanna nel 1985, ma più in generale per fornire notizie sull’ambiente in cui tali episodi vennero a maturare.

Rita parla, dice tutto a “zio Paolo”, Paolo Borsellino, che la protegge, la porta a Roma, la nasconde, la salva, le fa sognare che un’altra vita è possibile.

Paolo Borsellino muore di domenica: eravamo insieme Sandro, te lo ricordi, vero? Eravamo nel cuore di quel Casentino che io e te adoriamo, per bellezza e per nascita. Eravamo al castello di Porciano, che domina Stia. E lì tu recitavi quel che c’è di più lontano da questo mondo, il Paradiso: “…la gloria di colui che tutto move…”. Anche Rita muore di domenica, sette giorni dopo: se ne va, vola giù dalla sua terrezza, come l’ultimo dei disperati, perché anche al dolore c’è un limite e dopo c’è solo il nero ed il bisogno di non sentire più.

[dodicesima stazione]

Non ce la faccio più… non pensavo che sarebbe stato così doloroso ricordare, sai? Che sia colpa delle nuove ferite? Degli altri morti, o solo della memoria – peggio – della disperazione di comprendere che nulla è cambiato? Anzi…
…e la dodicesima stazione è qui, è ora, dieci anni fa, è la morte a Firenze, a Milano, le ultime bombe, l’ultimo ricatto: la ‘trattativa’, l’hanno chiamata.
E se un aereo buttasse giù la Torre di Pisa?
Questo gli viene in mente: un’opera d’arte dopo che l’hai distrutta non esiste più… come la vita delle persone, però le persone valgono molto meno di un museo.
Ma in che razza di macello siamo finiti?
E’ l’una di notte, una e zero quattro, del 26 anzi, ormai del 27 maggio 1993. E la mafia uccide ancora, qui, ora. Sono incazzati: quello stramaledetto muro di Berlino, venendo giù, ha travolto anche loro, ha travolto molte persone che ora non servono più, ce ne possiamo liberare, no? È sempre così, mi pare: chi oggi ti stringe la mano, domani ti spara alle spalle. E’ semplice, è la legge dei mafiosi.
Quel muro ha travolto tutto: l’Unione Sovietica, il comunismo, Gladio, Totò Riina, Salvo Lima. Roba vecchia. Ora servono altre cose, altre storie per nutrire lo strapotere di chi questa guerra perenne ha ordinato.
Ma la bestia, ferita a morte, non ci sta ad essere sacrificata e, prima di cedere il passo, colpisce. Colpisce le chiese ed i musei. Colpisce persone, che devono continuare ad avere un nome e un cognome. Perché se ai numeri sostituisci i nomi e i volti, qualcosa cambia: Fabrizio Nencioni ha 39 anni. Angela Fiume ha 36 anni. Nadia Nencioni solo 9. Caterina Nencioni ha 50 giorni. Dario Capolicchio 22 anni. Sono morti qui, per questa guerra che non sapevano di combattere.

[tredicesima stazione]

Poi è tutto cambiato.
Alla tredicesima stazione arrivi ‘navigando’, con bonifici facili e immediati, con il riciclaggio istantaneo del denaro sporco, lontano… lontano… in banche che hanno sede su isolette dall’altra parte del mondo e dal nome perfetto: Isole Caiman. Il denaro, ripulito via internet con pochi comandi scritti in inglese, ritorna pronto per le imprese che senza ombre né rischi potranno trasformarlo in ulteriore ricchezza.
Ma di caimani ne abbiamo davvero tanti intorno e risorgono sempre dalle loro ceneri: diventano nomi nuovi e proclamano splendidi programmi che assomigliano in modo disgustoso a vecchie progetti eversivi, ma con l’eleganza sorridente e rassicurante di chi non ha più bisogno di farci affogare nel nostro sangue per dominarci.

