Le collezioni teatrali di Rosa e Ballo

Una casa editrice degli anni '40 in mostra a Milano

Pubblicato il 27/02/2006 / di / ateatro n. 096

Un sogno editoriale: Rosa e Ballo nella Milano degli anni ’40

“L’importante ormai non è di fare, ma di fare bene”
lettera di Emilio Cecchi a Ferdinando Ballo, 1944

Teatro, musica, architettura, arte, letteratura, politica: dal Fondo Rosa e Ballo – conservato presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori – emergono il ruolo della casa editrice e la sua eredità nella cultura del dopoguerra.
In mostra carte e documenti che raccontano l’avventura di una piccola e ambiziosa casa editrice nella Milano degli anni Quaranta, tra guerra e ricostruzione.

Biblioteca Nazionale Braidense
Sala Maria Teresa
Via Brera 28, Milano

Mostra documentaria
a cura di Stella Casiraghi
22 marzo 2006 – 24 aprile 2006

Inaugurazione
21 marzo 2006 ore 18.00

Intervengono
Roberto Cerati
Roberto Di Carlo
Sergio Escobar
Luca Formenton
Luigi Ganapini
Tullio Kezich
Anna Modena
Oliviero Ponte di Pino
Marco Vallora

Qui di seguito, il testo di Oliviero Ponte di Pino per il catalogo della mostra.

C’è qualcosa di misterioso e quasi di commovente nell’affettuosa memoria che i teatranti hanno continuato a riservare a una piccola casa editrice dalla vita assai breve, presto dimenticata dai più, anche per le sfortunate vicissitudini dei suoi artefici. In circa tre anni di attività, tra il 1944 e il 1947, Rosa e Ballo pubblicò tra l’altro una quarantina di volumi in due collane, la Collezione Teatro Moderno e la Collezione Teatro. Un periodo limitato e una produzione esigua in un settore marginale e poco redditizio, allora come oggi. Eppure quei volumetti dalla grafica essenziale e raffinata, color mattone (per la Collezione Teatro Moderno) e grigio (per la Collezione Teatro), hanno lasciato un segno indelebile e qualche seme destinato a fiorire nei decenni successivi. Tra i mille progetti e sogni di quel periodo tragico e fervido, che cosa ha salvato dall’oblio e tenuto vive così a lungo le intuizioni di un marchio a cui le storie dell’editoria dedicano solo poche righe?
Come altre iniziative nate nella vergogna del fascismo e tra i disastri della guerra, e tuttavia proiettate nella speranza di un futuro migliore, Rosa e Ballo – non solo sul fronte della drammaturgia ma nel suo progetto complessivo – si assegnò il compito di aprire l’orizzonte culturale italiano alle esperienze delle avanguardie europee, dopo vent’anni di regime e una censura via via più oppressiva. Era un’intuizione necessaria ma niente affatto facile, in quelle fasi convulse, quando la lotta contro la dittatura viveva la sua fase più cruenta, quando la Repubblica di Salò e gli occupanti nazisti organizzavano l’ultima difesa, quando le difficoltà della guerra si facevano insormontabili, tra ostacoli e impedimenti di ogni genere: la repressione poliziesca, i bombardamenti, i continui trasferimenti di sede, la censura, la mancanza di materie prime (la carta era contingentata), le difficoltà di comunicazione, l’impossibilità di prendere contatto con autori, traduttori, agenti, editori, soprattutto se stranieri.

Luigi Rognoni a Rosa e Ballo.

Per fare una scelta di quel tipo, non bastava l’assoluta certezza della vittoria: bisognava anche accantonare le necessità immediate della lotta – uno scontro mortale – e pensare al “dopo”. Meglio: quel “dopo” si doveva iniziare a costruirlo, subito. O almeno si dovevano preparare gli strumenti per iniziare la ricostruzione. Questo pensiero lo espresse con grande consapevolezza Paolo Grassi in un articolo pubblicato nel giugno 1943, poche settimane prima della caduta del fascismo e dunque in un momento delicatissimo per la storia del nostro paese e per la sua personale evoluzione. Dopo aver dichiarato la propria estraneità al “cosiddetto teatro ‘normale'”, il giovane critico, regista e organizzatore tracciava il suo programma per l’immediato futuro:

Penso che il nostro compito, il compito di noi giovani, sia attualmente quello di immagazzinare libri, notizie, dati, cognizioni, conoscenze, documenti; quello che necessita è un lavoro oscuro, durissimo di studio, di preparazione, di affinamento dei nostri mezzi e delle nostre qualità. (…) Il mio personale voto è che si abbia a formare nel nostro Paese un nucleo vasto di giovani colti, documentati, esperti tecnicamente, sensibili e onesti, che sappiano e vogliano lavorare, per il teatro, solo per esso, senza dilettantismi (…) senza la abituale incoscienza. Mentre i poeti ci danno e ci daranno la parola nuova, noi prepariamo l’apparato entro cui la parola possa a suo agio vivere. (…) Siamo orgogliosi di questo “splendido isolamento”.
(Lettere sul teatro, “Eccoci”, 1° giugno 1943, citato in Meldolesi, Fondamenti, pp. 100-101)

Un giudizio sul presente, un atteggiamento, un progetto che Grassi applicava al teatro, ma validi per altri ambiti, dalla musica all’architettura, e che nel progetto editoriale di Rosa e Ballo avrebbe trovato uno strumento esemplare, persino nelle ambizioni più velleitarie.
Anche nelle scelte culturali, la direzione imboccata dalla casa editrice non era affatto scontata. L’unica avanguardia artistica italiana di respiro europeo, il futurismo nazionalista, affascinato dalla velocità e dalla guerra, aveva affiancato e sostenuto il fascismo fin dagli inizi. Poi, negli anni del consenso di massa, gli eccessi destabilizzanti dell’Accademico d’Italia Filippo Tommaso Marinetti e dei suoi erano stati in parte neutralizzati dal regime, che aveva finito per compensare le accelerazioni moderniste del movimento con il più assimilabile filone “strapaesano”. Sull’altro versante della battaglia culturale, la sinistra – a cominciare dal Partito Comunista di Palmiro Togliatti, sempre pronto a intervenire nel dibattito estetico – sosteneva il realismo socialista di ispirazione sovietica (salvo poi riscattarsi nella pratica con i capolavori del neorealismo); la condanna del “formalismo” delle avanguardie da parte di Stalin e Zdanov era già stata decretata – il suicidio di Majakovskij nel 1930 aveva segnato una svolta – e nei decenni successivi avrebbe avuto un peso determinante sulla linea culturale ed estetica della sinistra: emblematica, poco dopo, la vicenda del “Politecnico” di Elio Vittorini.
In questo scenario, nella breve finestra della transizione, Rosa e Ballo offrì una risposta informata e aggiornata – per certi versi anticipatrice – rispetto alla situazione del momento. Cercava l’emancipazione dalle pastoie e dal provincialismo del regime, senza per questo accontentarsi dei diktat estetici imperanti a sinistra. Non a caso l’iniziativa nasceva a Milano, la più moderna città italiana, il cuore pulsante della ricostruzione e del futuro boom economico, proprio quando la resistenza era più accesa e le spinte innovative effervescenti. Malgrado il fascismo, la vita culturale cittadina aveva infatti continuato a manifestare una qualche vitalità, e i frutti di quei fermenti si sarebbero visti al momento opportuno.

Erano gli anni [Venti e Trenta, n.d.r.] in cui la via del Monte Napoleone con le sue quattro librerie, luoghi di incontro di artisti e scrittori, Bestetti e Tuminelli, San Marco, la Libreria Editrice Scolastica dei fratelli Puccini, al n. 18, e le sedi circonvicine di Hoepli in galleria De Cristoforis, Esame in Crocerossa (dove arrivò il giovane Comisso, in fuga dalla provincia, per diventare il più grande libraio di Milano) si identificava a tutti gli effetti con la contrada dell’arte. Si avviava qui quella vocazione degli intellettuali e della borghesia cittadina al libro di cultura e d’arte, che procedeva accanto a quella industriale, e che avrebbe visto in città la nascita di imprese editoriali vive ancora oggi, come Ricciardi e Scheiwiller, e circoscritte nel tempo, ma non effimere, come Rosa e Ballo e Cederna.
(dalla prefazione a Botteghe di editoria, a cura di Anna Modena)

