La strada di Pacha

Appunti per un teatro dello spettatore

Pubblicato il 07/11/2009 / di / ateatro n. 124

La mia storia teatrale comincia da spettatore, a Milano. Ritagliavo tempi alla scuola, al liceo, alle riunioni politiche incessanti, per andare a trovare un oggetto misterioso.
Il teatro a cui più andavo si chiamava Teatro Uomo, ospitato in un teatrino parrocchiale. Teatro Uomo, e davvero in me e in tanti ragazzi fedelissimi alle sgangherate e scomodissime sedie di legno, da vecchio cinema, c’era l’impressione di entrare nel territorio dell’umano. Il teatro serviva a capire chi eravamo, chi avremmo potuto essere, quale idea di uomo c’era da ricercare, da esplorare. Ci conoscevamo benissimo nell’azione, nella pratica politica, nei picchetti e nei volantinaggi, in tutto quello che era aperto, esposto, politico. Armati di megafono, a sedici-diciotto anni, ci eravamo imposti di sapere parlare nelle assemblee, nelle palestre, dietro le cattedre delle aule universitarie occupate. Dentro di noi un batticuore, un batticuore fortissimo da attore in quinta, fuori la decisione e l’ostentata capacità organizzativa.
Ma il teatro era un’altra cosa. Il teatro ci parlava di radice profonda, faceva sfolgorare il passato come monito, come suggerimento. Lì, in quel teatro, ho ascoltato Majakovski e Brecht, molto Ruzante, un Molière di sfuggita, Wedekind, Jarry. Ricordi straordinari di Carlo Cecchi, di Leo De Berardinis, di Remondi e Caporossi, del Collettivo Teatrale di Parma. Tutto era cooperativa, e quel nome rendeva forti, consolava, faceva immaginare un mondo dove, anche attraverso il teatro, il lavoro fosse fatto di impegno solidale e condiviso. Un’altra struttura, quella legata a Fo, si chiamava “I circoli della Comune”. Ancora più emozionante. In quei luoghi arrivava la cultura popolare, con Giovanna Marini, Ivan della Mea, i discorsi dell’Istituto De Martino. E ti accorgevi di una radice antica, nascosta nelle gesta degli anarchici ottocenteschi, nei canti di braccianti e mondine, nella vita dei marginali.
Eravamo spettatori, pubblico. Certamente, anche spettatori e pubblico. Solo questo? Allora perché quando c’era da comunicare qualcosa ci dicevano: “Compagni, attenzione!” Compagni di che, di cosa? Di un tumultuoso e potente movimento politico, certo. Ma anche di una sensazione diffusa, accennata con reticenza e pudore nei discorsi. Che il teatro, sì, fosse veicolo anche di un’esplorazione umana, esistenziale profonda. Che fosse luogo di sperimentazione esistenziale.
Pubblico? Non solo. Perché nei dibattiti non ancora morettiani dopo lo spettacolo, nei primi anni, giravano emozioni strane. Sembrava che qualcuno dal palco ci interrogasse, con la radicalità della sua invenzione scenica. Nello stesso tempo sembrava che dal palco ci fosse davvero un grande e sincero bisogno, di sentire parlare quel pubblico, di riconoscersi e di essere riconosciuti, di chiedere se era giusto, se arrivava. Sembrava a volte di avere di fronte dei delegati artistici di una comunità, che alla comunità tornavano, per chiedere dialogo e confronto.
Passo dall’altra parte. Adesso lo spettacolo lo faccio davvero. A diciannove anni un gruppo mi propone di diventare professionista. Io, che prima avevo fatto teatro solo in un gruppo di base sperduto nell’hinterland milanese.
Il mio primo pubblico sta in cerchio, bambini. Bambini, bambini, bambini, il senso di una comunità, di lavorare per una comunità di insegnanti allora spesso giovanissimi, poco più vecchi di me, che in quella scuola sperimentavano pratiche sociali e educative. L’entusiasmo per un atto che sembrava più puro, secco, non commerciale, lontano dalle manfrine degli sbigliettamenti e degli abbonamenti dei teatri serali. Piazze, palestre, aule scolastiche, raramente il teatro, il palco, e sempre con un po’ d’imbarazzo e di magone per un pubblico a cui avremmo voluto dire: scusate, se vi teniamo così sotto, così lontano, così al buio.
E quel pubblico premeva. Ore e ore di riunioni con gli insegnanti per capire che quel pubblico adesso voleva fare, trovarsi in cerchio e fare gli esercizi, fare esplodere energia vitale nel teatro. Si parla di animazione. Il fare diventa altrettanto importante che il vedere. Si apre un territorio dove si sperimenta esistenzialmente, culturalmente. Il pubblico vuole essere attore. Che ne sarà di noi? Cosa si salverà della forma spettacolo? Una fidanzata, animatrice teatrale professionista, mi grida nelle orecchie: il teatro è superato! Però una sera la vedo al Teatro Pier Lombardo davanti a Leo De Berardinis che percorre una strada di lampadine con Perla vicino, e vedo che non ce la fa a staccare gli occhi, né dallo spettacolo né da loro.

