Autoritratto dell’’artista da (non)narratore

Conversazione con Andrea Cosentino

Pubblicato il 06/04/2004 / di / ateatro n. 066

Straordinario protagonista dell’’assolo Andromaca di Massimiliano Civica, Andrea Cosentino, 35 anni, formatosi a Parigi alla scuola di teatro mimico e gestuale di Philippe Gaulier e Monika Pagneaux, nei suoi lavori come autore-attore (Amleten Verboten 1991; Carnosciate 1993; Mara’Samort, 1995; La tartaruga in bicicletta in discesa va veloce, 1998, finalista al Premio Scenario; Antò le Momò, 2000) si è distinto per una comicità colta e diretta che mescola l’impegno all’intrattenimento, la cultura popolare a quella dei media; laureato in Storia del Teatro a seguito dei suoi studi sull’oralità e sulla comicità ha pubblicato un volume su Benigni (La scena dell’osceno, ed. Odradek). Il suo Asino albino, al debutto quest’anno in forma di studio al Rialto Santambrogio di Roma, uno dei luoghi più interessanti dell’altro teatro, ha avuto notevoli apprezzamenti dalla critica ufficiale nazionale. Parla del carcere (o quel che resta) dell’Asinara in Sardegna e di gitanti smemorati, di una reclusione fisica e di una mentale. Nel racconto, pieno di travestimenti e di doppi, umani e animali, Cosentino si appropria con grande disinvoltura (e in alcuni momenti, con vero virtuosismo) delle tecniche affabulatorie – verbali e corporee – popolari e d’arte, e di una forma comica che, come ricordava Bachtin, distrugge e smaschera. I suoi spettacoli, permeati da questa comicità graffiante e dal gusto del paradosso e del parodico, non appartengono al teatro di narrazione. Riconciliano la ricerca con il grande pubblico. Con uno sguardo, oltraggioso e tragico insieme, sul mondo e sulle sue mutazioni antropologiche. E’ attualmente artista in residenza presso Armunia (a Castiglioncello) per partecipare come interprete a un allestimento ideato e diretto da Massimiliano Civica ispirato al Teatro del Grand Guignol.

Il tuo percorso di formazione: da una parte i laboratori per diventare attore poi dall’altra gli studi all’interno dell’università, la storia del teatro, le tradizioni popolari studiate sul campo. E’ nata prima l’idea di fare l’attore e poi di approfondire certi temi o viceversa?

Non so cosa è nato prima, da un certo punto di vista non mi considero neanche un attore; credo di avere una formazione un po’ eclettica, come la grande parte dei teatranti non di prosa della mia generazione. Io volevo fare il regista cinematografico, la mia idea era quella. La prima cosa che ho fatto in teatro è un seminario con Dario Fo organizzato dal figlio Jacopo ad Alcatraz parecchi anni fa, ma ero giovane, senza esperienza, non è che abbia messo a frutto l’incontro. Però, detto a posteriori e a livello simbolico, è un inizio che mi corrisponde più che non iniziare co un provino per l’ingresso in qualche accademia.

E’ stata quindi una precisa scelta quella di stare al di fuori dell’Accademia?

Quando ho lasciato la mia città, Chieti, per andare all’Università a Roma avevo 17 anni. Il teatro è cominciato subito, ho cercato di fare corsi di teatro. Ti costruisci un percorso formativo eterogeneo. Il problema è trovare qualcosa che coaguli, che ancori questa tua passione. Altrimenti rischi di non far nulla, di perderti. L’unica cosa che sapevo è che non mi interessava fare l’attore in senso stretto, intuivo che non mi interessava fare l’attore del teatro di regia, anche se solo dopo ho capito perché: il mio studio sull’oralità e sulle tradizioni popolari vuol dire qualcosa. Anche se non mi considero un narratore vero e proprio, c’è un aspetto dell’oralità che mi interessava: se vuoi, il fatto che non c’è distinzione nell’oralità tra ciò che è attorale e ciò che è autorale. C’è una formazione teatrale – quella classica, per capirci – che dà per acquisita la distinzione tra un codice verbale e un codice gestuale: il lavoro dell’attore consiste nel camuffare questa linea di demarcazione pur rispettandola. Un bravo attore riesce a dare organicità a questa cosa. Ma c’è un altro teatro che non conosce questa distinzione o che si rifiuta di conoscerla.