Tra tutte, la casa editrice Convegno – legata alla rivista omonima, animata da Enzo Ferrieri, letterato e uomo di teatro che fece conoscere in Italia la grande letteratura europea del Novecento – aveva pubblicato nel 1921 come primo titolo Risveglio di primavera di Frank Wedekind nella traduzione di Giacomo Prampolini; un paio d’anni dopo la rivista aveva dedicato un numero speciale ad Adolphe Appia.
Nello spirito delle avanguardie – ma senza alcun esplicito intento o manifesto programmatico, piuttosto come prassi inevitabile, come metodo di lavoro quasi naturale – era anche l’intreccio di diverse discipline che avrebbe caratterizzato l’atteggiamento di Rosa e Ballo. Il progetto più ambizioso della casa editrice – destinato a restare tale – era peraltro un Dizionario delle arti contemporanee, che ricorda il progetto di regime del Dizionario dello spettacolo e quello di un amico della casa editrice come Valentino Bompiani, che in quegli anni varava eroicamente il suo Dizionario delle Opere e dei Personaggi.

Massimo Mila a Rosa e Ballo.

A questa impostazione non può essere estranea la formazione di musicologo di Ballo, che certo avrà riflettuto sulle suggestioni wagneriane dell’opera d’arte totale e su Appia. All’inizio degli anni Trenta, Ballo era stato con Luigi Rognoni tra i fondatori della galleria Il Milione, dove esponevano artisti come Max Ernst, Lurçat, Marcoussis, Léger, Pascin (1932) o Seligmann, Kandinskij, Vordemberge-Gildewart, Albers (1934), circolavano riviste come i “Cahiers d’Art”, “Cercle et Carrè”, “Abstraction-Création” e soprattutto i “Bauhausbücher”; lì era possibile ascoltare la musica dodecafonica di Schönberg, di fatto bandita dalle sale da concerto.
Fedele a questa impostazione, caratterizzata dall’apertura al nuovo e dall’interdisciplinarietà, Rosa e Ballo pubblicò in un arco di tempo relativamente breve diversi libri importanti, destinati a essere ristampati per decenni, soprattutto nel campo dell’architettura, della musica e della politica. Già questo fu un risultato eccezionale.
L’avventura teatrale della giovane casa editrice fu ancora più straordinaria e importante. Nei primi anni Quaranta i due aspiranti editori erano entrati in contatto con quello che sarebbe stato il terzo protagonista dell’impresa, uno dei grandi riformatori del teatro italiano – o forse uno dei pochi rivoluzionari delle nostre scene, almeno in quella fase. Paolo Grassi aveva poco più di vent’anni (era nato il 30 ottobre 1919). Suo padre Raimondo era arrivato a Milano da Martina Franca, in Puglia, e lavorava da tempo al quotidiano economico “Il Sole”. Sua madre, Ines Platesteiner, discendeva da una famiglia bavarese ma veniva da Fiorenzuola d’Arda, non lontano da Parma; amava la musica e il teatro.
Grassi era socialista come i due editori. In una Milano “viva e seria” (l’impressione, in una lettera del 29 dicembre 1943, è di Valentino Bompiani, in Cinquant’anni e più. Lettere 1933-1989, a cura di Valentina Fortichiari, Bompiani, Milano, 1995), che già intuiva il tragico sbocco del fascismo, il giovane “vice” (a diciassette anni aveva iniziato a collaborare anche lui con “Il Sole”, affiancando il critico teatrale titolare Angelo Frattini) si era fatto una certa fama.

Paolo era quello che poi ha continuato a essere: una specie di fiume in piena con una grande volontà e molto rigore (…) uno che sapeva molto e che sapeva quello che voleva.
(Ernesto Treccani, “Un’amicizia lunga una vita”, in Il Piccolo Teatro di Milano. Cinquant’anni di cultura e di spettacolo, p. 14)

