La lettura dell’’altro

In fondo a destra di Raffaello Baldini, regia di Federico Tiezzi con Silvio Castiglioni

Pubblicato il 01/07/2003 / di / ateatro n. 054

Spesso uno spettacolo diventa l’’occasione di un incontro necessario, tra persone che si conoscono e si stimano da anni, anche se hanno seguito percorsi molto diversi. Non hanno mai avuto occasione di lavorare insieme, e tuttavia la loro collaborazione pare tutto meno che casuale.
Federico Tiezzi (che firma la regia con il prezioso supporto di Sandro Lombardi come Dramaturg), dopo la stagione del teatro immagine e della post-avanguardia, ha teorizzato il «teatro di poesia» in un saggio che ha segnato una svolta del nuovo teatro italiano; dopo di che ha portato in scena, tra gli altri, Dante (in una memorabile trilogia) e Pasolini.
Silvio Castiglioni, che oltre a dannarsi l’anima come direttore del Festival, è attore e regista, ha iniziato a fare teatro da una sponda lontanissima da Federico e dal suo Carrozzone, come Arlecchino della Commedia dell’Arte, per poi costruire un percorso dove fa continuamente scontare il disagio della modernità con la memoria della tradizione contadina, come nella sua esemplare interpretazione del Filò di Andrea Zanzotto.
Raffaello Baldini (che tra l’altro è stato uno dei primi a essere informato delle gesta del Carrozzone, quando lavorava a «Panorama» e «passava» i pezzi di Franco Quadri) è naturalmente uno dei più grandi poeti italiani, e scrive nel dolce dialetto di Santarcangelo. Ama e frequenta da sempre il teatro, ma se non glielo avesse chiesto Ivano Marescotti probabilmente non sarebbe mai diventato un drammaturgo. Prima ha scritto in dialetto (con Carta canta e Zitti tutti!, entrambi portati in scena proprio da Ivano Marescotti), e poi in italiano, con questo In fondo a destra.
Naturalmente in un’alchimia come questa anche il luogo ha la sua importanza: a Santarcangelo Raffaello è nato, Silvio vive e lavora da anni, e Federico è passato più volte per il festival, anche per una perfomance che ha profondamente inciso sulla sua carriera artistica.
Rispetto alla pratica teatrale, Baldini ha un atteggiamento decisamente laico, con una vena di ironica curiosità. «In teatro l’autore è sempre un co-autore. Quando si lavora a uno spettacolo, è soltanto un ingombro. Il testo scritto è una cosa, la verifica la si fa sul palcoscenico, e lì c’è già un sacco di gente: il regista, gli attori, lo scenografo… Loro devono fare i conti con una carta scritta, non con chi l’ha scritta. Anzi, il regista può essere fastidiosamente condizionato dalla presenza dell’autore. L’autore non ha niente da dire, ma se interrogato può rispondere.»
Infatti ad alcune sollecitazioni Raffaello Baldini ha risposto: rispetto alla versione originaria In fondo a destra, arricchito di prologo ed epilogo, e non sarà solo un monologo.
Ma come ti poni di fronte al lavoro che fa il regista sul tuo testo?
«Mi incuriosisce la lettura dell’altro. Per esempio, in genere le didascalie non vengono assolutamente rispettate dal regista, la qual cosa mi diverte. Vuol dire che qualcun altro legge il testo che ho scritto essendo in qualche modo coinvolto. Se cambia qualcosa, vuol dire che quello scritto lo riguarda. L’importante è che la cosa non riguardi solo te, che riguardi anche qualcun altro.»
Il protagonista monologante di In fondo a destra, perso come tutti noi nel labirinto indecifrabile della vita, è un «mezzo intellettuale così sicuro di sé che si smarrisce in una realtà, oltretutto, immaginaria» (così lo descrive lo stesso Baldini nell’introduzione al volume einaudiano che raccoglie la sua trilogia teatrale). Prenderà corpo in una sera d’inizio luglio: è il primo testo teatrale di Raffaello Baldini scritto in lingua e debutta nel suo paese, nel paese del suo dialetto.
Un sorriso ironico: «Insomma, i testi in dialetto avevano per forza di cose una circolazione limitata.»
Il suo rapporto con il teatro è di affetto e intimità. «Il teatro è una macchina che mi piace, è una bella favola. Quando ero piccolo ho nominato le cose in dialetto. Il dialetto è un parlato, è un animale orale. E con tutto il rispetto per la gestualità, per il corpo, anche il teatro è un animale orale, quindi un minimo grado di parentela c’è.»
Del resto c’è in Italia una straordinaria e ricchissima tradizione di teatro dialettale. «Di più. Il teatro italiano è andato avanti per secoli in dialetto, da Ruzante a Ruccello. L’unica eccezione è Pirandello. In Italia il mestiere di drammaturgo non è frequentatissimo. Il problema è e resta quello della lingua. Una lingua te la puoi anche inventare: in un romanzo, in un racconto, in una poesia puoi inventare la tua lingua, ma in teatro fai più fatica, perché devi inventarti la lingua degli altri.»
E tu hai scelto il dialetto.
«Se ho deciso di scrivere in dialetto, non l’ho fatto perché l’italiano non mi andava bene, ma perché quelle cose succedono in dialetto. Diciamo la verità: la gente parla in italiano. Paradossalmente anch’io quando dico le ragioni del dialetto le dico in italiano. E penso che l’italiano sia una lingua magnifica, lo amo molto. Lo si accusa di essere una lingua bassa, l’italiano parlato. Eppure quello dell’Alcesti di Raboni è un italiano parlato, eppure è scritto in versi. Insomma, l’italiano parlato non è una malattia. E’ una bella lingua: basta pensare all’intolleranza per le ripetizioni.»
E però In fondo a destra l’hai scritto in italiano.
«Carta canta e Zitti tutti sono successi in dialetto, sono due storie di paese. In fondo a destra invece è una storia di città, succede in italiano, quelle cose non le puoi dire in dialetto.»
Quando gli chiedo se gli sembra di essere riuscito a scrivere un italiano orale, guarda lontano e sorride: « La risposta l’avremo a Santarcangelo».

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