A cosa servono tutti questi organizzatori?

L'intervento per il convegno Management culturale e formazione

Pubblicato il 18/09/2006 / di / ateatro n. 101

Si tiene tra Venaria Reale e Torino, il 22-23 settembre prossimo, il convegno Management culturale e formazione, organizzato da Regione Piemonte, Fondazione Fitzcarraldo e Fondazione Crt, in collaborazione con Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo, Encarc e Associazione Alumni Fitzcarraldo.
Qui di seguito, l’intervento di Mimma Gallina.

Come molti operatori teatrali, negli ultimi otto-dieci anni ho dedicato sempre più tempo e energie alla formazione, presso corsi professionali e universitari in molte città d’’Italia, e già dalla metà degli anni Settanta insegno al Corso per Organizzatori dello spettacolo della Paolo Grassi a Milano, dove mi sono a mia volta diplomata e dove ho contribuito a definire piani di studi e metodo.
Da “docente a contratto” il mio osservatorio non è privilegiato ma abbastanza articolato. Questo incontro mi dà l’’occasione per pormi ad alta voce alcune domande e mettere a fuoco qualche considerazioni.

1) Con riferimento all’’offerta formativa

Un certo disordine nella moltiplicazione e caratterizzazione dei corsi specialistici e professionali, richiede una riflessione e forme di coordinamento a livello nazionale, e forse europeo, da un lato perché i finanziamenti ne hanno favorito la diffusione ma anche condizionato nomi, forme e contenuti (alimentando un creatività apprezzabile, ma non di rado fine a se stessa), dall’’altro per la tendenziale dimensione internazionale del settore.

Non è sufficientemente diffusa invece la formazione sull’’organizzazione dello spettacolo a livello di lauree triennali, che dovrebbe essere estesa, almeno come opportunità, a tutti i corsi in discipline umanistico-artistiche e non solo (non mi riferisco alle lauree triennali già indirizzate alla gestione dell’’attività culturale, sulla cui utilità –in quanto triennio – si potrebbe discutere).
La formazione di base è una condizione perché gli insegnamenti specialistici siano davvero tali e per individuare (o favorire) le “vocazioni”.

La qualità dei corsi
: cosa rende un soggetto davvero idoneo a garantirla? E come si valuta la qualità di un progetto formativo in questo settore? Quale è il profilo culturale e tecnico di un organizzatore di spettacolo? Non esistono metodi univoci e personalmente sono contraria a qualunque soluzione corporativa o burocratica (albi, certificazioni etc.). Ho opinioni in proposito, ma non soluzioni. Però, se esiste la possibilità di un impegno collettivo dei soggetti formatori, una delle finalità dovrebbe essere la chiarezza (scientifica, di linea, di metodo, di prospettive), nei confronti degli utenti, su basi comuni e come condizione per un effettivo confronto dell’’offerta.

Vedo infine nella diffusione di seminari altamente qualificati e tecnici rivolti prevalentemente ad operatori una risposta alla necessità di aggiornamento continuo e di “metodo”, spesso molto avvertita dai singoli (non sempre dalle imprese), e anche la possibilità di rimediare a qualche lacuna dei processi formativi eventualmente seguiti.


2) Con riferimento alla domanda


Gli studenti.
Il numero assoluto è alto, troppo. La fisionomia degli studenti è inoltre mutata drasticamente col tempo. A spingere i giovani verso l’’organizzazione dello spettacolo una volta era la passione tanto a livello di tradizione che di ricerca, spesso intrecciata a convinzioni forti sul piano politico e civile, e ci trovavamo di fronte giovani informati, non di rado davvero colti, che qualche volta “ripiegavano” da professioni artistiche (con quella maturità che fa capire per tempo che è più utile e gratificante essere un buon organizzatore che un mediocre artista). Con il tempo le motivazioni si rivelano sempre più spesso di ripiego -– la sede universitaria più vicino casa, un percorso formativo che si suppone più leggero – o frutto di falsi miti e incerti obiettivi candidamente confessati: il principale è entrare nel “mondo dello spettacolo” anche se dalla porta di servizio (il modello è quello televisivo -– non sono rari gli studenti che non sono mai stati o quasi a teatro o a un concerto che non sia rock – e la tipologia “velina” è arrivata anche da noi). Questa evoluzione è molto indicativa del ruolo dello spettacolo dal vivo nella nostra società. Ora, ci sono eccezioni, certo (si lavora con passione per loro), e io non credo affatto che per occuparsi di spettacolo occorra un sacro fuoco, ma se sta ai docenti alimentare in corso d’’opera motivazioni autentiche, le selezioni sono davvero fondamentali: devono garantire un’’articolata formazione di base e verificare almeno quella “curiosità” di fondo (e le attitudini nei corsi professionali) senza cui l’’insegnamento è dispersione di energie.

