Il ritorno dell’’Institutet för Scenkonst

Da una conversazione con Roger Rolin e Magdalena Pietruska

Pubblicato il 07/04/2004 / di / ateatro n. 066

Il nomadismo ha contraddistinto buona parte dell’’attività dei gruppi del teatro di ricerca che, a partire dagli anni sessanta, presero ad esportare i propri spettacoli in tutto il mondo, confrontandosi con situazioni sociali particolarmente estreme, facendo del viaggio una modalità fondamentale del proprio lavoro. Penso all’Odin Teatret e alla sua politica del baratto culturale, ma non solo; penso al Living Theater, gruppo esule e perseguitato politicamente, ai gruppi attivisti dell’America Latina come il Teatro de Los Andes, a tutti quelle formazioni che fecero della dimensione anarchica e comunitaria del teatro la propria dichiarazione di intenti e di poetica. L’appartenenza dell’Institutet för Scenkonst a questa comunità teatrale, etica e vocazionale, animata da rigore e tensione e dalla volontà di aprirsi a contesti socio-culturali ‘altri’, è indubbia. Volete spiegarci il valore di questa scelta?

ROGER ROLIN Tutti al giorno d’oggi sono informati del fatto che il mondo è rotondo ma finché questa rimane soltanto un’informazione teorica, ogni paese, ogni situazione sociale avrà la tendenza a vivere come se il mondo fosse piatto. Ciò che bisogna chiedersi è: cosa significa che il mondo è rotondo nella sua praticità? E’ una cosa importantissima non soltanto per l’artista ma per tutta la società; penso che faccia parte della formazione dell’uomo. Non basta essere informato di questo fatto, queste informazioni devono essere trasformate in esperienza vissuta. Il viaggio, l’incontro con le altre culture – e non sto parlando, ovviamente, della dimensione del turista – il mettere la propria cultura in dialogo con il mondo, è fondamentale per ogni uomo. Noi abbiamo fatto questa scelta anche come artisti. Non è stata solo una scelta per riuscire a sopravvivere materialmente ma, soprattutto, per riuscire a sopravvivere spiritualmente, per riuscire a realizzare i nostri sogni artistici, di ricerca, di incontro. E questo ci ha portato a una specie di nomadismo anche se la scelta di essere nomadi non è mai stata fatta direttamente; noi abbiamo solo scelto di mettere la nostra cultura in dialogo con altre realtà, questa è la scelta presa direttamente.


Magdalena Pietruska in Saffo (foto di Stefano Lanzardo).

MAGDALENA PIETRUSKA La scelta di un lavoro teatrale che parta dalla letteratura drammatica, dal teatro concepito come messinscena della letteratura, è per forza nazionalista. Ma una scelta di lavoro teatrale che si basa sull’attore e sull’incontro tra gli uomini, implica necessariamente l’incontro con tutti gli uomini. E’ un teatro senza frontiere che è cominciato molto prima dell’Europa unita, che poi significa soltanto avere delle frontiere un po’ spostate. In un lavoro teatrale come il nostro avviene un incontro tra le diverse culture, c’è il bisogno di mettersi in dialogo con l’umanità senza frontiere, di non partecipare al mondo nei cosiddetti centri culturali che molto spesso s’identificano con i centri di potere politico ed economico. La cultura ufficiale rifiuta questa cultura minoritaria che non si concentra nei grossi centri di potere, nelle metropoli ecc.. C’è un articolo di Fabrizio Cruciani intitolato “Fuggire dal Centro” che parla di Copeau e della storia del teatro di ricerca e che individua un punto comune tra i gruppi come il nostro proprio nella volontà di stabilirsi alla periferia del mondo culturale e politico, laddove non c’è contaminazione con la cultura già promossa, già selezionata come cultura ufficiale e che, proprio per questo, non è più viva, non può muoversi negli spazi sconosciuti dove la ricerca per definizione deve andare.
Questo avviene anche a livello sociale: la scelta di stabilirsi ai margini, nelle campagne, nei piccoli centri è prima di tutto la volontà di non essere tentati dalla città, dalla civilizzazione, ma di adottare questi posti come la nostra casa. La domanda che bisogna porsi è: che cosa è centro, che cosa è periferia? Se noi pensiamo che il centro è lì dove siamo noi perché portiamo qualcosa con noi, allora la periferia e il centro si spostano insieme a noi e ci si apre all’incontro con le realtà che si creano sul posto. Un nomade mette la sua casa lì dove si trova adesso, per questo periodo; non è mai turista ma mette le sue radici e vive con chi c’è intorno; perciò è sempre nel suo centro, dialoga con ciò che in questo momento è centro. Questa è un’azione politiceliminare la mistificazione che vuole che i centri economici e di potere siano anche centri culturali mentre la maggioranza della gente vive fuori da questi centri.

