Stabili, forse immobili

da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 2/2004

Pubblicato il 18/04/2004 / di / ateatro n. 067

Anche gli stabili, come l’’Eti, sembrano a volte un male ineluttabile: se ne dice sempre più male che bene. Ma mentre l’Eti continua a sembrarmi un organismo obsoleto, anomalo anche rispetto a modelli stranieri confrontabili, nel migliore dei casi da rinventare (e dirlo non è reato di lesa maestà), per gli stabili la questione è diversa. Le funzioni teorizzate da Grassi e Strehler – il teatro d’arte per tutti, per intenderci – e mai in teoria revisionate, corrispondono a un’idea di teatro comune – pur con diversi modelli organizzativi – a tutti i paesi e le culture europee. Questa idea, molto in sintesi, consiste in qualità (buon artigianato, tradizione e ricerca, arte in qualche caso) e contemporaneità (di linguaggi e contenuti, testimonianza/presenza nella società) in una dimensione democratica (accesso/diritto alla cultura), implica una visione dinamica, e presuppone modelli dinamici, ma ha bisogno di strutture solide di riferimento, e farle funzionare è una condizione per preservarla (propugnarla, rilanciarla, o anche solo tenerla in vita nei periodi bui). Personalmente, e in quest’ottica, non riesco a capire fino in fondo la distinzione, pur suggestiva che si è fatta ultimamente (Ronconi per primo, citiamo più avanti), fra ‘valore’ e ‘servizio’, anche alla luce del ruolo minoritario del settore (che vedo come problema da affrontare – ovvero la capacità di comunicare e trovare un pubblico – più che come dato di fatto). Penso che il teatro in quanto valore – accentuazione significativa -, per essere riconosciuto come tale vada anche declinato nel servizio, senza cadere nel rischio che il cosiddetto ‘primato dell’organizzazione’ (Paolo Grassi), diventi ‘dittatura del marketing’. I peggiori nemici – che in questo momento mi sembrano particolarmente agguerriti – dei teatri stabili sono e sono stati quasi sempre dentro gli stabili stessi, e sono le anomalie gravi che li affliggono fin dalla loro nascita e a volte li soffocano fino ad offuscarne quasi totalmente la ragione d’essere: la politicizzazione (intendo l’obbedienza politica che ne guida i vertici e li porta a trasformare istituzioni culturali in giocattoli vuoti, se non in macchine per il consenso), la burocratizzazione (che non di rado impedisce il rinnovamento gestionale), il personalismo delle direzioni (e delle presidenze), lo sperpero (o un certo gigantismo autocelebrativo). Questi difetti storici (o forse malattie genetiche), hanno assunto recentemente sfumature nuove (o forse antiche). La ripresa di controllo delle centrali politiche sui Cda, i presidenti e i direttori, ha portato a forme di clientelismo che non si vedevano da tempo (il caso più appariscente è quello di Luca De Fusco in Veneto e il suo legame con Gianni Letta. Non si pensa certo che una persona capace non possa operare per le sue amicizie o parentele con qualche politico, ma il punto è: quante decine o centinaia di professionisti potrebbero meglio coprire quel ruolo? E quali vantaggi soggettivi – o danni obiettivi – provoca la logica del nepotismo?). Ha inoltre ‘infiltrato’ negli organi di gestione rappresentanti autorevoli della ‘concorrenza’ (in quasi tutti i consigli siedono esponenti di compagnie e teatri privati, come se non fossero portatori di interessi diversi o come se non si potesse collaborare in modo trasparente fra organismi attraverso convenzioni, accordi o semplici contratti, senza bisogno di intrecciare e contaminare le gestioni). » ovvio che in quest’ottica l’obbedienza, o anche solo l’appartenenza politica (per usare una distinzione proprio di De Fusco, che nega la prima e rivendica la seconda), fa passare in secondo piano la discussione sul profilo dei direttori (prevalentemente artistico, critico, organizzativo, l’eventuale recupero dell’accoppiata artista-organizzatore etc.), e il ‘progetto’ (non di rado inesistente). Piccolo inciso: il nostro interesse per ‘chi è chi’ non è pettegolo o ‘stalinista’ (come qualcuno ci ha detto), risponde invece alla logica molto anglosassone secondo la quale chi amministra la cosa pubblica – anche nella cultura – deve rispondere a requisiti di competenza, e la trasparenza in democrazia non è un optional.