[quattordicesima stazione]

…la quattordicesima stazione sono tutte le bare e i sepolcri ai quali abbiamo dovuto abituarci. Bare, nella maggior parte dei casi vuote, che hanno obbligato familiari disperati a strapparsi l’un l’altro qualche brandello di carne, pur di metterci qualcosa dentro.
E io mi ricordo di me, ragazzino, che guardo in televisione un vecchio presidente, piegato in due, il volto terreo, bianco più di un sudario: Sandro Pertini si china nei miei ricordi a baciare ininterrottamente una bara dopo l’altra. Molti anni dopo, quando anch’io mi sono piegato sulla bara che ha sepolto metà dei miei anni, ho compreso che tutti i morti sarebbero stati i miei morti, per il resto della mia stupida e inutile vita.

[quindicesima stazione]

…e la quindicesima e ultima stazione è…
cosa c’è alla fine di una Via Crucis?
La Resurrezione.
Dei morti, di tutti i caduti, di tutti coloro che per scelta o per caso quella croce hanno portato e su quella croce sono stati crocefissi e dilaniati.
Invece no.
Qui non risorge nessuno.
Al massimo, un’assoluzione.
Per non aver commesso il fatto.
Perché il fatto non sussiste.
Perché il fatto non costituisce reato.
Perché il reato ha raggiunto i termini della prescrizione.
Per insufficienza di prove.
O perché le prove sono state cancellate con tanta precisione e sistematico accanimento che non si può dar luogo a procedere.

Amen.

[tramonto]

E ora è troppo tardi.

Sì, caro Sandro, ho la netta impressione che ti sto scrivendo troppo tardi.
Cosa resta del vecchio mondo, morto e sepolto sotto le macerie di quel livido 1993 di bombe e avvertimenti?

Io credo che i libri di scuola cambieranno presto il punto di vista, e che i vecchi mandanti saranno i nuovi eroi di cui qualcuno loderà le gesta: un corpo scelto di pochi esseri eccezionali che hanno dedicato tutta la vita a questa guerra silenziosa e durissima per salvare la democrazia, la repubblica, l’occidente dalla catastrofe. Accettando l’onta e l’ignominia di passare per assassini, stragisti, fascisti, mafiosi, depistatori, loro che furono i soldati della libertà, in una guerra dalla perdite irrilevanti.
Questo leggeremo nei futuri libri, quando la fine di questa epoca permetterà al nuovo stato – sorto proprio dalle ceneri di quel maledetto 1993 – di togliere ogni segreto e dirci tutta la verità. Una verità splendida, una verità bella e rassicurante in base alla quale stragisti, mafiosi e massoni golpisti riavranno il posto che spetta loro nel Pantheon dei martiri e dei servitori della patria.
Non fa una piega, basta decidere di quale patria stiamo parlando.

E i morti?
Quelle centinaia, quelle migliaia di persone uccise in questi quarant’anni per mano dei nuovi eroi?
E le loro madri?
E i figli?
Riusciremo a non dimenticarli?
[Questi morti semplicemente non esisteranno più, cancellati una terza volta, dopo essere stati dilaniati dalle bombe ed azzerati dalle assoluzioni nei tribunali.
Io credo che li dimenticheremo, nascosti in un rigo e mezzo, come i danni collaterali di tutte le guerre combattute dai paladini della libertà.]

E allora, caro Sandro, ecco perché il teatro, questo teatro della memoria, questa che non ho paura a chiamare “orazione civile per non dimenticare” è per me, qui, questa sera, così necessaria. Per me e, credo, anche per te.
Perché questa è letteralmente un’orazione, cioè una preghiera, di quelle che si fanno a voce alta – anche se sommessamente, perché io non amo le grida né chi alza la voce – e per tutti: vi prego, non dimentichiamo, rimaniamo svegli, vi prego… non facciamo l’abitudine alla notte.
Ora in cui la vergogna regna sovrana su tutto il pianeta, il teatro pare essere rimasto l’unico modo per ascoltare vecchie storie e ripeterci quello che il resto del mondo nega e cancella. L’ultimo modo. Così scomodo, così impopolare, così faticoso. Parla a pochi, non buca nessun schermo, non accetta pause pubblicitarie, non può essere gridato, si nutre di dolore. Ma è fatto di carne, non conosce effetti speciali se non quello – ebbene sì – della coscienza e dell’emozione, tiene in piazza le persone, quelle persone che altri vollero terrorizzate, quelle persone che altri vorrebbero chiuse in casa, di fronte al loro rassicurante televisore. E invece, prima dell’ultima e definitiva lobotomia, io provo ancora a scrivere per te e tu osi ancora raccontare. Nel buio siamo qui. Ma se in guerra il buio è solo odio e vergogna, in amore il buio è stare uno accanto all’altro, sentirsi, conoscersi.