Nel marzo del 1940, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, Grassi era stato tra i protagonisti di una memorabile serata milanese (nei suoi ricordi, Quarant’anni, p. 100, è la sera del 18 marzo; nell’accurata ricostruzione di Meldolesi, Fondamenti, p. 44, è quella del 28 marzo). Debuttava al Teatro Nuovo di Milano Piccola città di Thornton Wilder e il battagliero Grassi, con gli amici di “Corrente” strategicamente disposti in platea, si era segnalato tra i più accesi sostenitori di una pièce che sfidava la tranquilla convenzionalità degli spettacoli italiani dell’epoca. La gazzarra lasciò il segno, ma non fu certo l’unica nella lunga guerra, ispirata alle riflessioni di Silvio D’Amico, per un teatro d’arte e di cultura, per l’affermazione di una nuova drammaturgia e per l’avvento della figura del regista.
Secondo un racconto diventato leggenda, nel 1938 tra i frequentatori degli “ingressi” dei teatri milanesi Grassi aveva notato un altro spettatore abituale: di un paio d’anni più giovane di lui, ugualmente appassionato, abitava dalle parti di casa sua. Era Giorgio Strehler. Sia la mamma di Giorgio sia quella di Paolo amavano la musica, così i due amici passavano assieme le serate, a casa dell’uno o dell’altro, ascoltando soprattutto Stravinskij.

Ma ascoltano anche Kurt Weil, Malipiero, Satie, Schönberg a casa di Luigi Rognoni, il padre della impossibile dodecafonia italiana, o da Fernando Ballo, al quale piace anche il recupero di Offenbach.
(Grassi, Quarant’anni, p. 97)

Il musicologo Ballo non era solo un fan di Offenbach, oltre che amico e collaboratore di Malipiero (vedi il suo libretto per I capricci di Callot, La Lampada, Milano, 1942): era uno degli animatori della vita culturale della città. Il giovane Grassi se ne accorse subito.

Fernando Ballo è il polo catalizzatore di una certa Milano che, attenta alle cose del mondo, aspira a uscire dai limitati orizzonti provinciali in cui l’ottuso controllo fascista aveva rinchiuso la vita culturale italiana. Nella casa di Ballo si incontravano, tra gli altri, Luigi Rognoni, Edoardo Persico, Giulia Veronesi, Raffaello Giolli, Angelo Saraceno (cognato di Ballo e fondatore, con altri, del Partito della sinistra cristiana), i pittori Umberto Lilloni, Angelo Del Bon, Adriano Spilimbergo (conosciuti come i “chiaristi”). Un gruppo vivo, intelligente, aperto alle suggestioni e alle influenze più positive provenienti da oltre frontiera.
(ivi, p. 118)

Casa Ballo diventò un polo d’attrazione per tutta la “generazione del ’45”, in cui si riconoscevano tra gli altri Carlo Lizzani, Mario Alicata, Vito Pandolfi, Marco Valsecchi, oltre naturalmente a Grassi e Strehler, che nel 1973 ricorderà:

Certo la generazione “del ’45” esiste. Una generazione senza maestri. Questa è una realtà. Andavamo a frugare tra i libri della biblioteca di Nando Ballo, un amico saggio, a scoprire da soli il mondo. Un mondo di cui nessuno ci aveva parlato. Cantavamo l’Opera da tre soldi in segreto come un peccato carnale. E tutto ciò ci è rimasto addosso, ce lo portiamo sulle spalle. La generazione di oggi vive nella dissacrazione del maestro. Noi invece ne sentivamo la mancanza in termini di riferimento. Noi volevamo avere dei maestri. E ce li fabbricavamo, magari. Ce li costruivamo.
(Strehler, Per un teatro umano, p. 21)

