Dalla parte dei formatori

Un esempio di formazione teatrale in Toscana: Alessio Pizzech e il Cantiere teatrale di Cascina

Pubblicato il 20/08/2004 / di / ateatro n. 072

Alessio Pizzech, regista teatrale e d’opera presente in vari Festival della Toscana (quest’anno ad Inequilibrio di Castiglioncello con Parole di sale e a Piccoli fuochi a Buti con Il sangue del poeta da Cocteau), da anni lavora come educatore in vari laboratori teatrali da lui stesso creati. Ha coordinato il progetto “Teatro ed etica” di Castiglioncello (Armunia) rivolti ad insegnanti delle scuole elementarie e medie con la presentazione di spettacoli ed incontri presso Castello Pasquini e dislocati in vari Comuni della Costa degli Etruschi. Suo è soprattutto il progetto Cantiere Teatro che ha dato vita a Pilade da Pasolini, un bell’esempio di spettacolo realizzato con non professionisti ma ricco di notevoli spunti artistici (e di reale passione e convinzione da parte degli allievi). Abbiamo incontrato Alessio Pizzech a Cascina, presso il Politeama insieme con i suoi collaboratori.


Parole di sale, regia di Alessio Pizzech (foto Chiara Sbrana).

Puoi parlarci della tua esperienza all’interno dei laboratori di formazione teatrale a Cascina e a Castiglioncello?
Pizzech: Il Cantiere teatrale raccoglie l’eredità dei corsi di servizi del Politeama di Cascina diretto da Alessandro Garzella. Nel raccogliere l’esperienza passata si è voluto togliere la dimensione del servizio e del corso fine a se stesso e riformulare una nuova proposta. In precedenza avevo avviato a Rosignano un Cantiere teatrale dove avevo sperimentato il mio rapporto da professionista con non professionisti. Cercavo di capire cosa poteva nascere dal punto di vista poetico in questo approccio al teatro che rispondeva a una dimensione personale del mio far teatro e quello che ritengo un principio di utilità sociale, anche se di fatto non riesco a scindere questi due aspetti. Il principio guida è stato: Teatro non come un fine ma come un mezzo. Chiudendo i Cantieri a Rosignano li ho fatti confluire ad Armunia a Castiglioncello e li ho portati a Cascina, al Politeama.
Cosa intendi per “teatro come mezzo”?
Teatro è utile per ritrovarsi, per rispondere a delle domande, alla rincorsa del tempo, a una perdita di senso. Da parte degli allievi c’è l’incoscienza, arrivano cercando qualcosa e sedotti da qualcosa, o anche solo dal bisogno di ritrovarsi, dal bisogno di una nuova dimensione, da un’aspirazione vaga, comunque da una dimensione della domanda. Credo che nella normalità viviamo nel mondo delle risposte. La responsabilità che ti assumi è quella di cercare di trovare le giuste distanze.
Da dove partono queste esigenze da parte di chi si iscrive e quale è l’impegno che gli si chiede?
Sono risucchiati da questa dimensione quotidiana, tutte le esperienze individuali nascono da esigenze che trovano forse una risposta inadeguata. La qualità proposta nel laboratorio non è minore rispetto a quella di un percorso istituzionalizzato o ufficialmente riconosciuto. Richiede ugualmente impegno e dedizione. Bisogna provare ad addentare l’essenza di questo interesse per il teatro. Tutto vogliono fare teatro e nessuno va a teatro diceva Savelli. Bisogna creare un pubblico e lo crei se susciti interesse per il teatro, e fai capire l’essenza degli intrecci, dei legami. E riconquistare un tempo, il tempo dell’ascoltare e ascoltarsi.
La qualità dell’attenzione a noi stessi ha bisogno di un tempo speciale…
Per questo devi fare un lavoro di didattica. Nel cantiere ci sono non professionisti e poi tu che vedi i problemi con maggiore concretezza di chi hai di fronte. E spesso abbiamo di fronte un’umanità cui non piace il proprio lavoro. Perdono tempo, si ritrovano in un tempo che non corrisponde ai sogni, all’illusione. Ambizioni, vite affettive spesso vissute male anche a causa del lavoro, delle insoddisfazioni, senza un’idea di quello che potrebbe essere il futuro. E’ un’intelligenza creativa mancata, la vita va vissuta in termini di creatività. Pensarci diversi: in questi anni le persone hanno perso questa possibilità. Questi discorsi li mettono in crisi, ma non ti senti solo perché fai un’esperienza collettiva. Siamo pieni di solitudine, il teatro gli dà la possibilità di sentirsi meno soli anche nei propri dolori, ci sentiremo meno soli se solo accettassimo di più noi stessi.

