Il teatro nella staffetta dei media

Da Te@tri nella rete di Maia Borelli e Nicola Savarese, Carocci, Roma, 2004

Pubblicato il 11/06/2004 / di / ateatro n. 070

Non deve sorprendere che le maggiori sinergie contemporanee tra computer e arte si siano affermate proprio nell’ambito dello spettacolo le cui tecniche di rappresentazione hanno concentrato, per così dire d’ufficio, le tecnologie riproduttrici di immagini e movimenti. Per illustrare questo processo ormai storico abbiamo scelto una raggiera costituita da sette vettori che scavalcano il tempo fino a ricorrere, con diversa espressione ma analoga sostanza, anche nelle contemporanee esperienze del cyberteatro. Essi sono:
1. l’invenzione del cinema;
2. il mito delle macchine;
3. la rivoluzione della luce e del suono;
4. l’azione dell’artista come opera d’arte;
5. il miraggio dell’opera d’arte totale;
6. la cultura della fusion;
7. la revisione del tempo.
Dei sette vettori, diamo qui di seguito solo una breve definizione: ai successivi paragrafi, il paesaggio dei fatti. Tuttavia il lettore si accorgerà che si tratta di aspetti fortemente intrecciati e senza gerarchia, e dovrà pertanto considerarla una suddivisione di comodo, sottesa da una circolarità e un’osmosi tipica di un processo ancora aperto e vischioso. Quella che segue non è perciò una storia del teatro moderno nell’ottica delle tecnologie sempre più utilizzate sulla scena, quanto una retrospettiva di eventi che ha guidato gli estri alle attuali sperimentazioni teatro/nuovi media o cyberteatro che dir si voglia.

1. L’invenzione del cinema – Il teatro non è cinema, il cinema non è teatro: nessuno si sognerebbe mai di negare questa sentenza (tranne forse un artista). Per molti cineasti, dopo le prime grandi prove di autonomia del cinema, come quelle di Griffith o di Ejzenstejn, una delle maggiori preoccupazioni fu quella di sganciare il cinema dall’influenza delle altre arti, specialmente da quella affine del teatro. Storicamente insomma la ricerca di una specificità del cinema passò attraverso l’opposizione col teatro. Eppure, con l’andar del tempo, l’antagonismo divenne nelle pratiche un prospero rapporto (poi rafforzato dall’apporto della TV), per esempio sul piano della drammaturgia (sceneggiature), dei principi compositivi (montaggio), con scambi di storie modello, di tecniche narrative, di attori. Se lo stesso Ejzenstejn arrivò ad affermare che il cinema non era altro che “l’odierna tappa del teatro”, un poeta come Cocteau pensava ad una impossibile rivincita:

Credo di poter affermare che il teatro uscirà dal lungo sonno ristoratore nel quale l’aveva immerso la sorpresa del cinematografo. Già lo spirito si stanca di una striscia di immagini piatte che non smette di girare e di offrire, di seguito, sulla vecchia tela delle lanterne magiche, un mondo fantasma al quale la scoperta dei rumori e dei suoni stereofonici (aggiungerei l’elemento di sorpresa scomparso) toglie molto fascino.

Legami difficili senza dubbio, almeno da sbrogliare, vista l’enorme letteratura in proposito. Una sola realtà è oggettiva: l’avvento del cinema portò alla “definitiva” considerazione che lo spettacolo non era più effimero e che non voleva più necessariamente dire “presenza dal vivo”. Accanto ai gesti delle avanguardie, fu il cinema a essere l’altro grande propulsore sia della rivoluzione tecnologica del palcoscenico che, per una sorta di reazione, delle riforme teatrali del Novecento centrate sull’arte dell’attore. Il cyberteatro sposta ancora oltre queste frontiere, associando la presenza dal vivo alle immagini registrate e l’interattività alla distanza mediatica.

