Semplicemente complicato (Parte III)

Un incontro con Luca Ronconi

Pubblicato il 15/02/2006 / di / ateatro n. 096

Le prime due parti di questo testo sono state pubblicate in ateatro 94 e 96. L’intero testo è in corso di pubblicazione nel volume Luca Ronconi. Spettacoli per Torino, Umberto Allemandi Editore.

Forse uno dei segreti della semplicità ronconiana è questo: è talmente consapevole delle complessità labirintiche del reale e della comunicazione che le esplicita e le rende limpide
e comprensibili. E’ senz’’altro il creatore di clamorosi eventi teatrali, che hanno spostato i confini stessi della sua arte, ma al centro del suo lavoro ci sono da sempre il testo, gli attori e naturalmente il pubblico. Tenendo tuttavia presente una di quelle fulminanti verità che d’’improvviso sembrano quasi sfuggire alla timidezza ronconiana.

Il pubblico ha tutti i diritti. Il che non vuol dire che abbia sempre ragione.
(intervista di Mario Baudino, “La Stampa”, dicembre 1990)

Ogni testo, ribadisce ossessivamente, va affrontato per quello che è. Ronconi è sempre consapevole dei materiali su cui lavora e sulle interpretazioni che ne sono state date. Per cominciare, utilizza spesso la categoria di “genere” (partendo magari dalla classica contrapposizione aristotelica tra commedia e tragedia). Per esempio, nell’affrontare Strano interludio di Eugene O’Neill traccia una mappa assai meticolosa di interpretazioni e dunque di possibili ricezioni.

Questo testo, se lo prendi alla leggera, puoi vederlo come un fumettone, oppure come una saga, o ancora come una trascrizione di alcuni schemi mitici europei in chiave americana; c’è poi chi lo legge come dramma psicologico e chi lo interpreta come volontaristico modello di dramma biologico. E tuttavia il dato rilevante è il fatto che ancora oggi di tratta di un corposo testo sperimentale. Per questo vale la pena di affrontarlo.
(intervista di Gian Luca Favetto, “la Repubblica”, 20 dicembre 1989)

Il lavoro preliminare consiste nell’esaminare quali strade siano state imboccate, e perché non abbiano funzionato – o perché non possano più funzionare. E su questo Ronconi può perfino permettersi una forma di civetteria.

Non sono mai sufficientemente informato e documentato sui testi che faccio e non voglio farlo. Per fare filologia non ho altra guida che la lettura del testo e gli attori. Allo stesso modo, non amo rapportare il testo alla sua epoca o alla storia del suo autore. Non me la sentirei mai di stiracchiare un testo. Già non so bene cosa succeda nella nostra epoca. Ma nella nostra per lo meno ci vivo e ci partecipo. È lei che mi guida all’interno del testo. Lavoro molto con gli attori e del dove voglio andare non so nulla. Posso sapere dove non voglio andare, posso in qualche modo precludermi delle strade. Faccio un esempio non su ciò che ho fatto, ma su ciò che sto facendo in queste settimane. Si dice che Troilo e Cressida sia una parodia degli eroi omerici. Prima di dire no perché è stato già fatto in quel modo, bisogna verificare che significa parodia, chi sono gli eroi omerici e se veramente dentro il testo c’è qualcosa di parodistico. La parodia è ciò che non voglio, non mi interessa. Ma non è detto che Troilo e Cressida sia parodia. Probabilmente il nostro concetto di parodia è diverso da quello che poteva avere un inglese del 1600. Procedo chiudendo delle strade e vedendo qual è quella percorribile, quella che può aprire altre strade e altre prospettive.

Al termine di questo percorso le risposte possono essere assai sorprendenti e innovative.
Oltretutto per Ronconi, in un modo o nell’altro, tutti i testi che affronta sono “sperimentali” e dunque possono mettere alla prova le strutture profonde della comunicazione teatrale. Perché nella visione ronconiana c’è una pars destruens preliminare: gli è sempre ferocemente chiaro quello che non vuole, e quello che non vuole essere. Qui la sua semplicità (e la sua ironia) possono raggiungere la forza sintetica di un aforisma. Per cominciare, pur avendo rivoluzionato molti degli schemi tradizionali della regia, rifiuta ogni assimilazione all’avanguardia.

