Una via d’uscita dalla narrazione?

Una risposta a Oliviero Ponte di Pino su Italiani cìncali

Pubblicato il 01/10/2005 / di / ateatro n. 089

Caro Oliviero,
ti ringrazio per la tua risposta, che è esattamente ciò che mi aspettavo in quanto sollecita riflessioni ulteriori sul mio lavoro e sul contenitore (spesso generico) della narrazione, conferma la validità di alcune premesse adottate nel processo creativo e mette in crisi altri “punti fermi” che fermi non sono.
Procedo per ordine sparso:
le tue preziose annotazioni sono le ultime arrivate nel tempo e sembrano chiudere il cerchio, legandosi alle prime in assoluto espresse due anni fa, al primissimo debutto salentino, da Elio De Capitani (era casualmente lì in vacanza e dopo è entrato nel quintetto di voci che accompagnano Italiani cìncali).
Tra Elio e te, una marea di commenti, recensioni, suggerimenti, proposte di tagli, di aggiunte, targa delle Camera dei deputati, finale al premio Ubu, paragoni e paroloni indebiti (il nuovo Paolini, il nuovo Celestini… Ma dove siamo se si ha già bisogno di un nuovo Celestini?), interviste tipo: che cosa ha preso da Celestini? (Ascanio mi ha suggerito di rispondere: “Er caffè!”), ma nessuno che abbia centrato come voi due il nucleo fondante di tutto lo spettacolo che è appunto la menzogna. Ed è stato un punto di partenza voluto con forza da me e da Nicola Bonazzi.
Infatti, se è vero che ciò che accomuna tutto il calderone della narrazione è l’identificazione tra narrato e narrante e, come tu dici, la sua presunta e ostentata sincerità, allora cìncali non è narrazione. Lo dico in modo provocatorio, cosciente che, invece ne ha tutte le premesse formali e contenutistiche, ma le riflessioni che continuo a fare su ciò che è accaduto a questo lavoro mi hanno riportato indietro nel tempo, quando nasceva l’idea, e mi pare di aver individuato dei nuclei fondanti che, forse, lo tengono ai margini del contenitore “narrazione”.
Sicuramente, come ho detto, abbiamo scelto in partenza di destabilizzare tutto il contenuto “storico e civile” con la menzogna programmatica e la trasfigurazione involontaria adottata dal narrante Pinuccio.
Abbiamo scelto appunto che a tenere le fila del racconto fosse un vecchio trasognato, di pochi mezzi lessicali ma sagace e che non avesse vissuto in prima persona le cose che racconta: in sostanza un personaggio e non Mario Perrotta.
Ancor di più: io ho raccontato a Nicola di un postino incontrato in un’intervista e di altri episodi raccontati da minatori e Nicola si è lasciato suggestionare da pochi spunti e poi ha scritto liberamente; poi io ci ho rimesso mano e ho riscritto cose scritte da Nicola e puramente inventate.
Insomma, senza tanta retorica, un processo di costruzione prettamente teatrale: idea, progetto, attore e dramaturg che scrive per quell’attore specifico. Questo perché l’esigenza prima era restare ancorati al teatro e, come dice Enia, portare a casa uno spettacolo, magari anche bello, ma soprattutto necessario. E la necessità era tutta mia: tornare alla mia terra, raccontarla dopo averla rifiutata, ricostruire un rapporto con una matrigna che avevo amato in segreto protetto da 800 chilometri di distanza. E quale sguardo migliore di chi era stato rifiutato da quella terra (gli emigranti) per raccontarla senza presbiopie? Così e solo così è nato questo progetto, poco mi importava della sua valenza civile. E’ stata una fortuna che la necessità mia, coincidesse con una valenza teatrale e, fortuna maggiore, con una valenza civile.
Ora mi chiedo e ti chiedo: forse è questa un’altra via d’uscita? Evitare che il presupposto di un progetto sia solo una qualsiasi delle tragedie italiane (tra l’altro poche ne sono rimaste: Piazza Fontana, l’Italicus e qualcuna minore) e chiedersi quanta necessità individuale, che segno ha lasciato nel proprio vissuto quell’evento?
Sia chiaro che non sto giudicando il risultato del mio percorso (che anche quello penso sia una fortunata alchimia di più ingredienti), ma sto riflettendo sulle premesse.
