In Slovacchia, vent’anni dopo la caduta del muro in scena la memoria del futuro

Forward Memory, l'edizione 2009 del Festival di Nitra

Pubblicato il 13/11/2009 / di / ateatro n. 124

Due parole sulla Slovacchia: ne sappiamo poco, ma è un piccolo paese di notevole personalità e le sue trasformazioni e recenti performance socio-economiche sono abbastanza sorprendenti nel contesto europeo.
La separazione pacifica da Praga tramite referendum (sempre sia lodato Havel per questo), con l’’indipendenza tanto desiderata conquistata dal 1° gennaio 1993, sembrava –a un osservatore esterno – un po’ velleitaria, venata di un nazionalismo provinciale e preoccupante per le prospettive concrete di un’economia così intrecciata con quella ceca (e solo pochi anni prima così dipendente dal blocco sovietico).

Benvenuti a Nitra.

Eppure il piccolo paese – a tutti gli effetti in Europa dal 2004, nell’area euro dal 2008 – ha saputo valorizzare la sua posizione di crocevia e la vicinanza con l’occidente e sta superando con le proprie forze – e meglio di tutti i vicini – la crisi economica mondiale.
Il merito – secondo il primo ministro socialista Robert Fico intervistato da «Repubblica» nel marzo scorso – è di un’economia orientata all’esportazione, di un sistema bancario che si è rivelato del tutto stabile, di una gestione senza scosse e unica in Europa del passaggio all’Euro, delrifiuto del liberismo estremo (che ha caratterizzato quasi tutti i paesi della Nuova Europa, con esiti catastrofici), in nome di un equilibrio perseguito per tempo fra mercato e stato.

San Michele.

Per la verità, nell’alternanza di governi di centro-destra e centro-sinistra, le scelte strategiche non sono state sempre lineari. Ma è indiscutibile che un decennio di PIL in crescita ma costante (il +5,7 nel 2008 – contro l’1,4 dell’Italia – e perfino un 2009 caratterizzato da segno positivo) si tocchi quasi con mano: Bratislava è in espansione e irriconoscibile, con nuovi grattaceli e centri commerciali che circondano il bel centro storico intatto e ben curato. Vienna, ora che non c’è più la frontiera, è a tre quarti d’ora di macchina (o un paio d’ore di battello per i turisti o per chi non ha fretta: linee regolari sul bel Danubio blu, rigorosamente grigio), e i nuovi scali Ryanair la collegano a tutta Europa a prezzi stracciati.

Anche a Nitra, città a un’ottantina di chilometri a est della capitale, dove torno dopo alcuni anni, sono sorti nuovi edifici. Un immenso e raffinato centro commerciale, nuovissimo – tutti marchi europei -, fronteggia le strutture del vecchio mercato e i campanili barocchi e fa concorrenza al tradizionale passeggio: la vasta isola pedonale che attraversa il centro, fino al monumentale Teatro Andrei Bagar (degli anni Sessanta).

Il teatro di Nitra.