Cerchi, piazze, parate, animazioni, agit-prop, i ventenni del teatro degli anni Settanta sperimentano di tutto. Attorno, e spesso al centro dei pensieri, il pubblico, Il pubblico collettività, il pubblico attore politico, il pubblico compagno di percorso. Il pubblico, che lui solo può dare senso al tuo essere, al tuo esistere. Lavoro con un piccolo gruppo di teatri in un Centro Sociale Occupato, a Milano, nel quartiere Isola. Nella stanza accanto a provare Cesar Brie e Danio Manfredini, austeri e meravigliosi. Un giorno in quel centro arriva Augusto Boal. Con stupore sento-sentiamo parlare per la prima volta di Teatro dell’Oppresso. Strumento per dare voce, interrogare, sviscerare un problema, un conflitto della comunità. Pratichiamo esercizi in cui una comunità si schiera, a tabloid, dà forma e visione al proprio pensiero. La testa scoppia, il teatro esplode in tante e tali di direzione, che non capiamo quasi più se è teatro. Intanto Grotowski se ne va, abbandona il teatro come atto scenico e incomincia a percorrere territori lontani.
Augusto Boal lo ritrovo a Casciana Terme. E’ il ‘77. Sono arrivati lì i gruppi teatrali di base di tutta Italia. Siamo migliaia di persone, età media sui venticinque anni. Boal arriva ed è un’onda di commozione, di Sud America caldo che ci frana addosso. Sud America, il teatro che entra nelle pratiche sociali, ricchezza di incontri, di comunità, di condivisione. Teatro carta d’identità dei poveri, dei marginali, dei diseredati. Lo ascoltiamo e ci tiriamo un po’ su. Perché lì tira una brutta aria. Sento per la prima volta la parola professionalità. A Pontedera, a Bergamo, a Treviglio, a Fara Sabina, ci si dice che o si fa un certo modo o siamo destinati al dilettantismo. Pensiamo al pubblico, alle pratiche teatrali con il pubblico, a quello che sta diventando più difficile e complesso, perché i tempi stanno cambiando e l’onda batte più fiacca. Ci sentiamo, smarriti, un po’ in colpa. Con schiene incerte tutti cominciamo a fare capriole. Però alla storia che la strada sia una sola, non riusciamo a crederci fino in fondo.
Scoperta: il pubblico si è spostato nei seminari. Sono pienissimi, un’infinità di gente. Il ’77 è esploso e le domande sull’identità personali si sono moltiplicate. Guardiamo con un certo imbarazzo il nostro corpo militante. Chissà quando si deciderà a liberarsi? E ce la farà?
Il pubblico adesso condivide grandi inquietudini. Che riguardano la messa in gioco delle identità, il ruolo da dare al corpo, la creatività diffusa.
Creatività non più solo risorsa collettiva, ma piccolo tesoro personale, da rivendicare, da non farsi espropriare, da coltivare con passione, da fare emergere. Il corpo politico è diventato macchina desiderante. Il teatro il luogo di quella sperimentazione.
Un apprendistato collettivo di domande e di pratiche con il pubblico. Ancora non li si chiamava spettatori. Spettatore, non so perché, a volte, anche adesso, mi ricorda un altro tipo di sguardo. Uno sguardo lontano, nella distanza, basato sul non intrecciare mai i ruoli, dove ognuno sta nella sua postazione ben precisa. Un atto della visione celibe. A cui lentamente, con un progressivo ritorno all’ordine, si aderisce di nuovo.