E’ una critica a quel tipo di teatro di attore?

A me quel teatro interessava davvero poco, anche se è vero che uno attraversa fasi: a 18 anni leggevo Per un teatro povero di Grotowski, Lo spazio vuoto di Brook. Poi inizi a frequentare ambienti eccessivamente simili a te, e allora magari scopri che ci può essere non dico un Lavia ma un Carlo Cecchi che ti dà il gusto della recitazione attoriale. Ci sono attori «di tradizione» come Herlitzka che quando li vedo capisco il gusto di un certo tipo di teatro: ma è anche vero che lì la recitazione è portata a dei livelli di autodivertimento, di autoriflessività. Lì il codice della recitazione trascende la funzione rappresentativa e diventa spettacolo di sé: pensa a Carmelo Bene.

Da cosa dipende la sopravvivenza di un teatro d’attore che non ha queste caratteristiche che tu dici ma che sono invece l’ossatura dei teatri «da abbonati» e che purtroppo sta diventando anche il modello per una giovanissima generazione anche a causa dei legami produttivi tra i teatri stabili e le istituzioni formative?

C’è questa idea dell’acculturazione teatrale… Noi dell’altro teatro ne parliamo da trent’anni, e io da quindici, cioè da quando ho iniziato a fare teatro. C’è un tipo di teatro cui corrisponde il cosiddetto pubblico degli abbonati, che puoi criticare o ritenere in decadenza, ma che comunque resiste perché utilizza quel teatro come un rituale. Noi invece non abbiamo creato un rituale davvero alternativo a quello. E’ come se l’alternativa a questo teatro fosse rimasta una faccenda generazionale e di rapidissimo consumo: un teatro fatto da giovani, ma anche da consumare da giovanissimi che poi finiti quei tre anni in cui si vedono quel tipo di cose si può tornare a fare la propria vita, seguire altri interessi, come se tu non seminassi nulla che poi a sua volta possa diventare tradizione. O almeno bisogno. Perché non credo sia più il tempo di creare una tradizione teatrale. Allora bisogna capire in cosa lo spettacolo dal vivo può soddisfare dei bisogni.
Il legame con l’oralità: non è anche quella una maniera di creare un’alternativa?

L’oralità è il successo del teatro di narrazione di questi ultimi anni. Il mio personale legame con l’oralità nasce da percorsi di studi – la mia tesi di laurea che è diventata poi un libro – sui maggi e sul teatro all’improvviso. Il mio libro parla di Benigni, della poesia a braccio. Benigni da giovane faceva queste ottave improvvisate: io cercavo di ripercorrere questo passaggio dalla tradizione popolare orale a un tipo di performatività comica che è appunto quella di Benigni. L’aspetto più divertente di questo studio è stata la ricerca sul campo con questi anziani bernescanti, non poteva essere solo una ricerca da studioso. Ho dovuto farmi accettare come qualcuno che voleva far poesia non come uno che andava a studiarli! Questo soprattutto nella Maremma toscana.

Ti mettevi il cappello di paglia con i fiori freschi e andavi a cantare davanti alle case?

Non facevo i maggi, andavo nelle serate in cui si incontravano questi vecchietti che facevano le sfide di poesia, bevendo vino.

Come funzionano queste sfide?

La struttura del contrasto è questa. Si prende un tema – può essere un tema qualunque: l’uomo/la donna, comunisti/democristiani, questi erano i temi classici ai tempi di Benigni, ora sono un po’ diversi. Io e te duettiamo: io cerco di difendere la Russia e tu l’America, tu ti agganci alla mia ottava cercando di riprendere la rima, poi ci sono delle strutture fisse… E’ chiaro che se tu leggi le cose che questi dicono nelle serate in cui bevono… insomma, non hanno molto a che fare con Dante Alighieri, però è anche vero che loro si considerano assolutamente in continuità con Dante o Ariosto. E dal loro punto di vista stanno facendo poesia come la facevano loro.

Per quanto tempo ti sei esercitato?

