Un viaggio nel mare delle nuove tecnologie

Dumb Type con Voyage a Parigi

Pubblicato il 17/12/2003 / di / ateatro n. 061

Alla Maison des Arts de Creteil di Parigi Dal 3 al 13 dicembre erano di scena i giapponesi Dumb Type con Voyage, viaggio-incubo all’interno degli “spazi siderali” e della “infinite profondità” della nostra mente. Suoni con frequenze al limite della tollerabilità e immagini ad altissima definizione proiettate su schermo gigantesco e raddoppiate su un pavimento di specchi rimandavano in superficie una storia – senza parole – ad alto voltaggio elettrico.

Storia di un colletivo artistico
Dumb Type nasce a Kyoto nel 1984 come collettivo di artisti provenienti da ambiti disciplinari diversi (video, performance, musica, danza, architettura, informatica). Il gruppo si è da sempre distinto per la spettacolarità delle sue installazioni video e performance multimedia (spesso una collegata – anche solo tematicamente o nominalmente – all’altra). Pleasure life (1988) ma soprattutto Ph (1990-1993) li impone all’attenzione del pubblico europeo e americano: il tema è la metropoli nella sua vita “impersonale e repressiva”. Lo spettacolo, ideato da uno dei fondatori del gruppo, Teju Furuhashi, morto di Aids nel 1995, constava di un’enorme scanner che “fotocopiava” i ballerini da una parte all’altra del palco. I corpi erano “esposti alla luce” della tecnica in epoca di riproducibilità infinita Xerox. Con lo spettacolo S/N –acronimo per Signal/Noise (1992-1996) (e relativa installazione Lovers, che fa attualmente parte della collezione permanente del Museo d’Arte Moderna di New York), in collaborazione con il Canon Art Lab – i Dumb Type affrontano il tema dell’Aids. Lo spettacolo lascia il segno nella comunità sia del teatro che delle arti visive. Seguono Or (1997-1999; l’omonima installazione è del 1997) e Memorandum (1999-2001, presentato anche alla Biennale di Venezia nel giugno 2003) che univa danza, elementi multimedia e una forma narrativa frammentata, per flash di immagini e white noise. L’installazione collegata a questo spettacolo è Cascade, commissionata dal Salone del Design di Milano (Rotonda della Besana, 2000; l’opera “conduceva” alle stanze di Peter Greenaway, Emir Kusturica e Robert Wilson). Voyage, ultima loro creazione ha avuto la sua prima a Tolosa, in Francia nell’aprile del 2002; un’installazione sorella dello spettacolo è stata inaugurata il 23 agosto 2003 a Tokyo. Per Lille 2004 capitale europea della cultura, proporranno una nuova versione di Or.
Dumb Type è distribuito in Europa da Epidemic.

Voyage: l’installazione.