Anni Ottanta. Continuo a fare teatro. Incontro spettatori e sono spettatore a mia volta. Con chi sta sul palco qualcosa si è spezzato. Quello che succede sul palco riguarda sopratutto i teatranti. Il gruppo si propone come comunità magica.
Teatro: gruppo, comunità che si presenta sul palco, difficile da avvicinare se non nella forma del fan, dell’allievo, dell’innamorato. Che sogna che un po’ di quella luce riflessa possa cadere su di lui. Di poter intercettare un poco della polverina d’oro che l’arte distribuisce ai suoi innamorati. Lo spettatore, che, rispetto al teatro, ambisce ad essere quello che non è e che forse non potrà mai essere. Lo spettacolo che si presenta, ben chiuso in se stesso. Fuori luogo il pensiero della condivisione.
La condivisione è diventata materia per l’animazione diventata servizio, per i progetti istituzionali, per interventi pedagogici, per capitoli di spesa degli assessorati. I campi si sono separati. La manovalanza professionale e animativa da una parte, l’eccellenza artistica dall’altro.
La porta del teatro diventa progressivamente più stretta. Prima per il pubblico, che ritorna a essere quasi solo spettatore, abbonato, fan, aficionado, leone da addomesticare, progetto di consenso. Poi anche per chi il teatro lo vuol fare. Un miraggio. Da inseguire e coltivare attraverso la cura delle relazioni e dei rapporti con chi ce l’ha fatta o ha potere.
Allo spettacolo si guarda in modo diverso. Spogliati di tutto, dalla possibilità di essere interlocutori attivi, attori culturali, si diventa esperti del linguaggio. Si valuta l’efficacia dell’atto di comunicazione. Si impara ad apprezzare pastiche, rifacimenti, citazioni, virtuosismi tecnici e drammaturgici. Ci si arma a piene mani di disincanto e di ironia, doti prime per chi vuol attraversare la post modernità da vincente e da protagonista. Il teatro comincia a parlare solo del teatro, a parlare solo a gente di teatro, che in uno spettacolo cerca conferme o smentite rispetto a proprie scelte linguistiche. Il pubblico lentamente va via. Perché mentre il teatro consuma i cascami di un percorso post-moderno, lo spettacolo diventa altro, cambia funzione.
Perché poco ormai il pubblico sente di poter chiedere al teatro. Non un momento di coscienza e di riflessione collettiva. Non un’immagine di comunità. Neanche, fino in fondo, l’esplorazione dei modi di lavoro e di proposta di un processo creativo. La tensione a capire, a condividere, quando c’è, è diventata un fatto, un’ambizione del tutto personale. Realtà della scena e realtà delle vite sembrano non incontrarsi più.

Anni Novanta. Intanto fuori cambia tutto. La vita fuori preme, serra, la competizione è altissima. Quello che era dato per sicuro non esiste più. Lavoro e posizione sono diventati campi di battaglia da gestire quotidianamente, la differenza tra tempo libero e tempo di lavoro si è assottigliata, la prestazione è continua, pervade ogni spazio. Il pubblico è stanco.
Adesso il pubblico di massa dei teatri comincia a chiedere sopratutto di essere intrattenuto. Nella versione nobile, con il teatro dei testi, dei grandi attori, dei valori culturali, di un museo necessario a una cultura non del tutto effimera. In altri casi dando spazio di volta in volta al cabaret, al musical, all’intrattenimento spettacolare, all’atletismo in scena, alle macchine da effetti, all’esplosione virtuosistica delle nuove tecnologie. In altri casi ancora il rito si trasforma nella visione dal vivo di chi fino ad allora si è potuto vedere soltanto in film o nei programmi televisivi.
Poi, all’improvviso, succede qualcosa. Qualcuno comincia a raccontare e succede. Il pubblico che accorre, chi se lo sarebbe aspettato. Si respira un’aria di presente, di evento. C’è il Kohlhaas di Baliani, lo vedo in un teatro in cui è saltata la possibilità di farlo sul palco. Lo fa nell’atrio. Bellissimo. C’è Vajont di Marco Paolini, visto al Leoncavallo in mezzo a una gran folla di giovani militanti radicali sbigottiti. Un senso di riconoscenza, di respiro, il risvegliarsi dentro di un’attitudine all’ascolto, la sensazione che sì, proprio quella, la capacità di ascoltare, era stata una cosa persa a teatro, ma anche nella vita. La sensazione che qualcosa nella nostra storia può essere raccontato, diventare sangue nostro, memoria ri-costitutiva. Quella scena, vuota, con una sedia, o con una piccola postazione, quel grado zero del teatro, appare come una possibilità di ripartenza. Non solo agli attori, sopratutto al pubblico. Che ascolta la storia, compra il libro. E dentro sente che qualcosa, nella sua posizione di spettatore, sta prendendo senso, che quella storia sentita a teatro, quella dimensione, quella trasmissione, quel contatto, può essere viatico anche per la vita. Sopratutto sente, in maniera confusa, di essere partecipe di un piccolo rito, che il rito è tornato a teatro.