Non sono mai stato un sessantottino, sono stato in genere molto inviso a quelle che erano le avanguardie. Il mio atteggiamento è sempre stato questo, e non credo di aver visto male: l’alternativa programmatica rischia di diventare un’accademia, o una sostituzione della convenzione: rischia di creare solo nuove convenzioni. Il rinnovamento è un’altra cosa: tener sempre gli occhi aperti, e il naso lungo, e le orecchie aperte per capire che cosa succede realmente. Sono sempre stato convinto che alla lunga l’avanguardia sia sempre stata una questione di stile, e non una questione di linguaggio. Per linguaggio intendo qualcosa che si modifica continuamente, che ha un iter storico evolutivo, che genera continuamente nuove forme, che ha una dinamica interna, che può camminare come il cavallo o come il gambero, secondo necessità. Lo stile non è questo: è comunque una codificazione, un genere, e molto spesso è accettato proprio in quanto genere.

Allo stesso modo rifiuta con decisione ogni etichetta generazionale.

A differenza di quello che accade adesso, quando gli attori che escono dallo stesso corso provano a fare compagnia, io un legame generazionale non l’ho mai avuto. Non l’ho mai cercato, perché guardavo ad altro. Quando ho avuto trentacinque anni, mi sono immediatamente rivolto a chi ne aveva venti: e quando ne avevo diciotto o diciannove mi sono immediatamente rivolto a chi ne aveva trentacinque. Anche da questo, credo, mi viene un’insofferenza per le letture generazionali.

Nei confronti del teatro italiano, ha espresso giudizi assai duri, che in qualche rara ma cruciale circostanza si sono riverberati anche in una delle sue rare esternazioni sulla situazione del paese.

Gli attori italiani non hanno altra vocazione che quella di fare ditta, di diventare capocomici. Questo svilisce il loro lavoro, la loro qualità. Un capocomico finisce col non essere un attore, ma un amministratore che la sera sale truccato in palcoscenico. Ce ne sono tanti così, troppi. (…) Veniamo agli autori: Strehler, e poi Visconti, per qualche anno, hanno fatto un teatro con la “T” talmente maiuscola da sfondare il soffitto delle sale. Poi più niente. Ma non era un teatro che facesse posto agli autori. D’altra parte la letteratura ha sempre considerato il teatro un lavoro da mano sinistra. Non c’è in Italia né la continuità di un teatro di regia, né quella di un teatro di drammaturgia. E’ la nostra società che ama specchiarsi soltanto nei capocomici. Non rischia forse di farne anche un problema politico, o il problema della politica attualmente? Tutto si tiene.
(da un’intervista di Enzo Siciliano, “la Repubblica”, 11 aprile 1994)

Nel lavoro sui testi e con gli attori, diffida di quelle che spesso gli appaiono comode scorciatoie, semplificazioni fuorvianti. In primo luogo la psicologia (alla base del metodo Stanislavskij), che rischia di occultare le trappole del rapporto tra il testo e il corpo dell’attore.

Si può recitare solo ciò che è recitabile. La psicologia, per esempio, non lo è. La lingua è recitabile, lo spazio lo si può recitare. Il precetto che girava nelle scuole e nelle accademie italiane era dire ciò che si pensa, ma ciò che si pensa non lo si può dire. O, peggio ancora, chiedevano di pensare ciò che si dice. Dire e pensare sono due attività completamente differenti. Non ho mai creduto che la lingua sia il veicolo esclusivo della comunicazione; ma allo stesso modo, pur ritenendo il lavoro fisico molto importante nel teatro, non credo che il corpo da solo “dica”. Il corpo comunica in attrito con la lingua e con lo spazio. Il problema del teatro italiano è che c’è pochissima drammaturgia italiana. Gli attori italiani sono costretti a lavorare su testi che implicano un notevole scarto fra ciò che si vorrebbe dire e ciò che effettivamente si dice. Ciò rappresenta una difficoltà e una sfida che vanno affrontate e superate. Il lavoro che stiamo facendo su Troilo e Cressida è soprattutto questo: essere consapevoli se si è governati da ciò che si dice, capire fino a che punto si è in grado di governare ciò che dice e soprattutto perché lo si dice. Perché c’è sorta di “autorità della violenza del linguaggio” sull’individuo.

Un altro aspetto che tende a generare sospetto (anche se non sempre) è la presunta narratività di molta drammaturgia. A proposito di Spettri di Ibsen (1982), che il regista ambienta in una serra (progettata da Mario Garbuglia) dove coabitano i cinque attori e i trecento spettatori.

