L’ultima cena di Annibale Ruccello

Note di regia

Pubblicato il 14/11/2006 / di / ateatro n. 103

Mangiare la solitudine.
Parlare al silenzio degli altri.
Pulire la vita dalle impurità del mondo.
Pretendere la felicità e perdersi nel delirante desiderio di possederla.

Anna Cappelli è un monologo per attrice.
E’ l’ultimo testo di Annibale Ruccello ed è l’unico scritto in italiano.
Alla sua prima lettura mi colpisce la scarsità e la genericità delle didascalie.
Una prima didascalia introduce la vicenda:

“L’azione si svolge in Italia. Negli anni ’60”(1).

Sette didascalie inquadrano le altrettante scene di cui è composto il monologo:

“Scena I – ANNA (seduta a un tavolo, mangiando pasta e piselli)”(2)
“Scena II – ANNA (a un tavolo d’ufficio)”(3)
“Scena III – ANNA (in strada con impermeabile foulard e ombrello)”(4)
“Scena IV – ANNA (facendo una valigia)”(5)
“Scena V – ANNA (a letto con i bigodini)”(6)
“Scena VI – ANNA (seduta al tavolo della cucina”(7)
“Scena VII – ANNA (seduta, rivolgendosi a qualcuno sul letto)”(8)

Alla fine delle prime sei scene si legge per sei volte una identica didascalia:

“Stacco musicale”(9)

La conclusione della settima scena (ed anche del testo) manca di indicazioni, anche di quella musicale.

Il resto consiste in parole da dire.

Eppure Ruccello negli altri suoi testi teatrali è prodigo di indicazioni.
Da Le cinque rose di Jennifer (in cui anche gli interventi musicali sono precisati, come d’altra parte avviene in Notturno di donna con ospiti e in Week-end) fino a Ferdinando leggiamo lunghissime didascalie relative alla scena, ai personaggi, alle loro azioni e al loro stato d’animo.
Solo in Mamma – Piccole tragedie minimali, penultimo testo di Ruccello (del 1986 come Anna Cappelli, ma di qualche mese precedente) le didascalie si ridimensionano sia nella quantità che nella lunghezza, ma consentono, comunque, un qualche orientamento.

Le poche didascalie di Anna Cappelli sono tuttavia esplicite nell’indicare variazioni di luogo: da una cucina si passa ad un ufficio, poi si scende in strada, poi si torna in casa, si va in camera da letto, poi di nuovo in una cucina, infine ancora in camera da letto; nelle ultime tre scene, questo si evince da quanto viene detto da Anna e non dalle didascalie, Anna cambia anche casa, per cui la cucina della sesta scena non è quella della prima.
Ogni scena, inoltre, anche questo si ricava dalle battute della protagonista e non dalle didascalie, è contestualizzata in momenti diversi:

I scena – appena prima delle vacanze estive, che durano un mese;
II scena – subito dopo le vacanze estive;
III scena – dopo sei mesi dalla seconda;
IV scena – dopo 1 anno dalla terza;
V scena – dopo sette mesi dalla quarta;
VI scena – dopo 17 mesi dalla quinta;
VII scena – dopo 2 giorni dalla sesta.

L’ intera vicenda, dunque, si svolge in un arco di tempo lungo quasi quattro anni (più precisamente 3 anni, 9 mesi e 2 giorni).

Eppure, riguardo a tutti questi mutamenti spazio-temporali, c’è qualcosa che non mi convince.
Fin da subito Anna Cappelli mi lascia dubbi, da cui, nei miei approfondimenti successivi, non riesco a liberarmi: io non sono sicura che le variazioni di luogo e di tempo siano reali.

Mi colpisce anche una forte analogia tra la prima e l’ultima scena.
In esse il tema del cibo diventa fondamentale: si comincia mangiando un piatto di pasta e si finisce con l’intenzione di divorare il corpo dell’uomo che si ama, dopo averlo ucciso.
E poi c’è il tema delle ferie, evocato, sia nell’ultima che nella prima scena, come una sorta di ‘sospensione’ dalla vita.
E ancora il tema della partenza: “tornare a Orvieto” nella prima scena – “fare un viaggio” nell’ultima; insomma, sognare l’ altrove per dimenticare dove si sta.
Ma il viaggio dell’ultima scena consiste nel cucinare il corpo dell’amato in modi sempre diversi e con sempre diverse spezie, recandosi, insieme a lui, da un manicaretto all’altro, e utilizzando come carta geografica un libro di ricette internazionali, comprato per l’occasione.

Così si parte restando dove si sta.

… Forse, allora, le pareti di una cucina possono rimanere per tutto il tempo i confini dello spazio scenico, forse…

Nonostante le didascalie, scelgo l’ unità di luogo.

Provo a creare una condizione claustrofobica che è caratteristica frequente in Ruccello.
Nello spazio scenico si può entrare ma dallo spazio scenico non si può più uscire.
L’ unica stanza in cui agisce Anna Cappelli diventa un luogo mentale in cui consumare il delirio della solitudine, che non consente più di distinguere la cosa reale da quella immaginata.
Molte donne di Annibale Ruccello vivono una situazione simile: masticano pensieri e vomitano i loro fantasmi, ai quali finiscono con l’attribuire una consistenza credibile.

… Ma, allora, forse, Anna immagina tutto mentre per l’ennesima volta, tornata da lavoro, si ritrova sola davanti ad un tavolo di cucina, forse…
… Forse non c’è nessuna padrona di casa con cui litigare e forse non c’è nessun uomo da amare, forse…
… E forse, la durata della storia non è più lunga di quella necessaria a mangiare un piatto di pasta, forse …

Nonostante le parole di Anna, scelgo l’ unità di tempo.

E decido per una struttura circolare dello spettacolo che proponga una coincidenza dell’inizio con la fine: nella I e nella VII scena si dicono parole diverse ma il montaggio delle azioni è per me necessario che sia rigorosamente identico; così tra il primo e il settimo quadro avvengono cose che, alla luce di quella rigida identità, perdono la credibilità del reale per assumere la più sottile consistenza di un pensiero.

Quando un personaggio fa finta di parlare ad un secondo personaggio assente, lo spettatore, per convenzione, sta al gioco e, a sua volta, immagina l’interlocutore, facendo finta di credere alla sua presenza.
Niente di più ovvio.

In Anna Cappelli può succedere questo; ma può anche (…forse deve anche) accadere che, invece, s’insinui il dubbio che la protagonista sia e resti davvero sola per tutto il tempo.
Quelle scarse e generiche didascalie del testo aumentano l’ambiguità e, sottraendo definizione, contribuiscono a rendere astratto il contesto (troppo astratto per essere verosimile).
Così nasce il disorientamento.

Insinuare il dubbio, mettere in scena il disorientamento: le incertezze che ho avuto leggendo Anna Cappelli, ho cercato di consegnarle intatte allo spettatore.

Non potevo fare altro: per un atto di onestà verso il pubblico e per un atto di fedeltà verso il ‘mistero’ del testo.
Non volevo fare altro: perché credo che sia meglio uscire da teatro con una domanda anziché con dieci risposte.

Note
1 – Annibale Ruccello, Anna Cappelli, in Teatro, Ubulibri, Milano 2005, p. 107
2 – ibidem
3 – ivi, p. 108
4 – ivi, p. 109
5 – ivi, p. 110
6 – ivi, p. 111
7 – ivi, p. 112
8 – ivi, p. 113
9 – ivi, pp. 108, 109, 110, 111, 112, 113

Natalia_Antonioli

2006-11-14T00:00:00




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