Dopo la lunga parentesi italiana, non priva di ipocrisie e di strumentalizzazioni da parte delle istituzioni locali, l’Institutet rientra in Svezia dove rileva un rustico da ristrutturare e sistemare come “casa”, come luogo di lavoro e d’incontro tra artisti, come sede per la propria attività pedagogica. Cosa è successo: l’Institutet för Scenkonst ha finalmente messo radici? Qual è l’attività attuale dell’Institutet?

ROGER ROLIN Non abbiamo mai cercato di mettere le radici nel luogo ma nel nostro lavoro: queste sono le nostre radici e per il momento sembra che c’è la possibilità di svolgere il nostro lavoro in Svezia dove abbiamo trovato casa, se sarà per sempre non ha nessuna importanza. Lì cerchiamo di continuare la nostra attività di sempre come la pedagogia, la ricerca artistica e la produzione di spettacoli teatrali. Come vedi anche noi siamo conservatori….

MAGDALENA PIETRUSKA Non c’è stata una parentesi italiana, ogni luogo è una parentesi e ogni luogo è una sede stabile. Il posto dove prendiamo sede è ‘per sempre’ anche se può finire domani, se lo decidiamo. Perciò anche Pontremoli non è stata una parentesi ma uno dei luoghi dove avevamo il centro e adesso lo abbiamo in Svezia. Dal punto di vista del lavoro svolto è lo stesso anche se in altro modo. A Pontremoli eravamo in affitto e dipendenti dalle decisioni di altri; adesso in Svezia la casa è di nostra proprietà e allora siamo padroni del nostro tempo, delle nostre decisioni completamente. Se questo durerà in eterno ti rispondo: adesso sì, domani forse cambieremo idea.


Roger Rolin in Popolo (foto di Stefano Lanzardo).

Che dire dei tredici anni trascorsi a Pontremoli, dello sfratto dal Teatro della Rosa, dello snervante rimpallo tra gli enti locali impegnati nel vergognoso balletto dello scarica barile a fingere di preoccuparsi per le sorti dell’Institutet… insomma di tutte le nefandezze che hanno accompagnato il soggiorno italiano, ne vogliamo parlare o è preferibile stendere un pietoso velo?
A mio parere resta poco da dire circa la sottocultura di certa provincia italiana e l’ottusità dei suoi amministratori; certo è che Pontremoli non meritava l’onore di ospitare un centro di ricerca internazionale riconosciuto dalle maggiori università europee e frequentato da allievi e studiosi provenienti da tutto il mondo. A noi, che con la realtà di questo paese ci facciamo i conti quotidianamente, mancano le parole per denunciare la degenerazione di un sistema teatrale che è sempre più preoccupato di foraggiare carrozzoni pubblici o privati in odore di conflitto d’interessi e che promuove esclusivamente “prodotti orientati al mercato” disconoscendo il valore dei gruppi che hanno fatto la storia del Teatro novecentesco. E’ di pochi mesi fa la notizia che il Living Theater ha lasciato Rocchetta Ligure dove aveva sede da alcuni anni, perché l’amministrazione comunale gli ha addebitato un affitto impossibile da sostenere. E così l’ultraottantenne Judith Malina riparte con il suo gruppo alla volta di New York per dare una sede al Living Theater.
Dunque, la storia continua…

ROGER ROLIN Storicamente viviamo un tempo che sembra essere la fine dell’uomo politico e, se vogliamo una speranza per la nostra società, la figura dell’uomo politico deve trasformarsi perché nel mondo, parlando in generale, si vede che la politica non è altro che una grande tragedia. E Pontremoli in questo non faceva eccezione.

