Esortazioni

Appunti di viaggio come esortazioni date a me stesso

Pubblicato il 18/05/2004 / di / ateatro n. 069


Preserva e coltiva con orgoglio la tua marginalità, pur senza fartene una bandiera. La marginalità è la forza del teatro che sarà. Di quello che dovrebbe esserci, e di quello che già c’è, se si guarda dietro la cortina fumogena degli eventi istituzionalizzati. Dunque, prima di tutto, inventa il tuo stare sulla scena staccandoti dalle influenze del contesto teatrale. Farai un teatro non classificabile e dunque non settorializzabile. Che non sarà prosa, non ricerca e neanche cabaret. Lo scotto da pagare è rimanere fuori dei circuiti riconosciuti e variamente sponsorizzati. La sfida, è quella di una marginalità che non si lasci emarginare, ma si nutra della sua capacità di emergere al di fuori di ogni contesto prefabbricato. L’obiettivo, un teatro vivo, non elitario e non autoreferenziale. (Il segno di un teatro morente, non è nella piccola quantità degli spettatori, ma nell’omogeneità culturale di chi produce e di chi consuma teatro, portata in certi contesti/vetrina fino alla perfetta reversibilità: ci guardiamo tra di noi, e guarda caso ci annoiamo.)
Costruisci un lavoro che possa stare sensatamente al teatro Valle di Roma come sulla piazza di un borgo abruzzese. Ma non cadere nello stratagemma dello spettacolo a diversi livelli di lettura: è un ecumenismo di facciata, che cela un’accettazione pigra dei differenti livelli di cultura. Bisogna invece ricercare percorsi e conflitti in grado di catalizzare su uno stesso piano l’incontro e eventualmente lo scontro di differenti punti di vista, come dire di divergenti identità sociali e culturali.
Approfondisci la sapienza teatrale, e metti al bando la cultura teatrale. O almeno evita di metterla in scena, facendone il perno per “operazioni interessanti”. Impara dalla sapienza drammaturgica di Shakespeare, non utilizzarne i testi per farne delle riletture “originali” o “irriverenti”. Puoi lavorare su Artaud, ma solo se ti pone questioni che ti riguardano. Puoi chiederti perché negli ultimi anni Artaud parlava ossessivamente di corpo, e non cessava di ritrarsi il viso. La risposta sarà in qualche modo la riproposizione in termini teatrali della domanda. L’ultima parola lasciala sempre agli spettatori.
Crea la magia e mostra il trucco. Ma crea la magia. Perché per fare a meno di un contenitore preconfezionato e di un pubblico compiacente, dovrai affidarti a tutte le capacità fabulatorie e fascinatorie del teatro, e solo allora rinnegarle. Puoi lanciare il sasso senza nascondere la mano, ma non compiacerti a lanciare direttamente la mano.
Puoi usare le tecniche di narrazione per mostrare ciò che non ha storia e non fa storia, come lo scorrere del tempo in una casa-famiglia per alienati mentali. Allora moltiplica conflitti e punti di vista e disperditi in mille voci, piuttosto che ordinare molteplicità di conflitti mediante l’autorevolezza di un’unica voce. Oppure puoi osservare l’emergere di una sottocultura nata dall’ibridazione senza mediazione di cascami di cultura popolare con i sottoprodotti dell’immaginario massmediologico. Appartieni a una generazione senza radici: devi scavare nel degrado della memoria, per cavarne cortocircuiti di gioco e di senso. Puoi considerarti un ricercatore di nuove e mostruose antropologie.
Usa la fascinazione del corpo scenico per narrare la dissoluzione del corpo quotidiano. Stacca il corpo teatrale dal tuo corpo: il tuo teatro si gioca nella distanza che pure ti lega alla rappresentazione. Il che significa, stacca la maschera dal viso. Perché tutto il teatro occidentale -dentro il quale tu agisci- è teatro senza corpi, è tutto un teatro che si può giocare con dei visi, con occhi su occhi e parole contro parole. E’ luogo di visi e di visione: devi giocare questa divisione senza pretendere di ricomporla. La festa è il gesto che abbatte le barriere, non il luogo della loro assenza illusoria.
Il teatro della maschera gioca la separazione del volto e del corpo, e la loro lotta incessante. Il viso, che tu lo voglia o meno, non cessa di fare corpi ovunque si posi, e il corpo non cessa di disfare volti ad ogni spostamento. Puoi scavare da un blocco di legno un volto di Antonin Artaud, e mettere nell’atto di scolpirlo tutto ciò che sai della maschera e del teatro. Una testa di legno può essere una straordinaria macchina teatrale di individuazione, e al contempo una sindone che elude con la sua falsa specularità ogni tentativo di identificazione. Puoi dargli un corpo, un ritmo. Puoi dargli vita. Puoi addossargli ogni sorta di conflitti, rivestirla con brandelli di storie e digressioni fino all’ipertrofia narrativa: una testa di legno ha la forza di sostenere tutto, senza fare una piega. Adesso separa il tuo volto dalla maschera. Hai perso la faccia e il tuo corpo è leggero: lo spettatore è incantato dal viso di legno, ma è innervato al tuo respiro. Non lasciare che la cosa passi senza attriti, senza sofferenza né divertimento: inizia il gioco.
Impara dalla tradizione del teatro occidentale, che è innanzitutto sapienza drammaturgica e composizione di azioni e conflitti. Impara dalle tradizioni orientali, dal bunraku e dal kathakali, dalle loro maschere e dai loro gesti, dalla sapienza con la quale coniugano la più sofisticata artificialità con una analisi minuziosa delle passioni umane. Ma il senso e il colore rubali ai dilettanti, ai teatri popolari e subalterni: il piacere vitale del mascheramento, non le ansie puritane di denudamento; non la ricerca agiata di un senso necessario, ma la necessità pagata a caro prezzo di momenti di lusso dissennato.

Andrea_Cosentino

2004-05-18T00:00:00




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