L’atto dello spettatore della narrazione però rimane talvolta sospeso a metà. Perché lo spettatore incontra una storia, se ne imbeve. Ma nell’atto della narrazione c’è una promessa sottintesa. Che quella storia ha bisogno anche di essere ri-raccontata, trasmessa. Che quell’atto esige anche una posizione attiva dell’ascoltatore. Che gli spettatori, tutti, sono in grado di essere a loro volta artefici di una trasmissione di sapere, di cultura, riprendendo, manipolando, un patrimonio narrativo personale e collettivo apparentemente perso e dimenticato e di cui però, tutti, si sente tragicamente la mancanza.
Perché, apparentemente, siamo uomini senza storia, che se hanno vissuto non vale la pena di raccontarlo, che tanto è banale, che tanto è già sentito, che non dice niente di nuovo. Uomini annegati in una quotidianità segnata dai tempi della performance, abituati a sintetizzare stati d’animo, esperienza, nei pochi caratteri concessi da un sms o da una comunicazione nei social network.

Quello spettatore deve ritornare al centro del nostro sguardo. Frequentare, conoscere lo spettatore. Osservarlo seduto, comodo, accasciato, nei meccanismi dell’intrattenimento. E nello stesso tempo ascoltare la domanda nascosta che sta dietro ai grandi successi, anche quantitativi, del teatro di narrazione. Dialogare con una necessità, potente, del pubblico, di ritornare attivo fino in fondo, di ricollegare arte e vita, fruizione e consumo delle parole con pratiche di tempo condiviso, di atto creativo collettivo.
Una strada possibile. Forse la risposta a una domanda sul senso. Perché lo spazio “per raffinate operazioni creative” si restringe sempre di più. Perché il richiamo di operazioni che si risolvono semplicemente a livello estetico è flebile. A meno che quell’operazione non entri a far parte del grande catalogo delle estetiche in vendita, delle tendenze, dei marchi.
Tendenze e marchi in cui però il processo estetico trova comunque un precisissimo rapporto con la vita di chi lo fruisce, perché diventa segno grafico, immagine magica e prodotto da acquistare. Gioca a fidelizzare il fruitore promettendogli non solo fruizione dell’opera d’arte ma appartenenza a un mondo, a un modo di essere, a uno stile di vita.