MAGDALENA PIETRUSKA Pontremoli ci tocca molto perché è stata la storia vissuta sulla nostra pelle ma non è l’unica, purtroppo. E’ una tendenza generale della nostra società quella di andare verso le cose fasulle, di annullare la dimensione umana dalla nostra vita e lo stare insieme su questa terra dove la cultura e l’arte sono una cosa essenziale per sopravvivere e non possiamo vivere senza. Le leggi di mercato però, la direzione che questa società ha imboccato e accelerato, stanno all’opposto; tutto segue la logica delle cose da consumare e buttare, dalle stelle e stellette televisive al protagonismo sfrenato che è proprio svergognato perché fa a meno delle basi su cui ci si può basare per diventare protagonisti… basta comparire in TV per diventare famosi. La vera tragedia è la strada imboccata dalla nostra società, la nostra storia è solo una conferma di tutto questo. A Pontremoli era tutto molto più visibile perché è un posto piccolo e così gli errori erano evidenti; il modo di usare il consenso da parte degli amministratori è solo un pretesto per i giochi di potere. E purtroppo la storia si ripete: tutto ciò che sta fuori dalla logica di mercato viene espulso. L’evoluzione è sempre ostacolata da ciò che è realizzabile ora e subito, da ciò che è convertibile in denaro, dai protagonismi fasulli. E’ questa la tragedia della nostra società, adesso.
L’attività di ricerca non ha più spazio e non ne può avere: ciò che non può dare subito dei risultati, in quanto necessita di un tempo che magari supera lo spazio di una vita, è un investimento troppo impegnativo e socialmente inaccettabile. Mentre sappiamo quanto i progetti che pensano limitatamente, sia a livello ecologico, politico, filosofico siano pericolosissimi.

Sulla scorta di queste riflessioni, mi domando e vi domando, cosa vuol dire oggi continuare a privilegiare la dimensione pedagogica del teatro, lottare per la conquista di spazi destinati alla sperimentazione, scegliere di ignorare i diktat dell’industria culturale? Esiste la possibilità reale, per un centro come l’Institutet för Scenkonst, di fare resistenza attiva? Qual’è la valenza etico-politica, la forza rivoluzionaria direi, di un teatro capace di perseguire i propri scopi di ricerca ed autopedagogia senza cedere alla logica di mercato?

MAGDALENA PIETRUSKA Oggi è ancora più importante, per chi ha scelto di lavorare nel teatro, in quell’arte cioè che come sua essenza prevede l’incontro tra uomo e uomo e che si esprime tramite l’uomo. Non tradire questa essenza del teatro è combattere, lottare per tutto ciò che ha valore umano. Non si tratta di una nostalgia per ciò che è perduto ma di insistere sul valore di ciò che è universale, oltre il tempo, oltre le leggi fatte ad hoc perché hanno utilità contingente. In questo senso il lavoro teatrale non può essere una cosa pragmatica perché si basa su una cosa molto più importante. Per chi come noi lavora nel teatro si tratta di non stancarsi, di insistere, di non tradire, costi quel che costi, di opporre come un contrappunto o una possibilità o un’evidenza che c’è un altro modo di essere, di esistere, di vedere. Di creare un mondo diverso da quello in cui i giovani oggi devono vivere.

ROGER ROLIN La storia umana non può mai smettere di chiedersi ‘che cos’è un uomo’ questo è fondamentale. Non sappiamo mai, in fondo, che cos’è un uomo e bisogna quindi cercare di domandarselo e darsi delle risposte. Oggi viviamo questo conflitto se l’uomo è per il mercato o se il mercato è per l’uomo; questa domanda sta diventando assillante a livello etico. Se esiste la possibilità reale per un centro come l’Institutet, la risposta è sì e no: la possibilità reale è la lotta che ogni giorno bisogna fare, questa resistenza, questa scelta etico-politica di cui parli, è una manifestazione che si fa ogni giorno e non è qualcosa che si può conquistare definitivamente finché ci sarà la domanda che cos’è un uomo.