Non avrei previsto questa trasformazione, e tutto questo benessere, quando ho cominciato a frequentare queste zone poco meno di vent’anni fa, il Muro era caduto da poco.
Il mio incontro col teatro slovacco risale alla prima edizione del Mittelfest (1991), proiettato con entusiasmo – allora – verso la sua missione di apertura culturale (ma anche politica) a est: esisteva ancora la Cecoslovacchia, ma a Cividale, con una certa lungimiranza ispirata dall’evoluzione in senso federale in corso in quel paese, già quell’anno la Slovacchia ebbe un suo spazio importante (anche la Jugoslavia del resto era presente con spettacoli da quattro diverse repubbliche). Nei dieci anni successivi Mittelfest ospitò con regolarità compagnie da Bratislava (il Teatro Nazionale, Astorka Korzo 90, S.T.O.K.A e altri), ma anche teatri regionali come quelli di Presov, Kosice e Nitra, con grande attenzione alle espressioni delle minoranze e al teatro indipendente, e scoprendo alcune personalità davvero interessanti.
In Slovacchia come negli altri paesi di cui si occupava dell’Europa centro orientale, Mittelfest aveva l’obiettivo di monitorare quello che succedeva e trovare occasioni di confronto: il gruppo, lo spettacolo o l’autore che inducevano la riflessione e determinavano trasformazioni, le proposte necessarie e originali, in quel momento e in quel luogo. Questo indipendentemente dal fatto che si trattasse di capolavori (ma ce ne furono), di forme nuove o di riscoperte o reinvenzione della tradizione. Indipendentemente anche dal linguaggio e dalla sua “esportabilità”: in questa logica la lingua non poteva costituire un deterrente e Mittelfest era orgogliosa di questa babele centro-europea, così poco import-export.
Del teatro slovacco ci sembrò interessante in quegli anni l’approccio al tema della transizione (la consapevolezza dei rischi dell’abbraccio dell’ovest), ma anche il recupero di una tradizione letteraria verista (che privilegiava ambienti di campagna e preoccupazioni sociali), e alcune ricerche formali che tentavano di emanciparsi dai modelli di interpretazione psicologica (senza rinnegarli mai del tutto: una tendenza, questa, comune a tutta l’Europa dell’est, in cui l’innovazione sembra attuabile solo nel solco della tradizione interpretativa e – prevalentemente – anche all’interno delle istituzioni teatrali pubbliche). Ci colpirono personalità come il regista Matus Ol’ha, il regista-autore Blaho Uhlar e il drammaturgo Viliam Klimacek.

Oggi, di fronte a cambiamenti frenetici dai molti volti, il teatro slovacco sembra frastornato, non sembra pronto a interpretarli e segna il passo, ritorvandosi ben lontano dai ritmi dell’economia, almeno da quello che ho visto e da quello che ho letto nella raccolta degli articoli più interessanti apparsi nell’ultimo anno sull’annuario-rivista The code to the Slovak Theatre.
Ma nel frattempo il teatro slovacco si interroga.
Come nell’ultima edizione del Festival internazionale Divadelna Nitra, che costituisce dal 1992 la principale occasione di incontro fra la scena locale e quella internazionale, ma anche un preciso punto di riferimento culturale, un’occasione di riflessione morale e politica. Il tema scelto dalla direttrice storica, Darina Karova, è infatti
Forward memory (in inglese anche nell’originale). Una proiezione verso la memoria, dunque, la necessità di uno scavo nel passato per trovare il futuro.

Per alcuni anni siamo stati qui, in questa parte del mondo, ricordando cose. Non ci sono solo anniversari da rispettare, che segnano le più importanti cesure socio politiche della Slovacchia/Cecoslovacchia (1968/1989), ma anche il succedersi di cambiamenti significativi relativi all’integrazione nell’Unione Europea e, ancora più importante, c’è la situazione morale, l’incertezza sociale, la costante esplosione di casi di corruzione, un’arroganza senza precedenti del potere e del capitale che evoca un ritorno al passato, e comporta l’analisi e la ridefinizione dei valori del presente.
Il processo di riflessione richiama il lavoro dei cercatori d’oro, quando con pazienza si setaccia sabbia e acqua nella speranza di trovare alla fine una granello del metallo prezioso. Tuttavia, questa attività non può essere lasciata solo al territorio della scienza politica, della filosofia, dell’archivistica o del giornalismo, è altrettanto importante -per l’ecologia della società- che la riflessione sul nostro tempo sia condotta dalla sfera dell’arte.
Ogni anno il festival internazionale Divadelna Nitra pone l’accento su fenomeni politico-sociali, valori o categorie morali. Una delle componenti di questa piattaforma a molte facce è l’ambizione di consegnare un messaggio, trasmettere un’indicazione importante, muovere qualcosa in avanti, imporre qualcosa in modo scioccante, perfino radicale.
Per concentrare questa ambizione in un’espressione, la migliore potrebbe essere una parola inglese:
forward. Che cosa quindi vorremmo trasmettere, comunicare e muovere forward? Vorremmo rivolgere lo sguardo NEL passato, come molti dei personaggi, delle produzioni e degli autori presentati quest’anno. Ricercare le radici e l’origine, confrontare la gente di oggi con gli archetipi, esaminare i confini del possibile, cercare le connessioni fra il passato e il presente. Vorremmo attirare l’attenzione sulla necessità di occuparci del passato, svelare i pregiudizi e le cattive azioni, i sedimenti politici e sociali, far sorgere domande sulle responsabilità, riflettere sul grado di colpa e di innocenza, sul peccato e sul perdono. Ci piacerebbe vedere come il tempo presente ridefinisce le categorie tradizionali di bellezza, pazienza, coraggio, amore. E vorremmo meditare sui problemi del futuro – la responsabilità verso l’ambiente, il ruolo dell’arte, il significato della tradizione, la solitudine dell’uomo sommerso dal culto del consumo e dalle barriere della comunicazione.
(Darina Kàrovà “FW Memory”, dal catalogo del festival 2009)

