Risorse culturali e politiche di welfare

Le Buone Pratiche 2: relazioni & interventi

Pubblicato il 29/10/2005 / di / ateatro n. #BP2005 , 091

1. Lo spettacolo dal vivo e gli altri settori del comparto culturale sono di norma considerati settori produttivi tradizionali, forse anche arretrati, da proteggere e sostenere in base a fumose motivazioni etiche o all’indimostrabile e dogmatico assunto che la cultura sia un bene in sé. La cultura è, al contrario, la risposta infungibile a una molteplicità di bisogni individuali e sociali, e un’economia avanzata che naviga – sia pure con molte incertezze – verso i valori immateriali della conoscenza deve porsi la questione relativa a quale ruolo la produzione e la diffusione culturale occupino nella scala dei valori fondanti della società.

Si sente dire sempre più spesso che la produzione culturale debba essere ritenuta strategica ai fini dello sviluppo economico del Paese. Frase molto accattivante, ma che non viene declinata in alcun modo, e che nasconde quasi sempre l’immagine tardo-agricola del Bel Paese assediato da turisti stranieri che attivano scambi, occupazione e reddito nelle nostre Città d’Arte.

In altri casi, si dice che la cultura è un po’ la carta d’identità dell’Italia, ma se si va a guardare il dato delle esportazioni di cultura (mostre, spettacoli, convegni, etc.) si deve ammettere che oltre alle relazioni universitarie e di ricerca rimane ben poco. Anche la lirica, con tutto il fardello dei luoghi comuni che continuano a fare da muro a ogni possibile e necessaria analisi, viene esportata in casi eccezionali e occasionali.

E anche invertendo la prospettiva, l’esportazione “in casa” (ossia gli stranieri che assistono ai nostri spettacoli) sono davvero pochi, nonostante il numero elevato dei turisti culturali provenienti da tutti i continenti. Se la prosa può avere qualche difficoltà di lingua, la musica, la danza e la lirica potrebbero attrarre un pubblico internazionale, ma i dati dicono il contrario. D’altra parte, quasi nessuna orchestra italiana viene considerata all’altezza degli standard internazionali, e lo stesso vale per le altre forme di spettacolo (con poche eccezioni di elevatissima qualità).

Come sempre, si riduce l’analisi a una specie di disputa tra contendenti reciprocamente ostili. I meccanismi del finanziamento pubblico, ispirati a una filosofia di generale elemosina e caratterizzati da una temperie da emergenza permanente, non fanno che accentuare questa mancanza di percezione strategica, e al contrario finiscono per istigare i diversi produttori a una dissennata competizione imitativa, dal momento che il principale criterio formale del sostegno pubblico è la qualità artistica e culturale.

Gli elementi strategici dello spettacolo dal vivo sono invece da ricercare in un ribaltamento della situazione attuale. Non più nicchia ecologica da proteggere nonostante l’indifferenza generale, lo spettacolo dal vivo appare prospetticamente come un settore produttivo che utilizza risorse umane, materiali e tecnologiche di prim’ordine, che sperimenta linguaggi, modalità organizzative, stili e prassi avanzati e flessibili, che in qualche misura perpetua, adeguandola a uno zeitgeist in movimento, la temperie tipica della bottega rinascimentale sapendole imprimere la velocità del mondo digitale.

2. Qual è, allora, il valore dello spettacolo dal vivo nella società attuale, e soprattutto in quella possibile? E’ un valore che discende dal nuovo assetto dei bisogni e dei diritti, dalle aspettative emergenti, da un’inedita e tuttora incompleta lettura dell’individuo e della comunità, che appaiono legati nello spazio e nel tempo al proprio territorio e alla propria storia identitaria. Apolide e poco incline alla localizzazione fino a qualche anno fa, l’individuo tende sempre di più a riconoscere sé stesso in un contesto territoriale ben definito, nell’ambito di una comunità permeabile al cambiamento ma non per questo di minor forza identitaria.