La maniera, chiamiamola convenzionale, di fare un testo è quella di utilizzare il dialogo in funzione della narrazione di una storia e non, invece, le battute del dialogo come spiragli, come segni e indicazioni di una condizione dei personaggi. Secondo me, quello che può dare oggi unità e consistenza a un testo come Spettri è l’indagine sulla condizione dei personaggi momento per momento, e non usare il dialogo come veicolo di una narratività che in questo testo non esiste. C’è un antefatto sottinteso e ritardato ingiustificatamente: la giustificazione in ritardo di questo antefatto è la trama della commedia. Ci sono dei personaggi che ritardano, non per tirare in lungo, ma perché sono nell’impossibilità psicologica di dire le cose come stanno. E’ chiaro che il tema della rappresentazione diventa l’impossibilità di dire le cose come stanno e non la perveristà nel ritardarle. Basterebbe che certe rivelazioni venissero fatte un attimo prima invece che un attimo dopo e la commedia andrebbe subito al terzo atto. E, in fondo, il rammarico di certa parte del pubblico è che, siccome la maggior parte degli spettatori identifica la commedia con l’ultima battuta, questa arrivi troppo tardi.
(intervista di Maurizio Giammusso, “Rinascita”, 2 luglio 1982)

Anche – anzi, soprattutto – quando si tratta di portare sulle scene il genere narrativo per eccellenza, il romanzo, il taglio narrativo non è l’approccio privilegiato.

Nella mia memoria di spettatore, ci sono tanti romanzi portati sulla scena e sullo schermo. Non considero, quindi, una sfida la ricerca dentro la narrativa. Quello che ho sempre cercato di fare è evitare di snaturare un romanzo per farne un dramma a tutti i costi e, anzi, di mantenerne il carattere di letteratura narrativa. Le realizzazioni sceniche de I fratelli Karamazov e Quer pasticciaccio brutto, ad esempio, sono state un semplice trasferimento della pagina sul palcoscenico, non una teatralizzazione. Per cui è piuttosto improprio parlare di lavoro drammaturgico. Se ho fatto spettacoli dalla letteratura, non è perché ritenga la letteratura un tema indispensabile alla rappresentazione teatrale. Un impulso all’affrontare queste scelte deriva sicuramente dall’insoddisfazione che provo rispetto a ciò che si definisce “drammaturgia contemporanea”. Ritengo che molti testi cosiddetti contemporanei costituiscano un vero e proprio oltraggio alla contemporaneità. E ritengo difficile riversare i temi della contemporaneità in strutture formali legate a una drammaturgia illuministica, ottocentesca. La mia insoddisfazione nasce da questo. Il problema, dunque, è legato alla qualità dei temi e delle strutture. Che si affronti un tema o una struttura, il lavoro deve essere fatto con qualità. Infinities, ad esempio, non è un dramma ma una trattazione scientifica. Il testo è stato scritto da uno scienziato e non da qualcuno che, desiderando scrivere di scienza, fa un corso di cosmologia e applica le nozioni acquisite alla stesura di un copione teatrale. Quando parlo di strutture drammaturgiche formali non voglio dire né che dialogo e personaggio siano elementi obsoleti né, al contrario, che siano insostituibili. Non è una questione di predilezione o insofferenza.

Nonostante questa resistenza nei confronti della narrazione, alcuni spettacoli ronconiani – vedi Strano interludio di Eugene O’Neill nel 1990 e più di recente Il professor Bernhardi di Arthur Schnitzler (2005) – possono avere il ritmo travolgente delle telenovelas, come se si divertisse a contraddirsi, non appena possibile…

Quello che emerge da uno sguardo ravvicinato a lavoro di Ronconi è insomma il rifiuto di un metodo, dei suoi vincoli e delle sue complicazioni, per andare ogni volta a misurarsi con il problema concreto del lavoro in quel preciso contesto (la commissione, lo spazio), su quel determinato testo e con quegli attori. La sua attenzione per la specificità coinvolge ovviamente anche le diverse tradizioni nazionali, a cominciare da quella in cui si trova a operare.

