Priorità e scelte del teatro educativo

Dal Sud est asiatico molte stimolanti proposte

Pubblicato il 06/10/2008 / di / ateatro n. 118

(da “Teatri delle diversità” n. 46/47, ottobre 2008)

La follia, ricordando i trenta anni della legge Basaglia, il teatro in carcere e autorevoli appelli contro il razzismo, sono i temi principali a cui è dedicato il numero doppio 46/47 di “Teatri delle diversità”.
Sulla follia un articolato panorama di opere teatrali di Laura Calebasso e di film a cura di Angelica Tosoni e interventi di Gianni Tibaldi, Giuliano Scabia, Peppe Dell’Acqua, Vittorio Orsenigo.
Sul carcere, cronache di due Convegni (a Firenze e a Milano) e di spettacoli e un’intervista a Rick Cluckey. Sul razzismo testi di Padre Alex Zanotelli e di Annet Henneman.
Di sei donne ci si occupa in particolare: si parla di Franca Rame e della sua nuova vita, della poesia di Alda Merini, del Dante al femminile di Lucilla Giagnoni e della scomparsa di Teresa Pomodoro e di Mina Mezzadri.
Anche Leo De Berardinis viene ricordato con scritti di Claudio Meldolesi ed Elena Bucci. E di Sabina Guidotti si pubblica un inquietante testo inedito dedicato a Giuda: “Traditore o capro espiatorio?”, si chiede l’autrice.
Va anche segnalato un polemico e documentato saggio di Vito Minoia che indica la strada per nuovi metodi educativi che provengono dal sud est asiatico e in particolare dalla Cambogia.

Dal Festival cambogiano delle arti inclusive alla Conferenza dell’Unesco in novembre a Ginevra emergono le indicazioni per il futuro che deve puntare sulla concreta solidarietà