Adesso siete di nuovo in Italia per un progetto artistico a cura dei Teatri del Vento che vi vede nella veste di registi. A partire da maggio assisteremo, dunque, alla messinscena di “Tra verità, menzogna e desiderio”, spettacolo dedicato all’opera di Pier Paolo Pasolini, allestito al termine di un percorso trimestrale con sei attori tutti provenienti da altri progetti pedagogici dell’Institutet . Cosa potete dirci sul lavoro che state facendo, sulle modalità con cui vi state rapportando all’opera e alla figura di Pasolini? Quali sono le difficoltà, per chi proviene dalla cultura nordeuropea, ad approcciare un intellettuale così fortemente legato alla storia italiana, alle sue problematiche politiche, all’analisi socio-antropologica dell’Italia postbellica? Come pensate di “incontrare i suoi testi”?

MAGDALENA PIETRUSKA Io non ho mai percepito Pasolini come legato alla storia italiana, per me Pasolini non appartiene alla storia di una nazione. Ho conosciuto Pasolini tramite i suoi film, non avevo mai letto niente e, forse, nella poesia, nella prosa, nella saggistica è più legato alla storia italiana. Però il suo pensiero, quello non è esclusivamente italiano, anzi… Per me è molto europeo, universale, perché dice delle cose importantissime che vanno oltre i confini dell’Italia. Si serve del suo paese come esempio perché è quello che conosce meglio ma la sua riflessione verte sulla direzione imboccata dalla società che lui già aveva visto negli anni 60-70. Era in atto un cambiamento fondamentale della rotta sociale che pochi, tra gli intellettuali, hanno percepito così lucidamente. Lui è stato uno dei pochi che hanno saputo riconoscere certe dinamiche ancora nascoste coperte da facili entusiasmi anche comprensibili: erano anni ricchissimi per il movimento sociale, politico, culturale, perciò il vedere così chiaramente il disastro insito nelle scelte che si stavano compiendo era difficile per molti, lui l’ha fatto. E’ questo che è interessante per me nella figura di Pasolini. Tutte le storie tipicamente italiane, le polemiche tra lui e personaggi appartenenti al panorama politico dell’epoca, sono soltanto esempi concreti della sua analisi che parte da lì per mostrare cose che servono anche a noi nordeuropei e che servono soprattutto oggi. In questo senso non è difficile entusiasmarsi per Pasolini e oggi, grazie a questo progetto, ho potuto leggere tante cose che non conoscevo; abbiamo visto tutti i film cercando di capire quanto era grande e pericoloso e scomodo. La sua storia è la storia tipica di un intellettuale, dell’uomo di cultura, dell’artista non compreso, non perché difficile, ma perché c’è sempre un rifiuto di capire i precursori. Si dice di Pasolini che era un profeta, un artista che vede in prospettiva lunga, le cui antenne captano ciò che sta per succedere e cercano, come le Cassandre, di avvertire gli altri ma non possono essere ascoltate perché la gente, i politici sono sempre ciechi e accecati dall’oggi come unica realtà, sono incapaci di fare un’analisi che dal passato si proietti sul futuro e attraversi il presente, sono incapaci di riconoscere l’essenza delle cose al di là delle forme. Quello che Pasolini dice sul fascismo e sul neofascismo è un esempio quasi scolastico di chiarezzsi può riconoscere lo stesso fenomeno sotto una forma che sembra contraria ma che invece lui vede che non lo è. Di fatto è la stessa cosa sotto un’altra forma e perciò molto più pericolosa perché meno riconoscibile. L’analisi di Pasolini è l’analisi di un vero intellettuale che non si accontenta delle apparenze, segno distintivo dell’oggi. Una cosa fondamentale per il lavoro dell’artista, come per l’intellettuale, è quella di cercare di riconoscere l’equivalenza delle cose nella loro essenza al di là del mutare delle forme, altrimenti siamo sempre in balìa delle forme sfuggenti, sempre nuove. L’adorazione del nuovo, l’acclamazione delle cose fantastiche, nuove, mai viste e che in realtà erano già inattuali anni fa e con un ritocco cosmetico sono diventate nuove. Pasolini non è interessato a questo, vede oltre la forma. E’ la sua stessa esistenza, con questo tipo di sguardo acuto, che rappresenta una minaccia per la società di allora e per la società di oggi; oggi ancora di più perché le sue parole una volta erano meno comprensibili, si poteva dire che il suo era un delirio o piagnisteo, come tanti hanno detto. Oggi non è più possibile ignorarlo.