I miei incontri sono avvenuti nell’arco di tre quattro mesi: li seguivo e ho fatto anche qualche serata in giro.

Hai seguito corsi con Marisa Fabbri, con il Living Theatre, con Rena Mirecka. Cosa lega tra loro queste tipologie di teatro e cosa?

Erano laboratori brevi, una due settimane. Magari molto intense: con Rena Mirecka, due settimane in Umbria, non potevamo parlare, facevamo cose molto grotowskiane, tutte esperienze che ti arricchiscono e poi decidi di mantenere o rifiutare. Situazioni importanti… Ma le esperienze che ritengo siano state davvero il mio centro formativo sono quelle di marca lecoquiana: ho studiato a Parigi con Philippe Gaulier e Monika Pagneux.

Quando hai deciso che era il momento di metterti in proprio per di creare da solo le tue regie, i tuoi spettacoli?

Non userei il termine regia. Io non penso i miei spettacoli in termini di messinscena, ho sempre bisogno di qualcuno di fronte a me. Anche se sembra strano detto da un monologhista, il teatro è sempre un lavoro di gruppo. Ho una piccola tribù di persone che stimo e che mi aiutano, come la mia compagna, Valentina Giacchetti, o il regista Antonio Silvagni. Nel mio ultimo lavoro, così come in uno precedente, la regia è di Andrea Virgilio Franceschi. Comunque tornato da Parigi, dopo aver fatto questi corsi intorno alla metà degli anni Novanta, all’inizio facevo cose molto cabarettistiche. Ero in un momento quasi di rifiuto di una certa ricerca teatrale. Il primo spettacolo che ho visto è stato il Mahabharata di Brook, sono partito da Chieti a diciassette anni per venirlo a vedere a Prato, al Fabbricone. Vidi poi a Roma una retrospettiva dedicata al Living Theatre, i film con Julian Beck. All’inizio c’era questa idea di teatro come impegno, quasi di sacralità del teatro. Il mio periodo parigino e il mio fare cabaret erano una sorta di rigetto proprio di questa idea. Adesso credo di aver raggiunto un equilibrio rispetto a certe spinte, ma continuo a non amare il teatro troppo settorializzato: non amo questa cosa molto italiana di circuiti a tenuta stagna – la prosa, la ricerca, il cabaret. La mia piccola battaglia, se vogliamo chiamarla così, è quella di riuscire a percorrere trasversalmente questi circuiti, di arrivare a diversi tipi di pubblico.

Un teatro di confine o confinato?

Credo di fare un teatro ai margini, non solo per il fatto che non mi conosce nessuno. Non mi interessa il teatro museificato che si preoccupa di mantenere, tramandare né dall’altra parte di tradire la letteratura teatrale. Credo che sia una cosa brookiana – che l’unica cosa preziosa, vitale del teatro sia la relazione con lo spettatore, il motivo per cui appunto il teatro sopravviverà. Il teatro non è morto: la gente che va vedere i comici di Zelig riempie le platee. Quello è teatro. Puoi dire che non è un buon teatro ma non puoi dire che non è teatro, si crea una relazione viva con lo spettatore. Puoi dire che sono sottoprodotti di una cultura televisiva, però io credo che bisogna allargare gli spazi del teatro. Mi piace l’idea che posso farmi il mio teatro e proporlo in qualunque spazio, e lo preferisco a una marginalità di una ricerca che è già un circuito, è già un target e che si accontenta di questo.

Marginalità come scelta anche politica?

Io faccio un teatro marginale, ma questo non significa che voglio stare negli spazi piccoli. Voglio essere marginale ma questo non significa che non voglio arrivare al pubblico. Non è questo. Voglio essere marginale perché non ho bisogno di strutture produttive, ma non voglio certo dire che non ho bisogno del pubblico, sono due cose diverse.

Un teatro povero?

Il mio teatro è effettivamente un teatro povero, ma che fa di necessità virtù, non è neanche un teatro povero che fa di virtù virtù! Teatro povero, ma non come scelta monastica: il mio teatro posso immaginarlo nella mia camera e poi magari farlo al Teatro Sistina. Questa credo sia una forza potenziale.

Quindi occupare con il teatro tutti gli spazi, anche quelli televisivi?

