La parola rimediata

Una anticipazione da Una drammaturgia multimediale di Andrea Balzola

Pubblicato il 12/03/2009 / di / ateatro n. 120

E’ in libreria Una drammaturgia multimediale. Testi teatrali e immagini per una nuova scena di Andrea Balzola, pubblicato da Editoria & Spettacolo Qui di seguito, in anteprima per www.ateatro.it, l’indice del volume e il saggio di Oliviero Ponte di Pino.

L’INDICE

Cronistoria di un viaggio drammaturgico sulle frontiere fra scena teatrale e scena virtuale di Andrea Balzola
Il tecno-teatro impuro di Andrea di Nico Garrone
La parola rimediata di Oliviero Ponte di Pino
La creazione di una nuova (bio)drammaturgia di Anna Maria Monteverdi

Testi e immagini
Con tatto 1990
Democrazia (Lia e Rachele) 1995
La fattoria degli anormali 2005
I racconti del Mandala 1998-2007
Galileo all’Inferno 2006-2008

Schede dei testi teatrali non pubblicati (con immagini)
La stanza delle stanze sulla nave di pietra 1989
Il dolore (da Marguerite Duras) 1997
Mitomania 1999-2004
L’isola che c’è. Viaggio dentro casa. 2007
Le voci del vulcano (la torre di Hoelderlin) 2007