Come sono stati ‘trattati’ i testi di Pasolini?

MAGDALENA PIETRUSKA
Abbiamo chiesto agli attori di individuare in tutta l’opera di Pasolini (teatro, prosa, poesia, articoli giornalistici) i frammenti, le frasi che hanno per loro una risonanza di qualche tipo e di farlo in modo individuale e poi di mettere questo a disposizione del gruppo. In seguito ci hanno sottoposto il materiale selezionato e su questo abbiamo fatto un’ulteriore selezione. Non ci sono delle opere, dei testi integrali, i testi sono montati per lo spettacolo e provati nell’azione con gli attori tramite il loro fare. Perciò il montaggio dei testi segue il nostro spettacolo non le opere di Pasolini. L’incontro non è tanto con il linguaggio letterario di Pasolini ma con il suo mondo, con i suoi temi ricorrenti. A ben vedere tutti gli autori sono molto “ripetitivi” e ci sono temi che tornano. Siamo partiti da come gli attori vedevano Pasolini, dal loro Pasolini e poi siamo arrivati al nostro Pasolini attraverso la lettura e il lavoro diretto con gli attori, evitando soprattutto la storia troppo italiana, focalizzando il Pasolini universale più che italiano. Qualcuno ha detto che Pasolini è ossessionato da alcuni temi dominanti quali la religione e il comunismo, e lui risponde: no, dalla realtà.

ROGER ROLIN Bisogna infatti ricercare sempre la realtà, il reale che è dentro ad ogni cosa, anche alla finzione. Questa è l’aspetto che abbiamo scoperto di condividere con Pasolini; anche noi abbiamo sempre ricercato questo e adesso, più conosco Pasolini e la sua opera, più mi ci riconosco. Il metodo per “incontrare” i suoi testi è, come dice Magda, tramite gli attori, senza anteporre un’analisi nostra dei testi. Cercando il reale, cercando qual è il mondo di questi testi , non importa se nella finzione, nell’artificio, nel teatrale; cercando questo reale si trova un equivalente nel testo ed è quello che vogliamo esprimere. Noi non cerchiamo di rifare artisticamente qualcosa che ha già fatto Pasolini. Quello che ci interessa è vedere quale risonanza Pasolini può avere nel nostro incontro.

I “Padri Fondatori” dell’avanguardia teatrale, da Stanislavskij a Mejerchol’d, da Craig a Copeau intesero rinnovare il teatro attraverso la fondazione di un teatro-laboratorio, di uno spazio fisico e mentale dedicato all’approfondimento della situazione pedagogica in cui l’accento del fare teatro è focalizzata sul processo più che sul suo oggetto. Il laboratorio, la scuola, l’atelier, dove attori e regista lavorano insieme sul training e sulla preparazione dello spettacolo, diventano la situazione in cui si condensa il significato del teatro. Qui il ruolo del regista-trainer, lo spazio/tempo separato dalla quotidianità, una codificazione tecnica e una pratica metodica, fanno del laboratorio un vero e proprio vivaio capace di rinnovare il sentire, di modificare l’esperienza sia dell’attore che dello spettatore, destrutturando il modo ordinario di percepire il mondo per accedere a piani diversi e più profondi di realtà.
A proposito di questa ‘rifondazione antropologica’ scriveva Ingemar Lindh: “Tramite il tangibile si demolisce l’argine intorno all’inafferrabile, si ricongiunge il nostro essere più profondo con gli altri e con l’altro, su di un livello dove ciò è possibile, là dove le azioni sono universali; ci si rende trasparenti” (Lindh Ingemar, Pietre di Guado, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera 1998, pg.13).
Chi, come me, ha ancora negli occhi le immagini di Saffo e di Popolo, nella cornice del vecchio Teatro della Rosa, non può che rimpiangere i momenti di autentica poesia che scaturivano dalla presenza dell’attore, da una consapevolezza corporea bruciante e assoluta, rintracciabile anche nei momenti di massima sospensione. Vorrei che ci parlaste di questo elemento impalpabile che fa sì che il momento dello spettacolo sia un incontro vero e profondo tra attore e spettatore, un atto vitale unico e irripetibile, un’esperienza di vera e propria sacralità.