E’ bene seguire passo passo, in quei mesi cruciali, le attività di quei ragazzi ambiziosi e sempre in movimento. Fu uno di quei periodi in cui lo sviluppo culturale e artistico sembra subire una violenta accelerazione, in una sorta di esplosione creativa. Solo attraverso i rimandi tra attività editoriale e pratica scenica è possibile cogliere il ruolo centrale della casa editrice, dei suoi artefici e degli autori che ha pubblicato nel rinnovamento del teatro italiano.
I due amici Grassi e Strehler, le loro compagne Enrica Cavallo e Rosita Lupi, entrambe musiciste, i loro coetanei Mario Feliciani (compagno di Strehler all’Accademia dei Filodrammatici) e Franco Parenti, tutti antifascisti, erano i capofila di una nuova scapigliatura milanese che aveva subito legato con il gruppo di “Corrente”, o meglio con quello che ne era rimasto dopo che il regime, nel 1940, aveva chiuso la rivista “Corrente di vita giovanile”. La collaborazione tra Grassi e quel gruppo illumina l’impostazione di una casa editrice come Rosa e Ballo, che per alcuni aspetti ne è l’erede. “Corrente” voleva svecchiare un orizzonte culturale chiuso dalle censure e dall’autarchia del regime, riaprendo i contatti con le tendenze più vive e moderne delle arti e del pensiero contemporanei. Al gruppo facevano riferimento diversi pittori: Birolli, Guttuso, Valenti, Mucchi (che diverrà amico e traduttore di Brecht), De Grada, Cassinari, Morlotti, Sassu, Badodi, Vedova, Migneco e naturalmente Ernesto Treccani, che aveva diretto la rivista del gruppo. Accanto a loro c’erano filosofi come Enzo Paci e Luciano Anceschi, letterati come Vittorio Sereni, Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo, Luigi Rognoni, Alberto Lattuada, Giansiro Ferrata, Beniamino Joppolo, Cesare Zavattini… Questo intreccio di esperienze e discipline diverse avrebbe fecondato la cultura milanese del dopoguerra: basti pensare a due artisti formatisi in quegli anni, un pittore diventato attore e drammaturgo come Dario Fo, o un pittore-critico-drammaturgo-romanziere-poeta come Emilio Tadini. L’impostazione del catalogo di Rosa e Ballo, con le sue aperture multidisciplinari, respira quell’atmosfera.
Dopo essersi fatto le ossa organizzando la fortunata tournée della Cena delle beffe di Sem Benelli per la compagnia Ninchi-Tumiati (Grassi, Quarant’anni, pp. 102-104), Grassi era stato tra i fondatori di “Palcoscenico”, una delle filiazioni di “Corrente”. Attivo alla Sala Sammartini, diretto da Grassi “con sacro furore” (Leonida Repaci, Teatro d’ogni tempo, Ceschina, Milano, 1967, p. 567), era l’unico gruppo teatrale sperimentale esterno ai GUF: “il repertorio è eclettico; ma ci sono i segni di una ricerca e di una problematica lontane dal teatro di consumo”. Nella primavera del ’41 “Palcoscenico” programmò sette serate con 19 titoli (soprattutto atti unici), in cui figuravano diversi autori italiani ma soprattutto “più consolidate (…) scelte di drammaturgia straniera”: tra l’altro La poverella di Yeats, Cavalcata a mare di Synge, e poi O’Neill, Cechov, Evreinov e la scena del balcone da Romeo e Giulietta. Grassi era principale capocomico e regista, tra gli attori figuravano Strehler, Feliciani e Parenti, Giuliana Pogliani e Aegle Sironi (figlia del pittore). Per quei giovani teatranti fu una palestra decisiva: si trattava di riportare la parola poetica al centro della scena, e al tempo stesso rifiutare la trionfalistica retorica del fascismo (Grassi, Quarant’anni, pp. 107-108; Meldolesi, Fondamenti, p. 61).
Sul finire della stagione 1940-41 “Palcoscenico” ebbe la possibilità di produrre uno spettacolo: la scelta cadde su Ultima stazione del siciliano Beniamino Joppolo, che nel 1941 era stato pubblicato proprio dalle Edizioni di Corrente. Paolo Grassi si incaricò della regia, c’erano particine per quattro pittori (Migneco, Valenti, Birolli e Badodi) e un ruolo – quello del capostazione – per Giorgio Strehler.

E’ interessante guardare alla locandina di questo “spettacolo d’arte” che portava una scritta in cui si diceva “tutti gli artisti di tutte le arti devono intervenire”. Questo era un po’ lo spirito di quegli anni in cui cominciavamo. Alberto Lattuada, redattore della rivista [“Corrente”, n.d.r.], scriveva racconti. Guido Morosini, critico d’arte, curava la scenografia dello Spazzino e la luna, l’atto unico che avevo scritto [anch’esso pubblicato da Corrente nel 1941, n.d.r.] e che Franco Parenti interpretava. Un fervore artistico in cui uno si legava all’altro anche perché eravamo tutti così giovani e sentivamo molto fortemente l’interdisciplinarietà. E questo si rifletteva anche nei nostri rapporti, rendeva molto ricco lo scambio di esperienze che non potrei definire come eclettismo, ma piuttosto come interesse globale per la pittura e l’arte tenendo conto che c’era il fascismo e che tutto quello che noi volevamo era proprio il contrario dell’autarchia fascista.
(Treccani, “Un’amicizia…”, pp. 13-14)