Cronologia rappresentazioni, segnalazioni, premi

Ci sono vari modi per affrontare la lettura della “drammaturgia multimediale” di Andrea Balzola. Una sola chiave di interpretazione non basta, perché sono testi assai diversi per tono taglio e stile, ma anche per commissioni e destinatari.
Per cominciare, le commissioni. Il lavoro sul Dolore di Marguerite Duras nasce su richiesta di un’attrice come Marisa Fabbri. Con tatto per accompagnare le coreografie di Natalia Casorati. Galileo viene realizzato con Studio Azzurro in vista di uno spettacolo di teatro-danza in Germania. I viaggi di Gulliver e L’Isola che c’è sono frutto dei laboratori gestiti dalla regista Alessandra Panelli con i pazienti del Centro di Salute Mentale di un’ASL romana.
Questa varietà di committenti implica una disponibilità e una versatilità, che si traducono nella forma stessa dei testi, che possono assumere la struttura del dramma tradizionale, oppure ridursi al dialogo o al monologo, ma spesso si spingono verso altre direzioni: il collage di frammenti, l’ipertesto, ma anche forme sperimentali di multimedialità e intermedialità (con inserti di sceneggiature video e la possibilità di trasposizione in fumetto e cartone animato), la pièce didattica, il racconto biografico. Da questo punto di vista, quella di Balzola è una scrittura di servizio, che risponde a specifiche esigenze produttive e spettacolari, in base alle circostanze (e naturalmente questo rende più difficile l’identificazione di una poetica). La libertà e la varietà formale di questi testi è dunque il frutto di una necessità, determinata di volta in volta anche nel lavoro di palcoscenico. Al tempo stesso è il frutto di una situazione che privilegia l’evento teatrale rispetto alla scrittura, la creazione collettiva rispetto alla creatività individuale.
Una seconda lettura potrebbe concentrarsi sui contenuti: quello che questi testi ci raccontano e ci vogliono dire. Spesso sono nati come reazione all’attualità, tra cronaca e politica. La stanza delle stanze sulla nave di pietra nasce nel 1989 sull’onda dell’indignazione per “il primo africano ucciso in Italia per razzismo”. Democrazia, “metafora delle vicissitudini e della contraddizioni della storia della democrazia italiana”, viene scritto nel 1995 come una nota in margine alla riflessione di Bobbio. La fattoria degli anormali (2005) affronta il tema delle manipolazioni genetiche. Ma ci si avvicina anche alla divulgazione, per esplorare e raccontare figure come Galileo (2006) oppure Hölderlin (2007).
E qui si nasconde un doppio paradosso. Perché questa vocazione civile e pedagogica presuppone ovviamente una totale fiducia nella parola e nella capacità e volontà di comprensione del pubblico, che pare contrastare con la natura “servile” di questi testi. Oltretutto – secondo paradosso – questi testi sembrano trovare le loro motivazioni più profonde fuori dalla scrittura: nella politica o nell’etica (andrebbe anche notato che è dunque un teatro più di idee che di affetti e sentimenti.)
La terza potrebbe essere una chiave interpretativa sociologico-antropologica. Si tratta di concentrare la lettura sulla presenza in scena delle nuove tecnologie della comunicazione e dei loro strumenti: la tv, il video, i telefonini, le chat line erotiche, eccetera. Scritti nella fase in cui questi nuovi organi elettronici si affacciavano alla scena del reale, questi testi ne hanno registrato la presenza nel nostro paesaggio quotidiano, ne hanno mappato l’uso, ne hanno sperimentato le potenzialità di personaggio e di maschera: esemplare in questo senso il duetto di Democrazia, con un’attrice in carne e ossa che dialoga con il suo doppio in video. Perché queste “protesi elettroniche” fanno ormai parte delle mediazioni e delle maschere con cui noi stessi ci offriamo agli altri nella nostra quotidianità – nel reality show della nostra esistenza – e con frequenza sempre maggiore.
Un’ulteriore modalità di lettura, legata a questa, potrebbe invece dedicarsi a immaginare gli spettacoli che questi testi possono generare. Perché, va sottolineato, nei testi di Balzola i nuovi media non sono una mera presenza scenografica (come i fondali video che spesso compaiono in scena quasi a sostituire gli antichi fondali dipinti), ma assumono una precisa funzione drammaturgica, in dialettica con gli interpreti e con il pubblico, fino a esplorare varie forme di interattività e diventando essi stessi personaggi. In particolare, si tratterebbe di leggere immaginando e inventando i possibili allestimenti che possono utilizzare i nuovi media evocati nelle didascalie. Perché il margine di libertà è assai ampio. Basti pensare a Storie mandaliche/I racconti del Mandala. Nella prima versione di Storie mandaliche (protagonista il cybernarratore Giacomo Verde), il testo di Andrea Balzola era in effetti un ipertesto, con una serie di trame intrecciate, parallele, biforcate. Lo spettacolo era costruito in forma di narrazione proprio partendo da questa caratteristica: ai successivi bivi drammaturgici, il narratore poteva scegliere di imboccare uno dei diversi cammini possibili; a scegliere la strada poteva essere a volte anche il pubblico, opportunamente interpellato. In una seconda versione (protagonista Francesca Della Monica), I racconti del Mandala, il testo si riduceva invece alla sua essenza di favola iniziatica, ricca di risonanze mitiche che attingono la loro energia archetipica dalla psicologia del profondo. In questa seconda versione l’andamento della fabula (una tra le infinite possibili storie dell’ipertesto originario) era assai più lineare, centrato sulla più classica delle storie d’amore. Attingendo a queste due strutture drammaturgiche, si sono condensati due spettacoli molto diversi, seppur accomunati dalla presenza di un unico interprete sulla scena e dalla presenza di uno schermo (e su quello schermi di immagini in diverso modo gestite dall’interprete): nel primo caso, per esempio, lo spazio sembrava tendere al ring, o alla pista da circo; nel secondo l’impatto era necessariamente frontale.
Sappiamo da sempre che partendo dallo stesso testo possono essere ricavati spettacoli assai diversi tra loro, con enormi margini di libertà. Ed è altrettanto banale notare che il rapporto tra testo e spettacolo, tra la parola e il gesto, è uno degli elementi più complessi della pratica teatrale (e dunque anche della storia del teatro). A renderlo ancora più ricco di implicazioni è l’uso della maschera, il primo accessorio dell’attore. Come prevedibile, l’impatto delle tecnologie digitali può aprire a nuovi ordini di complessità, e arricchire il termine stesso di maschera con ulteriori significati.
Nei Racconti del Mandala, l’attrice con il movimento delle dita, della mano e del braccio gestisce per esempio, in alcuni momenti, le manipolazioni elettroniche della voce, lo zoom dell’immagine (il coccodrillo sullo schermo che s’avvicina e s’allontana) o il movimento del personaggio (lo schermo ci porta nelle complessità di un labirinto da videogame: in quella scena lo spettatore assume il punto di vista del personaggio). Non si tratta di un comando on-off (che fa comparire e scomparire un effetto un’immagine, un suono), ma di un meccanismo in grado di gestire anche dissolvenze e assolvenze incrociate. Grazie a questi comandi, l’intera scena diventa una sorta di maschera per l’attrice: inutile ricordare che uno dei primi effetti della maschera è una diversa sonorità della voce, e dunque permette di gestire lo spazio attraverso il suono; inoltre, limitando alcune possibilità espressive dell’attore, ne amplifica inevitabilmente altre. La scena nel suo insieme spaziale e sonoro diventa dunque una sorta di prolungamento del corpo, e lo spettacolo un’opera d’arte totale dove gesto, suono e spazio-tempo vengono gestiti unitariamente dall’attore.
Il gesto attoriale assume dunque al tempo stesso un valore fisico (la danza del corpo nello spazio); un valore psicologico (l’espressione di un sentimento); un valore di didascalia; un valore registico, con effetto immediato e “reale” (la gestione dello spazio e dei segni visivi e sonori che lo abitano); un valore di segno (il codice che si crea mentre l’attore gestisce l’apparato). Dal punto di vista pratico, artifici di questo genere hanno l’effetto di dare maggiore liveness a materiali visivi e sonori preregistrati: se il teatro è il “qui e ora”, questo porta a una maggiore teatralizzazione di materiali tecnicamente mediati. Si attenua così l’ormai classica discrasia tra i due tempi, quello flessibile e interattivo dell’evento spettacolare dal vivo, e quello rigidamente predeterminato del materiale audio e video preregistrato.
E’ anche ovvio che questo apparato richiede una superiore abilità (e un gigantesco sforzo d’attenzione) da parte dell’interprete, e al tempo stesso gli affida responsabilità ancora maggiori: non gestisce più solo e soltanto il proprio corpo e la propria voce (e i pochi oggetti con cui entra in contatto), ma l’intero spazio fisico e sonoro.