ROGER ROLIN In sintesi estrema posso dirti che quello di cui parli è un attore molto preparato, che presenta la sua realtà nell’incontro con il pubblico e lo fa in modo assolutamente privo di qualsiasi manipolazione, qualsiasi speculazione. L’incontro stesso è la cosa che si desidera non la risonanza dell’incontro, il dove mi porta; il pubblico deve essere libero di venire nel modo che sente e deve essere libero di lasciare questo incontro nel modo che vuole. L’attore deve essere contento del momento in cui questo incontro è avvenuto, poi, eventualmente, posso notare anche le conseguenze che però non possono mai essere calcolate in anticipo.

MAGDALENA PIETRUSKA lo spettatore è un invitato, è il nostro ospite e per questo non può essere manipolato, come dice Roger, ma deve essere trattato con tutto rispetto. L’attore deve essere preparato come in tutti i mestieri; il suo strumento di lavoro è la corporeità, la voce, la vita interiore. Tramite il lavoro sullo strumento-corpo, l’attore lavora sulla coscienza, sulla sua consapevolezza di essere uomo, unico, uguale agli altri ma unico, di quella unicità in cui ci possiamo ritrovare tutti su di un piano universale. Per l’attore che si dedica a questa mestiere è necessario, tramite le cose tangibili di cui parla Ingemar (corpo, voce, movimento), arrivare ad accrescere la sua consapevolezza di essere uomo per potere incontrare lo spettatore. Ciò porta a creare un incontro tramite l’autore, i suoi testi, il suo mondo, un incontro tra individui sul piano universale.

ROGER ROLIN Noi non ci poniamo mai la domanda “che cosa piace al pubblico”, questa è già una domanda manipolativa, noi ci chiediamo sempre e soltanto cosa vogliamo dare, cosa vogliamo dire e poi il pubblico è libero di reagire come vuole. In questo senso presentiamo la nostra realtà nella sua essenza.

MAGDALENA PIETRUSKA Non è la realtà dell’attore come persona privata ma la realtà della mia storia, della mia cultura, degli archetipi che, nel mio incontro con un autore, risuonano in me: questo io porto allo spettatore per vedere se risuonano anche a lui. In questo senso la preparazione a cui l’attore si sottopone non è finalizzata a diventare bravo o tecnicamente virtuoso. Io attore devo saper utilizzare il mio strumento per diventare più cosciente di ciò che sta oltre la mia vanità personale, oltre i miei problemi privati, le mie preoccupazioni, per accedere ad un livello dove posso incontrare un’altra persona, un altro individuo. La sacralità di cui parli è data dal fatto che, in questo tipo di teatro, l’incontro avviene oltre tutto quello che viviamo quotidianamente: la paura degli altri, il razzismo, la vanità, le psicologie, tutte quelle cose con cui combattiamo ogni giorno come persone private e che, in grande, sono ciò che conduce alle guerre. I potenti hanno nelle mani il destino di tutta la terra, è loro facoltà schiacciare o non schiacciare il bottone, decidere i buttare o no le bombe, sembrano dei bambini mossi dalle proprie psicologie, dalla vanità, dagli interessi privati e questa è una tragedia. Per un attore è ovvio che non è lì che può accadere l’incontro tra individui; il sacro è al di là di tutto questo, incontrare vuol dire porsi al di là delle differenze, delle diversità. Nella realtà ci sono solo diversità organiche, di cultura, di etnie; tutto ciò è organico, è ricco, ed è questo il nostro livello di lavoro, di possibile incontro; è questo il livello di lavoro per meditare sulle cose che sono importanti, il piano su cui si può dialogare senza doversi convincere reciprocamente o polemizzare. In questo senso Pasolini è molto ricco, ha cercato veramente di arrivare a questo livello d’incontro, a volte anche la sua omosessualità è stata uno strumento facile per il suo entourage per non ascoltare quello che lui aveva da dire.