L’’insieme delle imprese (e delle attività). In che misura, e quale tipologia di giovani organizzatori richiede il sistema? Ci sono state ricerche e altri potranno dare elementi più obiettivi dei miei. Ma al di là dei probabili riscontri positivi sul piano quantitativo, e delle tipologie e specializzazioni che potremmo descrivere come le più richieste, resta molto grave il problema dell’’inquadramento, della precarietà, dei compensi vergognosi, della sottoccupazione.
Il sistema teatrale e musicale non richiede nei fatti gli elementi qualificati che noi vorremmo fornirgli (e in parte forniamo), non certo perché non ne abbia bisogno. E’’ UNO dei problemi del mancato rinnovamento del settore e ha a che vedere con la sua povertà cronica, ma anche con tradizioni operative e malcostumi radicati, con la mentalità assistenzialistica, con i condizionamenti politici, con una –- incredibile ma diffusa – percezione culturale non professionale della specificità organizzativa (anche in ambienti professionistico). Succede così sempre più spesso che l’impatto dei nostri studenti con la professione sia avvilente e che eviti la frustrazione solo chi ha attitudini imprenditoriali (e magari fortuna) e rischia in proprio, o con altri, o con giovani gruppi (non è raro che giovani compagnie siano infatti meglio organizzate, decisamente più dinamiche, di realtà consolidate). Ma una cosa balza agli occhi e dovremmo spiegarci questa contraddizione: la crescita e l’’articolazione della formazione non ha determinato una qualificazione organizzativa del sistema dello spettacolo nel suo complesso. Anzi. Il suo degrado è vistoso e progressivo. Attraverso la formazione si può agire sulla realtà del teatro? E come?

3) Gli enti locali
Sono i principali promotori e organizzatori di spettacolo, e esprimono in quanto tali una domanda di competenze professionali e tecniche. Inoltre: competono alle Regioni forme di sostegno e “controllo” dei progetti formativi? intendo della qualità e della specificità dei corsi e soprattutto del rapporto con la ricettività occupazionale a livello territoriale. Penso di si. Potranno anche farsi promotori del coordinamento nazionale di cui sottolineavo la necessità. Dovrebbero inoltre sostenere la ricerca: penso alla ipotizzata diffusione degli osservatori, ma anche ai margini e ai tempi per la ricerca che si dovrebbero trovare all’’interno delle Università e delle centrali formative più qualificate.
Ma quello che mi sentirei di raccomandare in particolare, tornando al punto precedente, è una vigilanza sulla professionalità organizzativa almeno a livello dei soggetti pubblici, o riconosciuti e finanziati. Le Regioni dovrebbero indirettamente -ma anche con incentivi diretti – favorire l’’assorbimento dei quadri che i corsi dalle stesse sostenuti andranno a formare. Tanto più che il rapporto e la conoscenza del territorio si dimostra sempre più una competenza importante per l’’organizzatore di spettacolo.

4) Per concludere due parole sulla Paolo Grassi di Milano. Vorrei sintetizzare i punti di forza della sua impostazione, non troppo diversa da quella teorizzata da Giorgio Guazzotti quasi quarant’anni fa (vedi in proposito il libro dedicato a Giorgio Guazzotti, curato da Franco Ferrari, e il capitolo che ho curato):
– pochi studenti, tempo pieno, biennalità;
– un rapporto molto stretto con le pratiche del teatro (a livello di produzione, distribuzione/diffusione e esercizio);
– docenti prevalentemente attivi nell’’organizzazione dello spettacolo, ma impegnati per un numero di ore tali da consentire un rapporto stretto e non anonimo con gli studenti;
– una cura particolare nel scegliere e monitorare gli stages (con attenzione anche alle nuove aree del sistema e agli sbocchi occupazionali);
– un contesto che ospita anche corsi per registi, attori, tecnici, drammaturghi, che favorisce quindi il confronto e la “convivenza” con le diverse componenti del teatro.

Un’’evoluzione degli ultimi anni riguarda inoltre:

– ricerche di gruppo su temi legati alle trasformazioni organizzative del teatro, che sostituiscono le tesi individuali conclusive;
– i seminari specialistici -– a volte aperti all’’esterno – che caratterizzano il secondo anno.
Tutto questo sulla base di una precisa linea didattica ed “etica”: “sulla conoscenza teorica e pratica del fare teatro in Italia, si innesta la consapevolezza della funzione pubblica e della dimensione economica del teatro, presupposto per la formazione di un operatore critico, aperto al confronto con altri sistemi”. Se questa linea per qualche anno è parsa superata -– proprio in rapporto all’introduzione di nuove discipline e specializzazioni apparentemente distanti dal teatro reale – sulla distanza mi sembra ancora sostanzialmente efficace.

Milano, 5 settembre 2006

Mimma_Gallina

2006-09-18T00:00:00




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