Oggi forse il problema è davvero decidere, ognuno a suo modo, cosa fare dell’arte e cosa fare con l’arte. Perché l’arte, la visione artistica, può ridursi a un’ulteriore e sterminata raccolta di informazioni e input su opere, artisti, prodotti. Accumulazione in cui, a volte, la quantità delle informazioni provoca sovradosaggio, un atteggiamento disincantato e classificatorio da parte del pubblico e degli addetti ai lavori. Oppure l’arte può riaprire in direzione del mondo dei possibili e delle relazioni, essere a sua volta luogo delle relazioni, tra gli artisti, e tutti sappiamo come questo non sia scontato, e tra artisti e pubblico.
Una parte non piccola del pubblico dell’arte questa esigenza, in maniera caotica e disordinata, ha già cominciato a praticarla. Nei social network, nei blog. L’opera d’arte di cui di volta in volta si parla, spesso si propone come linguaggio di riferimento possibile a una comunità di fruitori-inventori. L’opera viene divorata, commentata, a volte, come in certi blog letterari, addirittura riscritta.
Se da una parte il rapporto con l’arte sta diventando sempre più un accumulo di immagini (l’immagine sta progressivamente divorando anche i territori della musica, della danza, della scrittura “ufficiale”, spesso pensata come una tappa per la trasformazione della parola in sceneggiatura prima e in film poi), dall’altra, ciò che invece nel web comincia a succedere, sta parlando della necessità di ridare forza e valore a una parola spesso appassionata, polemica, parziale, che parte dall’opera d’arte per sviluppare dichiarazioni d’amore, riflessione, nuove narrazioni possibili.
Questo fenomeno può anche essere criticato o discusso, ma solo partendo dalla comprensione e dall’accettazione di quelle domande e istanze che spingono a questa riflessione artistica di massa, che non trova alcun luogo nei circuiti culturali istituzionali, che spesso guardano con sufficienza e sospetto queste nuove pratiche.

Il Teatro dello spettatore nasce dalla voglia di provare a dialogare con questa domanda. Individua nel teatro uno dei luoghi possibili, certo, non l’unico, ma comunque un luogo estremamente interessante, per la sua forma fisica, nella sua radice antropologica profonda di essere stato sopratutto luogo delle relazioni e della comunità.
Nasce da una scommessa alta: la voglia di riconoscere allo spettatore non solo il ruolo di un interlocutore attivo e centrale, ma anche un ruolo drammaturgico. Nella fiducia che una comunità creativa di spettatori possa oggi incidere sulle storie che ascolta e rilancia, segnare punti di riflessione e di sensibilità, rendere quella riflessione testo, verbo, parola, all’interno di un rito teatrale reinventato.
Domande sullo spettatore che si pongono all’interno della riflessione più generale sull’atto narrativo oggi. Sul suo evolversi e cambiare all’interno di un mondo straordinariamente nuovo e mutante, sul sentire come il mondo e i suoi linguaggi cambino profondamente il modo di essere e di pensarsi delle pratiche e delle discipline artistiche.
Domande che agiscono un contributo alla riflessione sulla narrazione teatrale, a volte troppo compiacente nel ritornare nei ranghi, nel sostituire all’esplorazione delle ferite, propria di alcuni straordinari spettacoli, prodotti che resocontano momenti storici, fatti, vite, trasformandoli, spesso, più in vademecum storico-culturali che in esplorazioni profonde. Con spettacoli che vibrano spesso di buone intenzioni, ma in cui il pubblico è spesso e frequentemente spinto nella posizione di chi osserva non solo un prodotto, ma anche un processo culturale finito e definito. Zitti e applaudire, purtroppo, a volte, quello che sembrava superato spunta in altra forma.
Ritornare al pubblico, per definire dei punti di vista, delle intuizioni poetiche, che ci aiutino ad attraversare un territorio sconosciuto, essendo sprovvisti di mappe e senza maestri rassicuranti alle spalle.
Un’idea del pubblico come comunità culturale e politica. Senza nessuna nostalgia per vecchie forme di militanza culturale e sociale. L’implodere di molte esperienze politiche e di movimento culturale in questi anni, l’arrancare dei teatri nella crisi, costringono a una riflessione radicale sui termini ”politica”, “cultura”, “arte”. A invenzioni, a rovesciamenti di paradigmi. Ma questa riflessione è impossibile pensarla ed agirla oggi all’infuori del rapporto con chi l’arte la fruisce. La comunità degli spettatori è comunità a cui il teatro dello spettatore porta quindi domande, proposte di pratiche, non risposte o facili definizioni delle direzioni del percorso.
L’idea del pubblico come ospite dell’evento teatrale e del teatro. Ospite che aspira a farsi teatro, ma che molte volte si trova di fronte a contenitori impermeabili, colmi magari di bellezza e profondità, ma sempre impermeabili. Grande attenzione ai tempi dell’accoglienza, del pre e del post spettacolo, costruzione di un rito per lo spettatore all’interno dello spettacolo. Perché quando il rito rientra nel teatro e nel suo concreto proporsi, è come se il tempo prendesse un doppio valore, tempo di fruizione ma anche tempo di costruzione della propria vita, al di là di tutte le fatiche e le stanchezze. Tempo di esperienza, di incontro dell’altro.
Idea del pubblico come possibile interlocutore creativo. Saper cogliere all’interno del pubblico la necessità che spinge confusamente verso la pratica del senso, della parola, dell’azione all’interno del rito teatrale. Dare fiducia alle prime parole, spesso smozzicate, che arriveranno in risposta alle nostre provocazioni: non sono una tassa noiosa e solo funzionale da pagare rispetto a un’idea politically correct dell’arte e della pratica artistica. Aver fiducia che davvero quel senso sarà nostro interlocutore nel percorso, interagirà e modificherà i nostri segni, sarà segno esso stesso.