Lo scopo del training è quello di allenare lo strumento corpo, esaminandone tutte le possibilità, le articolazioni, le leggi fisiche che lo governano. Ma il virtuosismo, nel metodo dell’Institutet, è un pericolo sempre in agguato da rifuggire. Quello che serve è innescare un processo psicofisico capace di influenzare la struttura mentale dell’attore mettendolo in grado di pilotare i suoi atti fisici, libero da automatismi e paure. Dunque il training fisico come “laboratorio personale dell’attore”, paradossale strumento di liberazione e di de-addestramento. Quali sono i vari tipi di training messi a punto dall’Institutet, qual’è la loro derivazione e la loro finalità, in cosa consiste la sintesi utilizzata attualmente?

MAGDALENA PIETRUSKA Il training fisico dell’Institutet deriva direttamente dal training che è stato elaborato da Grotowski che poi Ingemar ha rielaborato con i suoi attori e adattato alle nostre esigenze di lavoro. Esso comprendeva tutti gli esercizi che c’erano nel bagaglio di lavoro ricevuto da Grotowski (fisici, plastici, biomeccanici, acrobatici ecc) più la tecnica del Mimo Corporeo che deriva da Decroux in quanto maestro di Ingemar. E’ una combinazione di questi due tipi di allenamento: un training di tipo accademico e uno di tipo empirico. Il primo è basato su tecniche codificate quale mimo, Kung-Fu, Tai-Chi, calligrafia, esercizi di educazione musicale; l’altro si basa su esercizi fisici, acrobatici, plastici, biomeccanici elaborati e modificati.
I principi del mimo, così come Decroux li ha enunciati, ci servirono a capire le leggi fisiche e geometriche del corpo, del suo rapporto con lo spazio. Il movimento contemporaneo di diverse parti del corpo, infatti, crea una dialettica drammatica intrinseca al corpo stesso; fa sì che il corpo generi le proprie contraddizioni, crei il proprio dialogo tramite causa-effetto, shock e risonanza. In questo senso la tecnica del mimo è stata per noi una meditazione pratica, una teoria pratica per la consapevolezza globale di sé e per il lavoro di costruzione dello spettacolo teatrale. Questo passaggio però è avvenuto dopo un lungo periodo di pratica mimo; il training fisico invece, nella forma proposta da Grotowski, lo abbiamo abbandonato abbastanza presto. Ingemar ha incominciato da subito a lavorare con tutti gli esercizi nel gruppo utilizzandoli, non già come una tecnica sistematica, ma come proposte da seguire e sviluppare. Così il nostro training si è orientato soprattutto sull’ascolto e non è mai stato fine a se stesso, separato dal lavoro artistico o creativo, ma era già un percorso di creazione: non si faceva la distinzione tra il lavoro più tecnico e il lavoro creativo. Lavorando nel gruppo sul flusso di esercizi, sull’ascolto e sulla ritmo-dinamica, si sottoponevano gli esercizi ad un trattamento diverso rispetto al training fisico classico. Questo è stato il punto a partire dal quale, nella nostra ricerca sul lavoro per l’attore, abbiamo scoperto tanti altri tipi di training che abbiamo comunque continuato a dividere in training accademico ed empirico.

Tra le tecniche appartenenti al training accademico hai parlato di calligrafia, cosa intendi?