Io sono contrario a un’estetica dell’internazionalismo, anzi alla facilità di quest’estetica. Credo che ogni paese abbia un proprio rapporto fra drammaturgia e pubblico, che va conosciuto e rispettato: però è pure vero che la funzione e l’incidenza del fatto teatrale nella vita culturale di un paese andrebbe rapportata anche a ciò che succede nel resto del mondo. (…) Da noi si è avuto, in passato, questo concetto: il teatro imita [modelli stranieri], e non piuttosto il teatro propone, o inventa, o fa esplodere, o riflette. Oggi, per noi, quel tipo di teatro imitativo non è più possibile, perché siamo in presenza di originali, o di originali culturali, oppure di imitazioni al di fuori del teatro. Oggi ce l’hai sotto gli occhi, non ha più funzione quel tipo di teatro. (…) Ritengo che per noi il teatro sia semmai qualcosa di occasionale, un’interruzione del tempo, non una conclusione di serata, come lo è in altri paesi. Il teatro nella nostra vita culturale è considerato tuttora un evento, un’eccezione senza una sua necessaria continuità.
(Il Patalogo 17, p. 125-126)

Non a caso, questa attenzione al particolare emerge anche quando Ronconi affronta l’attività che forse predilige e affronta con grande passione, quella: la pedagogia teatrale. Ha insegnato a lungo sia all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, sia alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano. A Torino ha addirittura fondato la scuola del Teatro Stabile. In questi anni, al Centro Teatrale Santa Cristina, in Umbria, ospita ogni estate una scuola di alta specializzazione. Nel corso del tempo ha lanciato generazioni d’attori, facendoli spesso debittare nei suoi spettacoli: tra gli altri Massimo Popolizio, Riccardi Bini, Luca Zingaretti, Galatea Ranzi, Michela Cescon…

Il termine pedagogia non è esatto. In realtà, il percorso che faccio con gli attori principianti è esattamente lo stesso che faccio con gli attori formati, il contrario della pedagogia: il confronto con il testo e con problemi interpretativi piuttosto complessi. Un attore di 23-24 anni, anche se può essere professionalmente inesperto da un punto di vista tecnico, possiede una maturità sufficiente per affrontare l’interpretazione. Se non ce l’ha, è bene che se la faccia. La tecnica non esclude le capacità interpretative, le potenzia. Per questo non è esatto parlare di pedagogia. Ciò che mi interessa è sollecitare la fantasia e la curiosità, non trasmettere delle capacità tecniche.

Non si tratta dunque di mettere a punto e imporre un metodo.

No. Quando affronto un testo, mi piace confrontarmi con quel testo e non mettere in quel testo l’esperienza che ho fatto con un altro. Allo stesso modo, di fronte a un gruppo di una ventina di allievi, mi piace pensare a venti persone diverse, con problemi e capacità differenti. Se avessi un metodo, cercherei di formarli e questo non mi piace. Non sono capace e non mi interessa. Ci sono attori simpatici e attori antipatici, persone con cui mi piace lavorare e persone con cui non mi piace affatto. Viceversa, se esistesse un metodo “buono”, si presuppone che tutti quelli che lo adottano diventerebbero bravi e questo non succede mai. Il che vuol dire che non esiste un buon metodo.

Un “metodo teatrale” di Luca Ronconi non esiste e non può esistere, ribadisce con forza l’interessato. Ogni testo – che la scelta giunga da una commissione o che emerga da un’intuizione, da una curiosità, da un’ipotesi di lavoro da verificare – va affrontato per quello che è, per quello che dice, senza facili scorciatoie. Sapendo che ci possono essere discrepanze e fratture tra quello che l’autore scrive e le sue intenzioni, tra le sue intenzioni e il suo linguaggio; tra l’epoca e il luogo in cui è stato scritto e quelli in cui ci troviamo; tra le mille interpretazioni che di quel testo sono state date e la nostra attuale percezione; tra il personaggio e l’attore; tra la consapevolezza dell’autore e quella degli attori o dello spettatore; tra le attese del pubblico e quello che il testo effettivamente dice…
Allora forse un’altra delle intuizioni davvero semplici – originarie – di Luca Ronconi, una folgorazione sulla quale lavora da sempre, è che quello che ci sembra semplice è in realtà piuttosto complicato. Che è la semplicità a essere complicata. E che anzi proprio dietro questa apparente semplicità possano nascondersi le trappole più pericolose, quelle di cui siamo meno consapevoli. Ricordando sempre che per smontare una retorica e creare le condizioni per comunicare di nuovo è necessaria una retorica ancora più sofisticata.
Allora per capire il “metodo Ronconi” – per cogliere la sua “complicata semplicità”, o la sua “semplice complicazione” – è forse opportuno rovesciare la prospettiva. Non esiste un metodo da applicare al teatro, un “sistema” da utilizzare sui testi e con gli attori. E’ l’esatto contrario. E’ il teatro stesso a costituire un metodo per conoscere i testi e la realtà. E noi stessi. Perché solo in teatro tutte queste diverse linee di faglia possono trovare la verifica del corpo, nel tempo e nello spazio.