Mali antichi e nuovi
Anche se molti direttori di Stabili sono registi – che non di rado (ma non sempre intendiamoci) considerano il teatro un proprio strumento produttivo – un altro vecchio vizio tornato in auge soprattutto a opera dei ‘presidenti’ (il presidente che vuol fare il direttore è un altro revival), è tipicamente organizzativo e lo definirei ‘tendenza al monopolio’: occuparsi di tutto, sostituirsi perfino all’ente locale nel rapporto con gli altri soggetti del sistema (negandone di fatto una funzione autonoma). La politica dei cento fiori è molto lontana e non è difficile spacciare per razionalizzazione, l’occupazione di tutti gli spazi possibili (credo sia la tendenza di Torino, in parte e in prospettiva quella del Veneto), senza per questo progettarli e gestirli meglio. Fra gli obiettivi di fatto dimenticati, o mai seriamente perseguiti (anche se non troverete documento ufficiale che non vi dedichi formalmente qualche riga) è un vero ricambio generazionale (che non si identifica con i corsi o i master per attori: pochissimi danno spazi effettivi a giovani registi, nessuno o quasi ne ha visti nascere al suo interno e non è vero che si cercano giovani organizzatori); una vera compagnia stabile; perfino Ronconi non è riuscito a farne uno strumento o un ‘metodo’ sui tempi medio-lunghi (e intanto la situazione occupazionale degli attori è drammatica sul piano quantitativo e qualitativo); e una vera politica per la scrittura contemporanea (quanti sono gli uffici drammaturgia? Che sanno leggere e scrivere, e non solo in italiano). Questi sono alcuni limiti, pressoché generalizzati, e non è certo solo o tanto questione di soldi.

Pubblici e privati
Ciascuno Stabile meriterebbe un’analisi a sé, ma abbiamo dovuto scegliere e abbiamo così escluso dai nostri approfondimenti le istituzioni che, pur molto diverse fra loro dal punto di vista organizzativo nonché delle caratteristiche e della qualità produttiva (su cui non entriamo qui nel merito), e in presenza, quasi sempre, di alcuni limiti comuni, ci sembra rappresentino modelli discretamente funzionanti: come, ad esempio, il Teatro di Genova, quello più corrispondente all’idea storica di Stabile; o quelli più proiettati all’innovazione di Modena, Prato o Perugia, o la dimensione un po’ familiare ma articolata di Bolzano, o d’’autore’ di Brescia. Ci siamo invece indirizzati verso i casi che presentano, sotto aspetti diversi, anomalie, elementi significativi di novità o di degrado, e abbiamo cercato di analizzarli nel contesto territoriale, da cui ovviamente nessun teatro pubblico può prescindere: Milano, Torino, Roma, Napoli, Palermo e il Veneto, con qualche flash puntato a sud. Ci è sembrato importante anche introdurre il confronto con la stabilità privata. Se l’’esistenza di istituzioni pubbliche funzionanti è la condizione di una produzione culturale di qualità, almeno in parte emancipata dai condizionamenti del mercato, anche i limiti costitutivi che abbiamo elencato, rendono indispensabile la presenza di una pluralità di organismi e iniziative indipendenti, che in Italia trovano un modello originale (e il più strutturato), nei teatri stabili privati. Nati dal movimento delle cooperative negli anni Settanta (ne parliamo più diffusamente analizzando la situazione milanese), gli stabili privati rappresentano una risposta alla necessità di una maggiore articolazione dell’offerta e una modalità originale di organizzare la produzione indipendente a livello soprattutto metropolitano. Caratterizzati da vitalità organizzativa – che permane – queste realtà hanno visto spesso declinare il livello artistico e quasi sempre sfumare la funzione propulsiva sul territorio. Il loro ruolo resta complementare a quello degli stabili pubblici e parte costitutiva dei nostri sistemi territoriali (come del resto quello dei centri di ricerca, di cui abbiamo parlato nella prima parte del dossier ), ma il punto è – e non può continuare ad essere eluso – come conciliare la funzione pubblica (e la necessità di adeguate tutele contributive) con l’’indipendenza, che è la loro ragione d’essere, trovando un accettabile punto d’incontro fra la continuità del ‘nucleo artistico e organizzativo’ (per usare il ministerialese) e il necessario ricambio artistico-generazionale unitamente al mantenimento di un buon livello qualitativo.

Mimma_Gallina

2004-04-18T00:00:00




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