Voyage Come recitano le note di sala firmate dai Dumb Type, l’atmosfera che vogliono evocare-provocare nel pubblico è quella di “paralisi”: ansietà, paura, angoscia, insicurezza, le condizioni emotive e psichiche dei nostri giorni. Dare forma al concetto di crisi, individuale e collettiva, dare un suono al timore della guerra, della morte, alla mancanza di una direzione, il tutto senza utilizzare – per scelta ideologica – verbal pretext, la parola, perché “words fail us“.
La ricerca è piuttosto quella di una risonanza emotiva senza dialogo, senza trama. E’ chiara la necessità di una partecipazione non solo visiva ma addirittura immersiva nello spettacolo, che sconvolge i canoni tradizionali dell’ascolto (e della visione) teatrale. Contro il privilegio dell’occhio, un teatro come “spazio psichico” da attraversare e in cui “rispecchiarsi”.
Lo spettacolo si compone di diversi quadri, visivi e tematici, a sé stanti. In un crescendo angoscioso emergono paure associate ai diversi elementi: terra, acqua, aria che diventano così il (tecno) paesaggio sintetico metaforico. Ecco avanzare la paura della profondità, degli abissi, dell’altezza, la paura della perdita, che è il gelo della neve; e ancora di volare senza controllo, di nuotare in un mare senza speranza, di perdere la rotta ed essere senza guida in un viaggio che non approda a nulla. Paura che i nostri sogni non si realizzino: “I wish I were…” Ricerca di una verità e di un’identità.
Tutte le situazioni partono significativamente o da viaggi concreti (in aereo, in nave, in una navicella spaziale, in un caccia militare, sotto terra), o immaginati (dentro la psiche, dentro i nostri sogni, dentro la memoria). Ma tutti sono filtrati attraverso una mediazione (e un immaginario) tecnologico, attraverso cioé una “letterarietà” tecnologica – come il cyberpunk insegna. Siamo dunque nel cyberspazio, un’architettura immensa di dati nella “allucinazione vissuta consensualmente” – come scriveva William Gibson – un’avventura di viaggio direttamente collegata al sistema nervoso. Questo permette al gruppo di equiparare con grande naturalità i processi tecnologici a quelli cognitivi, psichici, di trovare analogie tra il segnale elettromagnetico e i recettori visivi.
Il processo mnesico, il sogno, la percezione gestaltica delle forme e dei colori trovano una corrispondenza nel mondo dell’analogico e del digitale. Alessandro Amaducci, in Segnali video, parte proprio da queste corrispondances, dal video quale specchio del nostro cervello: “Ora sappiamo che gran parte del nostro organismo, e soprattutto il nostro cervello, funziona grazie ad un complesso meccanismo di impulsi elettrochimici, e che l’energia elettrica è fondamentale per il funzionamento del nostro cervello e nel processo di comunicazione di impulsi di tutto il nostro corpo. La scoperta del neurone ha introiettato nella visione che noi abbiamo del nostro organismo l’idea della comunicazione (verrebbe da dire della tele-comunicazione) a distanza, tipica della tecnologia televisiva, che affida ai suoi pixel il delicato compito di portare all’esterno, sotto forma di punto luminoso, una parte di una serie complessa di informazioni”.

Voyage: lo spettacolo.

Primo quadro. Irrompiamo in un’atmosfera terrificante fatta di enormi sfere di luce – olografie che incombono nel buio totale della sala mentre il suono aumenta spaventosamente quanto a potenza e intensità di bassi. Una danzatrice crea, come stretta dalle forme al centro della scena, una coreografia ad angoli retti, a cercare una direzione, una via d’uscita. Sfera come la Terra che ci contiene ma che non esaurisce l’Universo, sfera come il nostro occhio (o come le Machinevision di Steina Wasulka).

Secondo quadro.
Due ballerini esplorano lo spazio del palco con un casco con lampadina da minatore e corde da speleologi. Siamo in una grotta, la caverna dell’io, in una profondità dove i suoni rimbombano e fanno eco, dove l’acqua erode la roccia, dove le pietre si frantumano all’infinito. Ciò che è verticale è restituito in una dimensione scenica orizzontale (i personaggi cioé non scendono dall’alto ma si muovono lungo il pavimento) e dobbiamo ruotare il capo o guardarli dallo specchio del pavimento per avere l’illusione della discesa. Lo spazio buio restituisce un senso di oppressione, di claustrofobia: uno dei personaggi precipita. La danza finale non è altro che il catturare il corpo del compagno con una corda e salvarlo dall’infinito nulla per riportarlo alla vita, alla luce; il tutto con movimento lento e ieratico che evoca un rito arcaico.

Terzo quadro.
Siamo dentro una nave che ondeggia tra i marosi; in scena solo una lampadina sorretta da un filo appeso in alto che continua a dondolare e un tavolo con macchina da scrivere davanti al quale è seduta una donna che batte sui tasti. Lo schermo restituisce le immagini di date e parole in un movimento orizzontale, da sinistra verso destra e poi a capo: una microcamera è installata nel carrello dei caratteri e riprende la successione di lettere. A queste riprese in diretta, senza soluzione di continuità sono affiancate immagini di oggetti posti su un tavolo di un’ipotetica cabina di nave: libri, strumenti, carte geografiche. Il trascorrere dal tempo reale al registrato è impercettibile. Le ultime immagini sono quelle del mare mosso ma visto da un punto di osservazione a livello della superficie che genera un senso di perdita d’equilibrio e infine, di mancanza di una meta perché al di là della linea d’orizzonte, del limite tra terra e cielo, non c’è niente.