2. Il mito delle macchine – I primi connubi arte e nuove tecnologie si riscontrano già nel corso dell’Ottocento, come una conseguenza inevitabile della rivoluzione industriale, ma è soprattutto nel Novecento che si afferma una vera e propria vocazione per l’arte meccanica ed elettrica, divenuta poi elettronica e informatica. Nella vorticosa corsa dei media – stampa, fotografia, teatro, cinema, radio, televisione e ora internet (ma nel vortice andrebbero comprese anche tutte le loro successive “manifestazioni”, si pensi, per esempio, alle numerose facce del cinema: muto, sonoro, a colori, cinemascope, cinerama, digitale…) – si sono inserite e si inseriscono sia le arti più antiche e tradizionali che le nuove tecnologie, con interazioni e scambi che ricorrono di continuo. Con l’avvento dello standard digitale che ingloba tutti i media, la corsa si intensifica per il piacere del pubblico (e dei consumi), e il gioco di incontri, accostamenti ed equivoci continua grazie alla tecnologia e alle macchine che li consentono e li esaltano.
Facendo leva sulle grandi potenzialità offerte dalle invenzioni scientifiche e dalle macchine, nel giro di pochi anni l’uomo realizza sogni antichissimi come quello di volare, di spostarsi per terra e per mare o di non affaticarsi grazie ai cavalli-vapore. La tendenza tecnologica e meccanica, sempre più presente nella quotidianità, diventa un mito culturale e invade con forza anche tutti gli interstizi delle prassi artistiche. Attraverso il montaggio, il bricolage, il collage e il taglia-e-incolla – tutte tecniche rigorosamente industriali – gli artisti/artigiani scoprono come la tecnologia porti con sé un’eccitante e ricca dimensione sperimentale e laboratoriale, in cui ciò che più conta non è l’opera d’arte finale – “il prodotto” – ma il processo creativo, la centralità assunta dall’idea e dall’autore.
Il trionfo di automi, macchine, robot e quindi dei computer nella vita reale fa sì che essi siano anche riproposti negli spettacoli come protagonisti. Si va dalla semplice denominazione di automatismi ancora umani (supermarionetta, biomeccanica, balletti meccanici), a vere protesi che amplificano le facoltà espressive dell’attore (proiettori luminosi, proiettori di immagini, fonografi, altoparlanti, microfoni, laser ecc.), fino alla completa sostituzione del corpo umano con i robot, gli avatar del cyberteatro e dei videogame, in cui corpo dell’attore e corpo meccanico-virtuale si fondono. Talvolta gli apparati tecnologici diventano essi stessi soggetti di rappresentazioni e “magici” attori.

3. La rivoluzione della luce e del suono – Due fattori rivoluzionano tecnicamente il teatro dell’800: l’illuminazione dello spazio scenico controllabile a distanza (prima a gas, poi elettrica) e la definizione scientifica della risonanza che ha portato all’architettura acustica delle sale teatrali. L’elettricità ha inoltre introdotto nei teatri un’energia non manuale che ha aiutato la meccanizzazione della scena (palchi girevoli, piattaforme e ponti idraulici), i sistemi di riproduzione, trasmissione e amplificazione sonora (fonografi, microfoni, altoparlanti) come poi gli apparati audio-visivi (lanterne magiche, proiezioni in scena di film, video e diapositive). Si sviluppa una tecnologia teatrale sempre più autonoma, rivolta a compiacere e soprattutto a illudere i sensi primari (vista e udito) dello spettatore oltre l’attore umano. L’ultimo apparato della “progressione elettrica” è il computer: il più potente e dunque il più prodigioso, forse il più connivente data la sua diffusione e facilità d’uso. Tuttavia, occorre dirlo, sono stati rari gli artisti della scena in grado di “piegare le macchine” alle esigenze della loro inventiva, di servirsene come traini della loro creatività più che come deità sostitutive.

4. L’azione dell’artista come opera d’arte – Il teatro si è giovato di macchine sceniche fin dai suoi esordi nell’antica Grecia e la macchineria teatrale è stata la protagonista non solo della grande stagione del teatro barocco. A questa partita, nell’epoca industriale, se ne affianca un’altra: le macchine non solo amplificano la realtà ma sono capaci di duplicarla. Nell’epoca della riproducibilità tecnica (fotografia, fonografo, cinema), l’arte finisce col perdere la sua unicità – l'”aura”, come affermò Walter Benjamin – e diventa un bene di consumo delle masse. Del valore rivoluzionario dell’arte resta così soltanto una traccia ed è l’azione dell’artista, un’azione tanto più rilevante, quanto più la sua opera finita è riprodotta, duplicata e quindi svalutata.
Si affermano perciò i “gesti” a partire dalle avanguardie storiche – simbolismo, cubismo, futurismo, e poi dadaismo, surrealismo, espressionismo – nei cui piani dominano i comportamenti provocatori e le accanite dissacrazioni pubbliche delle arti “passatiste” (la definizione è di Marinetti). Proclami, manifesti e azioni spettacolari trovano largo spazio e, per la prima volta, grazie ai media, anche un’immediata risonanza internazionale (si pensi proprio alla diffusione del futurismo in Europa tramite la stampa).
L’arrivo dei computer sposta ulteriormente l’azione dell’artista in un territorio percepito come avveniristico e fantascientifico, la proietta subito nel futuro e fornisce, tramite internet, una platea immediatamente globale. In particolare, i costosi apparati informatici conferiscono all’esperimento spettacolare una patina di rarità, di distanza sospesa tra scienza e magia: lo spettatore accetta la sollecitazione tecno-scientifica come una meraviglia raffinata e, per quanto consapevole dell’illusione, resta ugualmente stupito e coinvolto. A cambiare, insomma, non sono solo i confini della realtà ma anche quelli dell’illusione.

