Anticipazioni: César Brie e il Teatro de Los Andes

L'introduzione del volume pubblicato da Ubulibri

Pubblicato il 12/09/2003 / di / ateatro n. 057

E’ da alcune settimane in libreria César Brie e il Teatro de Los Andes, a cura di Fernando Marchiori. Il volume raccoglie, oltre agli scritti di César Brie e del curatore, interventi di Giuliano Scabia, Iben Nagel Rasmussen, Roberto Perinelli, Germán Aráuz Crespo e Antonio Attisani, oltre a numerose illustrazioni. Sono 224 pagine per 19,50 euro, lo pubblica la Ubilibri.
César Brie (Buenos Aires 1954) è arrivato in Italia dall’Argentina, a 18 anni, con la Comuna Baires. Nel 1974 è costretto a fuggire dall’Argentina dei generali e sceglie Milano, dove si è insediata la Comuna. La lascia l’anno dopo: lavora nei centri sociali milanesi e fonda il Collettivo Teatrale Tupac Amaru. Nel 1980, dopo l’incontro con l’Odin Teatret, si trasferisce in Danimarca: vivrà a Holstebro per nove anni (ma per i primi sei restando fuori dal gruppo e di fatto parteciperà a un solo spettacolo dell’Odin, Talabot, 1988), lavorando con il Gruppo Farfa fondato da Iben Nagel Rasmussen: realizzeranno diversi spettacoli, tra cui Matrimonio con Dio (1984), dedicato alla figura di Vaclav Nijinskij, e Il paese di Nod (1986, l’anno che segna lo scioglimento del Gruppo Farfa). Alla fine degli anni Ottanta, dopo un breve passaggio in Italia, dove con Naíra Gonzales realizza un insolito Romeo e Giulietta (1991), si stabilisce in Bolivia, a Yotala, vicino a Sucre, dove nel 1991 fonda il Teatro de los Andes, con il quale realizza tra l’altro Colón (1992), Solo gli ingenui muoiono d’amore (1993), Ubu in Bolivia (1994), I sandali del tempo (1995), Iliade (2000).
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, qui di seguito l’introduzione al volume.

Gli scritti e le immagini qui raccolti presentano al pubblico sempre più vasto che anche in Italia – come in tutta Europa, in America Latina e negli Stati Uniti – segue gli spettacoli del Teatro de los Andes la storia di questa comunità teatrale nata in Bolivia nel 1991 e il percorso artistico del suo fondatore, César Brie. Un percorso che, pur rimanendo fedele alla propria vocazione nomade e ribelle, incrocia questioni e protagonisti dell’arte e della cultura contemporanee. Dalla Comuna Baires agli spettacoli realizzati nei centri sociali milanesi nei primi anni dell’esilio, dall’esperienza dell’Odin Teatret di Eugenio Barba e Iben Nagel Rasmussen al sodalizio con Naira Gonzáles, fino alla straordinaria avventura boliviana, il viaggio dell’argentino César Brie ha infatti attraversato le vicende, i sogni, le contraddizioni comuni a una generazione del cosiddetto ‘terzo teatro’.
Raccontando i suoi spettacoli, nella prima parte del libro, si è dunque fatto anche della biografia laddove ciò è sembrato rivelare qualcosa di quel particolare modo di vivere e di guardare il mondo che è il teatro, coerentemente del resto con un linguaggio teatrale come quello di Brie, spesso universale in quanto autobiografico. La pluralità di voci che ha contribuito alla ricostruzione dichiara non tanto una presunta oggettività storiografica, quanto piuttosto la condivisione di una storia e di una passione.
Nella seconda parte vengono tradotti e raccolti per la prima volta i più importanti scritti teorici di Brie, testi generosi di riflessioni sull’attore e sulla messa in scena, di indicazioni pedagogiche, di interrogazioni sull’arte e il mestiere teatrali. Teatro povero, il suo, per virtù prima che per necessità; teatro onesto, che si dichiara facendosi e svela il trucco perché vuol essere creduto; trasparente perché rivolto a tutti, a differenti profondità, perché vuol essere capito; politico, prima di tutto nel senso che cerca di cambiare i rapporti al proprio interno, poi perché non dimentica mai che ‘il segreto del teatro non si radica nelle sue forme ma in ciò che alimenta le forme’.
La terza parte, infine, alterna saggi critici e testimonianze inedite di alcuni compagni di strada dell’attore argentino. Come in tutto il libro, gli sguardi ‘da qui’, da un’Europa che deve opporre tutto il proprio disincanto alla fascinazione di un’esperienza così radicalmente altra, si incrociano con gli sguardi ‘da lì’, da un Sudamerica che rimane una delle periferie più drammaticamente vive dell’Impero. E soprattutto dal suo cuore meticcio pulsante: la Bolivia. Come ha scritto Octavio Paz, ‘L’arte è irriducibile alla terra, al popolo e al momento che la producono: ciò nonostante è inseparabile da essi’. Quella terra, e la sua storia, il Teatro de los Andes le ripercorre a passo d’uomo, tastando il terreno, usando soltanto las abarcas del tiempo che danno il titolo a un suo spettacolo folgorante: i sandali del tempo che dicono anche il gesto di tenere insieme (abarcar), di contenere, quasi abbracciandolo, questo tempo. Di farlo proprio, di assumerlo.
Ma d’altra parte non si deve dimenticare che tale esperienza nasce dall’esercizo di un’arte apolide, e che Brie ha vissuto la maggior parte della propria vita in un esilio che è diventato scelta esistenziale e intellettuale. Anche per questo César Brie – che sia sull’altipiano andino o in una metropoli europea, in un villaggio della giungla o in un teatro del ‘primo mondo’ – continua a voler parlare alle persone che ha intorno: oggi, non nella pseudo eternità di un’arte effimera. Perciò i suoi lavori testimoniano una ricerca nella quale l’attore non perde mai di vista la propria e l’altrui umanità, ed elaborano un linguaggio e una pratica teatrali che dialogano con la tradizione novecentesca proprio nel mentre la mettono radicalmente alla prova ad altre latitudini geografiche e mentali, mentre verificano la necessità stessa del teatro ‘nella sua urgenza, nel qui e ora in cui si realizza’.

Fernando_Marchiori

2003-09-12T00:00:00




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