Parole di sale, regia di Alessio Pizzech (foto Chiara Sbrana).

Non c’è il rischio di cadere nello psicodramma collettivo?
C’è il pericolo di scendere sulla zona personale, nel biografico. E’ l’aspetto più intrigante, in cui tutto esce, tutto questo silenzio prende forma. Ma non ha solo il segno del pianto, ha altre espressioni. Rispetto a questo darsi però c’è l’aspettativa dell’arrivare a darsi. C’è questa dimensione dell’attesa, di attendere il tempo per essere, per fare, e questo sposta le dinamiche relazionali.
Come funziona il “gruppo di ingresso”?
C’è un lavoro che si fa sul corpo, poi si prosegue sulla memoria storica. Tutto si coagula in una direzione di ricerca…Il fatto è che non si lavora al buio, ma sempre cercando di capire qual è la direzione concreta e artigianale del lavoro. Bisogna superare questa dimensione del non sapere dove si arriva. Io dico sempre che celebro la fine per avere il senso di una ricerca. E’ una sicurezza per chi fa il percorso. Dare un punto significa dare forma all’informe: questa rabbia-dolore-sessualità non ha forma e dopo comincia a prendere forma, la mia intelligenza creativa si sviluppa e io muovo il mio cervello per questo, sono più felice, sono più rassicurato. L’approdo alla vocalità, al dire, arriva alla fine di un percorso lunghissimo.
Nel gruppo di ingresso non partiamo dal testo, partiamo spesso dal dialetto, ma senza una necessità di giustificare a livello drammaturgico ciò che succede nello spazio; tutta la drammaturgia si sviluppa su scene frutto del lavoro di improvvisazione fatto nei mesi precedenti. Il problema è come trattenere l’attenzione sulla drammaturgia che oggi non si legge più. Riuscire a suscitare un interesse verso il testo è già un risultato. La partitura è centrata di fatto sul corpo e alla fine del percorso di anni di lavoro, tu gli dai in mano un testo: la stessa libertà che ci siamo conquistati col corpo, con le emozioni, con noi stessi, proviamo ad averla con un testo.
Interviene Antonio Perrone ( assistente di Alessio Pizzech )
“Con il gruppo di ingresso, si trattava di confrontarsi con un dialetto fossile, antico. Non veniva svelata la traduzione, era difficile dirla e agirla contemporaneamente, ed è stato importante per poi arrivare a un ambito teatrale vero e proprio, per arrivare a un’idea di drammaturgia”.
Continua Pizzech:
E’ stato un lavoro a gradoni, graduale, arrivare a dargli le possibilità di far capire come il mondo, le cose, possono essere diverse, Pasolini era importante per questo lavoro di trasformazione della persona. Mi spaventa molto una formazione che non guidi verso la libertà.
Luca Ronconi parlava della difficoltà di allestire i testi pasoliniani perché “c’è troppo autore”. Come farli accettare e interpretare dai non professionisti?
Credo che Pasolini abbia bisogno di essere ripulito da questa dimensione intellettuale e abbia bisogno di tornare a essere parola che si fa carne, che vibra, e per affrontarlo a teatro li ha aiutati molto il non partire dal “cosa significa” ma dal “cosa significa per me” e trovare quel ponte che unisce Pasolini a questa dimensione autobiografica, dopo che ho scavato dentro di me; insomma un ponte ideale fra questo magma personale e la persona che ha dato vita a potenti immagini letterarie. Scoprire che ognuno può fare un percorso creativo. Un lavoro che significa confronto, coraggio di andare fino in fondo, in profondità con un autore. L’energia che ho visto ci ha aperto alla capacità catartica del teatro, ciò che la parola riesce a esorcizzare, una parola sguaiata, urlata. Urlare è l’unico modo per provare a parlare perché alcuni di loro per anni avevano solo “chiacchierato”, credo che qualcuno a teatro abbia scoperto davvero cosa significhi parlare, caricare le parole di sensi, di significati e di emozioni. Dobbiamo “ribaricentrarli” sull’emozione. Il Teatro deve tornare a parlare della vita. Personalmente intendo sempre il teatro come energia, come esemplificazione della parola quale portato energetico infinito, la parola deve esplodere fuori di te e dentro di te. La ragazzina che nelle improvvisazioni parlava piano poi ha iniziato a urlare, con una gran voglia di urlare… Siamo tutti molto incazzati con questo mondo che non è il nostro mondo, che non ci appartiene, c’è una rabbia negli esseri umani che non è mai tirata fuori. Molti hanno fatto dei cambiamenti in questo senso.
Come funziona il training?
Interviene Grazia Minutella (assistente di Alessio Pizzech).
Generalmente sono molto numerosi e con varie esperienze; si fanno 3 giorni per compattare i gruppi. Nel training si vuole puntare l’attenzione al respiro, al controllo del respiro e alla figura del cerchio, anche con i bambini. Quindi si parte da un ascolto di base del proprio respiro, dalla posizione, dal sentire le varie parti del corpo che vibrano, si lavora sulla sonorizzazione. E’ fondamentale arrivare a creare un gruppo compatto e dinamico. A volte loro stessi se vedono che la cosa non funziona come vorrebbero, o che non soddisfa le loro aspettative, rinunciano.
Chi non partecipa attivamente al gruppo viene comunque integrato?
Interviene Pizzech:
E’ una forma di democrazia intervenire se qualcuno mi ha chiesto di lavorare su se stesso. Ognuno dà un contributo a partire dall’obiettivo che lui stesso si pone, ma noi bisogna creare le condizioni per cui tutti siano messi in condizione di stare dentro un gioco e per cui siano loro a decidere di lasciare e di assumersi la responsabilità se sono fuori dalla tribù. E’ in fondo qualcosa di educativo oltre il teatro. Ma in genere è il gruppo che decide, tu induci certe cose poi il gruppo si stabilizza su particolare livelli energetici. Pasolini ha funzionato benissimo in questo senso, per esempio col tema dell’accettazione della diversità: qualcuno che sembra non aiutarmi poi alla fine mi aiuta se posso utilizzare anche la sua energia.