5. Il miraggio dell’opera d’arte totale – Alle radici dell’interattività, e dell’immersione, richieste dai nuovi media c’è il miraggio dell’opera d’arte totale, i cui ideali ottocenteschi avevano come obiettivo “la sintesi di tutte le arti”, secondo la formula di Wagner. Gli spettacoli totali furono però anche il frutto di una lunga escalation della spettacolarità favorita dall’ingresso di elaborati apparati tecnologici rivolti a soddisfare le richieste di un pubblico sempre più esigente, e di impresari pronti ad esaudirlo per profitto. I panorami, i diorami, l’illuminazione a gas e poi elettrica dei teatri, le grandi scenografie naturalistiche, le architetture del divertimento di massa (teatri, edifici per esposizioni internazionali, gallerie e luna park) furono i preliminari, o meglio le prove generali per la proposta spettacolare del Gesamtkunstwerk (letteralmente “opera d’arte totale”) di Wagner, dello spazio scenico tridimensionale di Appia e di Craig o del Teatro Totale di Moholy Nagy progettato da Gropius, in cui lo spettatore doveva provare il piacere sensoriale di sprofondare. Agli inizi del secolo XX, lo spettatore era così attratto e stimolato dalle provocazioni audiovisive della scena, che gli interventi battaglieri delle avanguardie cercavano per prima cosa di rompere, con intimazioni contrarie, proprio l’aspetto illusorio del teatro. Anche le successive proiezioni di film negli spettacoli teatrali di Piscator, i film a tre schermi di Abel Gance con orchestra dal vivo, o le scenografie polivisuali di Polieri, furono tutti esempi di spettacoli che richiedevano al pubblico di immergersi nell’illusione. Tesi ai rapporti sociali, gli happening e le performance degli anni sessanta chiedevano al pubblico partecipazione diretta all’azione: si trattava in realtà di stabilire una complicità più ludica che illusoria per provocare lo spettatore conformista e non politicizzato.
Alla fine del Novecento, hacker, utopisti, visionari e scienziati divulgano nuovamente l’immersione totale, anzi globale, con l’interattività come possibilità di partecipazione emotiva individuale. I mass media invasivi, come la TV, hanno infatti cambiato le modalità di fruizione dello spettatore, più che altro saturato la sua mente, spingendolo a respingere l’eccesso di informazione e di visione. Con i nuovi media, lo spettatore si affida al sistema immersivo da individuo e non più come massa, interagendo e addirittura determinando con azioni personali lo sviluppo delle storie che incontra. Anche se la realtà è virtuale, il gioco sembra non avere rivali: attraverso l’intermedialità dell’arte (gli “scambi” fra media), gli artisti propongono ibridazioni, provocazioni audiovisive e giochi interattivi e lo spettatore è guidato ad una viva curiosità per le combinazioni, gli innesti, il divertimento. E se studiando la percezione degli esseri umani, ci si accorge che tutto prende forma e valore nella nostra testa più che al suo esterno, ecco che i computer tendono a ricreare artificialmente anche la nostra intelligenza (con l’AI), a sostituire la nostra percezione (mediante le interfacce) e a frapporsi tra noi e la realtà (con la realtà virtuale). Alcuni artisti, e alcuni spettatori, amano questo tipo d’immersione solitaria come Gauguin la fuga a Tahiti.