Per un drammaturgo, per un attore, per un regista, sono sfide affascinanti, che obbligano a muoversi in terreni inesplorati. In questo, il lavoro di Balzola rientra appieno nell’area della sperimentazione, meglio in quell’aspetto della sperimentazione che consiste nell’esplorare le potenzialità linguistiche ed estetiche delle nuove tecnologie. Oltretutto la crescente familiarità con le nuove tecnologie rende lo spettatore sempre più simile al “tecnoattore”, e rende così praticabili nuove forme di interattività e coinvolgimento.
Una quinta – e per ora ultima – lettura dei testi di Andrea Balzola dovrebbe concentrarsi sul ruolo della parola. O meglio, sulla fede nella parola che è il paradossale presupposto di tutto questo lavoro. In un’era che pare irresistibilmente dominata dal visuale e soprattutto da un visuale virtuale, mediatizzato da schermi video e di computer, Andrea Balzola ha continuato a tessere le sue trame verbali.
L’uso di macchine sceniche complesse evoca il deus ex machina del teatro antico e l’enkuklema: l’apparato che, quanto l’intrico della tragedia pareva ormai avviata verso l’inevitabile catastrofe, permetteva l’apparizione magica della divinità che salvava l’eroe. Nella vita contemporanea si sprecano le macchine che offrono il miracolo della comunicazione “qui e ora” “tutto intorno a te”: e tuttavia non è da lì – da queste attrezzerie – che possiamo attenderci di ritrovare la pienezza del senso. Che può arrivare, sembra suggerire l’attività di Balzola, solo dalla parola. Da quella parola che questi testi ostinatamente tessono, spesso su richiesta altrui e destinate a contesti dove la parola non parrebbe centrale, come spettacoli di danza, laboratori di teatro sociale o a limite videoinstallazioni.
In un certo senso, questi testi si pongono al centro di una serie di sfide: tra la parola e l’immagine tra la parola e il corpo, tra la presenza reale e la presenza mediata, tra la parola incarnata e la parola disincarnata… Fino a giocare – estremo paradosso – sulla precisione assoluta (e in realtà impossibile) della parola scientifica (evocata dalla figura di Galileo) e sull’indicibile, sull’impossibilità di esaurirne il senso, sull’eccesso di significati che si ribalta nel vuoto della follia (evocata attraverso Hölderlin e i suoi deliri).
Dunque quella che avrebbe potuto apparire una funzione di servizio, una scrittura che nasce quasi per riempire i vuoti della comunicazione multimediale, assume un ruolo centrale di sfida e di testimonianza: per testimoniare la fiducia nella possibilità di trasmettere un messaggio e la necessità del dialogo. Tra gli esseri umani, naturalmente, ma anche tra le diverse forme di espressione e comunicazione. In questo la scena teatrale, con la sua possibilità di appropriarsi di contenuti, idee, esperienze, strumenti, arti, media, e di metterli in rapporto con un pubblico “vivo”, offre una insostituibile arena di sperimentazione e di verifica. Ecco, questi testi rappresentano altrettante riprese – sul ring teatrale – di uno scontro che ricomincia ogni volta daccapo ma che trova profonde radici nel passato. Che proprio nell’apparente debolezza della parola cerca la sua forza.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2009-03-12T00:00:00




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