Parole di sale, regia di Alessio Pizzech (foto Chiara Sbrana).

Quale era la composizione del gruppo con cui hai realizzato il Pilade?
Si tratta di un gruppo vario con background diversi, con 4 o 5 nuovi ingressi. Alcuni di loro avevano blocchi fisici e psichici. A metà febbraio ho lavorato con loro su mappe di scena, ai tagli, leggendo il testo, in realtà non in modo sistematico, ma su temi a cui poteva ruotare il Pilade pasoliniano mescolando la loro esistenza e i temi della sessualità, della politica, della libertà. Abbiamo definito i campi di interesse su cui tutti potevamo lavorare per l’improvvisazione: la nudità, la sessualità, temi già usciti attraverso il training e che avevano bisogno di essere buttati fuori… Interessante in questo senso il testo, perché si pensava alla Storia, all’epoca in cui è stato scritto, a quale è stato il passaggio storico, alla vicenda politica italiana, alla differenza rispetto al contesto di oggi, toccando temi miei, che interessavano anche a me, il tema dell’omosessualità, della famiglia, cosa significa oggi essere di sinistra. Avevano fatto una specie di diario di lavoro su Pasolini e Pilade, si lavorava dalle 8 di sera alle 3 del mattino. Contemporaneamente ero io che proponevo delle situazioni, che lavoravo da regista: da una parte il lavoro di improvvisazione e di immaginario che appartiene a loro e dall’altra Alessio Pizzech rispetto al mondo di Pasolini, che era un mio studio antico. Ho proposto loro i film di Pasolini e la mia voglia di raccontarlo in un certo modo. Mi sono trovato a mettere insieme questi punti di vista in una certa estetica che io ritenevo più opportuna. E cercando di capire perché da parte mia affrontare Pasolini attraverso loro, perché io cercavo Pasolini nel loro modo “strano” di dire le battute, perché mi interessava questa “sporcatura”.
Quali sono state le maggiori difficoltà?
La loro diffcioltà è stata quella di affrontare sì Pasolini ma poi si sono scontrati con Alessio, e hanno cercato di dialogare con il regista, non subirlo. Un lavoro così concepito diventa ancora più interessante, loro lo vivono con grande ammirazione, con il giusto abbandono, ma anche con le giuste domande di chiarezza. Ho inseguito questa, se vuoi, “rifondazione etica” del ruolo del regista: devi avere le risposte giuste quando le domande sono serie, non abbandonare l’attore a se stesso.
Cosa ti ha lasciato in eredità questo lavoro su Pasolini con i non professionisti?
Lavorare con loro è stato un modo per ripuntualizzare le cose a me come regista, mi chiamano a delle responsabilità, e se hanno comunicato questo testo è grazie al fatto che si sono posti delle domande e io mi sono posto eticamente in una certa condizione. Se potessi farlo in un contesto professionale forse si potrebbero allargare le problematiche…..