Quarto quadro.
La solitudine. Siamo in una vetta innevata e deserta. Il movimento all’interno delle immagini proiettate è lentissimo e circolare intorno ad un unico asse. L’immagine a 360° e l’alta definizione ci trasportano in un paesaggio che crea vertigine, assenza di ossigeno. Non c’è traccia di chi riprende, il movimento sembra generato da un occhio meccanico o da una sintesi numerica senza la mediazione umana. Un impercettibile zoom avvicina il nostro sguardo alle cime mentre il movimento si mantiene nella sua circolarità. Viene in mente il film La regione centrale di Michael Snow (1970).

Quinto quadro
: I sogni. Una giovane donna è sdraiata su un tappeto verde al centro della scena. E’ raddoppiata nello schermo; ma nonostante la somiglianza perfetta e l’aderenza alla posizione della donna in carne ed ossa, l’immagine è registrata. Il verde acceso dalla luce della canicola è un prato, troppo bello per essere vero. Si incrociano stato di veglia e di sonno. La donna dice: “I wish I were…” (ed elenca varie cose: una piccola stella, un animale, un fiore) e come nel REM (che non a caso è una fase di intensa attività cerebrale nel quale si organizzano gli elementi del sogno) vediamo scorrere con improvvisi avvicinamenti e allontanamenti e sfuocature, immagini del prato e degli alberi. Pattern più che immagini definite. Come nel REM si continua a battere rapidamente gli occhi anche se chiusi, sopra l’immagine dello schermo passa ritmicamente la banda nera del disturbo televisivo.

Voyage: lo spettacolo.

Sesto quadro.
Paura di volare, paura del vuoto. Siamo in un aereo e le hostess sfilano in una improbabile e decisamente esilarante danza fatta a squadra nei corridoi stretti di un ipotetico aereomobile. Uno steward in mutande porta in mano a tempo di danza, un vassoio con un modellino di aereo che ha sulla punta una microcamera che trasmette allo schermo immagini in macro dello spazio intorno a lui. Il quadro termina con un cosmonauta che danza in assenza di gravità, walkin’ on the moon.

Settimo quadro.
paura dei nostri stessi pensieri, delle nostre incertezze, dei propositi mai praticati, dei nostri interrogativi irrisolti si incarna in scritte che dall’alto dello schermo scendono e si proiettano direttamente sul corpo dei performer, provocando reazioni diverse: “forever-never-someday; once-now”. Frammenti di pensieri in forma di lettering scannerizzano il corpo, lo attraversano letteralmente.

Ottavo quadro. Paura della morte. Alcuni scalatori in una montagna innevata precipitano lentissimamente. Ancora una volta la discesa in verticale è trasformata in un’azione sul piano orizzontale. Rotolando con addosso tute da alta quota perdono l’orientamento, nel biancore accecante della neve. La morte è un bip di segnalazione sempre più debole, mentre l’amore è il calore che disgela.

Nono quadro.
Siamo nel labirinto della mente, reso come una complessa architettura di un hardware: bit, segnali, informazioni, dati. E ancora, flash intermittenti, ossessioni sonore, interferenze visive. La scena è tutta per lo schermo che sembra un film astratto di Hans Richter. Le immagini e il suono sembrano l’uno il riflesso dell’altro, in una sorta di autogenerazione all’infinito. Questa sequenza trasmette un’angoscia insopportabile da “troppo pieno”, da saturazione.

Decimo quadro.
Siamo dentro la cabina di pilotaggio di un caccia aereo da guerra. O in un simulatore di volo. A ricordarci che le applicazioni tecnologiche più sofisticate sono quelle militari. Il nostro occhio è forzatamente diretto verso quel mirino esattamente al centro dello schermo sotto il quale scorrono carte geografiche con le latitudini e le longitudini delle città. Lanceremo la bomba? Il black è la folgorazione finale, i decibel diventano insopportabili.

Anna_Maria_Monteverdi

2003-12-17T00:00:00




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