La televisione ha portato il Vajont di Paolini al grande pubblico, è uno strumento che puoi usare, bene o male. Io ho fatto televisione. L’ho fatta un anno fa. Dopo di che ti rendi conto che ci sono meccanismi tali che, anche volendo, il contesto, il contenitore è sempre più forte di te. Ma ho intenzione di rifarla, la televisione, non solo proponendo una cosa mia, ma cercando questa volta di produrla da me.

Ti sei proposto o ti hanno chiamato?

Quelli dell’Ambra Jovinelli e Serena Dandini mi avevano fatto fare già una serata. Io avevo una cosa che volevo proporre in televisione, ho fatto il provino per una trasmissione su Italia Uno, Ciro presenta Visitors, e mi hanno chiamato.

E ti hanno lasciato fare quello tutto che volevi fare?

Diciamo che una cosa era l’idea e una cosa ciò che facevo… Questo è stato un po’ il limite. Era una parte del mio penultimo spettacolo prima dell’Asino. Impersonavo una vecchietta con delle Barbie in mano che faceva delle puntate di Beautiful. In scena funzionava bene, era molto divertente: con queste bamboline cercavo di mimare, di riprodurre il linguaggio della soap opera, cioè con la povertà di questi mezzi mimavo la povertà di un linguaggio. In teatro usavo l’occhio di bue, in televisione facevo le puntate di questa telenovela avvicinando e allontanando le bambole dalla telecamera: primo piano-piano emotivo, campo lungo-piano diegetico-narrativo. Il tutto con delle trame abbastanza deliranti: tutti i personaggi si erano fatti la plastica facciale in seguito a vari incidenti e quindi tutti avevano la stessa faccia… Se vuoi una cosa sulla perdita dell’identità! Era quasi un’operazione metatelevisiva.

Cosa hai dovuto cambiare per esigenze di programma?

Avevano accettato questa cosa perché funzionava. Originariamente io ero questa vecchietta che gioca con le sue Barbie e questo era un attrito che mi interessava molto: coniugare una sottocultura fatta di prodotti standardizzati come quelli della soap televisiva con i residui degradati di una cultura popolare. Infatti questa cosa la facevo in dialetto. Allora loro mi hanno detto: «Sì, bella questa cosa, ma… perché la vecchietta? Cioè, noi la capiamo ma il nostro pubblico…». Allora ho dovuto cambiare questo personaggio ed è iniziata così un’operazione di appiattimento di quest’idea. Poi accetti, altrimenti non lo fai, ma alla fine il risultato non era quello che volevo. Per loro funzionava: controllavano lo share, io ho resistito tutte le puntate, voleva dire che gli andavo bene. Ma non era assolutamente quello che volevo. Io pensavo a un’immagine fissa in macchina, ma molto accurata. Invece alla fine ero una sorta di cabarettista, pur facendo una cosa un po’ strana che non aveva molto a che fare con i tempi televisivi. Io poi ho una mia personale idiosincrasia a vedermi in immagine: non faccio cinema, non riuscivo a rivedermi, sullo schermo mi sento inchiodato, mi faccio orrore, se vuoi la mia scelta di fare teatro è una scelta di effimero. A teatro in qualche modo sei tu spettatore a completare il quadro… Poi mi piace l’idea che quello che avviene un attimo dopo non c’è più. In fondo anche nel mio ultimo lavoro, lo spettacolo è tutto nella preparazione di questa immagine in controluce che non ti concedo di vedere, di cui non rimane nulla.

Ma non è davvero così! Sarebbe paradossale se finito lo spettacolo non sopravvivesse nulla, se io come spettatore tornassi a casa come se niente fosse!

Non dico che andare a teatro non debba essere un’esperienza ma che le cose vanno consumate. Chiaramente non mi interessa il teatro d’evasione, mi interessa il teatro che tiene conto che c’è qualcuno che è lì presente davanti a te. E nella comicità c’è una relazione teatrale pura, immediata.

Ma in televisione mentre registri che pubblico c’è?

C’è un pubblico finto, c’è la risata finta.

Ridono in momenti prestabiliti?