Lo spettacolo-incontro La strada di Pacha, l’atto teatrale mio e di Pietro Floridia, che cerca di affrontare tutte le domande che si porta con sé la tensione a un “Teatro dello spettatore”, è frutto di una storia troppo grande per essere raccontata. Una storia raccolta a Managua, in Nicaragua, dopo e alla fine di tanti viaggi e di tante esplorazioni dei territori dei marginali nelle metropoli del Terzo Mondo. Una storia che ci è franata addosso, portata da una donna straordinaria, carica di guerra, di bande, di cerchi d’amore, di esplorazioni infinite della città, di cadute e di resurrezioni.
Difficile prendersi la responsabilità della riduzione di un mondo (perché quello di Pacha è un mondo, non una storia), a narrazione, testo concluso. Come dice Erri De Luca, le cose vanno bene quando si ha la sensazione che il narratore è sempre un po’ più piccolo della storia che deve raccontare. Che a tratti lo trascende, lo scavalca, rimanda ad altre storie, ad altri pensieri.

Come fare allora a essere piccoli, teatralmente parlando, rispetto a una storia del genere. Cosa vuole dire accettare di essere trascesi, superati, scavalcati da una storia, che è una vita, che è un mondo, in continua evoluzione, visto che il testimone originario è presente?
In prova, la nostra storia sembrava rifiutare qualsiasi formalizzazione. I tentativi di scaletta sembravano tutti pretestuosi e impoverenti. Quella storia sembrava portare dentro il suo imprinting: una storia raccontata in cerchio, da una donna che tutta la vita non ha fatto che frequentare cerchi: cerchi di comunità marginali, di mendicanti, di prostitute, di soldati, di bambini di strada, di abitanti di barrios stracciati. Una storia che non sopporta frontalità, né spaziale, né di senso.
Fatto sta che nella testa inizia un piccolo caos cosmico. Perché la storia c’è, è romanzo, è testo narrativo, da me già scritto e pubblicato. Ma diventa anche improvvisazioni libere, a partire da domande di Pietro Floridia, in cui mi dimentico del romanzo e del suo testo, e mi trovo a raccontare la stessa storia con modalità, parole, costruzioni nuove, mi trovo a raccontare quello che nel romanzo non riusciva e non poteva entrare, ricordi, incidenti, mi trovo a sentire tra le mani una materia che scotta, perché ogni atto, ogni avventura vissuta da Pacha, mi rimanda a storie di qui, alla mia città, alle situazioni attraversate, fino a che mi rendo conto di qualcosa di inaspettato e spiazzante.
Che sto lavorando non sulla storia di Pacha, ma sul mio rapporto con la storia di Pacha. E questa considerazione immediatamente spalanca visioni a Pietro, sopratutto, e in seconda battuta a me. Che se io racconto il mio rapporto con la storia di Pacha, se rinuncio a una pretesa oggettività o auto-sufficienza poetica della storia, allora posso davvero incontrare il pubblico, rispondere a qualsiasi input, essere disponibile ad ogni variazione. Che il fatto che io racconti il mio rapporto con la storia di Pacha apre la possibilità, paradossalmente, ad ogni spettatore, di sentire quel rapporto come anche suo, di emozionarsi, entrare in empatia con la storia, permettersi il fastidio e il rifiuto. Perché la materia narrativa non si pone come un dato di fatto, ma come terreno costantemente aperto e modificabile rispetto alle dinamiche dell’incontro e della condivisione.
La storia comincia a reclamare parole diverse e punti di vista differenti. Comincia a richiamare foto, video, installazioni, opere d’arte. Accettiamo tutto questo, che si presenta all’inizio in forma caotica. Si ricercano foto, mappe stradali, cominciano a nascere sculture e video, i nuovi materiali testuali vengono archiviati insieme a quelli del romanzo e alle interviste originali con il testimone. C’è il rifiuto di un principio ordinativo che funzionalizzi ogni segno a un’idea di spettacolo, ci sono frasi semplici che ci diciamo, ad esempio: “cominciamo a fare, poi si vedrà se lo usiamo o no”.
In New Italian Epic di Wu Ming, il problema viene messo a fuoco in maniera precisa. Se è vero che la storia è più grande di un narratore, allora la storia ha la possibilità di attrarre su di sé innumerevoli punti di vista. Una storia nasce come libro, ma può diventare anche documentario, o può continuare e svilupparsi nell’interazione creativa dei lettori con il testo proposto, o, in occasioni pubbliche, dialogare con colonne sonore che diventano a loro volte autonome.
Pacha accetta questa copresenza di registri e di punti di vista, moltiplicata, nel nostro caso, dalla presenza di linguaggi visivi e figurativi, accetta il terreno nuovo, che è quello della transmedialità.

