Non chiamateli civili

Due videoinstallazioni di Frédéric Moser e Philippe Schwinger si confrontano con scenari di guerra, all’incrocio tra cinema e teatro

Pubblicato il 21/11/2004 / di / ateatro n. 077

Da qualche anno gli artisti svizzeri Frédéric Moser e Philippe Schwinger – autori di film e di videoinstallazioni, ma con una formazione alle spalle di tipo teatrale – hanno avviato un percorso di ricerca il cui filo conduttore consiste in un processo di decostruzione e di successiva ‘messa in scena’ di eventi culturali di vario genere – un frammento di film, come in Affection riposte (2001), oppure una seduta di teatro-terapia anni ‘60, come in Internment area (2002) -, eventi appartenenti ad un passato recente e ritenuti particolarmente significativi per interrogarsi sul presente, sul potere mediatico delle immagini e sul potenziale comunicativo di diverse forme di spettacolo.
Per la loro prima personale italiana, Non chiamateli civili, a cura di Marco Scotini, (organizzata dall’’associazione Prometeo e ospitata a Lucca, Chiesa di San Matteo, dal 23 ottobre 2004 a metà novembre), il tema prescelto è stato quello della guerra, a partire dalla risonanza mediatica di un episodio avvenuto in Vietnam nel 1968, il massacro del villaggio di My Lai, in cui centinaia di civili inermi furono uccisi da soldati dell’esercito americano in una missione punitiva. L’’opinione pubblica fu molto scossa dai resoconti dei soldati di fronte alla commissione d’inchiesta istituita per far luce sui fatti, poiché per la prima volta l’esercito americano veniva coinvolto pesantemente in un crimine di guerra.
In Non chiamateli civili, il massacro di My Lai viene riletto e riconfigurato da diverse prospettive attraverso due installazioni, Capitulation Project e Acting Facts, frutto di una complessa operazione linguistica, all’incrocio tra cinema, teatro e arti visive. Le installazioni consistono in due proiezioni a grande scala, ospitate nei suggestivi spazi della chiesa di San Matteo, sede della mostra. Il percorso espositivo si articola a partire da Capitulation Project, un’opera che trae ispirazione da un famoso spettacolo degli anni ‘70, Commune, messo in scena a New York dal Performance Group di Richard Schechner, uno dei maggiori esponenti della neoavanguardia teatrale americana di quegli anni.

Commune, 1971.

Commune
era uno spettacolo di denuncia sul tema della violenza, in cui si parlava anche del massacro di My Lai, nello stesso periodo in cui stampa e televisione davano ampio spazio alla notizia. Durante lo spettacolo/happening – che poteva avere esiti molto diversi da una sera all’altra – gli attori, che recitavano la parte di soldati, giornalisti e fotografi di guerra, invitavano gli spettatori ad identificarsi nel ruolo degli abitanti del villaggio vietnamita e ad intervenire attivamene nell’azione scenica, per esprimere le loro reazioni ed opinioni.
Frédéric Moser e Philippe Schwinger si sono concentrati su questo frammento di spettacolo proprio per il suo carattere paradigmatico di un certo tipo di teatro sperimentale e socialmente impegnato tipico della metà degli anni ‘60, che rivendicava uno spazio per la critica sociale, portava in scena eventi di attualità e coinvolgeva il pubblico in rituali liberatori. Basandosi su documenti fotografici dello spettacolo e sulle note di regia di Schechner, oltre che su testimonianze dei soldati coinvolti e sui resoconti della stampa dell’epoca, gli artisti hanno ricreato, a trent’anni di distanza, una nuova versione del frammento di Commune, rimettendo in scena l’episodio, filmandolo in bianco e nero in formato 16 mm (poi trasferito si dvd), e riproponendolo in loop sotto forma di videoinstallazione.

Capitulation Project. Courtesy Prometeo, Lucca e Galleria Play, Berlino.

Capitulation Project si presenta come la proiezione su grande schermo di uno spettacolo che oltre ad interrogarsi problematicamente sulla tragedia della guerra, ci restituisce l’atmosfera degli anni ‘70, aprendo una riflessione sui modi diversi in cui gli eventi vengono recepiti e filtrati culturalmente in fasi storiche differenti.

Capitulation Project. Courtesy Prometeo, Lucca e Galleria Play, Berlino.