La cosa è ancora più assurda. Io non sapevo come funzionava. Tu sei lì in studio a registrare un programma che durerà un’ora e mezza, due ore, ma la registrazione va avanti tutta la giornata. Il pubblico è lì, stanco morto, distrutto… Non è che abbia molta voglia di ridere e divertirsi. Allora cosa fanno? All’inizio della registrazione della puntata il regista dice: «Adesso fate una bella risata». E tutti ridono. «Ora fatemi una risata con applauso!

Quindi una risata teleguidata!

La reazione viene preregistrata e poi la montano sulle tue battute. Questa risata finta ti testimonia comunque la necessità di una relazione –qualcosa che manca in televisione rispetto al teatro. Altri programmi hanno invece il pubblico pagante, vedi una serata tipo Zelig.

Mi racconti dell’Asino albino? Quanto c’è di improvvisazione e quanto di scrittura?

Lo spettacolo l’ho pensato per due anni prima di scriverlo. La struttura è forte nella sua evanescenza. Forte perché evanescente, e diversa rispetto a una drammaturgia orale che pure prediligo. La drammaturgia orale è normalmente paratattica: va avanti per rimandi, digressioni, eccetera. Sai dove inizi e non sai dove va a finire. Nell’Asino albino ho cercato di rovesciare questo andamento: l’unica cosa certa fin dall’inizio è il finale.

Ma c’è un germe di partenza?

Il germe di partenza è la voglia di parlare del tempo, del tempo che passa e del presente nella sua intensità e nella sua volatilità.

E quindi in un certo senso è anche uno spettacolo sul teatro.

E’ uno spettacolo a cui sto ancora lavorando, ma credo che sia davvero un lavoro che mi rappresenta molto. A me piace fare il comico, mi diverte, la comicità è lo strumento più efficace e inequivocabile per scoprire che c’è qualcuno davanti a te. Una comicità senza qualcuno davanti che la raccoglie non può esistere! E dal punto di vista performativo, è una delle cose più difficili semplicemente per il fatto che non puoi far finta che sia un’altra cosa. Se racconti una storia più o meno spiritosa e nessuno ride, pazienza, la storia va avanti ugualmente. Ma se fai una gag, o fai ridere o non è nulla, perché una gag non è nulla, non rimane nulla, come dicevo prima. Crea dei cortocircuiti, ma immediati. Dal punto di vista degli ingredienti, c’è nello spettacolo un lato molto comico, se vuoi delirante, ma c’è anche un aspetto di pseudosatira che non è poi mai veramente satira politica: è qualcosa – spero – di più profondo e radicale, qualcosa che precede il fatto di parlare di quest’argomento o di quell’altro. Cerco di parlare di mutazioni antropologiche in atto nella nostra società. Lo spettacolo si regge e si legge attraverso questa apparente opposizione tra il tempo umano, lineare e storico – che è teatralmente il tempo del tragico – e il tempo ciclico e rassicurante della natura – che è il tempo della commedia. Poi scopri che anche questa opposizione si va cortocircuitando. L’aggancio per parlare di questo è che siamo su questa spiaggia bellissima in Sardegna e c’è un asino morto sotto il sole (l’asino bianco sardo sta estinguendosi per le radiazioni solari diventate a causa dell’inquinamento ambientale in questi anni eccessive e insopportabili per la mancanza di melanina che caratterizza la loro specie, ndr): questa è la chiave di volta. E’ la fine della storia perché è la fine della natura, se ci pensi bene è reale e allarmante.

Qual è la struttura narrativa?

Lo spettacolo è strutturato su due aspetti. C’è un lato più narrativo, anche se in realtà non racconto una storia, piuttosto insceno lo sforzo di raccontarne una, di restituire un senso a un’esperienza. Poi c’è questo aspetto un po’ più cabarettistico nel quale impersono vari personaggi che compaiono, che visitano l’isola, commentano il carcere. Tu segui una struttura che però non è narrativa… Faccio vedere questi personaggi in gita turistica e continuo a raccontare lo stesso finale. Sono tre tentativi di raccontare lo stesso finale. Ogni volta il finale si sposta di poco. Il terzo finale, non so come dire, è la fine del mondo… L’immagine finale sono io e non sono io che sono l’asino, ma non ti è concesso vedermi. Lo spettacolo in un certo senso è puro intrattenimento. Solo alla fine del percorso intuisci il senso o il nonsenso del tutto. Con questi finali c’è un tentativo di spiazzare, di fare una spirale. La costruzione è apparentemente semplice ma nella realtà non è affatto semplice. Lo spettatore ha vari livelli di lettura a cui attaccarsi.