Molte volte quando scelgo un testo, lo faccio d’istinto e per curiosità, e senza troppa consapevolezza. Cerco di fare in teatro ciò che mi piace. Mi piace ciò che eccede, o può eccedere, le forme consuete del teatro. Ciò che si chiama “teatralità” non è l’eccesso o l’esteriorità. È un’altra cosa: uno schema conoscitivo, un modo di comporre le cose e di rappresentarle.

Questo sposta il problema del teatro dalla rappresentazione alla conoscenza.

La rappresentazione è il modo, non lo scopo. Lo scopo è altro. La rappresentazione stabilisce delle connessioni tra luoghi o concetti diversi. Crea opposizioni, attriti, antinomie che hanno bisogno della rappresentazione per essere comunicate. Ma la rappresentazione è solo un mezzo. Non amo il teatro in cui la rappresentazione è lo scopo.

Il metodo conoscitivo di uno spettatore è diverso da quello di un attore o è analogo? Se ci sono delle connessioni e degli attriti, vengono colte allo stesso modo dall’uno e dall’altro?

E’ il momento del processo a essere diverso. L’attore vive la fase della preparazione dello spettacolo. Se la preparazione entra a far parte del processo, è probabile che a qualche spettatore fra il pubblico arrivino dei riflessi di questo processo.

In ogni caso, è un processo conoscitivo diverso dagli altri, perché agisce attraverso la rappresentazione. Il teatro non è solo linguaggio, è anche altro.

Il linguaggio è il veicolo degli attori, ma per il pubblico il veicolo è il linguaggio più qualcos’altro: la rappresentazione. Naturalmente l’attore non accede alla rappresentazione se non passa attraverso il codice del linguaggio. Non si può rappresentare una trama o una vicenda. Per vicenda non intendo solo la fabula, ma anche il modo in cui la fabula viene organizzata nel processo. Si può rappresentare lo scarto, o la coincidenza, fra la vicenda e il linguaggio del processo che porta allo spettacolo.

Dunque anche il testo è uno strumento.

Il testo è uno spiraglio che apre altri mondi. Se volessi leggere Amleto, la cosa migliore per “conoscerlo” sarebbe prenderlo in biblioteca e leggerlo. Sarebbe il miglior processo conoscitivo, se intendessi Amleto come letteratura. È chiaro che la letteratura è indispensabile perché, se non si rispetta la letterarietà di un testo, lo spettacolo non funziona. Ma non basta, non è sufficiente.