Spesso i temi dei festival sono pretesti. Ci si sforza – magari a posteriori – di incuneare le scelte prese in percorsi che solo a volte – in rare occasioni felici – risultano davvero coerenti. Ma nella dichiarazione programmatica che ho tradotto quasi integralmente e che collega alcune proposte classiche (Cechov, Tolstoj, una Fedra rivistata) e molte contemporanee, non c’è tanto la necessità di trovare un filo fra gli spettacoli e una chiave per la comunicazione. C’è invece una convinzione profonda sul ruolo che il festival può e deve svolgere nei confronti del pubblico e della società teatrale. E c’è pure molto motivato disincanto.
Nel discorso ufficiale di inaugurazione, in una serata piena di gente di teatro, eccitata per i premi nazionali che sarebbero stati assegnati di lì a poco (l’atmosfera dei premi è uguale in tutto il mondo, ma nell’ex blocco socialista ci tengono particolarmente), il rappresentante del ministero della Cultura si è complimentato per la scelta del tema: è importante studiare e guardare al passato, senza lamentarsi troppo del presente, e senza riporre nel futuro speranze poco realistiche (!): una considerazione socio-politca, ma anche un messaggio trasversale. In effetti l’economia del settore non è florida e decisamente insufficiente è anche il sostegno pubblico, soprattutto ai gruppi indipendenti (sono circa ventisei quelli professionali).
I teatri pubblici sono venticinque, tra statali e regionali, cui vanno aggiunti quattro teatri delle minoranze (non poco davvero per un piccolo paese). La rete non è stata distrutta, ma sono stati spinti a trovare in misura sempre maggiore risorse proprie, in un mercato ancora inesistente. Oggi le forze più giovani del sistema lamentano il generale disinteresse della politica e della pubblica amministrazione per l’arte e la cultura, e in particolare l’impossibilità di trovare in patria i cofinanziamenti necessari per accedere a progetti europei (come causa, o concausa, di un sostanziale isolamento).
La prosperità non sembra dunque avere particolari ricadute sulla cultura, se non in qualche evento o sede, soprattutto musicale pesantemente condizionato (dicono) dalle sponsorizzazioni (Heineken, Wunstenrot).

Questa edizione del festival di Nitra – che per tradizione si svolge nellì’arco di cinque-sei giorni verso fine settembre – è stata piuttosto austera, con qualche taglio quantitativo e qualche “grande” spettacolo in meno rispetto al passato.
La sezione nazionale era deliberatamente povera di proposte indipendenti: in primavera infatti l’incontro annuale IETM ha rappresentato un’occasione anticipata per una rassegna ampia di gruppi locali, ma soprattutto la stagione 08/09 non sembra offrisse grandi exploit: l’area della ricerca fa fatica a rinnovarsi (forse proprio per la scarsità di occasioni di confronto), e, a fianco di qualche personalità matura (le stesse già viste a Mittelfest!), negli ultimi anni sono emersi pochi gruppi nuovi.
Ma, come si diceva, è in seno ai teatri pubblici che spesso riescono ad affermarsi nuove personalità: è il caso del regista Eduard Kudlac (classe 1971) con The Woman before di Roland Schimmelpfennig, messo in scena dal teatro della città di Zilina. La nuova drammaturgia tedesca è molto frequentata dal teatro slovacco: una storia d’amore che torna dal passato con un’inarrestabile carica distruttiva consente di al regista di incasellare un intenso lavoro di interpretazione psicologica in una partitura complessa di effetti visivi e sonori.
Del ‘71 è anche Svetozar Sprusansky, regista del Giardino dei ciliegi presentato dal teatro ospite (l’Andrej Bagar di Nitra): un’occasione per gli attori soprattutto, ma anche una riflessione sul rapporto col passato e col futuro, sull’ambiente, sulle trasformazioni sociali…. E chi meglio di Cechov – presenza costante a Nitra – può incarnare i temi che il festival si è dato?