In questo contesto, il benessere dell’individuo e della propria comunità di riferimento non può essere liquidato come la mera fornitura materiale di servizi atti a eliminare delle situazioni di svantaggio. C’è di più. L’accesso alla sanità non basta, è indispensabile poter disporre di un adeguato supporto affettivo, di relazioni dignitose, di una sorta di umanizzazione della terapia. Le strade pulite sono una condizione necessaria, ma non sufficiente, dal momento che alla cultura della raccolta differenziata (che si comincia a insegnare fin dall’infanzia) si accosta la sensibilità verso materiali e oggetti riciclati. Anche la sicurezza, con il poliziotto di quartiere, passa attraverso la conoscenza personale, la fiducia, lo scambio quotidiano.

E il teatro? Finché lo si pensa come un settore destinato a pochi iniziati lo si continua a escludere dalla vita normale della comunità, e dunque dalla stessa percezione dei bisogni individuali. E’ un settore in cui si attribuisce troppo peso al prodotto finito, e quasi nessuno al processo. Una bottega artigiana sita in un quartiere viene considerata importante non soltanto per i prodotti che realizza, ma anche – nella stessa misura – per le competenze che raccoglie, per le specializzazioni che attiva, per i processi creativi che attira e stimola. I giovani che guardano dentro la bottega possono trarne ispirazione per il proprio lavoro futuro. Tutti coloro che effettuano degli scambi con la bottega attribuiscono un valore specifico e infungibile alla qualità delle risorse che vi sono coinvolte.

Allo stesso modo, il teatro sviluppa al tempo stesso due principali canali di scambio con la comunità locale (nell’immediato, e in modo facilmente percettibile) e con la comunità nazionale (nel lungo periodo, e in modo più astratto e mediato). Il primo canale è quello del prodotto: tutto ciò che avviene sul palcoscenico è fonte di benessere per gli spettatori, e accresce il livello culturale e il grado di sensibilità di un’intera comunità. Il secondo canale è quello del processo, e coinvolge a monte e a valle una molteplicità di imprese, individui, istituzioni e gruppi informali che al teatro forniscono beni, servizi e partecipazione e dal teatro traggono un ventaglio di opportunità culturali, sociali ed economiche.

Non si tratta di misurare l’impatto finanziario del teatro. Quello è un esercizio piuttosto meccanico che somma gli scontrini e le ricevute occasionate direttamente e indirettamente dal consumo teatrale. Qui la prospettiva è molto più ambiziosa: si tratta di identificare e declinare quella varietà di ricadute sugli individui, sulla comunità e sul territorio che il teatro, e soltanto il teatro, è capace di generare, mostrandosi come la fonte di un accrescimento della qualità che nessun altro settore produttivo può generare. E rispondendo, in questo modo, a un bisogno qualificato che supera la mera esigenza materiale del welfare inteso in senso tradizionale, per collocarsi nell’ambito di un emergente e pervasivo umanesimo.

In altri Paesi del mondo avanzato le imprese si localizzano in centri urbani dall’attività culturale intensa e innovativa: i manager sanno di dover garantire al proprio personale un’elevata qualità della vita. Da noi le città sono ancora retaggio esclusivo di turisti in pullman, di finti centurioni, di bancarellari, di esosi ristoratori per turisti. E i teatri non sono visibili a occhio nudo, un po’ per il primato tutto da discutere dell’arte del passato, un po’ per una certa pretesa esoterica che spesso gli stessi operatori dello spettacolo accreditano come sintomo di vera qualità.

3. Se il teatro è una fucina rinascimentale, è necessario ragionare sui suoi meccanismi. Con il sistema attuale, non si va molto lontano. E le virtuose – e crescenti – eccezioni messe in luce dall’analisi delle buone pratiche non fanno che confermare la regola della stasi burocratizzata. In un mondo efficacemente funzionante, le buone pratiche sarebbero la norma, e non farebbero più impressione.