Perché mancano il corpo, il respiro, la carne, la voce. Insomma, gli attori. Allora forse diventa più facile capire perché il teatro di Ronconi è così “semplicemente complicato”: è semplice e complicato come il rapporto tra il pensiero, la parola e la realtà. Lo possiamo vivere con l’innocenza dei bambini, abbandonandoci alla noncuranza della chiacchiera quotidiana, fidandoci dell’efficacia servile della comunicazione. Ma questo rapporto è anche e sempre sospeso sopra un abisso. Da un lato ci sono le voragini metafisiche che separano l’interiorità, il linguaggio e il mondo, e che rendono il senso un mistero insondabile, un interrogativo che ci proietta verso la trascendenza (un tema caro alla cultura della finis Austriae, che il filosofo Ludwig Wittgenstein ha esplorato nelle conseguenze estreme). Dall’altro ci sono mille convenzioni e abitudini, le stratificazioni del passato – nelle parole, nelle arti e in generale nella comunicazione, e pure nel nostro sguardo, e persino nella nostra carne – che s’incrostano e irrigidiscono ogni vera comunicazione (anche per questo il regista ama la drammaturgia elisabettiana, dove certe forme non si sono ancora rinserrate).
Tuttavia Ronconi non ama speculare. Rifiuta le astrazioni. Il suo è un talento empirico, è il mestiere paziente di un artigiano – anche se questo artigiano ha le inquietudini e le ossessioni dello sperimentatore, e la sua bottega è sempre un laboratorio. E così gli snodi tra pensiero, linguaggio e realtà li verifica con i suoi attori, sulla scena. O meglio, li verifica nei suoi attori, facendo teatro, ovvero costruendo una forma per rappresentare la realtà (o meglio, per riflettere sulla natura della realtà) e insieme un mezzo di comunicazione, di scambio. Lavorando con gli attori, interroga minuziosamente il testo e verifica il rapporto tra il suo significato e il tempo e lo spazio (ovvero il ritmo e la gestualità degli attori), come se si trattasse di ricucire uno strappo – ogni volta, in ogni frase, in ogni parola, in ogni sillaba, con la minuzia di un ebanista.
In qualche caso inventa macchine spettacolari di visionaria grandezza e di vertiginosa sofisticazione: quasi a nascondere questa angosciante lacerazione, i vuoti di senso di cui è consapevole e che la sua maieutica cerca di riempire. Oppure – senza che questo diventi una contraddizione – per celebrare allo stesso tempo le gioie di un equilibrio riconquistato e i fasti della teatralità.
Ecco, il genio semplicemente complicato di Ronconi, quello che riverbera nei suoi spettacoli, è insieme quello di un provocatore, che si diverte a demistificare le nostre certezze e a liberare nuove possibilità di senso. Ma è anche quello di un costruttore paziente, che tesse continuamente una tela sottile, fragile: quella della verità. Una verità che a volte si può distillare più facilmente in un’altra realtà, in quel laboratorio di parole e corpi, tempo e spazio che è il palcoscenico.

BIBLIOGRAFIA

In assenza di ulteriori specificazioni, le dichiarazioni di Luca Ronconi sono tratte da alcune conversazioni con Oliviero Ponte di Pino, Milano, Roma e Torino, dicembre 2004-ottobre 2005; trascrizioni di Oliviero Ponte di Pino ed Elena Cerasetti. Per completare la stesura di questo “incontro” ho utilizzato innanzitutto i programmi di sala degli spettacoli del regista e le diverse annate del Patalogo, l’annuario di teatro curato da Franco Quadri (cui è dedicato questo scritto) edito da Ubulibri; e ancora Il laboratorio di Prato, a cura di Franco Quadri con Luca Ronconi e Gae Aulenti, Ubulibri, Milano, 1981.
Qualunque riflessione sul teatro di Luca Ronconi non può prescindere da Franco Quadri, Il rito perduto.Saggio su Luca Ronconi, Einaudi, Torino, 1973; di Franco Quadri vedi anche La politica del regista, 2 voll., Il Formichiere, Milano 1980; e Il teatro degli anni Settanta. Tradizione e ricerca, 2 voll., Einaudi, Torino, 1982.

Inoltre:

AA.VV:, Ronconi: frammenti di storia, Archinto, Milano, 2001.
Alba Andreini e Roberto Tessari (a cura di), La letteratura in scena. Gadda e il teatro, Bulzoni, Roma, 2001.
Livia Cavaglieri, Invito al teatro di Ronconi, Mursia, Milano, 2003.
Rita Cirio, Serata d’onore. Diletto e castigo a teatro, Bompiani, Milano, 1983.
Cesare Garboli, Un po’ prima del piombo. Il teatro in Italia negli anni Settanta, prefazione di Ferdinando Taviani, Sansoni, Milano, 1998.
Isabella Innamorati (a cura di), Luca Ronconi e il suo teatro, Bulzoni, Roma, 1996.
Italo Moscati (a cura di), Luca Ronconi: utopia senza paradiso, Marsilio, 1999
Oliviero Ponte di Pino e Anna Maria Monteverdi, Il meglio di ateatro 2001-2003, il principe costante, Milano, 2004.
Franco Quadri in collaborazione con Alessandro Martinez (a cura di), Luca Ronconi. La ricerca di un metodo. L’opera di un maestro raccontata da lui stesso al VI Premio Europa per il teatro a Taormina Arte, Ubulibri, Milano, 1999.
Luigi Squarzina, Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e sconfitte, Pacini, Ospedaletto (Pisa), 2005.
Teatro Aperto (a cura di), Il teatro nascosto nel romanzo, il principe costante, Milano, 2005.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2006-02-15T00:00:00




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