Transmedialità, non multimedialità. Perché il multimedia spesso assomma linguaggi artistici nella tensione verso un pieno di spettacolarità e di effetti, dove alla fine la sovrabbondanza di input precipita lo spettatore in una posizione di fascinazione narcotica. Perché tutto viene comunque riferito, funzionalizzato, reso strumentale rispetto a un’idea già data e iperdefinita di spettacolo.
Transmedialità vuol dire invece fare convivere diversi linguaggi, senza aspirare a una sintesi a priori, senza definire priorità e ordini di importanza, senza rendere nessun linguaggio servo di un’altro. Vuol dire pensare che la presenza, la commistione di diversi strumenti comunicativi possa corrispondere a una diversa modalità di approccio allo spettatore, modalità che, invece di utilizzare una grande potenza di fuoco, di mezzi tecnologici e di visioni, per compattare la sua attenzione, chiede allo spettatore di ricostruire la mappa di un suo ragionamento e della ragione del suo essere lì, nello spazio teatro, quella sera.
Per chi, come è successo a me, quel rito lo percorre in veste di attore la sensazione è stranissima. Perché la strada di Pacha, che è quello della condivisione assoluta del rito teatrale con il pubblico, ha presente al suo interno una richiesta. Quella di usare la storia per un incontro con il pubblico e non viceversa. Di sapere che il pubblico sarà spinto a focalizzare argomenti, scegliere priorità, richiedere approfondimenti. Il pubblico si muoverà sulla storia come fa lo zoom di una cinepresa, mettendo in luce quello che quella sera risulterà fondamentale e sfocando, o lasciando in ombra, il resto. Ma questa motilità del pubblico, questa interazione che di volta in volta si presenta unica, irripetibile, richiede, portando all’estremo la sfida, la scelta dell’abbandono di un testo fisso, incapace, per la sua struttura, di raccogliere pienamente gli input e di rilanciare senza remore sul pubblico.