Anna Karenina (foto Ctibor Bachratý).

Colpa, innocenza, peccato perdono… Altri temi forti anche nello spettacolo più apprezzato dell’anno e premiatissimo: una monumentale (per durata) Anna Karenina diretta da Roman Polàk, uno dei più apprezzati registi slovacchi e dei pochi attivi anche all’estero, non solo nella vicina Repubblica Ceca – con cui i legami teatrali non si sono mai spezzati – ma anche in Polonia, Russia, Serbia e a Edimburgo. Nato nel 1957, Polak è soprattutto legato all’esperienza del glorioso – ma oggi un po’ decaduto – Teatro Astorka Korso, presso cui ha lavorato con continuità fino al 2000. Sulla sua Anna Karenina sono confluiti tutti i mezzi interpretativi e scenotecnici del Teatro Nazionale di Bratislava per uno spettacolo in bianco e nero, una pista di ghiaccio su cui scivolano i personaggi e si alternano le scene. Una sfida temeraria, vinta direi (almeno per la platea slovacca) con uno spettacolo corale che, dando risalato quasi più ai diversi personaggi del romanzo che la circondano che alla protagonista, affronta e mescola temi etici, sociali, sentimentali.

Origine (foto Ctibor Bachratý).

L’inaugurazione del festival è stata affidata a Sidi Labi Cherkaoui, considerato uno dei maggiori talenti coreografici oggi in Europa (di area fiamminga, ma con un biografia e attitudini decisamente “globali”), con Origine. (Il coreografo è più noto da noi, credo per la ricerca originale – e vera – con i monaci shaolin; per i passaggi in Italia vedi http://ater.regione.emilia-romagna.it)
Il miracolo comunicativo dello spettacolo (che ha conquistato un pubblico numerosissimo e meritato un’interminabile standing ovation) sta nel dialogo che intreccia fra le azioni dei quattro bravissimi danzatori, che richiamano la vita e una dimensione quotidiana, e la musica dal vivo (con l’ensemble Saraband), apparentemente opposta: testi spirituali appartenenti alla tradizione mistica femminile mussulmana del XVIII secolo, canzoni popolari svedesi, sonorità popolari e spirituali… Sono relazioni imprevedibili ma immediatamente percepibili fra diverse tradizioni culturali, che si precisano – man mano che lo spettacolo procede – anche nei diversi ed eclettici quadri coreografici: senza perdere la dimensione quotidiana, le scene si associano ai punti cardinali: fiabe nordiche, robotica giapponese, consumismo americano, terra africana.

Eurovisione (foto Ctibor Bachratý).

Delude un po’ rispetto alle aspettative che il tema e una certa notorietà europea del gruppo hanno alimentato, Eurovisione del Teatro Praga di Lisbona (di recente passato anche da Modena con Padam, Padam), firmato collettivamente da Pedro Penim, André Teodosio e Martin Pedroso, un’ironica lezione sulla presunta identità europea. Il “rap” iniziale in 35 lingue però è notevole, e apprezzabile la scelta di affrontare con mezzi insoliti problemi come il rapporto con la tradizione e con la lingua, l’immigrazione e molto altro.

Beer Tourist (foto Ctibor Bachratý).