Del resto mi piace dirti che la storia della nostra compagnia è segnata da tanti spettacoli nei dieci anni di vita, il cui impianto è assolutamente “classico” (quarta parete, etc…) con la differenza, semmai, che il caso ci ha regalato tre drammaturghi molto capaci (io non sono uno di loro quindi mi permetto di dirlo) che hanno consegnato agli attori per cui scrivevano “oggetti teatrali” efficaci da agire sulla scena: e questa è stata un’altra fortuna. Per una serie di scelte legate al radicamento sul territorio non avevamo mai portato i nostri spettacoli fuori da Bologna; aver fatto questo passo con il mio progetto ha creato all’esterno un fraintendimento e un’identificazione tra l’intera compagnia e me, e tra il lavoro della compagnia e la narrazione. Ti dico questo perché un altro nostro lavoro, che ha seguito lo stesso percorso di cincali (presentazione a Roma e conseguente tournée), ha tutte le caratteristiche del teatro civile e della narrazione (altra identificazione su cui ragionare), soprattutto nel processo creativo (interviste, documentazione sul campo…) e nel contenuto (si tratta del progetto T4 impiantato dai nazisti per l’eliminazione sistematica dei disabili mentali e fisici. Fu, in sostanza, la prova generale dell’Olocausto). L’impostazione dello spettacolo però, è appunto classica, con un rapporto di pura invenzione tra un’infermiera e una ragazza disabile (scritto e diretto da Pietro Floridia che è un altro dei nostri drammaturghi) ma questo sembra non togliere forza alla brutalità dei fatti che sostengono l’invenzione e al valore di documentazione storica dello spettacolo. Infatti lo spettacolo ha ricevuto commenti e recensioni addirittura entusiastiche e, nella prossima stagione, girerà un bel po’ passando anche da Milano.
Anche qui il percorso personale di Pietro lo ha condotto verso questo spettacolo e ciò che lo rende avvincente è che se ne respira la necessità, aldilà della forma che lui gli ha voluto dare.
Sicuramente questo spettacolo come il mio, predilige la dimensione romanzesca rispetto a quella epica, ma questo, forse deriva dal fatto che l’obiettivo che ci poniamo da sempre è soprattutto il teatro: farlo e cercare di farlo bene, che lasci una traccia, un invito a documentarsi e niente più. E’ anche un modo per dire la propria, ma sempre attenti che quel che si ha da dire sia necessario anche per altri e non solo per se stessi (in questo siamo a volte eccessivamente esigenti passando al vaglio dell’intera compagnia i progetti dei singoli)
Non so se è una dimensione riduttiva ma, in sintesi, questo è. Tutto ciò che è seguito a questo, per quanto riguarda cincali, certamente mi fa piacere e mi gratifica ma è anche un peso, “un fardello” che non so se vorrò sempre portare avanti. Mi spiego: adesso debutta la seconda parte del progetto sull’emigrazione in Svizzera ma già so che dopo questo spettacolo avrò voglia di altro, magari di mettere le mani sul Misantropo di Moliére (progetto che inseguo da tempo) perché ho bisogno delle cose dette in quel testo, oppure tradurre in teatro un romanzo francese dell’Ottocento, insomma non è detto che abbia altro di strettamente “civile” da raccontare. Ma poi mi chiedo (ed è una domanda sincera e non provocatoria): non può essere profondamente “civile” una messa in scena di un classico? E il teatro tutto, non è “civile” quando è necessario?
E questo porta a un’ultima considerazione su tua sollecitazione. Tra tutte le cose dette, che fibrillano nei pensieri e quindi non sono punti fermi, un solo punto fermo c’è e riguarda ancora l’equazione narratore (o teatro civile) = verità (o legittimazione a dissertare sulla verità irrisolta di un evento). Ho cercato e cercherò di evitare questo binomio pericoloso, in quanto fondato su un’autorità che non ho e che non cerco: faccio teatro e basta, spero di porre domande cariche di suggestioni e di non dare mai risposte definitive.

Ecco qua, sono giunto al termine di questi pochi pensieri ma confusi, sperando a mia volta di aver saputo esprimere efficacemente quel che volevo dire (mediamente sono un disastro con la parola scritta, per questo ho scelto quella detta).
Ti ringrazio ancora per la lucidità di alcune annotazioni da “critico” che, come è giusto che sia, svelano a chi fa teatro ciò che voleva dire e ha saputo soltanto “agire”.
Un abbraccio,

Mario Perrotta

Mario_Perrotta

2005-10-01T00:00:00




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