Lo spettacolo andò in scena al Teatro dell’Arte il 25 giugno 1941 e fu un successo, anche se procurò al giovane regista l’immediata espulsione dal GUF, perché contro le regole aveva continuato a svolgere attività teatrale fuori dal Gruppo Universitario Fascista (Grassi, Quarant’anni, p. 109; Meldolesi, Fondamenti, pp. 65-66).
Fu l’ennesima feroce polemica prima della partenza di Grassi (che nel frattempo aveva firmato anche la regia di un testo di Benavente) per il servizio militare. Ma anche sotto le armi il teatro rimase al centro delle sue preoccupazioni: collaborava tra l’altro a due riviste universitarie – e dunque legate ai GUF, nell’ambito della fronda che i Gruppi Universitari Fascisti tolleravano più o meno consapevolmente – edite a Forlì, “Via consolare” (poi “Spettacolo – Via consolare”) e “Pattuglia”. Nel luglio-agosto del 1942 quest’ultima pubblicò un numero speciale monografico dal titolo Per il teatro, a cura di Walter Ronchi e Paolo Grassi.(1) Il 1° aprile 1943 l’infaticabile Grassi curò con il suo staff il numero monografico di un’altra rivista “gufina” con cui collaborava, “Eccoci”, intitolato Per un nuovo teatro.
Strehler aveva anche uno sbocco a Novara, all’epoca vivace centro culturale: originari della città piemontese erano, oltre a Ballo, anche i fratelli Bonfantini, in particolare Mario, amico di Ballo e collaboratore della casa editrice. Dall’agosto 1942 a Novara veniva pubblicato il mensile dei GUF “Posizione”, che ospitò diversi significativi articoli di Strehler; sempre a Novara con il teatro dei GUF locali Strehler debuttò come regista con un trittico pirandelliano il 24 febbraio 1943 (Battistini, Strehler, p. 7, pp. 19-25; pp. 29-30).
Dopo l’8 settembre, mentre Strehler si rifugiava in Svizzera (un soggiorno determinante nella sua formazione), Grassi abbandonò l’esercito (all’epoca era sottotenente in Carnia), tornò a Milano sotto falso nome e “su invito di Fernando Ballo entr[ò] a far parte della nuova casa editrice Rosa e Ballo” (Grassi, Quarant’anni, p. 118). Il 10 ottobre del 1943 le Schede contabilità registrano un pagamento a Paolo Grassi (Fondo Rosa e Ballo, Fondazione Mondadori [da ora RB] 1/1, n. 33 verso; la scheda personale di Grassi registra analogo pagamento per “acconto direzione collana”, RB 1/1, n. 3 recto).
Il progetto editoriale era già ben delineato nei primi mesi del 1944, almeno per quanto riguarda il teatro. I collaboratori erano di ottimo livello e potevano fornire materiali e informazioni sui diversi ambiti di interesse della casa editrice. Enzo Ferrieri, intellettuale e regista, fondatore nel 1924 del Teatro del Convegno, direttore artistico dell’EIAR a Milano dal 1929, era come abbiamo visto un animatore della vita culturale della città; avrebbe dato a Rosa e Ballo la sua fortunata traduzione del Gabbiano di Cechov, utilizzata tra l’altro anche da Strehler al Piccolo Teatro nel 1948 (Il Poligono avrebbe pubblicato nel 1946 un volume con altre traduzioni cechoviane di Ferrieri, Le tre sorelle, Il giardino dei ciliegi e Zio Vania); nel dopoguerra avrebbe diretto circa 600 testi per la prosa radiofonica. L’anglista Carlo Linati aveva avuto un ruolo chiave nel presentare nel nostro paese la nuova drammaturgia irlandese di Synge (nell’ormai lontano 1917), Yeats e Joyce. Glauco Viazzi (ovvero Jusik Achrafian), ingegnere chimico ma soprattutto critico letterario e cinematografico,(2) copriva l’area russa. Alessandro Pellegrini, germanista e scrittore, si dedicò a Strindberg, con traduzioni e scritti saggistici. Grassi – traduttore in proprio di Wedekind – coinvolse una pattuglia di germanisti e traduttori dal tedesco come Emilio Castellani, Ervino Pocar e Bruno Revel. Tra i collaboratori di Rosa e Ballo figuravano inoltre alcuni registi (e teorici della regia) che cercavano spazio sulle scene italiane e che con Grassi collaboravano anche sul fronte teatrale: Strehler e Ferrieri (animatore del Teatro del Convegno e dal 1929 direttore artistico dell’EIAR a Milano), naturalmente, e poi Vito Pandolfi e Ruggero Jacobbi (oltre al giovane Luigi Comencini).
La casa editrice si sarebbe dunque occupata soprattutto di traduzioni, e in particolare della traduzione di testi teatrali. Neppure questa era una scelta ovvia. Per quanto riguarda il settore di mercato, gli editori erano ben consapevoli delle difficoltà che avrebbe potuto incontrare la loro proposta, quando avevano presentato la Collezione Teatro Moderno:

Gran parte della storia dell’arte ha la sua vita nel teatro. Il pubblico italiano in generale non legge le opere di teatro, preferisce ascoltarle, rappresentate. Con tanto parlare e scrivere che si è fatto di crisi, di regìe, di problemi scenografici, non sarebbe opportuno conoscere anche le opere che ne hanno motivata la discussione?

Oltretutto la censura fascista faceva di tutto per disincentivare le traduzioni, in base alle precise indicazioni di Benito Mussolini. Anche se il Ministero della Cultura popolare della Repubblica di Salò operava in condizioni difficili e la sua azione incontrava notevoli ostacoli (certo inferiori a quelli che, in una economia di guerra, doveva affrontare una giovane casa editrice…), la vigilanza sulle traduzioni era occhiuta e attenta.

La censura tiene d’occhio la casa editrice. Ballo e Grassi più di una volta devono sobbarcarsi viaggi, per quei tempi assai avventurosi, a Salò, ove hanno sede gli uffici del governo fantoccio, e a Venezia, ove è installato il sempre petulante ministero della Cultura popolare, Minculpop. I negoziati con i funzionari della censura sono laboriosi e delicati: l’ignoranza e la prepotenza mettono a dura prova l’abilità e la pazienza dei due esponenti editoriali. (…) Al ritorno a Milano i resoconti di questi pellegrinaggi in censura sono commentati nell’ambiente della casa editrice, ora con sarcasmo, ora con sdegno. Autori, traduttori, collaboratori, sono tutti fortemente antifascisti, alcuni addirittura partigiani combattenti, come i grafici Luigi Veronesi e Remo Muratore, quest’ultimo comandante di una brigata. Si sa, comunque, che i censori sono destinati a sparire.
(Grassi, Quarant’anni, p. 119)

Nonostante tutto, l’impresa partì subito con un ritmo incalzante e obiettivi ambiziosi. A sospingerla fu una vera e propria urgenza, un disperato entusiasmo che si può capire solo con la gravità del momento. Una serie di appunti dattiloscritti ricapitola tre successivi invii di materiale con la richiesta dei permessi di traduzione al Ministero della Cultura popolare: il 10 marzo 1944 dieci titoli, il 28 marzo altri diciassette e il 10 (o 15) maggio 1944 ancora quattordici, più tre aggiunti a matita (RB 5/26, n. 65; ma vedi anche i fascc. 5/27 e 5/28).(3) In totale,
45 titoli in un paio di mesi: sarebbero stati sufficienti a riempire il programma editoriale di una piccola casa editrice per diversi anni, Rosa e Ballo li pubblicò quasi tutti negli ultimi mesi di guerra e nelle settimane immediatamente successive.
Si trattava in grandissima maggioranza di testi teatrali, che nel loro insieme costituirono l’ossatura delle due collane dirette da Grassi: nei primi due elenchi comparivano già una quindicina di pièce destinate a confluire nella Collezione Teatro Moderno, mentre nel terzo si trovavano l’opera omnia (in pratica) di Büchner (Woyzeck, La morte di Danton e Lena e Leonce, più Lenz, che uscirà nella Collezione Varia) e I corvi di Becque, ovvero quasi la metà della Collezione Teatro, quella dedicata ai classici – ma classici, lo si sarà già capito, eccentrici e anticipatori.(4)
Non tutti i testi ottennero il nulla osta, secondo quei riepiloghi. Wedekind venne bocciato (ma c’era un pizzico di malizia nel sottoporre ai censori un testo intitolato proprio La censura), così come Gide.(5) Kaiser inizialmente aveva passato l’esame ma un telegramma arrivato il 20 agosto lo bloccò, insieme a Büchner:

Comunicasi divieto pubblicazioni opere autori Buchner et Kayser [sic]. non essendo graditi punto pregasi assicurare urgentemente punto
Sottosegretario Cucco
(RB 5/27, n. 2; il telegramma è del 17 agosto; seguì un dispaccio che ribadiva il divieto: vedi RB 5/27, n. 2)

E’ probabile che a questo vaglio non siano stati nemmeno sottoposti alcuni testi che forse rientravano già nel piano iniziale, ma che dovevano essere certamente sgraditi al regime perché “di autori ebrei “, o “di autori appartenenti a paesi nemici o comunque (…) pubblicati in tali paesi e nei loro possedimenti” (Circolare del ministro Fernando Mezzasoma, 24 novembre 1943, in Fabre, L’elenco, p. 482) oppure “sovversivi”. Nell’elenco dei circa 900 “Autori le cui opere non sono gradite in Italia” diffuso dal Ministero della Cultura popolare il 23 marzo 1942, e rilanciato nel maggio del 1944 (ivi, pp. 474-481), figuravano Schnitzler, Toller e Wedekind – però mancava Brecht. Molti dei testi “proibiti” risultano tuttavia stampati ugualmente nel 1944, a cominciare proprio da Kaiser e Büchner.
Va sottolineata la presenza, in questi elenchi, di alcuni progetti variamente legati al teatro, che però non avrebbero potuto trovare posto in una collana di testi: tra gli altri, oltre al Lenz di Büchner (che è una prosa biografico-narrativa), l’epistolario di Ibsen (aggiunto a matita in calce all’elenco del 10-15 maggio 1944) e L’oeuvre d’art vivant di Adolphe Appia.
La scelta dei titoli e degli autori parla da sola. Grande attenzione per l’area tedesca (ovviamente per autori ostili a Hitler e al nazismo), grazie alle competenze linguistiche di Grassi, ma anche per la fascinazione in quel momento di un taglio espressionista (e in qualche modo “pessimista”, di fronte ai trionfalismi mussoliniani): vedi l’inserimento di Brecht, Kaiser, Toller e Wedekind, oltre all’interesse per un precursore come Büchner. Si trattava anche di ricucire i rapporti con la cultura tedesca dopo la frattura hitleriana, con particolare attenzione alla vivace Monaco di Baviera d’inizio secolo; e agli autori che avevano saputo dare forma alla crisi seguita alla Prima guerra mondiale: Toller, Kaiser e Brecht, che si erano già confrontati con la prima grande stagione della regia tedesca. Un altro importante punto di riferimento erano senz’altro i memorabili allestimenti di Erwin Piscator (Oplà noi viviamo di Toller nel 1927 e l’anno successivo lo Schwejk riscritto da Brecht); e soprattutto quelli di Vsevolod Mejerchol’d, che nella Mosca post-rivoluzionaria aveva portato in scena Albe di Verhaeren (1921) e Il magnifico cornuto di Crommelynck (1922), oltre a Mistero buffo (1918 e 1921), La cimice (1929) e Il bagno di Majakovskij (1930). Poi notevole spazio al “rinascimento irlandese” con Yeats, Synge e O’Casey (e naturalmente Joyce).(6)
Ancora, una presenza massiccia di August Strindberg, con ben cinque volumi nelle prime quattordici uscite della Collezione Teatro Moderno; per comprendere il potenziale impatto culturale della proposta, basti il titolo della monografia dedicata allo scrittore svedese da Alessandro Pellegrini, prima uscita della Collezione Il Pensiero: Il poeta del nichilismo.

(segue…)

Oliviero_Ponte_di_Pino

2006-02-27T00:00:00




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