Pasolini è vicino alla grandi drammaturgie contemporanee, quella di Koltés autori che hanno bisogno di essere manipolati, che hanno bisogno di qualcuno che gli trovi una forma, in cui la poesia scollina con la prosa. Autori che hanno bisogno di essere traditi. Forse siamo riusciti a non annoiare le persone perché si è rivitalizzato la drammaturgia…
Pilade parla di mitologia e di Novecento, di guerre e faide antiche e recenti…
E’ stato per me un lavoro sui riferimenti classici, un lavoro di resa di Pasolini che viene da una personale ricerca sull’Orestea, sul modello classico. La domanda è: cosa mette del Novecento e cosa della mitologia?. Cosa mette della propria storia, dell’antifascismo, del fallimento di un certo Sessantotto…Io ho fatto due tradimenti grossi, il primo è Pilade che se ne va dalla città e va a mettere in piedi la rivoluzione con i contadini. Ho scelto di tagliarla, Pilade sceglie il nulla, la negazione, sceglie il mondo delle Eumenidi, sceglie l’amore. Poi la morte suicida di Oreste, non c’è nella storia, non si sa niente di lui. Sappiamo che Elettra e Oreste si incontrano al cimitero. Citazioni da Shakespeare. Oreste fallisce la sua idea di ricchezza, dell’ottimismo a tutti i costi. Il suicidio di Oreste è la fine di un mondo. Pilade vince nel momento in cui decide di staccarsi da questa realtà. Ho deciso di finire così: “Non esistono nemici, i nemici sono amori sconosciuti”. E’ il non riconoscimento del legame. Tutto si riduce in questa intuizione: se non siamo in grado di riconoscere i legami non riusciamo a vivere la nostra esistenza. E’ un messaggio trasversale anche per noi come educatori. C’è l’idea di una politica non più basata sulla rissa, su fazioni.
Dove avete inserito il tuo/vostro contemporaneo?
Il contemporaneo era il Testo che lo richiamava e loro stessi, gli allievi sono il contemporaneo attraverso il loro vissuto. Ho proposto temi e immagini su cui lavorare, da riempire per poi procedere per intuizioni. Immagini che poi per tentativi, hanno preso un corpo; volevo raccontare questo cambio di traiettorie: non possiamo aderire a qualsiasi dettato politico. Nel mio non darmi questo obiettivo, ovvero l’autore che impone delle ideologie, ho ascoltato il testo, e ho cercato di mettere insieme un nuovo testo parlando con loro.
Dimitri nella parte di Pilade è davvero straordinario con la sua forza fisica. Qual è la sua storia?
Dimitri è stata una scoperta, ha talento, aveva problemi sull’equilibrio, non stava in piedi a causa di un brutto incidente, adesso grazie al training, grazie al lavoro a teatro un po’ sì; prima non muoveva il bacino e ho cercato di farlo lavorare sul fargli sentire il diaframma. La sua energia è il risultato della forza che esercita contro la sua condizione, perché non deve accettarla, gli ho insegnato a reagire e ad arrabbiarsi, e questo ha fatto scattare in lui dei meccanismi, non aveva appoggio, e metteva la sua forza, la sua rabbia dentro. Alla fine di ogni prova era stravolto, stanco, c’è un fuoco personale in lui che è questo scoglio che ha da vivere. Ognuno lo ha.