Se i ragazzi portoghesi divertono, si ride fino alle lacrime in tarda serata e in birreria, col gruppo Wunderbaum (Olanda-Belgio) che, nel quadro del progetto europeo Black/North SEAS, presentano Beertourist. Matijs Jansen e Walter Bart ci presentano la visione hooligan del mondo, dell’est europeo e delle donne, condita di disprezzo sciovinista e turismo da saccheggio… Dietro la sguaiataggine e il linguaggio da caserma, gli sproloqui paradossali, l’ottusità surreale dei personaggi, c’è una satira feroce, in cui riflessione sociale e antropologica e teatro si incontrano in una forma particolarmente felice. E’possibile farsene una prima idea dalla scansione delle scene (e dai temi della conversazione): sulle donne, sull’alcol, sui ragazzi dell’est, sugli svantaggi della corruzione, sulle auto, cura i tuoi vecchi!, impara l’inglese!, sullo sposare una ragazza ucraina e portarsela a casa).
Lo spettacolo sarà a Trento a gennaio, per il Centro Santa Chiara, nel quadro del progetto “Al limite al confine”, che quest’anno è dedicato a “Europa unita, Europa divisa”.

Fedra Fitness (foto Ctibor Bachratý).

Come sempre a Nitra una particolare attenzione è dedicata alle produzioni e ai registi emergenti dell’est europeo. Dall’Ungheria, Istvàn Tasnàdi, già drammaturgo di Arpàd Shilling, dirige ora alcuni degli attori del vecchio gruppo (che si è sciolto), in Fedra Fitness (la produzione è di una nuova compagnia, anzi due: KoMa e ALKA. T). Il mito di Fedra rivive in una vera palestra contemporanea, super attrezzata, con il pubblico disposto tutto intorno, fra attrezzi e specchi. Alla presenza muta di un Teseo in coma – ma che poi resuscita – si rinnova la tragedia incestuosa, o piuttosto si dipana un’ambigua commedia degli equivoci. Peccato che la palestra rimanga solo una trovata, una cornice suggestiva all’inizio, poco motivata man mano che lo spettacolo procede affidando la sua credibilità a un’attrice strepitosa, la non più giovane Eszter Csàkàmyi (già indimenticabile Irina nel Gabbiano di Shilling, visto proprio qui a Nitra qualche anno fa): autorevole, spiritosa e insinuante, appassionante, ridicola, una Fedra in menopausa (che è poi il titolo di una precedente variante sul tema dello stesso autore), davvero convincente.

Fausto Paravidino in salsa rumena: La malattia della famiglia M (foto Ctibor Bachratý).

Dalla Romania, un testo del nostro Fausto Paravidino, La malattia della famiglia M, che va in scena in questi giorni a Bolzano diretto dell’ autore. La regia qui è di Radu Afrim, quarantenne, uno dei registi rumeni più noti anche a livello internazionale. L’allestimento per il Teatro Nazionale di Timisoara è pensato per uno spazio di ampie dimensioni (a Nitra è un hangar del piccolo aeroporto locale), con spettatori su gradinata. La scena è un interno/esterno: un bosco di betulle, cespugli e foglie secche ospita le stanze, i mobili e gli oggetti sparsi di una strana casa (un camera da letto, una cucina, una vasca da bagno, un telefono vagante) e consente campi lunghi, piani d’azione diversi, azioni/presenze simultanee, attraversamenti in bicicletta, suggerendo una vita isolata e emarginata. Ma più che lo spazio contano i personaggi: due sorelle complementari come le evangeliche Marta e Maria, un fratello fragile, un padre malato o forse depresso, un fidanzato ingenuo, un amico del fidanzato meno ingenuo, le relazioni fra loro. Una strana famiglia, una famiglia malata, che vive di rapporti malati, o forse solo una famiglia sfortunata e una storia ambigua. Penso che tutto questo abbia affascinato Radu Afrim e i suoi notevoli attori, in una sovrapposizione di livelli e chiavi di lettura che lasciano lo spettatore perplesso. Leggo nella scheda di Bolzano un pertinente rimando a Cechov, ma lo spettacolo rumeno lo mantiene in sottofondo, quasi una citazione – il giardino, la decadenza… – ma ricorda piuttosto certi pazzi testi di Copì, o forse è il personaggio del padre – decisamente sopra le righe – che richiama lo scrittore argentino.

A rappresentare l’’Italia a fianco di Paravidino, i Santasangre con Seigradi: ma non ho assistito alla replica non posso riferire come il pubblico slovacco ha accolto lo spettacolo: va però segnalato l’’interesse costante del Festival di Nitra per il nuovo teatro italiano.

Mimma_Gallina

2009-11-13T00:00:00




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