Qual è la reazione del pubblico? La mia esperienza rispetto al tuo modo di raccontare i diversi personaggi dell’Andromaca è che si rischia di essere continuamente spiazzati per i cambi di registro inaspettati…

Nell’Asino albino ci sono dei momenti di risata credo aperta. Ci sono parti che sono dichiaratamente comiche, funzionano… Per citare l’articolo di Balzola, lui dice che faccio delle macchiette anche un po’ televisive che però diventano come dire, commoventi a un secondo livello. Questa cosa l’ho ricercata e sono contento che qualcuno l’abbia colta, mi ha fatto piacere: Ci sono per esempio questi gitanti che ogni tanto ritornano: quando appaiono la prima volta fanno ridere, poi ti fanno ridere e anche pensare. Io li definisco dei ritratti di mutazioni antropologiche. A volte sono crudeli e comunque mi piace l’idea che tu debba essere in sintonia. Quello che non mi piace della satira è il modo di macchiettizzare i personaggi, il fatto che tu li guardi e pensi: «Quello non sono io». A me piace che guardi e inizi a pensare: «Sì, sono io sono proprio io, ecco, sono io…». Poi pian piano scopri che: «No, no, non sono io, non sono proprio io. Non voglio essere quella cosa lì!». Questo mi diverte. E’ anche la mia personale risposta alla domanda se faccio provocazione o intrattenimento. Per me bisogna fare le due cose insieme. Perché se faccio pura provocazione, ti vengono a vedere solo quelli che vogliono essere provocati, lo accettano e diventa moda. Io invece ho sempre bisogno di spiazzare… Mi viene in mente Grotowski: il teatro è quando c’è un attore e uno spettatore. Bene, per me teatro è un attore e almeno due spettatori, e non è detto che i due spettatori debbano reagire allo stesso modo! C’è la coscienza che io sono a fianco di qualcun altro, e allora ok, allora posso ridere qui rido… Non a caso la comicità non funziona quando ci sono un pugno di persone, ha bisogno di pubblico!

C’è un bisogno di contagiarsi, e di sentirsi più liberi di esprimersi.

C’è anche un fatto un po’ politico. Siamo una piccola comunità a cui vengono fatte delle proposte e non è detto che io debba reagire allo stesso modo a questa proposta. C’è un istinto molto umano di voler fare massa e un altro altrettanto umano di voler essere individuo. A me piace che ci siano questi due aspetti contemporaneamente, in tensione continua.

Nell’Asino albino parli di un carcere. Ma cosa racconti del carcere? L’isolamento, la mancanza di comunicazione?

A un certo punto racconto di una persona che è stata in questo carcere. E’ l’unica volta in cui io sono un attore che è testimone, riferisco quello che è accaduto. Contemporaneamente questo carcere diventa un luogo di attrazione: ecco il turista che visita le spoglie del carcere con un lato di crudeltà, di cattiveria. La scenografia è molto semplice: un cerchio bianco dentro cui agisco, come una pedana da circo – e questo è un ulteriore livello di lettura. E’ un cerchio bianco come quello dove saltano gli animali, e a un certo punto mostrandolo io dico: «Questo è il carcere», i turisti che si affacciano per visitare le celle si infilano dentro il cerchio e iniziano a fare discorsi demenziali, e pensi: «Sì, questo è il carcere, ma quelli forse stanno in un altro carcere, in un carcere mentale». Cioè ci sono una serie di spostamenti di senso… Sicuramente però non è uno spettacolo sul carcere. Sentimentalmente, per cultura, estrazione e passato politica, sono contro il carcere. Ho anche lavorato con i detenuti a Rebibbia. Ma questo è uno spettacolo sul nostro presente, tutto e niente, è un’apocalisse, un’apocalisse comica. Tragedia e commedia, appunto.