I meccanismi sui quali è necessario aprire una riflessione laica sono due: da una parte, il finanziamento pubblico; dall’altra, le modalità gestionali e produttive. Il finanziamento pubblico è ormai alle strette. Tra tagli governativi e processi di devoluzione più o meno forzata, possiamo essere sicuri che il sistema non reggerà a lungo. Che fare, allora? Reclamare il ripristino della situazione quo ante appare una mossa miope, se si considera tra l’altro che quando tagli e devoluzione non erano all’ordine del giorno non c’era chi si dichiarasse soddisfatto dei meccanismi del finanziamento pubblico.

Il terrore di perdere le garanzie è, tuttavia, molto forte, a giudicare dalla mancanza quasi assoluta di discussione sui meccanismi a fronte di barricate e adunate per protestare conto i tagli. In un mondo ideale, alla cultura e allo spettacolo sarebbe destinato ben più dello 0,5% del bilancio statale. Ma in un mondo ideale forse le fondazioni liriche non drenerebbero metà del FUS, gli indicatori di qualità – disegnati con perversione bizantina – non esisterebbero, non ci sarebbe il commercio dei borderò, non ci sarebbero teatri che rinunciano al saldo del contributo annuale perché non hanno fatto attività, e così di seguito.

Il finanziamento pubblico del teatro, affidato esclusivamente all’amministrazione dello spettacolo, è riduttivo e paternalistico. Se il teatro è una bottega rinascimentale, le ramificazioni della sua attività toccano vari settori d’interesse della pubblica amministrazione, dall’innovazione alla formazione, dalla socializzazione alla sicurezza. Una strategia che accrediti la capacità di generare benessere da parte del teatro dovrebbe considerare l’ampiezza di questo ventaglio di effetti e di benefici, e dovrebbe essere pronta a negoziare con vari rami dell’amministrazione. Se tutto ciò che avviene sulle tavole del palcoscenico conferisce benessere agli spettatori, tutto ciò che vi si agita intorno genera una cascata di effetti positivi sulla crescita culturale, sociale, professionale, tecnica, organizzativa, economica e finanziaria dell’intera comunità territoriale, delle sue imprese e delle sue istituzioni.

Meccanismi efficaci di finanziamento pubblico implicano la selezione e la definizione di obiettivi specifici (magari diversi per il governo centrale e le amministrazioni regionali e locali), l’elaborazione e la realizzazione di progetti strategici, la negoziazione delle modalità di sostegno pubblico (finanziamento, ma anche tecnologia, servizi, opportunità e altri incentivi), l’accettazione condivisa di un sistema di monitoraggio e valutazione.

Il ridisegno del finanziamento pubblico dello spettacolo non può che procedere di pari passo con una rielaborazione attiva dell’approccio al pubblico, alla società e al mercato da parte dei teatri stessi. Responsabilità organizzativa e gestionale, affidabilità finanziaria, capacità di governo delle risorse umane, intuizione dei bisogni locali, radicamento del teatro nel suo territorio sono le condizion minime perché chi produce e diffonde lo spettacolo dal vivo possa ritenersi pienamente inserito nella realtà contemporanea.

L’impresa teatrale è nella vulgata di oggi un’azienda di piccole dimensioni, sommersa dalla burocrazia, taglieggiata dalle banche, incompresa dal pubblico potere e ignorata dalla società. Il termine “impresa” indica – soprattutto nel nostro caso – l’iniziativa eroica e apparentemente dissennata di chi, intuendo e anticipando lo spirito delle cose, si pone contro la realtà e l’evidenza credendo nella propria capacità di conseguire un risultato. Ecco, l’impresa teatrale può, deve diventare l’avamposto di una visione in cui il valore della conoscenza, il bisogno della condivisione, l’esigenza di una lettura critica siano gli elementi fondanti della società emergente.

Michele_Trimarchi

2005-11-19T00:00:00




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