MAGDALENA PIETRUSKA Tutte le tecniche utilizzate servivano per acquisire una precisione non solo corporea ma soprattutto per esercitarsi nella precisione mentale tramite la pratica. La calligrafia è un vecchio esercizio dove scrivere la lettera è il risultato di un atto mentale, di uno sforzo di precisione per arrivare a scrivere il segno preciso e, in questo senso, è una forma di meditazione.
Una delle prime ricerche sul training libero, non codificato, è stata quella rivolta alla super-energia, cioè ad un flusso di energia che non viene manipolata al fine di ottenere un comportamento corporeo prestabilito. E’ una ricerca sui principi della spontaneità applicata alla situazione di ripetitività in cui è costretto a lavorare l’attore. Ne nacque un nuovo tipo di training che si chiamò dans-training cioè training di danza perché utilizzavamo la musica registrata. La musica rock, grazie ai suoi ritmi esplosivi, favoriva l’unico compito dell’esercizio che era quello di esplodere nello spazio nel modo più forte, più esteso possibile senza appoggiarsi a nessuna tecnica prestabilita. A quel punto subentra la tecnica organica che il corpo possiede e che utilizza per risolvere il problema di non ammazzarsi per questa esplosione… Un po’ scherzosamente Ingemar diceva che è il ‘principio della buccia di banana’ nel senso che se uno scivola sulla buccia di banana il corpo stesso cerca di salvare la vita; c’è una tecnica di sopravvivenza che il corpo ha e che l’organismo attiva quando agisce e che non ha bisogno di una forma precisa, la forma che ne esce è quella adeguata alla situazione.
Un altro tipo di training utilizzato è quello sull’isometria, quello derivante cioè dall’allenamento degli atleti negli anni cinquanta che sostituirono allo sforzo in movimento lo sforzo nell’immobilità. Il training isometrico consente di preservare l’intensità dell’azione nell’immobilità; anch’esso va verso l’allenamento della precisione mentale o, meglio, verso quella che noi chiamiamo intenzione per cui un’azione corporea si può arrestare nello spazio in qualsiasi momento ma deve continuare mentalmente. E’ un’equivalenza di quello che troviamo nelle arti marziali che utilizzano il non-movimento, la potenzialità di movimento che c’è nel corpo immobile.

ROGER ROLIN C’è stato poi il lavoro sull’alternanza, altro principio importantissimo per il lavoro dell’attore, che scongiura il pericolo della monotonia dell’azione. Tramite l’alternanza l’attore è costretto a sorprendersi e il corpo a ritrovare l’autenticità dei propri atti. L’alternanza consiste nella capacità dell’attore di entrare in qualunque momento nei propri materiali personali, interrompendone lo sviluppo premeditato, cambiando la dinamica della sua azione. Tramite il principio dell’alternanza ci si allena a sentire che l’azione e la reazione hanno la stessa qualità; non c’è una reazione all’esterno ma è la reazione interna all’attore ciò che provoca l’azione.


Magdalena Pietruska e Roger Rolin in To whom it may concern (foto di Stefano Lanzardo).

MAGDALENA PIETRUSKA E’’ fondamentale per un attore il poter agire senza dover avere un motivo, senza una logica di causa-effetto che poi è una logica lineare. Il lavoro sull’alternanza è un allenamento per rompere questa linearità, questa ricerca di una consequenzialità che serve a spiegare la mia azione tramite quello che ho fatto prima. Il tentativo è quello di poter essere nel momento presente, con quello che sto facendo adesso, senza prevedere il mio passo successivo e senza utilizzare il mio passo precedente come causa di quello che sto facendo adesso. Bisogna ritrovare il tipo di meccanica che c’è nella vita dove si agisce adeguandosi alla situazione di adesso: io non so che il telefono squillerà tra un secondo e perciò adesso sto qui parlando, bevendo qualcosa o fumando, nel momento in cui squilla il telefono mi alzo e vado, cambiando subito il tipo della mia azione e di dinamica per adeguarmi a quel momento lì. Quando è terminata la telefonata non porto quella dinamica al tavolo per parlare con te ma siamo di nuovo in un’altra situazione. Nella vita si pensa che ci siano dei motivi esterni per cui accade qualcosa, il telefono che squilla è uno stimolo esterno e la mia è soltanto la reazione a questo stimolo; noi spieghiamo cosi le nostre reazioni, i nostri cambi di dinamica. Ma se osserviamo un bambino tutto questo è meno spiegabile: ad un

Alessandra_Giuntoni

2004-04-07T00:00:00




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