Dall’archivio di “ateatro”: Così fan tutte di Wolfgang Amadeus Mozart

Regia di Giorgio Strehler, Teatro Strehler, Milano, 1997

Pubblicato il 26/12/2003 / di / ateatro n. 062

Doveva essere l’’inizio di una nuova avventura, il Così fan tutte di Mozart nella messinscena di Giorgio Strehler. L’’avventura dove iniziare con l’’inaugurazione, dopo vent’’anni di lavori, tangenti e polemiche, dopo le false e ridicole inaugurazioni “padane” dello scorso anno, della nuova sede del Piccolo Teatro. E con il primo appuntamento del Piccolo 2000, ovvero quel’l’utopico “Teatro d’’Arte Totale” in cui far incontrare teatro, musica, opera lirica, danza, televisione, arti visive… Un progetto ambizioso, quello delineato dal regista per la “rifondazione” del suo teatro, volto al culto del Bello ma pronto a confrontarsi e scontrarsi con l’attualità e con le moderne forme di comunicazione, che offra la possibilità di partecipare a quella “straordinaria avventura dello spirito che è il teatro”, e rivolto soprattutto ai giovani (malgrado i prezzi dei biglietti al Nuovo Piccolo Teatro -– 65.000 e 60.000 lire –- non siano proprio popolari, e più in linea con quello dei concerti dei megagruppi rock).
Invece l’’opera di Mozart, andata in scena un mese dopo l’improvvisa morte del regista (che ne aveva abbozzato l’impianto in una prima intensa sessione di prove), assume inevitabilmente il valore di un testamento, e insieme di un punto di riferimento per chi voglia in qualche modo raccoglierne l’eredità, dentro e fuori dal teatro milanese.
Allora, forse, più che sullo spettacolo in sé (che dopo la scomparsa del regista è stato “realizzato”, come si legge nel programma di sala, dal direttore Ion Marin, da Carlo Battistoni, Marise Flach, Ezio Frigerio e Franca Squarciapino), vale la pena di riflettere sui motivi di una scelta insolita per un teatro di prosa. Aprire con un’opera significa innanzitutto rompere con la divisione in generi, a favore di una nuova sintesi. Significa soprattutto misurarsi con la tradizione, nelle sue punte più alte, per cercare di porsi – noi contemporanei – alla sua altezza: e questa è una sfida lanciata sia agli artisti che al pubblico, e che presuppone un maestro in grado di trasmetterne il senso riposto, e i segreti (e magari anche i trucchi).
Poi c’è naturalmente la decisione di partire dall’amatissimo Mozart: e la scelta punta con decisione verso la leggerezza (vengono in mente le Lezioni americane di Calvino), confermata anche dai frizzi ironici degli straniamenti e delle gag, soprattutto nella prima parte dello spettacolo. E’ una leggerezza nutrita di musica, che punta alla vertigine, all’ebbrezza sensuale, forse anche al sublime, e che però non sembra mai poterla raggiungere. Viene interpretata alla perfezione dai costumi di Franca Squarciapino: vaporosi e quasi indecenti, pastelli chiarissimi che si fanno accarezzare dalla luce e alludono a una intimità popolata di fremiti e inquietudini.
Lavorare sulla leggerezza e procedere per sottrazioni significa anche condensare l’orizzonte dello spettacolo, quel teatro del mondo che è il palcoscenico, in pochissimi segni. È la lievità monumentale della scena di Ezio Frigerio, anch’essa accarezzata da un chiarore morbido, mai abbagliante: due quinte mobili, un fondale che diventa cielo, orizzonto o parete, un molo dietro il quale sfila una barca… E pochi arredi, a caratterizzare gli interni, nell’astrattezza di uno spazio dove far vibrare i corpi e le voci.
Tutto questo implica – è chiaro – l’accettazione di tutte le convenzioni del gioco teatrale. E’ solo all’interno di questo codice e delle sue regole, contro ogni tentazione realistica, che per Strehler è possibile trovare la verità sulla scena: ma forse solo nel momento in cui la convenzione viene forzata fino all’estremo, bruciata dall’interno con il fuoco della poesia – o della vita. Quando un gesto, un’intonazione, lo sfiorarsi di due corpi, possono finalmente rivelare la loro autentica essenza. Da questo punto di vista la scelta di lavorare con dei giovani (il trentasettenne direttore Ion Marin, l’Orchestra Giuseppe Verdi di Milano, il coro della Civica Scuola di Musica di Milano, gli allievi della Scuola del Piccolo, e soprattutto il cast dei cantanti) offre più flessibilità rispetto alle grandi istituzioni. E soprattutto una freschezza e duttilità, un gusto d’avventura e uno slancio esistenziale che promettono di bilanciare il peso dei classici e riempiono di significati la trasmissione del sapere dell’anziano maestro.
Infine c’è il senso più profondo nella scelta di questa opera, di Così fan tutte, intimamente legata al percorso dell’ultimo Strehler e alla sua riflessione sulla natura profonda del teatro e del lavoro del regista. Perché al centro del libretto di Da Ponte – un apologo dagli accenti vagamente misogini sull’incostanza femminile – sta il meccanismo tutto teatrale dei travestimento. Per scommessa, istigati dal più anziano ed esperto Don Alfonso (Alexander Malta), gli ufficiali Ferrando (Jonas Kaufman) e Guglielmo (Nicolas Rivenq) vogliono dimostrare la fedeltà delle loro amanti, le sorelle Fiordiligi (Eteri Gvazava) e Dorabella (Teresa Cullen). I due uomini seguiranno le istruzioni di Don Alfonso, che vuol dimostrare loro la leggerezza degli affetti: fingeranno di partire per la guerra, torneranno travestiti da esotici albanesi e si presenteranno alle due fanciulle. A quel punto, dopo un incrocio di coppie, ciascuno dei due metterà alla prova la fedeltà della donna dell’amico.
La maschera e la finzione – il teatro – offrono dunque ai due ufficiali il modo di conoscere la verità sulle loro innamorate. Ma al tempo stesso svela proprio la verità che non vorrebbero conoscere: la fragilità dei sentimenti – anche dei loro stessi sentimenti, travolti dalla febbre della sensualità, dalla vertigine del doppio, dall’imprevedibilità del desiderio. Al di là del lieto fine, è una lezione amara, quella cercata attraverso il gioco divertito e leggero del teatro, evocata dal potere della musica e della sensualità, e trovata sul palcoscenico. Il teatro non offre un’occasione di liberazione. Non regala il magico fascino del gioco spettacolare. Piuttosto è un cammino di conoscenza (e soprattutto autoconoscenza) che non necessariamente porta gratificazioni e consolazioni.
Questo percorso paradossale (perché conduce a una sconsolata verità attraverso la mistificazione) ha naturalmente un demiurgo. Il fulcro della vicenda è Don Alfonso – uno dei tanti alter ego “registici” che popolano gli spettacoli di Strehler, in particolare gli ultimi. Esperto delle cose del mondo, disilluso quanto basta, è lui (con la complicità della serva Despina di Soraya Chaves) che mette in moto e governa, passo dopo passo, gesto dopo gesto, parola dopo parola, la partita dei travestimenti. Quella che offre questo maestro del disincanto può apparire come una educazione al cinismo e alla leggerezza, o una superiore e disincantata forma di saggezza. Il punto d’approdo, una amorevole comprensione della natura umana e delle sue debolezze.

Questo testo è stati oroginariamente pubblicato sul “manifesto”, gennaio 1998.

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2003-12-26T00:00:00




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