Stanotte siamo qui, ad aspettare che siano passati dieci anni, dall’una e quattro minuti, del 27 maggio 1993.

[il resto è silenzio]

Tutte le guerre hanno una fine. Magari ne comincia subito un’altra – così che qualche popolo rischia di non smettere mai di stare sotto le bombe, o di tirarle, le bombe… – ma ogni guerra ha una fine. E c’è qualcuno che deve essere l’ultimo a cadere sotto il fuoco, ‘nemico’ o ‘amico’, poco importa: non sempre sono facili da distinguere.
Forse, quella notte, qui, a pochi passi da qui, Fabrizio, Angela, Nadia, Caterina, Dario sono stati gli ultimi morti, insieme a quelli di Milano dei medesimi giorni, gli ultimi morti della guerra che l’Italia ha combattuto contro se stessa.
No, non che tutto questo sia terminato con una vittoria. Una tregua, forse, perché qualcosa stava accadendo, qualcosa stava cambiando. In meglio? Sì, lo abbiamo pensato, ma per quanto tempo? In peggio? Ah… le solite vecchie domande sempre senza risposte… abbiamo visto sciogliersi come neve al sole monoliti che ci hanno governato per cinquant’anni, vecchi vampiri e nuovi feudatari rampanti che volevano riscrivere le regole a modo loro. Li abbiamo visti andare via tra i fischi e le monetine, qualcuno anche con la bava alla bocca. Ed abbiamo visto i nuovi paladini scendere in campo… eh sì, volti nuovi, che senza dover sparare più un solo colpo hanno realizzato programmi progetti e leggi che solo vent’anni prima avevamo, sdegnati, rifiutato, dichiarando fuorilegge la P2 ed il suo piano di rinascita democratica, definendolo golpe massone e mafioso.

«Avrei preferenza di no», diceva imperterrito il mio eroe preferito, piccolo uomo totalmente privo di doti, meno importante delle lettere smarrite di cui si occupava dal suo ufficio postale. Bartleby, divenuto scrivano per forza, come me che non ho imparato a fare altro.
«Avrei preferenza di no», a me viene da dire anche ora: scusate, ma – per favore – non dite che lo fate per me, per difendere la mia imbarazzante libertà e la mia imbarazzata e colpevole ricchezza. Se proprio dovete farlo – e mi pare chiaro che non vi fermerete di fonte a niente – dite che lo fate per continuare a dominare il mondo i mercati e gli appalti secondo i vostri interessi ed il vostro profitto. Se è per me, io avrei preferenza di no.
Per questo credo che a noi, ora, al buio, in questa notte di dolore e di vergogna, in questa notte fatta per stare vicini, forse resta una cosa sola.
Il silenzio.

Un silenzio che attraversi il buio e la notte e che senza arroganza, senza retorica, senza sentirsi migliori, sussurri al dolore del mondo il nostro no.

[e qui ci vorrebbe un silenzio interminabile, che faccia male allo stomaco]

…il silenzio… un silenzio così diverso dall’omertà.
Un silenzio unanime di chi non ha più paura di guardare negli occhi gli assassini e smette di assolverli e proteggerli.
Che questo silenzio, fratello mio, sia il canto sacro e civile per tutti i caduti di tutte le guerre.

Francesco_Niccolini_per_Sandro_Lombardi




Tag: Sandro Lombardi (10)


Scrivi un commento