6. La cultura della fusion – Le arti moderne non sono più forme chiuse, si aprono alla sperimentazione estrema, s’incontrano e si confondono tra loro, anche con altre culture: dunque non più le arti “storiche” ferme alla millenaria ripartizione “architettura, pittura, scultura, musica, danza e poesia”. Questa apertura comporta che alcuni artisti scendano in campo con un apprendistato e una formazione non più tradizionali: non vanno a scuola, o a “bottega”, di quell’arte specifica cui tendono, ma sperimentano diverse esperienze formative per approdare, spesso, ad altre ancora, mettendosi alla prova in più campi creativi.
Non diversamente dalle altre manifestazioni d’arte, anche il mondo dello spettacolo non esita a misurarsi con il flusso, la frammentazione e la fusion. Gli spettacoli dai confini precisi – melodramma, prosa, balletto – si sfilacciano e si mescolano, e avviandosi al confronto mediatico non si dissolvono ma si trasformano, si parcellizzano e si combinano in nuovi modi e nuove mode – varietà, operetta, cabaret, café-chantant, attrazioni circensi – ancora più frammentari e quindi ancora più versatili. Un fattore agevola questo processo: la congenita condizione “multimediale” del teatro. Gli spettacoli teatrali, infatti, sono sempre stati il frutto di un’attività artigiana dovuta all’aggregazione di tecniche e arti diverse – recitazione, canto, danza, musica, drammaturgia, scenografia e architettura: e se Wagner proponeva un Wort-Ton-Drama, uno spettacolo in cui si fondevano la parola, il suono e l’azione scenica, non fu difficile scomporre le attrazioni in un diverso montaggio e con diverso equilibrio tra le parti.
Grazie a questa duttilità dello spettacolo teatrale, gli artisti e gli impresari teatrali entrarono nel XX secolo anche con una buona opzione commerciale. I confini tra le arti slittavano oltre le tecniche e il teatro si mescolò anche alle arti plastiche, al cinema, come poi al video e ai computer. In realtà a trasmigrare faticosamente da un’arte all’altra, da una tecnica all’altra, furono spesso individui che si scoprivano delusi e feriti dalle loro prime aspirazioni fallite. Il ‘900 vede un consistente drappello di uomini di spettacolo cimentarsi in direzioni diverse da quelle che desideravano nei loro primi ideali o nel loro apprendistato, talvolta raggiungendo, proprio nelle nuove scelte forzate, traguardi inattesi. “Il carro andò in pezzi e il carrettiere cadde nel cinematografo” disse a 26 anni Ejzenstejn, deluso dalla recitazione artificiosa degli attori e convinto di non poter spingere oltre la regia teatrale.
Oggi, nella società dello spettacolo, attraverso i nuovi media, lo standard digitale assicura una condizione di fusione permanente delle diverse arti – performative e non – e sembra dunque offrire, per costituzione, un’opportunità inesauribile (che virtualmente dispone di tutto quello che è stato, e sarà, memorizzato dalle macchine), attenuata soltanto, per ora, dai costi delle apparecchiature tecnologiche, dei software, delle memorie meccaniche.

7. La revisione del tempo – “A teatro reciti, al cinema hai recitato”. In questa lapidaria sentenza del grande attore francese Jouvet si racchiude l’ultimo dei nostri vettori, ma non il meno importante, quello del tempo: il teatro è un presente assoluto, il cinema è sempre al passato. La società moderna con le sue tecnologie e le sue macchine ha senza dubbio “abbreviato” il tempo e lo spazio e la nuova dimensione spazio-temporale è entrata di forza anche nella fantasia e nell’immaginazione delle arti. Tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, giocare con la concezione del tempo, del trascorrere del tempo o del viaggiare nel tempo, fu uno degli argomenti preferiti della letteratura, soprattutto di quella fantascientifica, e di riflesso un tema ripreso spesso anche dal teatro e dal cinema: il romanzo The Time Machine (La macchina del tempo), che dette la fama a Georges Wells e fu preso a modello da infiniti epigoni, è del 1895, lo stesso anno che segnò la nascita del cinema, la più vera e potente “macchina del tempo”.
Quando poi la teoria della relatività di Einstein, arrivò a dimostrare che le caratteristiche del tempo e dello spazio non dovevano più essere considerate come assolute ma dipendevano dall’osservatore, l’approdo ad un tempo-spazio dipendente anche dalla sua psiche, o dalla sua fantasia, divenne quasi una forma di gioco, un artificio utile per svincolare ogni narrazione dalla tradizionale linearità del racconto. Per la verità, la concezione soggettiva del tempo era stata scoperta e formulata già da un padre della chiesa come Agostino di Ippona, ma fu Henri Bergson a riprenderla proprio tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Secondo il filosofo francese, al concetto meccanico del tempo, legato all’evoluzione biologica e materiale, si oppone quello dell’esperienza interiore, soggettiva, nella quale il tempo non si identifica con l’orologio ma con l’intuizione della successione di stati di coscienza, legati fra loro dalla memoria e dall’immaginazione.
La nascita del cinema conferì la spinta decisiva ai rozzi “passatempi” fino ad allora giocati sulle scene del teatro e degli altri spettacoli dal vivo. Abituando gli spettatori a rivedere il passato come un presente o un futuro, senza fantascientifici teletrasporti e al costo di un biglietto accessibile a tutti, i film davano a ognuno la possibilità di tessere e ritessere la piccola tela della propria esistenza, la trama di ragno della propria coscienza con l’ordito felice della memoria e dell’immaginazione. Per trovare il bandolo di questa intricata matassa non è bastato un secolo, né, pertanto, potremo riuscirci noi: ma iniziamo la rassegna dei fatti da qui, dall’avvento del cinema…

Nicola_Savarese

2004-06-11T00:00:00




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