ALESSIO PIZZECH
Nato a Livorno nel 1972 frequenta l’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico” di Roma e la Scuola Europea per l’Arte dell’attore dove studia con Marisa Fabbri, Domenico Polidoro e Marco Sciaccaluga. Importanti gli incontri con Jacques Fornier, Michel Azama, Jean-Claude Carrière, Dario Marconcini e Paolo Billi. Direttore artistico del Teatro Marchioneschi di Guardistallo, lavora al radicamento dell’evento teatrale nel territorio. Cura nel 1996 il progetto “Il teatro della fiaba” per la Fondazione Collodi. Intensa l’attività didattica nelle scuole, per allievi e insegnanti in Italia e all’estero, legata a un’idea di teatro sociale. Dal 1997 collabora con Armunia-Festival Costa degli Etruschi per progetti di formazione ed è in questo ambito che incontra Marion D’Amburgo, Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, cominciando un percorso prima sul piano del lavoro sul territorio poi sulla produzione.
Tra gli spettacoli in prosa presentati nei più importanti Festival teatrali della Toscana (Montalcino, Castiglioncello, Buti):
La parrucca di Natalia Ginzburg (1991); Lezioni d’amore di Dacia Maraini (1992); Dolore sotto chiave di Eduardo De Filippo (1993), Kreisleriana (1993), Le serve di Jean Genet (1995), Caffé Greco di Patrizia Monaco e Fiori di acciaio (1996), Zoo di notte di Michel Azama (1998). Nel 1999 allestisce il Caligola di Camus e Le sang du poète di Cocteau presso il Teatro della Limonaia di Firenze, ripreso nel 2004 per il Teatro de poche di Napoli e per Inequilibrio- Armunia festival. Mette in scena (e in forma di drammaturgia radiofonica per RadioRai) Savinio puer aeternus; ed inoltre Lotta tra negro e cani di Koltès per il Teatro Rifredi di Firenze (2000). E’ del 2001 la sua prima regia di un testo di Lorca, Yerma per il Teatro Verdi di Pisa a cui segue nel 2002 la regia di Nozze di sangue presentato durante il Festival teatrale di Rudolstadt (Germania).
Ha diretto attori come Elena Croce, Marion D’Amburgo, Antonio Piovanelli, Martine Brochard, Bob Marchese, Beppe Ghiglioni. Si dedica anche alla regia lirica dal 1997 . a.pizzech@libero.it

Anna_Maria_Monteverdi

2004-08-20T00:00:00




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