Nello spettacolo la scarna scenografia (rigorosamente ricostruita su quella originaria di Commune) ruota attorno ad una struttura di legno ondulata dove si svolge l’azione scenica e avviene l’interazione tra pubblico e attori. La stessa struttura, specularmente, è collocata nella Chiesa di San Matteo di fronte allo schermo, e può essere usata dai visitatori della mostra per sedersi: un cambiamento di funzione – da luogo dove si svolge un rituale liberatorio e di presa di coscienza a postazione da dove si guarda – che sembra voler alludere ad una condizione di maggiore passività tipica dei nostri tempi. Allo stesso tempo tuttavia, la presenza di questo elemento scenico come parte integrante dell’installazione, sembra voler gettare un ponte tra presente e passato, stabilire una connessione con un periodo storico in cui l’arte si nutriva di impegno sociale e politico.

Capitulation Project. Courtesy Prometeo, Lucca e Galleria Play, Berlino.

La seconda installazione, Acting Facts, presenta un monologo scritto da Frédéric Moser e liberamente basato sulle dichiarazioni rilasciate dai soldati americani davanti alla commissione d’inchiesta. Una foresta di pini fa da sfondo all’attore Roger Kerr, il quale, vestito con una camicia a maniche corte color Kaki, rivolgendo lo sguardo in macchina, alternando descrizione e drammatizzazione degli eventi, con agghiacciante lucidità ci pone di fronte alla ‘banalità del male’, con la semplice forza del racconto e della recitazione, senza far ricorso ad immagini spettacolari.

Acting Facts. Courtesy Prometeo, Lucca e Galleria Play, Berlino.

Ormai siamo così assuefatti dalle immagini di orrore, impaginate in un flusso informativo che omogeneizza tutto, che anche la visione delle atrocità più efferate, passato il primo momento di sconcerto, non ha più la capacità di scuotere le coscienze. La narrazione talvolta sembra essere uno strumento più efficace delle immagini per acquisire una consapevolezza critica, come aveva già notato Susan Sontag nel suo bellissimo libro dedicato alla fotografia:

La fotografia porta in sé ciò che noi sappiamo del mondo accettandolo quale la macchina lo registra. Ma è l’esatto opposto della comprensione, che parte dal non accettare il mondo quale esso appare. Ogni possibilità di capire ha le sue radici nella capacità di dire di no. A rigor di termini, da una fotografia non si capisce mai nulla … la comprensione è basata su come essa [una cosa] funziona. E il funzionamento avviene nel tempo ed è nel tempo che deve essere spiegato. Solo ciò che narra può farci comprendere. (Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1978, pag. 22.)

Il monologo di Acting Facts ricorda per molti aspetti il tipo di teatro di parola praticato da Marco Paolini, che proprio in questo periodo ha messo in scena a Milano (Teatro Strehler, 16-28 novembre) uno spettacolo sul tema della guerra. Anche in questo caso Paolini, per parlare di un tema attuale, ha scelto di ‘tornare indietro’, mescolando, nel suo spettacolo, il libro di Mario Rigoni Stern, Il sergente della neve, con l’Anabasi di Senofonte, testi i cui combattenti sono poveri uomini sperduti, contadini alle prese con altri contadini. L’intento non è solo quello di denuncia, ma di cercare «un anticorpo alla disumanità della condizione di spettatore», di utilizzare il teatro per potenziare la possibilità di attingere all’esperienza, nella speranza che «questo serva alla memoria, serva a prepararsi meglio ad affrontare le cose. Un teatro forse come addestramento, come istruzione» (vedi Fabrizio Ravelli, Il sergente di Paolini alla guerra dei disperati, «la Repubblica», 9 novembre 2004. Nell’articolo di Fabrizio Ravelli è contenuta un’intervista a Marco Paolini da cui sono tratte le mie citazioni.)

In tempi in cui il problema della guerra è tristemente attuale, addestrarsi per non soccombere sembra fondamentale, ed interventi artistici come quello di Paolini o di Frédéric Moser e Philippe Schwinger vanno in questa direzione.
Molteplici sono le sollecitazioni evocate dai Non chiamateli civili. Pur partendo da un episodio concreto, attraverso un’intelligente operazione che fa ricorso a diversi linguaggi artistici essi ci presentano un affresco ‘atemporale’ delle atrocità della guerra. Allo stesso tempo gli orizzonti temporali sono ben presenti e stratificati, e inducono a riflettere sul potere dei media e il loro uso, e sulla condizione di spettatori passivi e deresponsabilizzati in cui sempre di più si rischia di scivolare.

Silvana_Vassallo

2004-11-21T00:00:00




Tag: cinema e teatro (43)


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