di Vito Minoia

Una rivista come “Teatri delle diversità” non può non esprimere il proprio punto di vista sul pessimismo che pervade alcuni ambienti della cultura di sinistra dopo le recenti elezioni politiche italiane che hanno visto il trionfo di una cultura neoliberista poco attenta a quelle fasce, in vario modo marginali, spesso escluse dal discorso comune.
E intende farlo sottolineando ancora una volta l’importanza e l’evidenza dello sviluppo di una cultura dell’inclusione sociale non ingabbiata in logiche regionali o nazionali. Non si tratta di filantropismo o di nobile testimonianza, ma di un modus operandi che trova la sua ragion d’essere in una vera e propria visione di carattere educativo. E, per fare ciò, deve superare quella che, citando Pasolini, potremmo definire società della “chiacchiera”. Tutto è diventato effimero e l’informazione mediatica, gestita ad arte, ‘sbriciola’ temi, contenuti e passioni, ormai con un ritmo bruciante.
E’ necessario un ‘esercizio di spirito’, possibile solo uscendo fuori dal chiacchiericcio quotidiano dei temi e degli argomenti preferiti dai mezzi di comunicazione di massa (che molte iniziative di informazione sociale farebbero meglio a non imitare) guardandosi dentro e soprattutto ‘guardandosi negli occhi’, ripersonalizzando i rapporti.
In questo numero ci occupiamo di questioni estetiche relative alle modalità del fare teatro in carcere o con persone con disagio psichico che ri-costruiscono attraverso un processo di autoconsapevolezza la propria identità, trattiamo del teatro che riesce a farci indignare di fronte a fenomeni come la camorra, la ‘ndrangheta’ o le spregevoli ingiustizie a danno di chi chiede di essere riconosciuto ‘rifugiato politico’, provenendo da Paesi retti da regimi autoritari. In questo articolo ci occupiamo anche di teatro asiatico. Lo facciamo a partire da un evento organizzato a Phnom Penh, in Cambogia, dal 23 febbraio al primo marzo scorso. “Spotlight” è il titolo dell’iniziativa: si tratta del primo festival asiatico delle ‘arti inclusive’. Hanno partecipato all’evento, prodotto dall’associazione Epic Arts e sostenuto dalla Nippon Foundation, circa 300 artisti, prevalentemente cambogiani (da Kim Sathia/danza, Kung Nai /musica, BHOR e Amrita Performing Arti/teatro), e da altri Paesi (Together Higher/danza/Vietnam, the Koshu Rao Taiko/ percussioni/Giappone), HITOMI/marionette/Giappone, Chng Soek Tin/Arti Visive/Singapore). Attraverso numerosi workshops, obiettivo del Festival è stato quello di valorizzare differenti tipi di espressione creativa in persone con abilità differenti.
Perché proprio in Cambogia? Qui una persona ogni 250 è disabile. In particolare si tratta di bambini o adolescenti vittime di migliaia di mine disseminate in una vasta area del Paese (una trentina di nuovi episodi al mese). La Regione, martoriata in passato da guerre e conflitti, anche interni (a Phnom Penh, uno dei luoghi più visitati, è il Toul Sleng, il Museo del Genocidio, per ricordare gli orrori della feroce dittatura del regime di Pol Pot) ha però una gran voglia di crescere e rivivere. Il sorriso di benvenuto ed una buona disponibilità alla relazione sono impressi sul viso della gran parte della popolazione costituita per il 40% da adolescenti sotto i 14 anni. Se aggiungiamo i tantissimi casi di malattia provocata da una estesa povertà sociale e i crescenti incidenti sul lavoro, comprendiamo il perché la convivenza con la disabilità qui sia vissuta comunemente. E’ accolta come un ‘karma negativo’. Le ‘arti inclusive’, in questa direzione, offrono un aiuto educativo-formativo per il superamento di discriminazioni nei confronti delle persone disabili. Nella capitale cambogiana si respira il rifiorire di una certa vitalità artistica dovuta al recupero di tradizioni espressive (musica e danza) vietatissime sotto il regime dei khmer rossi (è particolarmente noto il caso del musicista non vedente Kong Nai che è riuscito a preservare le sonorità del chapey (uno strumento a corda con collo lungo e aggraziato, suonato come un banjo crea un contrappunto ripetitivo per poemi o canzoni improvvisate): rischiavano di essere perdute per sempre. In città già da diversi anni operano esperienze come quella della Compagnia Sovanna Puhm (con attività basata sul recupero del teatro d’ombre di tradizione) o di Phare Ponleu Selpak (con attività di circo, musica, arti grafiche) che sono riuscite a strappare a un tragico destino centinaia di ragazzi di strada abbandonati.
Eppure un futuro molto incerto rischia di abbattersi sul Paese e quindi su tutte queste interessanti ‘esperienze di frontiera’, che riconosciamo come veri agenti di cambiamento socio culturale. Un clima di crescente benessere, che si respira per le strade di una pur non ancora occidentalizzata Phnom Penh, anziché dispensare una maggiore uguaglianza sociale, sta producendo nuova povertà e nuove fasce di marginalità sociale. Una dilagante corruzione sta trasformando una Nazione ricca di tradizioni millenarie in un Paese in vendita in mano a speculatori stranieri [1].
Anche qui si assiste alle conseguenze (in questo caso a dir poco ‘estreme’) di una concezione economicista e neoliberista della società.
Torniamo a dire che esiste un problema, che è di fondo e che deve essere affrontato sul piano educativo, innanzitutto. Le alternative sono possibili in Cambogia, come in Italia. Si tratta di operare delle scelte.
Se sviluppassimo un’analisi parallela sul piano della concezione pubblica dell’educazione in due sedi differenti come possono essere quella della Banca Mondiale (espressione di quella concezione neoliberista che non condividiamo) e quella dell’UNESCO (espressione dell’educazione della scienza e della cultura in termini maggiormente solidaristici) ci imbatteremmo nello stesso dilemma. Recentemente Mariangela Vigotti e Mariano Dolci, mettendo in luce rischiose analogie di deriva economicista, con quanto sta accadendo alla scuola e all’Università in Italia hanno tradotto dal catalano un libretto illuminante (contiamo di divulgarlo ulteriormente anche attraverso le pagine di questa rivista) di Miquel Soler Roca [2]. L’autore, un maestro ormai in pensione da molti anni, rilegge criticamente due documenti: Priorità e strategie dell’educazione, l’esame della Banca Mondiale del 1994 e L’educazione racchiude un tesoro (1996) redatta da una Commissione UNESCO presieduta da Jacques Delors e ne evince “due visioni decisamente antagoniste dell’educazione”.
Un teatro educativo e sociale, dal nostro punto di vista, non può essere avulso da istanze di carattere solidaristico e da una concezione della persona come essere sociale e non come elemento produttivo votato al rendimento.
In questa prospettiva Paesi ricchi continuano a sottomettere ulteriormente Paesi in via di sviluppo, con meccanismi che inducono questi ultimi a contrarre ingenti debiti e a subire condanne alla miseria, fame ed esclusione sociale di buona parte della propria popolazione. Ci piace a questo riguardo citare, dal saggio di Soler Roca, un passo della Commissione Delors che condividiamo:

“I Paesi ricchi non possono ignorare l’imperiosa esigenza di una solidarietà internazionale attiva per garantire il futuro comune attraverso un progressivo raggiungimento di un mondo più giusto.. aiutare a trasformare una interdipendenza di fatto in una solidarietà desiderata è uno degli obiettivi essenziali dell’educazione”.

E’ in questa idea di educazione che si riflettono e prendono vita le esperienze dei Teatri delle diversità che auspichiamo.
Un esempio? Non vogliamo riportare nomi di artisti o gruppi teatrali professionali troppo spesso identificati come punti di riferimento di un “nuovo teatro” (a volte autoreferenziali perchè ricattati dalla necessità di emergere per sopravvivere attraverso logiche assistenziali o di mercato).
Per rimanere in Cambogia, o maggiormente ancorati al piano educativo, possiamo citare l’esperienza di quattro giovani illustratori francesi. Chan, (di origine khmer, rifugiatosi con la sua famiglia a Lione per sfuggire alla guerra civile nel 1980 quando aveva sei anni), Lucie, Lisa e Sylvain, mettono a punto un progetto educativo di “teatro illustrato” (Lakhorn Kou in lingua khmer) rivolto ai bambini cambogiani audiolesi [3].
Un secondo esempio? I progetti teatrali di Gian Maie Zabrè , ospite il 25 ottobre al Convegno di Cartoceto su “I teatri delle diversità” e della Compagnia “La Parole” di Ouagadougou (Burkina Faso) impegnati con l’utilizzo del teatro in campagne di prevenzione dell’AIDS [4].
E a chi continua ad essere indignato dopo aver seguito l’’ennesimo notiziario radio-televisivo (ormai anche la gran parte dell’ informazione giornalistica in internet si sta adeguando alle ben artefatte procedure d’ipnosi mediatica) consigliamo la lettura di una delle poche voci autorevoli che continuano a farci credere nella possibilità di un cambiamento ‘solidaristico’. Si tratta dell’economista francese Serge Latouche (tratteremo nel prossimo numero della rivista in modo più ampio il lavoro dell’accademico all’Università di Parigi-Sud) che ha recentemente scritto un Breve trattato sulla decrescita serena [5], indicando, controcorrente, come “produrre meno e consumare meno” siano l’unico modo per evitare una catastrofe ecologica e umana.
Chiudiamo, in modo positivo, ricordando che l’UNESCO si accinge a celebrare (i preparativi fervono già da due anni) a Ginevra (dal 25 al 28 novembre) la quarantottesima sessione della Conferenza Internazionale sull’Educazione dal titolo: Educazione Inclusiva: la strada del futuro. Evviva, un po’ di ottimismo!

NOTE AL TESTO

(1) Rinvio alle pagine del dettagliatissimo reportage curato da Adrian Levy e Cathy Scott Clark del Britannico “The Guardian”, ripubblicate in Italia nel numero 759 del settimanale “Internazionale” del 29 agosto scorso.
(2) Due visioni antagoniste della educazione, pubblicato nel 1998 dal Centro Unesco de Catalunya. La versione originale in lingua castigliana era stata pubblicata nella rivista “Voces”, dell’Associazione Educatori dell’America Latina e del Carybe (Montevideo, dicembre 1997).
(3) Si veda la recente traduzione italiana di Sept mois au Cambodge (Sette mesi in Cambogia, FBE edizioni, Rodengo Saiano, Brescia, 2007) a documentazione del progetto.
(4) Si veda l’articolo Nel Paese più povero del mondo, molte ricche idee di Mariano Dolci nel numero 45 di “Teatri delle diversità”, aprile 2008.
(5) Traduzione italiana pubblicata da Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

Vito_Minoia

2008-10-06T00:00:00




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