Mi trovo a stare due ore in scena senza testo, in pura risposta reattiva alle sollecitazioni del pubblico, senza andare nel colloquiale o nel discorsivo, ma anzi, accentuando a tratti la qualità epica della presenza e della storia che sto raccontando, cercando ogni volta un uso corretto dei pesi drammaturgici. Questa è l’esperienza di Pacha.
Avendola percorsa fino in fondo devo confessare che questa strada è percorribile. Non dico facile, ma accessibile sì. Perché il problema non è una dimostrazione virtuosistica di capacità verbali improvvisative, di attitudini che portano a saper cogliere al volo nessi e linee di unione tra parole e riflessioni disparate.
Il lavoro è quello di lasciare completamente aperto e disponibile quello che in termini teatrali si chiama patrimonio emotivo dell’attore. Quella quantità di emozioni, di rimandi, di esperienze personali che a volte, in altri tipi di spettacolo, si mette in moto nel lavoro su un personaggio.
All’inizio dello spettacolo io ho solo questo patrimonio emotivo. Che per me è composto dai libri scritti sull’argomento, i ricordi, le interviste con Pacha, la lettura del giornale che ho fatto la mattina, le storie appena vissute e scolpite nella pelle. Pacha è la storia di un patrimonio di partenza che ogni sera, usando come volano le parole e i pensieri degli spettatori, riesce a diventare testo, atto verbale compiuto. E si porta dentro, nella sua forma, tutta la ricchezza che ogni patrimonio emotivo normalmente ha, la ricchezza di immagini, episodi di vita, ricordi di libri letti e di film visti, un patrimonio che, anche comprensibilmente, normalmente, la regia funzionalizza unicamente alla creazione di una partitura scenica definitiva.
La dimensione di questo lavoro è una forma dell’attorialità. Perché non si tratta di abbandonare “l’interpretazione” per trasformare la propria performance d’attore in qualcosa che riguarda molto la conferenza e poco il teatro. C’è da ricercare, momento per momento, l’unione tra le emozioni date da un patrimonio emotivo, evocato dalle parole dello spettatore, e la trasformazione di quel patrimonio stesso in un segno compiuto, in un frammento narrativo che abbia forza e validità al suo interno. Un allenamento assoluto a una forma di presenza attoriale, che non è semplicemente la presenza normalmente richiesta all’attore, che deve trovare sintesi tra memoria scenica della partitura e vita assoluta nell’attimo presente. Presenza attoriale che diventa capacità d’improvvisazione drammaturgica, idea di una creatività che non può farsi largo se non in un corpo a corpo continuo con la forma, mai fissata in modo definitivo, atto mutante che impone registri mutanti allo stare in scena.

Credo nel valore pedagogico di questa pratica. Vedo molto spesso nei laboratori, nei gruppi, una scissione rimasta insoluta tra una creatività magmatica e fluente, che si esprime nelle improvvisazioni e nei materiali d’attore, e la ricerca di una forma che comunque quasi sempre si organizza su altri parametri. Come che dall’improvvisazione, dagli esercizi di gruppo, uscisse un vocabolario che alla fine però rimane oscuro al regista o al conduttore stesso, spesso inutile per la definizione della forma finale, o da raccogliere a pezzettini, a tessere di mosaico, per utilizzare il “buono” che può servire all’interno della forma scenica pre-scelta.
Si apre invece la ricerca di pedagogie che ricongiungano creatività e forma, che guardino al sottotesto umano ed esperienziale dell’attore come a un territorio di straordinario interesse, che siano palestra e bottega per un attore che sappia esprimere la propria autorialità non solo prendendo la penna in mano, ma giocandosi di volta in volta con il pubblico, facendosi modellare dallo spettacolo e dalla presenza degli spettatori. L’autorialità più profonda da acquistare diventa così quella di un testimone umano e sociale, che ha deciso di fare fino in fondo i conti con il proprio vissuto, o con quello di altri, e che in nome di questo può avere l’autorevolezza del discorso e della parola.

Un elemento, per chiudere, che alla fine sale agli occhi più di altri, che accomuna attori e pubblico: la necessità, l’urgenza di ridare vita a una parola. Una parola diversa dalle partiture meravigliose e necessarie dei testi, parola non della riflessione individuale o a piccoli gruppi, ma parola della relazione, parola condivisa, valore d’uso per l’incontro.
Parola che rispetta la forma e la considera della massima importanza, ma che, contemporaneamente, vuole vivere la scommessa di operare su un continuo slittamento della forma stessa, alla ricerca di forme comunicative e modalità diverse. Una parola che non concede alla forma di essere altro di quello che è necessario in ogni singolo momento di un atto scenico che ogni sera si modifica.
Un’ipotesi distante dalla concezione dell’autorialità, come tavolo magico in cui tutti i giochi sono po

Gigi_Gherzi

2009-11-07T00:00:00




Tag: teatro sociale e di comunità (97)


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