Però quello dell’Asinara era un carcere particolare..

Certo, era l’epoca delle leggi speciali contro il terrorismo, è un pezzo di storia d’Italia oltre che un luogo di detenzione, è tante cose insieme. Lo spettacolo gioca anche con la mancanza di memoria storica collettiva, la mancanza di memoria di quelli che vanno a visitare il carcere come fosse un monumento. Poi c’è la memoria dell’isola, che è stata un lazzaretto, un campo di concentramento. Tu vai lì a vedere il mare ma ci sono i relitti di una storia umana che ha ben poco di edificante, ed è anche contemporaneamente un luogo che è incontaminato proprio perché è stato usato come discarica – strano paradosso – una discarica umana. Quando faccio parlare questo detenuto, che è poi l’unica storia che io racconto nello spettacolo, teatralizzo ma neanche tanto, mentre i miei turisti non sono affatto veri, forse sono più veri del vero. Lì non racconto la storia della detenzione ma la storia di una tentata evasione… ti parlo di un tentativo di fugga. Gli altri – i turisti – non scappano, non hanno neanche il desiderio di fuggire dal loro carcere. E questa è una delle cose tragiche dello spettacolo, ammantata con il delirio, puoi leggerlo come divertissement o andare oltre.

Come ti relazioni con il teatro di narrazione, questo filone prettamente italiano e con i nuovi autori-narratori, con il tema dell’impegno politico e sociale da loro affrontato? Mi riferisco non solo a Marco Paolini, Davide Enia e Ascanio Celestini ma anche a Roberta Biagiarelli e ai suoi lavori di narrazione sull’assedio di Srebrenica e su Chernobyl.

Io non considero il mio un teatro di narrazione. L’asino albino non è uno spettacolo narrativo, non solo come struttura drammaturgica – non vado a raccontare una storia – ma anche scenicamente: io gioco al teatro. Anche se poi mi fa sorridere quando parlano di fregolismo. Io metto un cappellino in testa e sono un certo personaggio. E’ più un gioco a fare il teatro piuttosto che essere l’attore che impersona. Non mi interessa impersonare il personaggio. Se vedo Ascanio Celestini, in lui capisco l’esigenza della narrazione, capisco il narratore popolare a livello di ciò che incorpora: è qualcosa che ha a che fare con la narrazione orale, rappresenta le radici. Marco Paolini per me incarna la coscienza critica collettiva dell’Italia contemporanea. Io appartengo alla media borghesia italiana, e accetto l’idea di fare parte di questa mutazione antropologica. Così mi piace stare in mezzo al degrado, il degrado umano e culturale: cerco di parlare da questo degrado, ma senza moralismi. Evidentemente poi sono per l’impegno, evidentemente cerco di smuovere delle cose con il mio teatro, ma senza scindere l’etico dall’estetico, il politico dal biografico. Cerco di esser un interlocutore per una parte di pubblico che non è quello che comunque va a vedere quella cosa perché è già d’accordo o quello che non la va a vedere perché è preventivamente in disaccordo. E’ quello che ti dicevo dei due spettatori: per me è anche questo, voler fare una cosa assumendo su di me la mia parte già antropologicamente mutata, e dunque problematizzandola…

Teatro è anche luogo di memoria?

Può esserlo ed è giusto che lo sia. Anche. Ma io non ho vocazione testimoniale. Per me è importante il conflitto. Non faccio un teatro che trasmette o veicola delle cose ma che mostra e agisce dei conflitti. Da questo punto di vista mi sento più in relazione con la drammaturgia occidentale che con il nuovo-antico teatro di narrazione. Però io cerco di agire i conflitti nel cuore stesso della relazione teatrale, non solo rappresentandoli. Per rappresentare i conflitti, il cinema è meglio: se voglio vedermi una storia o emozionarmi dei personaggi vado al cinema. La forza del cinema è risucchiarti nel suo mondo, ma in questo modo sospende la percezione del tuo presente. Io al teatro chiedo di farmi essere lì, di offrire, come dire, un’apertura di senso al mio presente.

Castiglioncello, 29 marzo 2004

Anna_Maria_Monteverdi

2004-04-06T00:00:00




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